Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Cinquecento, Roma viene profondamente trasformata da interventi architettonici e urbanistici promossi senza soluzione di continuità dai sovrani pontefici, animati dalla volontà di affermare, con enorme dispiego di risorse e magnificenza principesca, un crescente potere temporale. L’immenso cantiere che si apre fin dai primi anni del secolo favorisce in breve tempo la fortuna della città e la sua affermazione come centro pulsante della produzione artistica internazionale.
Bramante e Giulio II
A partire dal pontificato di Giuliano della Rovere, ovvero Giulio II, la città capitale della cristianità diventa teatro di progetti e di realizzazioni vastissime che riflettono le ambizioni egemoniche di un monarca impegnato a sviluppare i disegni politici espansionistici di uno Stato ecclesiastico, o patrimonium Petri, sempre più proteso su scala territoriale. Il programma di renovatio imperii mostra, fin dai primi atti di governo di Giulio II, la volontà di esibire, anche monumentalmente, una politica di potenza e di dominio assoluti.
L’esaltazione dell’autorità papale si sarebbe espressa con ostentazione e sfoggio di magnificenza, moltiplicando le occasioni di sfarzo e impiegandole in chiave propagandistica.
In questa prospettiva l’architettura avrebbe giocato in tal senso un ruolo decisivo quale instrumentum imperii.
A questa "maniera grande" di pensare la politica si sarebbe dunque dovuta associare una "maniera grande" al momento del "fare città", e questo risulta possibile attraverso l’operato di Donato Bramante, uomo "terribile" tanto quanto il suo committente, sensibile allo slancio urbanistico e forse, anche per questo, straordinario interprete e consigliere delle imprese di Giulio II.
Già poco tempo dopo l’elezione al soglio pontificio di papa Della Rovere, troviamo Bramante impegnato come architetto responsabile della ristrutturazione dei più rappresentativi edifici vaticani: dalla basilica alla piazza di San Pietro, dal cortile di San Damaso alla ricostruzione del Belvedere. In un primo momento l’architetto si impegna in un progetto di massima per la grande villa del Belvedere, poi nella prima definizione di uno schema planimetrico per la nuova chiesa di San Pietro, il cosiddetto "piano di pergamena", presto abbandonato. Dei numerosi disegni realizzati dall’architetto per il templum Petri, ben pochi sono giunti fino a noi e ancor oggi non sono chiari tutti i passaggi del complesso avvicendarsi delle varianti progettuali in cui forse prevale la pianta centrale e di quelle in cui invece Bramante preferisce optare per soluzioni longitudinali.
L’assetto centrico, che era già stato al centro delle preoccupazioni "tipologiche" dell’architetto fin dall’epoca della realizzazione del tempietto di San Pietro in Montorio del 1506 ca., viene qui sperimentato con una scala d’inaudita grandezza. Ma l’idea di un organismo a croce greca con una grande cupola, circondata da quattro cupole minori (schema a quincunx), presto viene comunque scavalcato da elaborazioni più realisticamente attente ai vincoli posti dalle funzioni liturgiche e alle perplessità opposte nei confronti di una rivoluzionaria trasformazione della basilica costantiniana. Le più tarde elaborazioni bramantesche per il nuovo coro, in seguito attuate, risultano peraltro l’elemento progettuale decisivo rispetto al quale si misurano, per tutto il Cinquecento, gli architetti che via via si avvicendano alla direzione della fabbrica. Nell’ambito dei progetti elaborati per l’area vaticana, la costruzione della nuova villa del Belvedere costituisce il risultato più alto dell’attività bramantesca e si qualifica come una delle maggiori architetture dell’intero Rinascimento, al punto da trasformarsi quasi immediatamente in modello, capace di influenzare la messa a punto di più tarde tipologie e di numerose, spettacolari realizzazioni su grande scala. Con il nuovo Belvedere, Bramante impiega il linguaggio della "grande dimensione" dimostrando di avere appreso il "vocabolario della grandezza" (Ackerman) e di saperlo applicare a un tema residenziale. Egli si richiama dichiaratamente all’idea di villa imperiale, ma con in più l’intento di costruire una vera e propria parte di città al "modo degli antichi", giungendo così a riproporre quasi, attualizzandola, una parte dell’antica Roma.
Il Belvedere risulta un organismo di grande complessità: è teatro, museo e giardino al tempo stesso; diverse funzioni sono quindi coordinate in un’unica costruzione che ricalca le dimensioni e la figuratività di un antico forum.
L’enorme costruzione di 300x100 metri che si richiama a un lungo ippodromo, addirittura a una strada (l’epigrafe all’esterno lo definisce "via"), forse risente della stessa esperienza della piazza di Vigevano, e ancor oggi conserva caratteri di eccezionale monumentalità, nonostante le manomissioni posteriori.
Progetti bramanteschi di riqualificazione urbana
La scala così dilatata in cui si esprime l’esperienza del Belvedere anticipa i grandi interventi urbanistici promossi da Giulio II per Roma, affidati allo stesso Bramante. Le prime opere si svolgono a partire dal 1508 e proseguono fino al 1512. Non è documentata l’intera campagna di lavori che Giulio II aveva in mente di svolgere, ma possiamo presumere che si trattasse di opere a vasto raggio e molto incisive, dal momento che si ha notizia di una sua volontà di intraprendere "infiniti cambiamenti" di natura urbanistica. Gli interventi materialmente compiuti sono comunque rilevanti e sono in primo luogo di natura infrastrutturale e prevalentemente stradali. Nell’intento di collegare il borgo vaticano con il porto sul Tevere, viene ridefinito l’antico asse della via Sub Janiculo (poi detta della Lungara) e quello della Transtiberina (via della Lungaretta). Sulla riva opposta, all’interno del Campo Marzio, viene aperta la via Giulia, con un’operazione funzionale anche al riordino delle sponde fluviali.
Si viene così a creare una sorta di circuito stradale che avrebbe dovuto avvantaggiarsi anche di due ponti, il ponte Sisto e il progettato ponte Giulio, direttamente collegato all’area del borgo. Attraverso questi interventi, tutta la zona vaticana sarebbe risultata efficacemente collegata ai nodi urbani più strutturali. Oltre al porto, infatti, era tutta l’area tra Castel Sant’Angelo e la nuova via Giulia a qualificarsi come una zona strategica. Il centro finanziario della città e nuove attrezzature religiose si sarebbero attestate all’area "di ponte", nei pressi della nuova piazza sul lato del Tevere opposto a Castel Sant’Angelo, mentre un vero e proprio centro di servizi si sarebbe insediato lungo la spina della nuova via Giulia, sfoggiando architetture di stato. Il palazzo dei Tribunali, progettato da Bramante, sarebbe stato l’edificio di maggiore importanza tra quelli previsti e il più grande palazzo per uffici mai costruito a partire dall’età classica: un’enorme architettura destinata a definire uno dei lati del previsto forum Iulium, ovvero della grande piazza prevista nelle vicinanze dell’antico palazzo di Rodrigo Borgia, a quell’epoca di proprietà dei Della Rovere. Mentre del palazzo dei Tribunali è rimasta solo una parte della zona basamentale, delle altre opere previste sono giunte a noi solo le articolazioni infrastrutturali, che solo più avanti negli anni sarebbero state diffusamente edificate. Lungo la via della Lungara, e dunque verso Trastevere, la creazione della strada attira nuovi insediamenti patrizi.
Qui si stabiliscono i Chigi, i Riario, gli Ademari e altri ancora che ben presto avrebbero edificato alcune delle più significative nuove residenze cittadine.
L’età dell’oro. Architetti e città negli anni di Leone X
I progetti bramanteschi d’instauratio Romae, ovvero di ripresa dei modelli dell’antichità nell’ambito di un moderno progetto di rilancio urbano, trovano rispondenze anche dopo la sua morte e i cantieri avviati al tempo di Giulio II non si esauriscono.
Anzi, l’avvento al soglio pontificio di Giovanni de’ Medici, con in nome di Leone X, coincide con un rilancio e una diffusione delle arti a Roma senza precedenti, che tiene ben conto delle esperienze passate. Se Bramante aveva monopolizzato gli incarichi architettonici di maggiore importanza nel primo decennio del secolo, gli anni di governo del suo successore si caratterizzano, all’opposto, per il proliferare di iniziative condotte da numerosi artisti. Raffaello, Giuliano da Sangallo, Antonio da Sangallo il Giovane, Jacopo Sansovino, Baldassarre Peruzzi, Giulio Romano e altri ancora si fanno portatori delle idee bramantesche, elaborandole e diffondendole in maniera capillare. In questa vera e propria "età dell’oro" delle arti, giunge a maturazione quel linguaggio antichizzante e classicista su cui si erano esercitati gli umanisti quattrocenteschi, e che comincia davvero ad affermarsi come strumento di comunicazione universale. La passione archeologica e antiquaria non tocca solo alcuni membri isolati del patriziato, ma raggiunge più ampi settori della corte pontificia. Palazzi cardinalizi e aristocratici vengono edificati con l’intenzione di creare residenze "all’antica" che non sono riservate unicamente al sovrano pontefice. Così come Bramante aveva progettato il palazzo Caprini (1508 ca.), elaborando in tal modo il prototipo di una residenza esemplata su modelli antiquari e al tempo stesso alla portata di più larghi strati di committenza per i suoi ridotti costi di costruzione, ora altri artisti replicano quel modello che viene tradotto sempre di più in oggetto "alla moda".
Raffaello progetta Palazzo Branconio all’Aquila (1515-1517) e poi Palazzo Vidoni-Caffarelli (1524); Antonio da Sangallo elabora, in Palazzo Baldassini (1516-1519), nuove proposte tipologiche di derivazione antiquaria che poi troveranno applicazione anche al momento della costruzione di Palazzo Farnese in via Giulia, mentre in Palazzo Alberini-Cacciaporci e in Palazzo Maccarani Giulio Romano mette a punto ulteriori varianti tipologiche dello stesso segno. Baldassarre Peruzzi realizza la residenza suburbana di Agostino Chigi alla Lungara (la Farnesina, 1509-1511) che può ben dirsi il luogo dove, grazie anche al determinante appoggio decorativo di Raffaello, forse più che altrove, si raggiunge quell’auspicata "unione delle arti" che ne fa ancor oggi uno degli edifici più rappresentativi e ben conservati dell’epoca. Tutta la città si rinnova su iniziativa di molteplici promotori. In questo contesto il ruolo propulsivo di Leone X è centrale e determinante. Grazie al suo mecenatismo possono prendere il largo operazioni urbane raffinatissime e svilupparsi progetti di svariata natura. La sua passione antiquaria, inoltre, lo porterà a cercare di prendere provvedimenti anche in materia di conservazione del patrimonio monumentale antico, minacciato dalle attività edilizie più disparate. In tal senso risulta fondamentale la nomina di Raffaello a sovrintendente dei magistri viarum, con mansioni d’ispettore generale del patrimonio artistico. L’impegno preso da quest’ultimo è ben testimoniato nel dettagliato Memoriale rivolto allo stesso pontefice, oltre che nell’incarico,del quale purtroppo non sono noti gli esiti operativi, di redigere un catalogo degli edifici di Roma antica, sotto forma di atlante, allo scopo di poterne conservare le memorie e le vestigia.
Raffaello svolge per il papa anche il ruolo di architetto della Fabbrica della Basilica di San Pietro, proponendo per la chiesa un progetto a pianta longitudinale che risente di stilemi bramanteschi ed elaborando un’idea di nuova piazza rettangolare dominata al centro dalla presenza di un alto obelisco (1514).
Per il cardinale Giulio de’ Medici Raffaello progetta inoltre la Villa Madama a Monte Mario,realizzata solo in parte, che si rifà dichiaratamente al modello della villa pliniana di Tusci e rappresenta una delle più complesse opere architettoniche realizzate attingendo elementi compositivi derivati dal vocabolario progettuale dell’antichità.
La presenza di Antonio da Sangallo, in qualità di assistente di Raffaello in questi due ultimi cantieri, ricorda l’alta considerazione che di lui ha il papa che lo impiega anche in progetti più direttamente legati alla sua persona, come nel caso della complessa opera di riprogettazione di piazza Navona e adiacenze, per dare forma a una vera e propria "cittadella medicea" nell’area più rappresentativa dell’antico Campo Marzio. Nelle intenzioni del pontefice, infatti, l’area tra il Pantheon e piazza Navona avrebbe dovuto accogliere un’enorme residenza papale (dapprima progettata da Giuliano da Sangallo nel 1513 e poi da Antonio da Sangallo), oltre ad altre funzioni "direzionali", tra cui lo studio. La facciata del palazzo si sarebbe proiettata sulla piazza, che veniva così a essere a sua volta l’emanazione fisica del potere papale e principesco dei Medici. Se questo progetto urbanistico sfuma, altri non meno importanti vengono realizzati. Messi da parte la realizzazione del palazzo dei Tribunali e i progetti bramanteschi per via Giulia, che risulta al centro dei nuovi interessi papali solo per quanto riguarda l’assetto da dare alla nuova chiesa di San Giovanni dei Fiorentini (inizio 1519), Leone X si rivolge alla zona più orientale della città, verso la Porta del Popolo. L’obiettivo è quello di mettere in collegamento la zona medicea di piazza Navona con quella che era la porta urbana più frequentata dell’epoca, nell’idea di rivitalizzarla in pieno. Nel 1517 viene aperta la via di Ripetta, denominata anche Leonina, che costeggia il Tevere fino alla porta. È a quest’epoca che prende corpo il progetto per una vasta piazza regolare nelle immediate adiacenze di quest’ultima porta; progetto che sarà poi sviluppato su probabile idea raffaellesca del 1518 (lo spazio viene pensato come rettangolare, lungo e stretto). Leone X sostiene intensi lavori in tutta la zona, sia a via di Ripetta sia a via Lata, creando un "bidente" che si trasforma poi in "tridente" negli anni di Clemente VII e di Paolo III, quando viene aperta via del Babuino. La piazza del Popolo rimane poi con la sua configurazione rinascimentale fino alle trasformazioni ottocentesche del Valadier, che ancor oggi la connotano.
Dopo il sacco di Roma: Antonio da Sangallo, Michelangelo e Paolo III
In seguito al sacco di Roma (1527), i programmi architettonici privati e di stato languiscono assieme alle occasioni professionali, e molti architetti lasciano la capitale per altri centri europei. Solo negli anni del pontificato di Paolo III Farnese si manifesta una ripresa delle attività edilizie.
Uno dei protagonisti di questa stagione architettonica è Antonio da Sangallo il Giovane, tra i pochi a non lasciare la capitale, dove continua a ricoprire ruoli chiave come progettista. In qualità di responsabile della Fabbrica di San Pietro, Sangallo elabora un progetto di grande enfasi (1539) che cerca di mediare le contraddizioni poste dallo scontro tra i fautori della pianta centrale e dello schema longitudinale, senza peraltro riuscire a dare una soluzione soddisfacente ai concreti problemi del cantiere, anzi sollevando le violente critiche di Michelangelo. Come architetto privato di Alessandro Farnese, prima cardinale poi papa, a partire dal 1517 si applica nella costruzione del palazzo lungo via Giulia con progetti progressivamente diversi, via via rispondenti al diverso rango del committente. Da palazzo cardinalizio (a partire dal 1517) a palazzo papale (dopo il 1534), la storia di Palazzo Farnese si interseca profondamente dapprima con le vicende biografiche del suo potente committente e con le sue ambizioni dinastiche e poi con altre due generazioni di membri della stessa famiglia.
L’edificio, che ben presto si affermerà come modello da replicare, è costituito da un grande volume su tre piani, al cui interno è un vasto cortile porticato; non presenta ordini sul grande prospetto rettangolare rivolto alla piazza, dove si allinea una lunga teoria di finestre incorniciate da edicole. La sua struttura è un vero palinsesto di interventi cinquecenteschi. Il disegno finale della facciata è infatti il risultato dell’intervento michelangiolesco, dal colossale cornicione alla finestra centrale del piano nobile, mentre l’area retrostante, verso i giardini e il Tevere è dovuta alle modifiche apportate a più riprese dallo stesso Michelangelo, dal Vignola e da Giacomo della Porta.
L’attività progettuale di Michelangelo per Paolo III si accresce in seguito alla scomparsa di Antonio da Sangallo nel 1546.
È in quest’epoca che, dopo essersi impegnato nella progettazione della piazza del Campidoglio, egli assume, tra gli altri incarichi, il ruolo di sovrintendente della Fabbrica di San Pietro e di architetto personale del palazzo papale in via Giulia. Come architetto di San Pietro, il Buonarroti deve fronteggiare difficoltà apparentemente insormontabili. La volontà di modificare radicalmente i disegni sangalleschi ritornando alla grandiosità bramantesca, pur con inevitabili differenze (si pensi solo al disegno del tamburo), costringe l’architetto a un lavoro indefesso e a continue verifiche tecnologiche, strutturali e stilistiche.
Al momento della sua morte, nel 1564, le revisioni hanno raggiunto una completezza tale e i lavori sono così ben avviati che la più tarda campagna di interventi cinquecenteschi non si sarebbe discostata che in minima parte dai suoi orientamenti, espressi anche visivamente da Etienne Dupérac in due incisioni del 1569, oltre che nel modello ligneo per il tamburo e la cupola eseguito tra 1558 e 1561. Il transetto settentrionale è stato portato a termine e così anche i corpi delle absidi con i massicci pilastri corinzi binati a sud; l’esecuzione della copertura, con le varianti apportate da Della Porta, si protrae invece per oltre tre decenni, dal 1558 al 1593.
Strategie di disegno urbano nel tardo Cinquecento
Anche nei palazzi vaticani e nelle loro adiacenze riprendono, nel corso del Cinquecento, i lavori da tempo sospesi.
Pirro Ligorio realizza, con gusto antiquario, il Casino di Pio IV nei giardini vaticani (1559), oltre a portare a termine parte del Belvedere bramantesco. La parte più settentrionale dell’area del borgo vaticano viene riorganizzata secondo un disegno urbanistico improntato a razionalità viaria e insediativa e prende il nome del suo promotore (borgo Pio) mentre una nuova cinta fortificata, realizzata da Francesco Laparelli, rinforza le difese della cittadella papale.
Il quartiere del Campo Marzio sembra ricevere meno attenzioni di quante ne avesse agli inizi del secolo, mentre è la zona più orientale a soddisfare le ambizioni insediative di papi e cardinali. Giulio III affida ad Ammannati e a Vignola la costruzione della sua Villa Giulia nei pressi dei Monti Parioli. Poco più a sud, il Quirinale diventa uno dei luoghi di maggiore richiamo dei membri più influenti della curia; il cardinale Aldobrandini, Ippolito d’Este, i Bandini, i Pio da Carpi e altri iniziano a costruire intensivamente lungo le sue pendici e nelle vicinanze. La strada Pia, un lungo rettifilo ripristinato da Pio IV, che raggiunge le mura là dove Michelangelo realizza la porta omonima (1561-1564), è l’elegante strada quasi suburbana su cui gravitano queste residenze di corte e nelle cui adiacenze, per volontà di Gregorio XIII e su disegni di Ottaviano Mascarino (1583), sarebbe stato edificato il palazzo pontificio del Quirinale. Nella seconda metà del Cinquecento, e ancor più negli ultimi decenni del secolo, questa porzione della città risulta sempre più al centro degli interessi strategici e degli orientamenti di sviluppo insediativo e viabilistico. Una vera e propria febbre edilizia sembra scoppiare nei settori più orientali di Roma. In questo senso le iniziative urbanistiche di papa Felice Peretti (1520-1590), salito al soglio pontificio con il nome di Sisto V, improntate a continuità rispetto a quelle del suo predecessore Gregorio XIII, possono considerarsi emblematiche. Una vasta campagna di lavori, coordinata da Domenico Fontana, prende le mosse dalla ristrutturazione dell’antico palazzo lateranense che viene demolito e ricostruito nell’intento di reinserirlo all’interno del circuito della comunicazione simbolica, sociale ed economica della città. Di fronte al palazzo realizzato da Fontana (che viene poi replicato anche in Vaticano dallo stesso autore) viene aperta una vasta piazza con un obelisco, mentre lunghi rettifili sono tracciati allo scopo di collegare questo nuovo centro riformato del potere ecclesiastico con i luoghi più animati della città. Lo stradone di San Giovanni raggiunge il Colosseo, mentre la via Merulana si collega con la chiesa di Santa Maria Maggiore; anch’essa risulta al centro di febbrili lavori. La chiesa, nelle cui vicinanze viene eretto un altro obelisco, si trova al punto d’incontro di un nuovo fascio di strade, due delle quali, la via Felice (dal nome di papa Peretti) e la via Sistina, ritagliano letteralmente la città da un capo all’altro, dalle vicinanze di piazza del Popolo (dove viene innalzato un nuovo obelisco) alla chiesa di Santa Croce di Gerusalemme, mentre la terza, via Panisperna, conduce verso l’area più centrale della città a non grande distanza dalla vignolesca Chiesa del Gesù (iniziata nel 1568 dal Vignola).
Al di là di qualunque valore simbolico che si è voluto ravvisare nel programma urbanistico sistino, il nuovo disegno urbano tardocinquecentesco impostato da Fontana segnerà in profondità, con i suoi immensi solchi rettilinei, il paesaggio urbano romano, diffondendo quei principi d’intervento fondati su di una particolare caratterizzazione dei fuochi visivi (obelischi e fontane) che troveranno un’applicazione ancor più ampia negli anni dell’urbanistica barocca e settecentesca.