La riorganizzazione amministrativa dell’Italia
Costantino, Roma, il Senato e gli equilibri dell’Italia romana
Il rapporto tra Costantino e l’Italia deve essere letto nella prospettiva dell’assenza programmatica del sovrano da Roma e dalla penisola. L’imperatore soggiornò solo saltuariamente in Italia: cinque visite in totale concentrate nell’arco di soli quattordici dei suoi trentuno anni di principato, tra il 312 e il 326 d.C. Furono cinque soggiorni di breve durata: complessivamente all’incirca ventitre mesi. Le presenze di Costantino in Italia furono per lo più soste nel corso di spedizioni militari o tappe dei viaggi a Roma, dove l’Augusto si recò a celebrare le ricorrenze quinquennali e decennali del suo regno. Le ragioni di questa lontananza dall’Italia devono essere individuate nell’esigenza per gli imperatori, dal pieno III secolo d.C. in poi, di risiedere in città strategicamente posizionate sugli assi di comunicazione prossimi ai confini renano, danubiano, mesopotamico: la loro presenza presso le aree militarizzate era cruciale per mantenere l’ordine interno e la pace. Costantino, che non ebbe il sostegno di Augusti o di Cesari coreggenti maturi per la sua parte d’Impero1 – una parte sempre più estesa a partire dal 312 d.C. –, fu chiamato a selezionare residenze vicine ai confini: Treviri (Trier), Sirmium (Sremska Mitrovica), Naissus (Niš), Serdica (Sofia), infine Costantinopoli (Istanbul). Tuttavia l’attenzione di Costantino per l’Italia, per la società cittadina italica e per i potenti senatori occidentali che vi risiedevano fu molto acuta e articolata. Il sovrano mostra di conoscere bene gli equilibri di questa società originale. I contenuti delle riforme amministrative che egli escogitò per fluidificare il governo di una città ancora immensa e popolosa, come la Roma dei suoi tempi, e delle numerose comunità civiche italiche furono efficaci e duraturi. Costantino operò intervenendo sulle strutture amministrative, profondamente innovative, istituite in Italia, dopo una veloce evoluzione nel III secolo d.C., da Diocleziano e dai tetrarchi a partire dal 293 d.C. riuscì a sovvenire alle necessità delle popolazioni urbane in Italia, tenendo conto dei loro legami clientelari con l’aristocrazia senatoria, e fu abile a reinserire nelle strutture del governo provinciale, soprattutto in Italia, questa nobiltà, emarginata negli anni 260-305 d.C. sul piano delle responsabilità amministrative dagli imperatori illirici del III secolo e da Diocleziano2.
L’Italia godette di uno statuto giuridico e amministrativo privilegiato fin dalla costruzione della rete di alleanze tra Roma e le singole, numerose, diverse entità politiche che entrarono nella sua orbita, soprattutto come alleate, dal IV secolo a.C. La penisola a sud delle Alpi era al momento della fondazione di Roma (metà dell’VIII secolo a.C.), e restò in seguito, un aggregato del tutto eterogeneo di comunità etniche e linguistiche diverse, con economie e società differenti, alcune dotate di progredite strutture politiche cittadine (pòleis), altre organizzate in comunità di villaggio (vici), specialmente lungo le dorsali montuose. La vocazione egemonica di Roma, originale ed enorme per dimensioni, coinvolse precocemente e attivamente molte comunità italiche nel processo di costruzione di un impero di dimensioni mondiali. Questo processo si realizzò nel II secolo a.C. e fu accompagnato da un progressivo assorbimento di alcuni gruppi italici nella cittadinanza romana. L’assorbimento si compì definitivamente in due fasi, nel 90-88 e nel 49 a.C., con l’estensione della cittadinanza romana a tutti gli alleati italici. Con un effetto unico nel panorama del Mediterraneo antico, l’Italia dal I secolo a.C. era giuridicamente Roma, e gli abitanti dei suoi circa quattrocento municipi erano tutti cittadini romani. Questa anomala comunità civica composta da alcuni milioni di cittadini era anche privilegiata sul piano fiscale: i suoli e le proprietà dei romani in Italia erano esenti dal pagamento di tributi, che invece gravavano sulle persone e sui beni dei non-romani nelle province (provinciales). Inoltre gli abitanti dei territori e delle città dentro l’Impero ecumenico dei romani, pur godendo di ampi margini di autogoverno locale, erano sottoposti alla supervisione dei governatori di provincia romani: proconsoli (proconsules) per le province affidate al Senato e al popolo romano; delegati di Augusto con comando ‘propretorio’ (legati Augusti pro praetore) per le province affidate all’imperatore. Le province costituivano il quadro di riferimento dell’azione fiscale, giudiziaria, militare romana, e rappresentavano un livello superiore di controllo, spesso di seconda istanza, dell’autorità romana sulla vita delle comunità straniere. L’Italia non solo fu ‘romana’, nel senso giuridico, politico e culturale – di fatto un’estensione della città di Roma –, ma fu per quasi quattro secoli, precisamente dal 90 a.C. al 293 d.C., un’area altamente urbanizzata, organizzata in un numero elevato di comunità cittadine – come detto, circa quattrocento – sostanzialmente autonome e, soprattutto, priva di un livello superiore di controllo ‘regionale’ quale era l’organizzazione provinciale.
L’Italia non fu provincia e non conobbe governatori di provincia nominati dal Senato o dal principe fino alla fine del III secolo d.C. La sua architettura era sostanzialmente bipolare: a Roma, megalopoli immensa di circa un milione di abitanti, residenza dell’imperatore e della sua famiglia, sede del Senato, centro politico e culturale del mondo intero, grande mercato di consumo e perno di tutte le comunicazioni, si giustapponeva in Italia un universo frazionato di città romane molto libere, nei cui territori insistevano le proprietà dei notabili cittadini, ma anche, numerose, quelle dei senatori romani, ricchissimi, e dell’imperatore stesso, che aveva beni e residenze sparse nella penisola.
Per comprendere il valore degli interventi di Costantino sugli assetti amministrativi dell’Italia dopo il 312 d.C. è necessario ripercorrere sinteticamente l’evoluzione degli equilibri ‘di governo’ nella penisola dal pieno II secolo d.C., e fissare l’attenzione sulla vera e propria provincializzazione dell’area, voluta da Diocleziano. Costantino, infatti, operò sulle strutture dioclezianee.
Agli inizi del II secolo d.C. l’imperatore Adriano nominò quattro consulares («consolari», cioè ex consoli), o legati Augusti pro praetore («delegati di Augusto con comando ‘propretorio’»), con funzioni giurisdizionali in Italia. Le controversie tra individui di rango sociale diverso e tra comunità, in una regione fittamente abitata e urbanizzata come l’Italia, con aree extra-urbane dense di proprietà rurali produttive, dovevano essere frequenti, e spesso esulavano dalle competenze dei magistrati di una singola città. Negli anni Sessanta del II secolo d.C. appaiono attivi su ampi e variabili distretti regionali d’Italia degli iuridici («giudici» o «consulenti giudiziarii») di rango senatorio. Non c’è dubbio che essi avessero funzioni giudiziarie, estese probabilmente alla soluzione di congiunture straordinarie (carestie, applicazione di editti e di decisioni del Senato, come per esempio l’imposizione di calmieri sui prezzi, etc.), ma è difficile dire quanto fosse capillare e sistematica la loro capacità di intervento3. Certamente un’accelerazione nel processo di controllo della vita delle comunità romane d’Italia dovette imporsi dopo la congiuntura negativa costituita dalle guerre marcomanniche di Marco Aurelio (169-180 d.C.), cui si sovrappose la così detta ‘peste antonina’, la grande epidemia di vaiolo, che imperversò a più riprese anche in Italia, all’incirca dal 165 al 190 d.C.4 Benché si discuta circa la reale portata degli effetti negativi del calo demografico e della crescita delle spese belliche per la difesa dell’Impero, sembra sicuro che l’architettura imperiale mostrasse segni di cedimento; verosimilmente allora gli Augusti presero atto che le lacune amministrative dell’Italia – l’assenza cioè di un governo provinciale – non agevolavano l’attuazione delle soluzioni proposte dal centro. Dall’età di Caracalla (211-217 d.C.), infatti, iniziano a operare in Italia saltuariamente dei dignitari di rango senatorio denominati correctores (letteralmente «risolutori, riparatori» di situazioni di crisi, poi sinonimo di «governatori»), funzionari peraltro già sperimentati nella gestione dei problemi delle città greche di province orientali (forse per questo il profilo si adattava bene al caso italico, denso di città, ma privo di province). Come nel caso degli iuridici, anche per i correctores del III secolo d.C. in Italia è difficile individuare con sicurezza le competenze. Peraltro la titolatura di questo funzionario straordinario, attivo durante la crisi, fu corrector totius Italiae («riparatore dell’intera Italia»). Le poche informazioni superstiti su questi dignitari mostrano che, a dispetto dell’ampia titolatura, il loro mandato doveva esplicarsi in una o in poche singole aree nevralgiche della penisola5. Né deve essere sottovalutato il fatto che i correctores noti – come già gli iuridici – siano tutti senatori: funzioni di controllo sovracittadino in Italia potevano realizzarsi in modo più efficace se affidate ai membri di questo ordine, grandi proprietari nonché tradizionali patroni di comunità urbane.
Il punto di svolta nel processo di avvicinamento alla provincializzazione sembra costituito dallo sdoppiamento dell’incarico del corrector totius Italiae. Dal principato dell’imperatore Probo (276-282 d.C.), sembra dall’anno 279 d.C., si incontrano due correctores Italiae: due senatori, il cui mandato era ordinario, non saltuario, continuo, caratterizzato da una titolatura identica e ‘gemella’, ed esteso a due diverse aree dell’Italia (naturalmente l’aggettivo totius scomparve). Questa coppia di dignitari rispondeva certamente a esigenze stabili di ‘governo’ dell’Italia, ma ebbe vita breve, come si vedrà: solo un quindicennio. L’analisi della documentazione spinge a ritenere che i due correctores fossero attivi uno a nord del Po, l’altro sul resto della penisola a sud del Po (le aree alpine e le isole di Sicilia, Sardegna e Corsica per i romani erano province e non erano Italia), come illustrato nella tabella 16.
Questa ripartizione deve essere tenuta a mente in vista degli assetti che Costantino darà all’Italia dopo il 312 d.C. La divisione asimmetrica in un’Italia sopra al Po (la larga pianura ai piedi delle Alpi, tra Susa e Aquileia) e di un’Italia sotto al Po (la lunga penisola solcata dagli Appennini, da Cremona a Reggio Calabria) ha un fondamento nell’evoluzione della situazione strategica e politica dell’Italia durante la crisi del III secolo d.C.
A partire dal principato di Massimino il Trace (235-238 d.C.) e con ritmi incalzanti fino al regno del solo Gallieno (260-268 d.C.), e oltre, le aggressioni barbariche lungo tutti i confini dell’Impero imposero agli Augusti sforzi militari straordinari, che comportarono una crescita della pressione fiscale. Anche l’Italia, immune dal tributo gravante sui provinciali, si trasformò nell’area padana in una nevralgica zona di passaggio e di stazionamento delle truppe, spesso al seguito di imperatori residenti a Milano, lungo l’asse di collegamento tra l’Illirico e le Gallie, a ridosso delle province transalpine di Rezia e Norico (le attuali Svizzera e Austria), esposte agli attacchi barbarici, soprattutto degli Alamanni. Questi eserciti romani e il seguito degli imperatori andavano riforniti. Parimenti era necessario assicurare almeno una quota annua di rifornimenti gratuiti o a prezzo calmierato all’enorme polo urbano costituito da Roma, allora sovrappopolata e priva del suo principe7. Sembra probabile che i correctores totius Italiae e i correctores Italiae del III secolo d.C. – che troviamo attivi in Lucania e in Campania, province rifornitrici di vino e di carne per Roma, e in Veneto, l’area a maggiore presenza militare d’Italia – possano aver avuto fra i loro compiti quello di fluidificare l’amministrazione dei beni fiscali prima dell’introduzione di meccanismi esattivi di tipo provinciale. In ogni caso – ed è un aspetto importante – il bipolarismo italico tra un’area padana caratterizzata dalle spese per l’esercito e un’area peninsulare orientata al sostentamento di Roma – ma i surplus da queste regioni dovettero essere destinati via via anche agli eserciti – avrebbe segnato tutta la storia dell’Italia tardoantica, almeno fino al sacco vandalico del 455 d.C., e in parte fino alla fase ostrogota (493-553 d.C.).
Non più di quindici anni dopo che l’imperatore Probo aveva istituito i due correctores Italiae, uno al di qua e uno al di là del Po, intervenne la grande riforma amministrativa di Diocleziano: una cesura nella storia dell’Italia romana. Essa ne uscì completamente assimilata alle altre province dell’Impero, vedendo estinguersi qualunque privilegio ereditato dalla sua antica prerogativa di essere un’estensione di Roma. Un breve passo di uno storico tardoromano, Aurelio Vittore – un funzionario esperto, autore di un breve trattato di storia imperiale (il Liber de Caesaribus), pubblicato nel 360 d.C. –, riassume con notevole efficacia la dinamica che portò alla divisione dell’Italia in province:
Et quoniam bellorum moles, de qua supra memoravimus, acrius urguebat, quadripartito imperio cuncta, quae trans Alpes Galliae sunt, Constantio commissa, Africa Italiaque Herculio, Illyrici ora adusque Ponti fretum Galerio; cetera Valerius retentavit. Hinc denique parti Italiae invectum tributorum ingens malum. Nam cum omnis [scil. Italia] eadem functione moderateque ageret, quo exercitus atque imperator, qui semper aut maxima parte aderant, ali possent, pensionibus inducta lex nova. Quae sane illorum temporum modestia tolerabilis in perniciem processit his tempestatibus8.
Aurelio Vittore collega l’introduzione del tributo, nelle forme in cui era ancora esatto nell’Italia dei suoi giorni (alla metà del IV secolo d.C.), con la nomina dei Cesari tetrarchici da parte di Diocleziano e Massimiano Augusti – rispettivamente Galerio e Costanzo, padre di Costantino – avvenuta il 1° marzo 293. La costituzione della ‘prima tetrarchia’ comportò la moltiplicazione delle ‘corti’ imperiali (comitatus, letteralmente «seguito, accompagnamento») e dei contingenti militari da due a quattro, impose maggiori spese e, quindi, determinò la svolta, epocale, dell’introduzione del tributo in Italia. Questa innovazione rivoluzionaria equiparava i suoli e i beni dei proprietari-contribuenti in Italia a quelli dei romani delle province. In precedenza, durante il III secolo d.C., i proprietari romani avevano contribuito al mantenimento del seguito dell’imperatore e delle sue truppe di stanza o in transito in Italia, ma quel contributo (functio) – afferma Aurelio Vittore – era prelevato con modalità diverse – probabilmente meno sistematiche e pervasive – da quelle previste dalla nuova regolamentazione imposta a partire dal 293 d.C. (la nova lex sui versamenti, pensiones). L’introduzione del tributo – la cui percezione appariva a Vittore essersi gravemente appesantita col tempo – deve essere connessa alla divisione del territorio italico in province, perché queste strutture costituivano ovunque il quadro di riferimento amministrativo per la percezione e per l’impiego del tributo: gli uffici dei governatori di provincia contabilizzavano e ripartivano su ordine dei prefetti del pretorio le entrate fiscali in moneta, in materie prime o lavorate, in animali e in reclute per l’esercito, fornite dai contribuenti sotto la supervisione delle autorità cittadine.
Per avere un quadro di quante e quali fossero le province dell’Italia tetrarchica bisogna rivolgersi all’epigrafia superstite dei governatori di provincia degli anni 293-305 d.C. Prima di procedere, però, è necessaria una premessa. La divisione dell’Italia in province non solo avvenne attraverso un unico e simultaneo intervento di ridefinizione dello spazio amministrativo della regione, ma il nuovo insieme fu inquadrato in un’inedita macrostruttura amministrativa, di livello superiore, creata anch’essa con ogni probabilità tra il 293 e il 298 d.C. dal medesimo Diocleziano: la diocesi (dioecesis)9. Per migliorare il controllo fiscale e giudiziario dei governatori, l’imperatore raddoppiò il numero delle province dell’Impero, da circa cinquanta a circa cento (comprese quelle italiche di nuova istituzione), riducendone l’estensione, e le riunì in dodici ampi distretti – le diocesi, appunto – affidati a vice-prefetti del pretorio, gli agentes vices praefectorum praetorio o vicarii . Questi ultimi erano una sorta di supplenti dei due prefetti del pretorio, che allora costituivano il vertice dell’amministrazione civile e militare, e che operavano al fianco di Diocleziano e di Massimiano Augusti presso le rispettive ‘corti’ (comitatus). Pertanto i vice-prefetti del pretorio, decentrati in poche città-chiave dell’amministrazione periferica, estendevano il controllo dei prefetti del pretorio su comparti provinciali altrimenti irraggiungibili dalle residenze imperiali. L’intervento dioclezianeo sulla geografia amministrativa dell’Italia fu profondo, perché i confini delle singole province italiche e della diocesi Italiciana nel suo insieme non erano in continuità con i confini e con le suddivisioni amministrative italiche dei secoli precedenti (né con le regioni augustee, né con i distretti degli iuridici, etc.). La diocesi Italiciana comprendeva le province di Rezia e di Alpi Cozie, a difendere la pianura Padana nello snodo transalpino tra la regione gallica e quella illirica; assorbì le antiche province mediterranee di Sicilia, Sardegna e Corsica. Da questo momento la grande diocesi restò il quadro di riferimento geo-amministrativo definitivo dell’Italia fino alla scomparsa della civiltà romana nella seconda metà del VI secolo d.C. Sarà utile tornare tra breve sulla questione del responsabile o, meglio, dei responsabili del governo della diocesi Italiciana, perché qui importante fu il contributo di Costantino. In prima istanza è bene prendere in considerazione la questione delle province.
Nei casi delle province italiche appena istituite da Diocleziano, le fonti epigrafiche mostrano che i nuovi governatori mantennero il titolo di corrector – come la coppia dei loro predecessori correctores Italiae –, ma al titolo seguiva l’indicazione del distretto loro assegnato, cioè la specificazione provinciale, in luogo del precedente sostantivo generale Italiae10. La qualifica corrector era peculiare dei governatori della sola Italia provincializzata (allora i governatori di provincia erano definiti ovunque e ufficialmente praesides), segno di distinzione per una regione, l’Italia, esente fino a quel momento da architetture provinciali. Quel titolo, precedentemente esclusivo di esponenti dell’ordine senatorio, passò a designare anche governatori equestri. Il risultato dell’analisi epigrafica offre un panorama certamente parziale dell’articolazione provinciale, perché – escludendo le province alpine, di Rezia e delle isole, già esistenti prima del 293 d.C. e allora accorpate alla nuova diocesi – sono attestate soltanto cinque province propriamente italiciane: Venezia e Istria, Tuscia e Umbria, Campania, Apulia e Calabria, Lucania e Bruzzi. Per ricostruire l’organigramma completo delle province italiche del periodo tetrarchico è necessario volgere l’attenzione a un documento successivo, un prezioso e particolare testo letterario anonimo, redatto nell’età di Costantino: il così detto Laterculus Veronensis («Lista di Verona»)11. Gli studi sul contenuto del testo, anonimo, consentono di datarlo all’anno 314 d.C., durante la fase pacifica della diarchia di Costantino con il cognato Licinio, probabilmente meno di due anni dopo l’affermazione su Massenzio a ponte Milvio12. Nell’elenco delle dodici grandi diocesi in cui era suddiviso l’Impero, al decimo posto si trova descritta la diocesi Italiciana, nei termini illustrati nella tabella 213.
Com’è evidente, per ignoranza del copista e per lo stato probabilmente lacunoso del suo antigrafo, la lista è priva dei collegamenti tra le province a doppia denominazione, ed è incompleta. Mancano, nell’elenco superstite, la Campania, nella cui parte settentrionale era Roma; la grande provincia di Emilia-Liguria, con Milano; i Bruzzi, collegati sempre alla Lucania; le due antiche province di Sicilia e di Sardegna (è sicura la lacuna dopo la Lucania, sempre in coppia con i Bruzzi). Tuttavia l’anonimo redattore della lista d’età costantiniana compose il suo testo con logica e con attenzione. Né si deve dimenticare che nella mentalità dei romani tutte le liste hanno un ordine gerarchico. Si noti, infatti, che nel criterio di elencazione delle province delle dodici diocesi del Laterculus il redattore ha posto la provincia con il capoluogo vicariale all’inizio di ogni elenco. La lista provinciale della diocesi Italiciana non segue un andamento rigidamente geografico (la Venezia apre la lista, chiusa dalla Corsica ma anche dalle Alpi Cozie e dalla Rezia; la serie delle province doppie non è interrotta dalla Campania tra la Tuscia e Umbria e l’Apulia e Calabria). Le province governate da praesides (generico per «governatori»: Sardegna, Corsica, Alpi Cozie, Rezia), per lo più cavalieri (perfectissimi, «perfettissimi») e di livello inferiore rispetto ai correctores, che potevano essere anche senatori (clarissimi, «chiarissimi»), chiudono la lista; queste medesime province finali erano anche ‘aggiunte’ all’Italia vera e propria. In base a questi elementi, e al confronto con le fonti epigrafiche, è possibile che l’ordine di composizione della lista delle province italiciane fosse organizzato in base al prestigio che esse avevano nel 314 d.C.14 Il Laterculus per la sezione italiciana potrebbe essere integrato come illustrato nella tabella 3.
La lista conteneva dodici, non sedici, province (l’errore nel numerale romano, XVI per XII, è frequente e banale). Le ipotesi sul loro criterio di elencazione consentono di immaginare due sole lacune nell’archetipo, all’inizio e poco oltre la metà, in cui scomparvero rispettivamente i nomi di Campania ed Emilia e Liguria in apertura, e di Bruzzi, Sicilia e Sardegna, che figuravano tra la Lucania e la Corsica.
Il documento costantiniano del 314 d.C. permette di proiettare l’organigramma della diocesi Italiciana indietro di venti anni circa, al 293 d.C., quando Diocleziano suddivise per la prima volta l’Italia in province. Dal punto di vista degli assetti provinciali, Costantino – e prima di lui Massenzio – con ogni probabilità ereditò la situazione dioclezianea, senza grandi varianti.
La divisione dell’Italia in province (affidate a correctores oltre che a praesides) e l’introduzione di un sistema tributario ed esattivo analogo a quello delle altre province dell’Impero non sembrano aver scatenato proteste. Probabilmente le requisizioni fiscali forzose e le spese imposte alle città, verosimilmente entrambe sempre più disordinate durante il III secolo d.C. (dai Severi a Numeriano, 193-285 d.C.), prepararono la strada alla fiscalità dioclezianea, che Aurelio Vittore riteneva leggera, e che comunque stabiliva regole e ritmi esattivi certi. Ma soprattutto, come ha ben evidenziato Andrea Giardina, il fiscalismo imperiale rafforzava le ‘alleanze verticali’, cioè la solidarietà e la collaborazione tra i ricchi proprietari e i coloni delle loro terre. I grandi senatori residenti nell’Italia del tardo III secolo d.C. avevano sperimentato da secoli queste dinamiche, molto positive, nei loro latifondi sparsi nel resto del Mediterraneo e sottoposti all’esazione imperiale15.
La provincializzazione dell’Italia nel 293 d.C. non intaccò minimamente la posizione privilegiata della città di Roma. L’immensa e sovraffollata capitale – tale era ancora durante il principato di Diocleziano e di Costantino, restandolo poi per un secolo almeno, fino al sacco del 410 d.C. – era diventata nel corso del III secolo d.C. un elemento di forte preoccupazione per gli imperatori, definitivamente proiettati lontano dai magnifici palazzi sul Palatino. Questi sovrani avevano ricevuto dai loro predecessori l’onerosa eredità di una megalopoli abitata da una plebe numerosa e affamata, culla di un Senato potente e pericoloso, difesa da truppe scelte, instabili e avide (su queste ultime si veda oltre): il punto di equilibrio di tante forze era nell’imperatore, ormai assente. Roma restò, accanto all’Italia, e indipendentemente da essa, un nodo nevralgico dell’amministrazione imperiale. A partire da Aureliano (270-275 d.C.) gli Augusti, ostaggi di residenze decentrate verso i confini dell’Impero, dovettero bilanciare gli equilibri amministrativi e fiscali della penisola al fine di consentire un agile e ininterrotto sostentamento, principalmente alimentare, ma anche di materie prime di consumo (calce, legname, etc.), all’enorme capitale, orfana della loro supervisione diretta. In altri termini, l’introduzione del sistema provinciale in Italia non comportò un’equiparazione totale della situazione italica a quella di altre diocesi dell’Impero, a causa della presenza nella diocesi Italiciana dell’antica e vorace capitale, ma anche a causa delle complesse, tradizionali relazioni clientelari tra la potente aristocrazia senatoria – il ceto più ricco del mondo – e le curie cittadine. Questo bipolarismo, con le sue diverse ma connesse realtà sociali, traspare chiaramente dalla percezione che aveva dell’Italia, alla metà del IV secolo d.C. – circa sessant’anni dopo la riforma di Diocleziano – l’anonimo redattore dell’Expositio totius mundi et gentium («Descrizione del mondo e dei suoi popoli»), un osservatore residente in una provincia orientale:
Post eam Campania provincia, non valde quidem magna, divites autem viros possidens et ipsa sibi sufficiens et cellarium regnanti Roma. Et post eam Italia, quae et nominata verbo solum aut nomine gloriam suam ostendit, multas et varias civitates habens et omnibus bonis plena [...]. Italia ergo omnibus abundans insuper et hoc maximum bonum possidet: civitatem maximam et eminentissimam et regalem, quae de nomine virtutem ostentat et vocatur Roma. [...] Habet autem et senatum maximum virorum divitum: quos si per singulos probare volueris, invenies omnes iudices aut factos aut futuros esse aut potentes quidem, nolentes autem propter suorum frui cum securitate velle16.
Qualunque indagine sul rapporto tra Costantino e l’Italia deve tenere conto di un dato oggettivo rilevante: per quanto è possibile ricavare dalle fonti, prima dell’acclamazione in Britannia del 306 d.C. l’imperatore non sembra aver avuto relazioni personali con la società della penisola. Costantino, originario di Naissus, aveva servito come ufficiale nell’esercito di Diocleziano Augusto, tra l’Egitto e i Balcani. Probabilmente in gioventù non vide mai l’Italia (se non forse durante la sua veloce fuga verso la Britannia a metà del 306 d.C.)17. Come augusto, egli soggiornò raramente e per brevi periodi in Italia, quasi sempre di passaggio durante le campagne militari o in occasione della celebrazione delle ricorrenze quinquennali e decennali del suo regno. Roma e l’Italia, decentrate rispetto alle incombenze politico-militari di Costantino, non furono elette a residenze. Questi preferì Treviri e Arelas (Arles), in Gallia, dal 306 al 316 d.C.; quindi, dopo la conquista del nevralgico Illirico (317 d.C.) – che peraltro era la terra d’origine del principe – Sirmium, Naissus, Serdica, il triangolo Eraclea di Tracia-Nicomedia-Nicea (Eski Eregli e Izmit) dal 317 al 330 d.C.; infine, dal 330 al 337 d.C., la sua Costantinopoli.
In sintesi le fonti consentono di individuare cinque soggiorni di Costantino in Italia18. Nella tarda estate del 312 d.C. Costantino lasciò la sua residenza gallica di Treviri con un esercito e attaccò Massenzio dal passo di Susa, conquistò la pianura Padana e scese lungo la via Flaminia verso Roma, dove il 28 ottobre vinse la celebre battaglia di ponte Milvio. L’indomani entrò a Roma, dove si trattenne fino alla fine di gennaio; nel febbraio e nel marzo del 313 d.C. fu a Milano, dove incontrò Licinio e gli diede in moglie sua sorella Costanza, ma in aprile rientrò rapidamente in Gallia (primo soggiorno, di circa sei mesi). Due anni dopo, nel giugno del 315 d.C., Costantino entrò una seconda volta in Italia per andare a celebrare i suoi decennalia («feste per i dieci anni di regno») a Roma il 25 luglio; si trattenne a Roma fino al 27 settembre; il 19 ottobre era a Milano, sulla via del ritorno per le Gallie (un secondo soggiorno di circa quattro mesi)19. Il terzo soggiorno in Italia fu in realtà un breve trasferimento con l’esercito attraverso la pianura Padana in occasione della prima guerra contro Licinio (316-317 d.C.): da Arles, dove il 25 luglio 316 d.C. Costantino concluse i decennalia, l’Augusto mosse in agosto, attraverso l’Italia settentrionale, verso l’Illirico, dove l’8 ottobre vinse un primo importante scontro a Cibalae (Vinkovci, Croazia), in Pannonia Secunda20. Il contesto politico di questa guerra, narrato da un’anonima ottima fonte, consente di saggiare l’importanza della diocesi Italiciana per gli equilibri dell’Impero21. Costantino propose di creare Cesare (un principe collaboratore di un Augusto e a lui subordinato) suo cognato Bassianus, cui sarebbe stata affidata appunto la diocesi Italiciana, trasformata in una zona cuscinetto dentro la parte direttamente controllata da Costantino (Gallie-Italia-Africa), onde evitare che Licinio, la cui parte comprendeva l’Illirico e l’Oriente, venisse in attrito con Costantino per l’Italia, proprio a Licinio destinata dagli accordi di Carnuntum del 308 d.C., ma conquistata di sua iniziativa da Costantino nel 312 d.C. Il recupero del modello tetrarchico dei Cesari esperti militari, sposati con principesse della casa degli Augusti, naufragò, e la prima guerra tra i due Augusti assegnò definitivamente l’Italia a Costantino. Lo spostamento di Costantino nell’estate del 316 d.C. in pianura Padana non durò più di un mese. Il quarto soggiorno in Italia avvenne nel 318 d.C. e fu probabilmente l’unico periodo pianificato da Costantino come un vero e proprio spostamento temporaneo della sua residenza: l’imperatore fu ad Aquileia da aprile a luglio del 318 d.C., a Milano tra agosto e settembre, in ottobre di nuovo ad Aquileia, da dove, forse alla fine del mese, ripartì per Sirmium in Pannonia22. Questo soggiorno in Italia, il più lungo, durò almeno sette mesi e fu reso possibile dal clima di stabilità politico-militare favorevole a Costantino instauratosi dopo la sua affermazione nella prima guerra con Licinio, conclusa nella primavera del 317 d.C. Il quinto e ultimo soggiorno di Costantino in Italia avvenne nell’estate del 326 d.C., con il viaggio a Roma per la conclusione dei suoi vicennalia («feste per i venti anni di regno»), aperti un anno prima a Nicomedia, dopo i lunghi e difficili anni che impegnarono Costantino nel secondo conflitto con Licinio, dal 320 al 324 d.C. Sembra probabile che Costantino giungesse in Italia nella seconda metà di giugno del 326 d.C., ed entrasse a Roma il 18 o il 21 luglio per il suo giubileo; tuttavia le celebrazioni romane furono contestate, a causa del rifiuto del principe di partecipare ai Ludi Magni (12-15 settembre) e all’Epulum Iovis (13 settembre), antiche feste pagane, care ai romani; ne seguì una partenza precipitosa da Roma intorno al 20 settembre23; tra ottobre e novembre Costantino verosimilmente sostò a Milano, poi ad Aquileia, per rientrare a Sirmium al più tardi ai primi di dicembre del 326 d.C. Questo viaggiò portò Costantino in Italia per circa cinque mesi. Dopo questa data, negli ultimi dieci anni di regno, Costantino non tornò più in Italia e a Roma (i suoi tricennalia, «feste per i trenta anni di regno», furono celebrati nel 335-336 d.C. a Costantinopoli). In conclusione, l’imperatore soggiornò solo saltuariamente e per breve tempo in Italia: complessivamente forse ventitré mesi, variamente distribuiti in cinque soggiorni (di cui quello del 316 d.C. fu solo un tran;sito veloce), concentrati nell’arco di soli quattordici dei suoi trentuno anni di principato (tra il 312 e il 326 d.C.). Questo non significa che Costantino si disinteressasse della diocesi più ricca e prestigiosa della sua parte.
Le caratteristiche amministrative e sociali dell’Italia, dove Costantino giunse per la prima volta nella tarda estate del 312 d.C., alla testa di un agile e fidato corpo di spedizione, destinato a rovesciare Massenzio, erano duplici. Da un punto di vista socio-economico l’Italia di allora ospitava una potente e ricca aristocrazia senatoria, una porzione consistente della proprietà imperiale, e un gran numero di città, tradizionalmente legate al patronato delle famiglie senatorie. Una società dall’alto tenore di vita, insediata in strutture urbane e private di grande raffinatezza, che esprimeva un’élite senatoria dotata di una forte autocoscienza di ceto, capace di fare corpo e di esercitare un peso politico nelle relazioni con l’imperatore.
Da un punto di vista amministrativo la diocesi Italiciana, estesa dal ‘cuneo’ continentale e transalpino della Rezia alla Sicilia, nel cuore del Mediterraneo, era retta da un vicarius Italiae («vicario d’Italia», o supplente dei prefetti del pretorio per l’Italia), insediato con ogni probabilità a Milano, vicino alla principale concentrazione militare della diocesi, dislocata fra Ticinum (Pavia) e Aquileia. Si conosce un vicario d’Italia, Caecilianus (vicarius praefecti per Italiam), attivo negli anni 311-312 d.C., durante il principato di Massenzio; la carica, però, fu istituita da Diocleziano, ed ereditata dall’usurpatore, come suggeriscono alcuni indizi nelle fonti sul periodo tetrarchico (293-305 d.C.): innanzitutto l’esistenza, dopo la riforma di Costantino del 313 d.C. – che portò a due il numero dei vicari dell’unica diocesi d’Italia (si veda oltre) – di un vicarius Italiae che, a dispetto della titolatura, era e restò responsabile per le sole province settentrionali, e non per l’intera penisola, segno che il dignitario preesisteva alla duplicazione costantiniana24. L’originario e unico vicarius Italiae dioclezianeo mantenne la sua titolatura globale anche dopo aver visto affidata da Costantino una parte della diocesi a un collega. Benché per il periodo tetrarchico non sia attestato nessun vicario d’Italia anteriore a Caecilianus, la specificazione per Italiam del suo mandato evoca quella di Caelius Saturninus Dogmatius, advocatus fisci per Italiam («avvocato del fisco imperiale per l’Italia»), rivestita certamente in età tetrarchica (293-305 d.C.). Questa formula ‘arcaizzante’ per Italiam risale alla prima fase di vita delle diocesi dioclezianee e fu rimpiazzata poi dal più agile genitivo (Italiae). Sembra logico che negli anni 293-305 d.C., quando l’Italia era divisa in province e sottoposta ai nuovi criteri tributari evocati da Aurelio Vittore, il prefetto del pretorio di Massimiano Augusto fosse chiamato a spostarsi con il principe, e fosse necessario, come per altre diocesi dell’Impero, nominare un vicario che, verosimilmente da Milano, coordinasse in permanenza il controllo amministrativo sull’Italia25. Con ogni probabilità, dunque, all’epoca della vittoria di Costantino su Massenzio il vicario d’Italia aveva la supervisione delle dodici province descritte nel Laterculus Veronensis del 314 d.C., e governate da correctores e da praesides, appartenenti all’ordine senatorio ed equestre.
Sempre sul piano amministrativo, la situazione dell’antica e popolosa capitale, Roma – eccezionalmente residenza dal 306 al 312 d.C. di un Augusto, Massenzio, ma di regola e da decenni priva della presenza imperiale – era molto particolare. La metropoli, ancora fittamente popolata da una plebe instabile, aveva nel praefectus Urbi («prefetto urbano» o «prefetto di Roma») un dignitario autorevole: un senatore nobile, un ex console all’apice della carriera, espressione di un Senato la cui orgogliosa assemblea continuava per antica tradizione a essere presieduta da uno dei consoli ordinari, e a riunirsi in una «curia» densa di memorie. Ma la Roma dei primi del IV secolo era anche una città ‘militarizzata’: come accennato, i Castra Praetoria («caserme dei pretoriani») ospitavano ancora dieci coorti pretorie per un totale di circa diecimila pretoriani (è difficile dire se Massenzio avesse riportato gli effettivi a questo numero dopo le riduzioni del tardo III secolo d.C.); al Laterano erano i circa mille equites singulares Augusti («cavalleria personale dell’imperatore»), o almeno una parte di loro; ai Castra Albana (attuale Albano Laziale, venti chilometri a sud-est di Roma lungo la via Appia) almeno una porzione degli originari cinquemila soldati della «Seconda Legione Partica», lì stanziata da Settimio Severo nel 199 d.C.; nella capitale erano attive inoltre sette coorti di vigili (settemila effettivi) e tre coorti di urbaniciani («dipendenti del prefetto urbano», portati a seimila effettivi da Settimio Severo), questi ultimi sempre più spesso collegati alle delicate operazioni di distribuzione alimentare alla plebe urbana, cui da Aureliano (270-275 d.C.) sembra essere stato preposto il tribunus fori suarii («comandante del mercato della carne di maiale»). Né si deve dimenticare che Massenzio avrà avuto a Roma le sue coorti palatine, unità di guardie del corpo (protectores, «difensori del principe»), porzioni di sue unità comitatensi. La sempre più costante assenza degli Augusti da Roma, a partire dall’età dei Severi (193-235 d.C.), e sostanzialmente definitiva dalla metà del III secolo d.C., non aveva prodotto la riduzione del comparto armato a difesa del principe nella capitale. Dai Severi in poi il decentramento dei principi e dei loro prefetti del pretorio, fino ad allora responsabili della disciplina delle truppe di Roma, impose la creazione di un funzionario nuovo, un cavaliere, l’agens vices praefectorum praetorio («il supplente dei prefetti del pretorio»), che divenne il comandante delle truppe di stanza nella capitale. Questi non aveva superiori ed era agli ordini dell’imperatore. Il potere di questo funzionario sembra crescere a Roma, come mostra alla fine del III secolo d.C. l’abbinamento del suo comando militare con la prefettura dell’annona, e l’attrazione fra le sue competenze del controllo sul forum suarium26. La documentazione indica inequivocabilmente che Diocleziano ereditò dall’età severiana questo dignitario, ormai attivo senza soluzione di continuità nella capitale da circa un secolo, e lo mantenne in funzione anche dopo la divisione dell’Italia in province27. Le fonti suggeriscono con forza che lo stesso Diocleziano – assente da Roma, come del resto il collega Massimiano Erculio – non trasformasse, dopo la provincializzazione d’Italia (293 d.C.) e con l’istituzione della diocesi Italiciana, l’agens vices praefectorum praetorio («il supplente dei prefetti del pretorio») ‘severiano’, attivo nella città di Roma, nel vicario della diocesi Italiciana. Piuttosto i due Augusti conservarono il potente, radicato e ben sperimentato «supplente» a Roma dei due prefetti del pretorio – i quali continuavano ad affiancare i due sovrani nelle loro lontane ‘corti’ e nei loro spostamenti – nella complessa e ‘armata’ capitale: il suo mandato, tradizionale e oneroso, era e restava circoscritto all’ordine nella capitale (erano incombenze spinose sia il comando delle diverse truppe – forse circa tredicimila uomini nel 312 d.C., esclusi i soldati di Massenzio, i vigili e gli urbaniciani – sia le distribuzioni alimentari alla plebe). Diocleziano e Massimiano Erculio crearono, però, un nuovo dignitario, posto alla supervisione dei nuovi meccanismi, soprattutto fiscali, connessi con l’istituzione delle dodici province: il vicarius praefectorum praetorio per Italiam («supplente dei prefetti del pretorio per l’Italia», poi semplicemente vicarius Italiae), responsabile dell’intera diocesi Italiciana, dalla Rezia alle isole, verosimilmente insediato non a Roma, bensì là dove poi le fonti lo collocano, cioè a Milano, nell’area nevralgica per il consumo dei beni fiscali per l’esercito e per la ‘corte’ di Massimiano Erculio. Questo vicarius aveva a buon diritto nella sua titolatura ufficiale la denominazione della diocesi – dell’intera diocesi – a lui affidata, Italia, che resterà il segno distintivo del suo incarico anche dopo le riforme di Costantino.
Questa era con ogni probabilità la situazione amministrativa in Italia quando Costantino entrò a Roma all’indomani dello scontro di ponte Milvio, il 29 ottobre 312 d.C. Le riforme che Costantino realizzò alla fine di quell’anno furono importanti e di successo. Esse furono dettate dalla consapevolezza che egli, al pari dei suoi predecessori del III secolo d.C. – escluso il pessimo Massenzio –, non avrebbe risieduto a Roma né in Italia, ma sarebbe tornato presto nelle Gallie. Costantino, che aveva appena sottratto con la forza a Massenzio, e in realtà anche a Licinio – cui spettava il compito di recuperarle per sé dal 308 d.C. –, le diocesi di Italia e di Africa, doveva dunque risolvere urgentemente tre problemi: eliminare il pericolo di usurpazione nell’antica capitale, che, come nel caso recente di Massenzio, era stata fomentata e sostenuta dai militari di Roma, fedeli all’usurpatore (questi soldati orfani del principe erano una minaccia continua); stabilire relazioni fruttuose con l’aristocrazia senatoria residente nella città, ma fulcro di influenze clientelari italiche e mediterranee, che sempre poteva legittimare pretendenti alla porpora; fluidificare il sistema di approvvigionamento della sovraffollata capitale, la cui plebe era pronta a creare instabilità e a sposare la causa di eventuali usurpatori ad essa favorevoli.
Per dare equilibrio alla capitale e alla diocesi, Costantino innanzitutto eliminò le truppe di stanza a Roma, a cominciare dai pretoriani e dalla «cavalleria personale dell’imperatore», le cui caserme (sul Viminale e al Laterano) fece radere al suolo; verosimilmente spostò sul lontano fronte mesopotamico, a Singara (Sinjar in Iraq) tra l’Eufrate e il Tigri, la «Seconda Legione Partica» di Albano Laziale. Il rapido processo di smilitarizzazione della città liberò di colpo l’agens vices praefectorum praetorio («il supplente dei prefetti del pretorio») di Roma, di origine severiana e attivo sotto i tetrarchi, dalle sue antiche incombenze di comandante militare. Valorizzando le sue competenze come supervisore dei controllori delle distribuzioni annonarie, Costantino, con una innovazione ardita, trasformò il funzionario in un secondo vicario diocesano. Il principe ridusse il controllo del vicarius Italiae con sede a Milano alle sole province a nord della linea fluviale Arno-Esino: Emilia e Liguria, Venezia e Istria, Alpi Cozie, Rezia. Affidò il controllo delle province a sud di quella linea – Tuscia e Umbria, Flaminia e Piceno, Campania, Apulia e Calabria, Lucania e Bruzzi, Sicilia, Sardegna e Corsica – al nuovo vicario con sede in Roma: il vicarius in urbe Roma, poi vicarius Urbis («vicario nella città di Roma», «vicario di Roma»). Questa bipartizione dell’amministrazione dell’unica diocesi Italiciana consentì all’imperatore di ottimizzare e potenziare i flussi fiscali in direzione dei settori nevralgici per la stabilità della regione: verso la pianura Padana, fortemente militarizzata e attraversata dai funzionari imperiali e dai corrieri dalle Gallie per l’Illirico e viceversa; verso Roma, megalopoli popolosa, abitata da una plebe affamata. L’imperatore ‘gallico’, che alla fine del 312 d.C. sapeva di dover lasciare Roma per le Gallie, aveva ben chiara in mente la dinamica che aveva portato all’acclamazione di Massenzio a Roma nel 306 d.C., solo tre mesi dopo la sua a Eburacum (York). Erano stati i pretoriani e i militari di Roma, presto sostenuti dalla plebe urbana e dal tribunus fori suarii, a reagire al progetto di Galerio di ridurre l’anacronistico contingente militare romano e di tassare la popolazione urbana della capitale: per reazione essi avevano elevato l’usurpatore Massenzio28. Nel nucleo militare di stanza a Roma andrà individuata la factio («fazione, gruppo ribelle») esecrata poi dai senatori nell’epigrafe e nei rilievi del celebre arco di Costantino inaugurato nel 315 d.C.29 Per questo Costantino dovette ‘smilitarizzare’ Roma e provvedere ai bisogni della plebe urbana.
L’intervento costantiniano produsse una peculiarità nell’amministrazione dell’Italia tardoantica, unica nel panorama delle istituzioni tardo romane: la presenza di due vicari all’interno di un’unica diocesi. La documentazione mostra, dopo l’affermazione di Costantino a ponte Milvio, l’esistenza di un vicarius Italiae, con sede nell’Italia settentrionale, a Milano, e di un vicarius urbis con sede a Roma. Si tratta di due funzionari dal medesimo ruolo, operanti il primo nell’Italia padana – ‘al di qua e al di là del Po’ – e nell’Italia alpina e transalpina, la così detta Italia annonaria o annonaria regio («l’Italia che dà le ‘annone’», il sostentamento fiscalizzato ai funzionari civili e ai militari); il secondo nell’Italia peninsulare – dalla Tuscia e dal Piceno, al di sotto della linea ‘Arno-Esino’, fino ai Bruzzi – e nelle isole, la così detta suburbicaria regio («la regione che gravita intorno alla città di Roma»). La valorizzazione – e il progressivo irrigidimento – delle vocazioni economiche dell’Italia romana, anteriori all’istituzione dei due vicari diocesani, furono incanalate da Costantino nel sostegno degli eserciti tra Milano e Aquileia, e nell’alimentazione dei flussi di approvvigionamento dell’immensa città di Roma30. A questo proposito la geografia del mandato dei due correctores Italiae, attivi tra i regni di Probo e di Diocleziano (279-293 d.C.), prefigura entro certi limiti i due vicari dei prefetti del pretorio attestati nelle fonti dall’età costantiniana in poi: l’ubicazione trans-padana di uno dei due correctores evidenzia una percezione della geografia amministrativa italica ancora tradizionale, di tipo augusteo e altoimperiale, mentre l’assenza di un’esazione tributaria regolare sul suolo e sugli abitanti italici distingue i profili dei due correctores da quelli dei due vicari costantiniani.
Se l’istituzione di due vicari per l’unica diocesi inquadrò definitivamente la gestione dei circuiti fiscali in Italia, Costantino volle impostare relazioni proficue con l’altro elemento sensibile della società italica: l’ordine senatorio. Tutte le fonti mostrano chiaramente che Costantino non ritenne i senatori di Roma responsabili dell’usurpazione di Massenzio. La sua situazione di Augusto estraneo all’alta società della capitale, e destinato a risiedere altrove, lo spinse subito a cercare nella nobiltà senatoria, da cui pure lo divideva una diversa sensibilità religiosa, un elemento di stabilità nella diocesi Italiciana (e in quella Africana) recentemente acquisita31. L’imperatore intervenne sulla prefettura urbana, massima carica senatoria nella città di Roma, e sull’accesso ai governatorati delle province italiche. Il processo di improvvisa e totale ‘smilitarizzazione’ di Roma, infatti, lasciava una metropoli enorme teoricamente esposta agli eccessi della plebe urbana.
Rompendo con la tradizione repubblicana dei consoli-presidenti del Senato, Costantino affidò al prefetto urbano (praefectus Urbi), un senatore maturo o anziano, la presidenza delle riunioni del Senato di Roma, che prevedeva il diritto di convocazione e di stesura dell’ordine del giorno32. Dal 313 d.C. l’illustre assemblea senatoria della Roma tardoantica si riunì solo su convocazione del prefetto di Roma, un dignitario comunque nominato dall’imperatore (assente) e tenuto a relazionare al principe sull’attività sua e dell’assemblea da lui presieduta, ma estratto dal ceto sociale i cui vertici si riunivano nella gloriosa curia romana. Inoltre Costantino diede al prefetto urbano la cognitio vice sacra, cioè la «capacità di istruire e di emettere sentenze in luogo dell’imperatore»: il tribunale del prefetto della capitale – probabilmente ubicato nella basilica di Costantino (l’edificio noto come basilica di Massenzio) – si trasformò nel maggiore organo di giustizia a Roma e in Italia, perché le sentenze del prefetto urbano da allora furono parificate a quelle degli Augusti, e quindi erano inappellabili (la formula vice sacra iudicans, «che giudica in luogo dell’imperatore», accompagnerà la titolatura ufficiale dei prefetti di Roma fino al VI secolo d.C.); e perché il tribunale del prefetto divenne l’organo di giustizia riservato alle cause civili (e ad alcune penali) dei senatori in Occidente33. Ma soprattutto, nel potenziare le attribuzioni del prefetto di Roma, Costantino ebbe cura di riservare sempre l’incarico a esponenti di importanti famiglie senatorie romane. La lista, completa, dei prefetti urbani degli anni 313-337 d.C. mostra inequivocabilmente il monopolio quasi totale dell’insigne prefettura da parte di aristocratici romani34.
L’estensione dei poteri del prefetto urbano ‘verso l’alto’, nell’ambito dell’attività assembleare, censuale e giudiziaria dell’orgogliosa nobiltà di Roma, fu speculare alla loro estensione ‘verso il basso’. Con la creazione costantiniana del nuovo vicarius Urbis, il vicario di Roma responsabile della fiscalità esatta nelle province suburbicarie, la prefettura urbana naturalmente continuò a non avere incombenze ordinarie nel reperimento dei prodotti alimentari e delle materie prime ‘fiscalizzate’ per Roma; tuttavia in età costantiniana appare in atto un processo di concentrazione sotto la supervisione del prefetto urbano di tutte le funzioni di distribuzione a Roma dei prodotti fiscali, convogliati a cura del vicarius Urbis. Durante il principato di Costantino divennero subordinati del prefetto urbano: il tribunus fori suarii, responsabile delle distribuzioni gratuite di carne di maiale alla plebe urbana, e comandante delle tre coorti di urbaniciani35; il rationalis vinorum («contabile dei vini»), responsabile delle distribuzioni di vino alla plebe a prezzo calmierato; probabilmente anche il prefetto dell’annona, responsabile del controllo sugli approvvigionamenti granari e di olio, e delle relative distribuzioni gratuite, entrò nell’orbita prefettizia almeno per quanto concerne le distribuzioni gratuite di pane36. Il momento in cui si perfezionò il processo di attrazione delle competenze sulle distribuzioni romane nella sfera del prefetto urbano è verosimilmente il 330-331 d.C.: con la dedicazione di Costantinopoli l’approvvigionamento annonario fu ridisegnato in modo tale che i flussi granari dall’Egitto e dalla prefettura d’Oriente fossero destinati alla nuova grande residenza costantiniana sul Bosforo, mentre i flussi granari dall’Africa, dalla Sicilia e dalle province suburbicarie fossero destinati a Roma. Parallelamente anche la supervisione sulle attività edilizie e di restauro della metropoli, dei suoi porti, dei suoi magazzini e di gestione del Tevere passarono al medesimo prefetto, che divenne il ‘plenipotenziario’ di Costantino e dei suoi successori nell’antica capitale37.
Tutta la storia della città di Roma, da Costantino fino alla dominazione ostrogota (313-553 d.C.), per oltre due secoli, è dominata dalla dialettica tra l’eccelso prefetto e le esigenze di una metropoli spesso in fermento. Il potente prefetto urbano, espressione dell’alta aristocrazia senatoria occidentale, o delle sue clientele politiche, è la massima carica della città, con delega di giustizia pari all’imperatore: convoca e presiede il Senato, controlla tutte le cariche inferiori destinate alla manutenzione edilizia e alle distribuzioni annonarie della città (spesso in concorrenza con la prefettura dell’annona); è il presidente-giudice unico di un tribunale inappellabile, che gestisce le cause tra e contro esponenti della ricca nobiltà tardo romana; tiene a freno – non tanto con le poche coorti di urbaniciani rimaste in città dopo la ‘smilitarizzazione’ costantiniana, ma con il prestigio e la forza reale della sua posizione dominante, sia sul piano politico sia su quello economico-sociale – l’agitata e, almeno fino al 410 d.C., numerosa plebe urbana (significativamente le ‘Storie’ di Ammiano Marcellino riservano un breve resoconto annuale agli avvenimenti di Roma, che si riduce per lo più al rapporto tra il prefetto urbano e la plebe).
Le riforme di Costantino concernenti l’ordine senatorio non si limitarono al profondo rafforzamento della figura del prefetto di Roma. Come notato per i fasti della prefettura urbana, appannaggio degli aristocratici di Roma, l’imperatore mostrò il suo rispetto per le antiche famiglie senatorie romane riservando loro numerosi consolati eponimi dal 313 al 337 d.C.38 Il fastigio della carriera senatoria tornava ai «chiarissimi» di nascita. Parimenti – è un aspetto sovente trascurato – anche l’ingresso alla carriera senatoria tornò di competenza del Senato. Le antiche magistrature tradizionali di Roma – questura, pretura, consolato suffecto – restavano cariche onerose, per via dei costosissimi giochi (cari alla plebe) che gli eletti dovevano offrire nella capitale, ma costituivano una tappa obbligata per i giovani figli di famiglie già appartenenti all’ordine senatorio che volessero intraprendere la carriera amministrativa tardoromana. Costantino stabilì che fosse il Senato di Roma (parallelamente, poi, quello di Costantinopoli) a controllare autonomamente e a scandire anno per anno la nomina di questori e pretori (e forse consoli suffecti): così l’assemblea aveva facoltà di selezionare al suo interno i giovani figli di senatori da avviare alla carriera pubblica. Inoltre, se l’imperatore determinava l’ingresso diretto di un non-senatore (un homo novus) nell’ordine senatorio e nella curia attraverso la nomina a una carica (governatorato di provincia, vicariato, magisterio palatino, prefettura del pretorio, etc.), l’accesso all’ordine senatorio (adlectio inter praetorios o inter consulares, «cooptazione fra gli ex pretori» o «fra gli ex consoli») avveniva formalmente attraverso una decisione del Senato (un senatus consultum); questa decisione, peraltro, sembra essere stata del tutto sotto il controllo dell’assemblea nel caso di non-senatori che avessero voluto accedere all’ordine senza la nomina imperiale a una carica burocratica39.
Un’ultima dinamica completò il quadro delle innovazioni costantiniane concernenti il ceto senatorio, così radicato in Italia. Dal 313 d.C. Costantino invertì la tendenza a escludere i senatori di nascita dal governo delle province, che era stata propria degli imperatori della seconda metà del III secolo d.C., ed era stata portata alle massime conseguenze dai tetrarchi. Costantino, nel contesto di una separazione sempre più netta della carriera civile da quella militare, e di confluenza dei titolari delle maggiori cariche amministrative nell’ordine senatorio, reinserì i membri già appartenenti a quell’ordine fra i dignitari destinati ad amministrare le province, e poi, verso la fine del suo principato, anche le diocesi. In particolare il fenomeno fu sensibile proprio nelle province della diocesi Italiciana40. I senatori di nascita tornavano a governare gli spazi provinciali. Nell’operare questo reinserimento Costantino veniva incontro non solo al desiderio generale dei senatori di rivestire i panni, per loro tradizionali e prestigiosi, di governatori di provincia, ma valorizzava anche gli antichi e recenti legami di patronato che i nobili avevano con le città e con i territori rurali di una diocesi, quella Italiciana, in cui si concentrava una parte consistente dei loro beni. In altri termini, per un Augusto assente dall’Italia, il controllo di alcune province italiche da parte di governatori senatori era una garanzia di stabilità e di efficienza, propiziate dalla capacità di mediare nella figura del governatore-senatore le esigenze dell’amministrazione imperiale e le istanze dei provinciali contribuenti. Se, dunque, la carriera amministrativa periferica (province-diocesi-prefetture) fu affidata da Costantino per lo più a funzionari equestri di mediocre estrazione – solo in seconda istanza entrati nell’ordine senatorio –, abili burocrati a lui devoti, una nuova carriera si dischiuse dopo ponte Milvio per gli aristocratici di nascita: facendo perno su Roma, essa si apriva con l’accesso alla curia attraverso la pretura (e il consolato suffecto), cui seguivano le nomine imperiali ai governatorati di alcune province, soprattutto italiche, quindi le grandi curatele romane (opere pubbliche, statue, etc.), i nuovi governatorati consolari41, poi i proconsolati (Africa, Asia, Acaia), per finire con l’ambita prefettura urbana e, per alcuni eletti, con il consolato ordinario.
Gli equilibri amministrativi dell’Italia dopo ponte Milvio furono parzialmente e temporaneamente ritoccati da Costantino negli anni 326-330 d.C. La vittoria definitiva su Licinio alla fine del 324 d.C. pose fine a quarant’anni di coreggenze: l’imperatore si trovò unico Augusto di un Impero ecumenico immenso, dotato di un apparato burocratico e militare di dimensioni e di complessità mai raggiunte prima. Per fare fronte alle esigenze di collegamento tra la sua unica ‘corte’, ormai posizionata a cavallo del Bosforo, e le vaste aree diocesane e provinciali, ereditate dalla tetrarchia e ormai ben organizzate, ma gravate da pesanti circuiti fiscali e giudiziari, Costantino rivoluzionò il profilo del prefetto del pretorio: moltiplicò il numero dei prefetti da uno a cinque, tolse loro ogni attribuzione di comando militare e, annullando le loro funzioni palatine, li decentrò, inviandoli tutti lontano dalla sua ‘corte’ in capoluoghi diocesani di Gallie, Illirico, Africa, Oriente e Italia42. I nuovi prefetti del pretorio ‘regionali’ divennero i vertici e i massimi responsabili civili dei grandi spazi sovra-diocesani, le così dette ‘prefetture del pretorio regionali’: l’amministrazione fiscale e giudiziaria dei vicari diocesani e dei governatori di provincia passò sotto la loro supervisione. Questa trasformazione fu definitiva per il tardo Impero romano. Anche l’Italia fu coinvolta in questo cambiamento: dal 326 al 337 d.C. le fonti non consentono di individuare nessun vicarius Italiae e nessun vicarius urbis, forse sostituiti dal prefetto del pretorio responsabile della sola diocesi Italiciana. È molto probabile che le vocazioni fiscali delle regioni «annonaria» e «suburbicaria» non venissero meno, che, cioè, in sostanza non mutasse molto rispetto alla fase anteriore. Benché la prefettura del pretorio d’Italia restasse un’acquisizione perpetua, l’architettura prefettizia dell’ultimo Costantino non sopravvisse alla sua morte. Già durante il regno dei suoi figli (337-361 d.C.) la prefettura d’Italia appare per lo più riunita a formare una grande prefettura del pretorio di ‘Italia-Illirico-Africa’, con sede prefettizia a Sirmium, e i due precedenti vicari costantiniani – il vicarius Italiae e il vicarius urbis – tornarono a essere nominati a partire da Costantino II Augusto (il vicario con sede a Milano probabilmente fu soppresso ai primi del V secolo, quando il prefetto del pretorio d’Italia-Illirico-Africa si insediò a Ravenna; il vicario con sede a Roma, creato da Costantino nel 313 d.C., appare ancora in carica alla metà del VI secolo d.C.). I nuovi equilibri alla periferia dell’Impero, nati con la moltiplicazione e il decentramento dei prefetti del pretorio, spiegano anche il decremento netto a partire dal 325 d.C. nelle consolidazioni legislative tardoromane delle costituzioni di Costantino inviate ai prefetti di Roma e ai vicari diocesani, numerose fino a quel momento: la maggior parte delle direttive costantiniane (e dei principi tardo romani) dal 326 d.C. fu indirizzata ai prefetti del pretorio regionali.
L’Italia degli inizi del IV secolo d.C. era una diocesi altamente urbanizzata. Accanto alla gestione dell’antica capitale, Costantino dovette costruire da subito delle relazioni positive con il fitto reticolo urbano italico. Per quanto frammentaria, la documentazione, sostanzialmente epigrafica, mostra l’intervento diretto dell’imperatore nella costruzione e nel restauro di opere pubbliche in alcune città italiche43. Acquedotti e terme erano da sempre le infrastrutture maggiormente soggette a usura, e su queste costruzioni si concentrò l’attenzione di Costantino: dal riordino del sistema idrico campano, alle grandi terme di Aquileia, di Venosa, di Lavinium (Pratica di Mare), e certamente di altri centri per i quali la documentazione epigrafica è andata perduta44. Per valutare la portata dell’evergetismo costantiniano non devono essere trascurati due aspetti: da un lato, le spese per il mantenimento degli impianti idrici (freddi e riscaldati) erano fra le più pressanti e onerose per le comunità cittadine; dall’altro, nei decenni precedenti, in particolare in età dioclezianea (284-305 d.C.), il riordino amministrativo dell’Impero aveva riversato i costi della gestione delle infrastrutture pubbliche urbane nel bilancio delle singole città. Infatti, escluse alcune recenti residenze imperiali e, naturalmente, Roma, le città non avevano ricevuto più il sostegno edilizio degli Augusti. In sostanza Costantino, signore dell’Italia dopo il 312 d.C., cercò costantemente di sovvenire alle esigenze di funzionamento dei preziosi e fragili impianti idrici di numerose città italiche, e non solo delle residenze di Milano e di Aquileia, molti dei quali, probabilmente, versavano in cattive condizioni da lungo tempo45. In altri settori della vita pubblica le sovvenzioni di Costantino alle città italiche (suburbicariae) si manifestarono talvolta sotto forma di sgravi fiscali sulle contribuzioni, per esempio frumentarie, delle singole comunità per Roma, prelevate nelle province dal governatore e contabilizzate nella capitale dal vicarius Urbis istituito dal principe46. In sostanza l’attenzione di Costantino per il funzionamento delle architetture amministrative, diocesane e provinciali, in Italia non offuscò la sua sensibilità verso le esigenze delle città italiche.
Accanto alla cura per le strutture e per i beni materiali, però, il rapporto tra Costantino e le comunità italiche si realizzò intorno a percorsi ideologici e formali altrettanto importanti per la costruzione del ‘consenso’.
Due testi epigrafici eccezionali, due lastre di bronzo contenenti tavole di patronato47, hanno conservato il decreto di cooptazione a patrono della curia di Amiternum (San Vittorino, presso L’Aquila) del 7 dicembre 325 d.C. in onore di C. Sallius Sofronius Pompeianus, e il decreto di cooptazione di un villaggio del territorio di Amiternum, il vicus di Foruli, emesso il 18 dicembre 335 d.C., dieci anni dopo, in onore di suo figlio C. Sallius Sofronius iunior48. Questi due testi presentano uno spaccato prezioso della vita associativa ufficiale di una comunità cittadina e di una vicanica dell’Italia centrale tra i decennalia e i vicennalia di Costantino. Dal confronto tra i decreti incisi sulle tavole emerge una società urbana gerarchizzata, dominata al suo interno dai principales («i più importanti, gli eminenti»), un’élite all’interno del ceto senatorio stesso della città, destinata di fatto a esercitare e a perpetuare il proprio dominio politico nella curia. Questa società urbana e i suoi vertici sono fortemente legati al calendario delle cerimonie collettive, scandite da banchetti (epula) e soprattutto da costosi giochi nell’anfiteatro (ludi) e da rappresentazioni nel teatro, modello anche per le strutture dei villaggi totalmente dipendenti dalla città (i vicani vogliono un patrono appartenente alla famiglia dei patroni dei cives di Amiternum, e lo scelgono in un’assemblea che imita quella curiale cittadina). Questi patronati d’età costantiniana illustrano la persistenza di rapporti formalizzati e ancora tradizionali tra città e benefattore privato. Il mantenimento delle strutture architettoniche urbane e molte delle cerimonie festive, con i loro costosi momenti ludici, erano finanziati a proprie spese da evergeti originari della regione. I Sallii avevano assunto da almeno quattro generazioni patronati estesi a un’ampia fascia dell’Italia appenninica centrale lungo le vie Salaria, Cecilia e Valeria, da Rieti verso Teramo e verso L’Aquila e Chieti. La loro azione nella comunità urbana di Amiternum e vicana di Foruli – e, si deve immaginare, presso le altre comunità appenniniche da loro beneficate – non sembra slittare verso forme di ‘protezione’ (patrocinium) estranee alle formule giuridiche e alla prassi del consueto e antico patronato civico. In molte aree rurali extra-urbane, infatti, in età costantiniana – ma il fenomeno emerge nel II secolo d.C. – il grande latifondo privato poteva imporre un predominio economico-politico regionale (il patrocinium), capace di erodere e disgregare la compattezza e la persistenza del modello urbano e cittadino romano, agendo sia sul piano economico (un mercato produttivo e distributivo più vantaggioso), sia sul piano politico (relazioni più efficaci con l’amministrazione imperiale): il latifondo ‘svuotava’ le città. Non è noto se i Sallii esercitassero, parallelamente al patronato, forme di patrocinio concorrenti, ma questa dinamica non emerge con evidenza e comunque non annulla l’aspetto tradizionale e positivo dei loro interventi per Amiternum. Tuttavia – ed è un elemento importante – l’apporto economico dei patroni-benefattori, formalizzato nelle tavole, si segnala per essere un meccanismo economico-sociale fondamentale in età costantiniana per il mantenimento della vita cittadina classica nelle città italiche. Il rapporto costi/investimenti a favore delle onerose strutture destinate al funzionamento della città – le architetture come gli spettacoli – appare strettamente legato al contributo dei patroni, e costituisce un indizio del precario equilibrio in cui versava la vita di molte realtà urbane in Italia, specialmente di quelle più lontane dai centri del potere amministrativo dopo le riforme di Diocleziano e di Costantino.
Le tavole di Amiternum ricordano gli onori tributati alla famiglia costantiniana, individuati come momenti forti delle riunioni dei cittadini di Amiternum e dei villaggi satellite. Nella prima tavola, quella del 325 d.C. (linee 19-26), C. Sallius Sofronius Pompeianus è celebrato per aver restaurato a sue spese l’acquedotto e le terme di Amiternum – una sollecitudine condivisa, come abbiamo visto, da Costantino – e per averle abbellite con portici e con statue, dedicando il nuovo complesso a Costanzo II Cesare, in occasione del primo anniversario dell’elevazione del Cesare (il 13 novembre sull’iscrizione, anziché l’8, del 325 d.C.): le feste finanziate dall’evergete furono allietate da giochi nel teatro e probabilmente nell’anfiteatro, pagati da Pompeianus stesso, e furono onorate dalla presenza del governatore di Flaminia e Piceno, Claudius Uranius (all’evento seguì, circa tre settimane dopo, il decreto di patronato inciso nel bronzo). Nella seconda tavola, quella del 335 d.C. (linee 3-4), gli abitanti del villaggio (vicus) di Foruli, sito in un distretto rurale (pagus) di Amiternum, sono riuniti il 18 dicembre per un «banchetto per l’Augusto» (in epulo Augusti o Augusteo), cioè per Costantino, e nel corso della riunione decidono la cooptazione a patrono di C. Sallius Sofronius iunior49. La famiglia costantiniana appare nel cuore del calendario civico. Si è detto che Costantino e i suoi figli non risiedettero mai stabilmente in Italia: qualunque idea si abbia circa l’evoluzione religiosa del principe cristiano, non deve essere trascurato il fatto che la ‘presenza’ dell’imperatore e dei suoi nelle città della diocesi, ad Amiternum come altrove, si concretizzava soprattutto attraverso i festeggiamenti degli anniversari costantiniani, inseriti dopo il 312 d.C. nei calendari cittadini: queste cerimonie, al centro della costruzione del ‘consenso’, erano sapientemente pilotate dagli esponenti più illustri delle nobiltà urbane, e si svolgevano secondo le antiche pratiche del così detto culto imperiale. L’assenza di riti sacrificali, mai menzionati nelle tavole di Amiternum, e proibiti del resto nel più famoso e quasi coevo rescritto di Hispellum (si veda oltre), spingerebbe a ipotizzare che Costantino non potesse in nessun modo rinunciare alle pratiche devozionali che le città riservavano a lui, ai suoi figli e ad alcuni buoni imperatori defunti (divi, a cominciare da Costanzo I), ma che tendesse a liberare quelle pratiche dalla presenza cerimoniale delle divinità pagane, che egli riteneva inassociabili alla sua persona. In altri termini, l’Augusto assente poteva e doveva essere celebrato come presente dalle comunità cittadine, ansiose di manifestare la loro devozione al sovrano lontano, attraverso l’azione dei loro maggiorenti – questi ultimi insigniti dal principe di sacerdozi imperiali ambìti e socialmente prestigiosi – ma secondo tempi, modalità, formule e gesti diversi rispetto al patrimonio cultuale da secoli riservato ai culti civici politeisti.
La presenza, nel 325 d.C., del governatore della provincia di Flaminia e Piceno, il corrector perfettissimo Claudius Uranius, in concomitanza con le feste per il Cesare e con l’inaugurazione delle terme restaurate, costituisce un elemento di collegamento tra l’organizzazione amministrativa imperiale e i sudditi della comunità locale. L’arrivo del governatore nella città (il suo adventus) costituì sempre un momento importante per la vita urbana: i governatori non riuscivano a visitare tutte le città della provincia, pertanto quelle che li ospitavano erano privilegiate. La presenza del governatore era l’occasione per risolvere questioni interne o conflitti con altre comunità, e soprattutto per presentare istanze a lui e, tramite lui, alle autorità superiori fino all’imperatore. Il tardo Impero romano è anche un universo in cui il governatore provinciale manifesta e rappresenta la volontà e la munificenza dell’Augusto, che è il grande assente negli spazi enormi dell’ecumene romana.
Un altro importante e più noto documento epigrafico costantiniano, il rescritto di Hispellum (Spello, anni 333-335 d.C.) – accanto ai molti elementi di riflessione che offre riguardo al problema della religiosità del principe – può essere messo in relazione con le tavole di Amiternum per l’impatto della provincializzazione dell’Italia sulle realtà cittadine50. Il rescritto mostra che la provincia doppia di Tuscia e Umbria era il frutto di un assembramento artificiale. Quarant’anni circa dopo l’istituzione della provincia (293 d.C.), i notabili delle città dell’Umbria chiesero e ottennero da Costantino di poter duplicare il capoluogo dell’assemblea provinciale annuale (concilium provinciae), costituito in origine dalla sola città di Volsinii (Bolsena), in Tuscia. Le ragioni addotte dai maggiorenti umbri, e accolte dal principe, erano di tipo logistico. La richiesta consentì a Costantino di duplicare la sede di celebrazione del grande culto provinciale annuale (da effettuarsi alternativamente un anno a Volsinii, un anno a Hispellum)51, e di promuovere nel rango e nella devozione della famiglia regnante un altro capoluogo italico, con la sua rete di legami regionali. La società italica d’età costantiniana non aveva sviluppato – e verosimilmente non sviluppò mai – un attaccamento ideale o sentimentale al proprio orizzonte provinciale: i vertici cittadini delle città di Tuscia e di Umbria, unite formalmente in una sola provincia, non esprimevano esigenze compatte e condivise; la città più importante di ciascuna delle due aree della provincia doppia volle concentrare nel suo spazio urbano le cerimonie annuali per l’imperatore e per la sua famiglia, puntando a stabilire percorsi civici e regionali privilegiati con la casa augustea (per questa ragione la duplicazione piacque al principe). A ben vedere la provincializzazione d’Italia, amministrativamente ereditata e potenziata da Costantino, pur essenziale per il funzionamento del sistema fiscale, non intaccò il primato delle realtà urbane. L’Italia restava un aggregato eterogeneo di circa quattrocento città.
Si è visto come le riforme amministrative di Costantino in Italia siano riuscite a coniugare le esigenze di stabilità e di sicurezza del principe, consapevole di dover posizionare le residenze imperiali lontano dalla gloriosa diocesi, e le aspirazioni a ruoli di prestigio e ‘di governo’ della componente sociale italica di gran lunga più ricca e influente, il ceto senatorio. Si è visto poi che la struttura provinciale nulla aveva tolto al primato politico ed ‘emotivo’ delle città italiche, le quali fornivano, fra l’altro, gli spazi necessari all’organizzazione del ‘consenso’ verso la famiglia costantiniana da parte delle nobiltà cittadine. Altri documenti costantiniani consentono di saggiare i riflessi su strati più bassi della società italica degli equilibri economico-sociali scaturiti dalle riforme amministrative promosse dall’Augusto.
Nella primavera del 315 d.C., mentre si accingeva a passare per le città italiche nel suo viaggio alla volta di Roma, dove avrebbe celebrato, a fine luglio, i decennalia, Costantino emise una costituzione52, indirizzata ad Ablabio, verosimilmente il vicarius Italiae. Nella legge, alla quale bisognava dare la massima pubblicità possibile, l’imperatore si impegnava a sostenere le famiglie indigenti di cittadini romani d’Italia con il contributo del fisco imperiale e del suo patrimonio al fine di eliminare la piaga dell’infanticidio53:
Imp(erator) Constantinus A(ugustus) ad Ablavium. Aereis tabulis vel cerussatis aut linteis mappis scripta per omnes civitates Italiae proponatur lex, quae parentum manus a parricidio arceat votumque vertat in melius. Officiumque tuum haec cura perstringat, ut, si quis parens adferat subolem, quam pro paupertate educare non possit, nec in alimentis nec in veste impertienda tardetur, cum educatio nascentis infantiae moras ferre non possit. Ad quam rem et fiscum nostrum et rem privatam indiscreta iussimus praebere obsequia. Dat(a) III id(us) mai(as) Naisso Constantino A(ugusto) IIII et Licinio IIII AA(ugustis) conss(ulibus)54.
Il provvedimento, al di là della volontà di suscitare il consenso delle popolazioni italiche intorno al principe che sta per visitare la diocesi per la seconda volta, testimonia delle difficoltà economiche di una parte della popolazione cittadina romana. La continuità con l’istituto alto-imperiale degli alimenta traianei è apparente: essi erano finalizzati al mantenimento demografico di una popolazione urbana italica, la cui numerosità aveva riflessi militari e amministrativi globali, attraverso un sistema di credito incentivante per l’agricoltura; il sostegno costantiniano appare un provvedimento d’emergenza, svincolato da qualunque progettualità economica. Non a caso esso fu esteso anni dopo all’Africa, altra diocesi molto urbanizzata, mentre il problema in Italia sembra riproporsi in termini simili ancora nel 329 d.C.55 Nel 315 d.C., dunque, si delinea una sicura sofferenza dei cittadini-contribuenti liberi italici, probabilmente inurbati, di fronte alle dinamiche economiche, e verosimilmente fiscali, prodotte dalle riforme costantiniane. È difficile individuare con chiarezza il livello sociale delle famiglie impossibilitate a nutrire i propri figli, tuttavia la struttura della società italica spinge a immaginare che la crisi interessasse i liberi, e i liberi delle città. È probabile che la riforma monetaria di Costantino, con la svalutazione della moneta d’argento e l’affermazione del solido d’oro, insieme all’introduzione del prelievo fiscale sulle attività commerciali e ‘di servizio’ urbane, accanto al persistere della fiscalità sulle proprietà rurali dei membri meno abbienti delle curie civiche, provocasse, vent’anni circa dopo l’introduzione del tributo in Italia, un regresso economico fra i gruppi di medi e di piccoli proprietari urbani. Se, infatti, l’introduzione del tributo in Italia aveva favorito il compattarsi degli interessi dei grandi proprietari, soprattutto senatori, percettori di rendite in oro, e dei loro lavoranti rurali, una dinamica molto meno positiva potrebbe aver investito le famiglie dei liberi delle città dotate di piccoli patrimoni, dunque più deboli sotto il profilo della formazione delle rendite e, soprattutto, esposte agli effetti negativi della perdita di valore della moneta argentea e impossibilitate a sottrarsi all’imposizione fiscale. Il problema sembra essere rimasto endemico in Italia, favorendo nei secoli IV-VI d.C. il passaggio di molti cittadini al patrocinio dei grandi aristocratici tardoromani, e la depressione di numerose comunità cittadine.
1 Esclusa la parentesi costituita dal sostegno di Crispo Cesare durante il secondo conflitto con Licinio (321-324), Costantino operò in un clima protratto di rivalità interna con Galerio, Massenzio e Licinio senza l’apporto di coreggenti che fossero esperti combattenti (306-320). Dopo la morte di Crispo, nel 326, i Cesari suoi fratellastri (Costantino II, Costanzo II e Costante) erano dei bambini o degli adolescenti ancora privi di capacità di comando.
2 Gli sviluppi dell’amministrazione tardoromana dell’Italia, soprattutto per quanto concerne l’azione di Costantino, non hanno sollevato nel confronto scientifico dispute particolarmente accese; comunque nulla di paragonabile ad altri aspetti della grande personalità di questo imperatore. La storiografia dell’Ottocento e del Novecento ha percepito, pur nella frammentarietà delle fonti superstiti, un cambiamento importante nella storia dell’Italia romana, certamente avvenuto tra i regni di Diocleziano e di Costantino (284-337), e consistente nella sua completa suddivisione in province e nell’articolazione dell’unica diocesi d’Italia (dioecesis Italiciana) in due vicariati; cfr. la fondamentale messa a punto di A. Giardina, Le due Italie nella forma tarda dell’impero, in Società romana e impero tardoantico, I, Istituzioni, ceti, economie, a cura di A. Giardina, Roma-Bari 1986, pp. 1-30; nel saggio, fra l’altro, Giardina chiarisce un elemento dell’assetto amministrativo tardo in Italia a lungo dibattuto dalla storiografia, cioè l’esistenza di una sola diocesi divisa in due vicariati, operanti durante il principato di Costantino. Il processo di rapida equiparazione dell’Italia alle province sul piano fiscale e amministrativo, acceleratosi nella seconda metà del III secolo e culminato con l’architettura istituzionale consolidata da Costantino subito dopo la vittoria di ponte Milvio, è stato contestualizzato nella sua dimensione di autentica rivoluzione nell’ambito della storia di lunga durata dell’Italia romana da A. Giardina, La formazione dell’Italia provinciale, in Storia di Roma, III,1, L’età tardoantica. Crisi e trasformazioni, a cura di A. Carandini, L. Cracco Ruggini, A. Giardina, Torino 1993, pp. 51-68; Id., L’identità incompiuta dell’Italia Romana, in L’Italie d’Auguste à Dioclétien, Actes du Colloque international organisé par l’École française de Rome (Rome 25-28 mars 1992), Roma 1994, pp. 1-89; Id., Considerazioni finali, in L’Italia meridionale in età tardo antica, Atti del XXXVIII Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto 2-6 ottobre 1998), Napoli 2000, pp. 609-624; Id., Italy and Italians during Late Antiquity, in Le trasformazioni del V secolo: l’Italia, i barbari e l’Occidente romano, Atti del Seminario di Poggibonsi (Poggibonsi 18-20 ottobre 2007), a cura di P. Delogu, S. Gasparri, Turnhout 2010, pp. 101-120. Di recente è stata riesaminata la questione dell’istituzione delle province italiche e della diocesi Italiciana ripartita in due vicariati, distinguendo l’azione dei diversi principi illiriciani, da Aureliano a Diocleziano, a Costantino; cfr. P. Porena, Sulla genesi degli spazi amministrativi dell’Italia tardoantica, in 50 anni della Corte Costituzionale della Repubblica italiana, I,2, Tradizione romanistica e Costituzione, a cura di M.P. Baccari, C. Cascione, Napoli 2006, pp. 1315-1376; Id., Riflessioni sulla provincializzazione dell’Italia romana, in Les Cités de l’Italie tardo-antique (IVe-VIe siècle). Institutions, économie, société, culture et religion, Actes du Colloque de Rome, École Française de Rome (Rome 11-13 mars 2004), éd. par M. Ghilardi, C.J. Goddard, P. Porena, Roma 2006, pp. 9-21; Id., L’Italia prima di Ponte Milvio e la carriera di «Caecilianus», in Epigraphica, 68 (2006), pp. 117-154. Sull’ammini;strazione dell’Italia in età tardoantica, oltre ai saggi già citati, cfr. A. Chastagnol, L’administration du diocèse italien au Bas-Empire, in Historia, 12 (1963), pp. 348-379; W. Simshäuser, Untersuchungen zur Entstehung der Provinzialfassung Italiens, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II,13, Recht (Normen, Verbreitung, Materien), hrsg. von H. Temporini, Berlin-New York 1980, pp. 433-452; F. Millar, Italy and the Roman empire: Augustus to Constantine, in Phoenix, 60 (1986), pp. 295-318; F.M. Ausbüttel, Die Verwaltung der Städte und Provinzen im spätantiken Italien, Frankfurt am Main 1988; G.A. Cecconi, Governo imperiale e élites dirigenti nell’Italia tardoantica. Problemi di storia politico-amministrativa (270-476 d.C.), Como 1994; Id., Sulla denominazione dei distretti di tipo provinciale nell’Italia tardoantica, in Athenaeum, 82 (1994), pp. 177-184; Id., I governatori delle province italiche, in Antiquité Tardive, 6 (1998), pp. 149-179; A. Pinzone, L’assetto amministrativo dell’Italia nella tarda antichità, in Storia della società italiana, IV, Restaurazione e destrutturazione nella tarda antichità, a cura di I. Bitto et al., Milano 1998, pp. 45-57; L. Cracco Ruggini, Roma e il vino nord-italico, in La Mémoire perdue. Recherches sur l’administration romaine, Roma 1998, pp. 345-364; Id., Città e campagne nel Norditalia: una «storia spezzata»?, in Centralismo e autonomie nella tarda antichità, XIII Convegno internazionale in memoria di A. Chastagnol (Perugia 1-4 ottobre 1997), Napoli 2001, pp. 477-503. In particolare sugli equilibri amministrativi creati da Costantino cfr. C. Dupont, Constantin et les diocèses, in Studi in memoria di G. Donatuti, I, Milano 1973, pp. 309-336; The Cambridge Ancient History, XII, The Crisis of Empire, AD 193-337, ed. by A. Bowman, Av. Cameron, P. Garnsey, Cambridge 2005; E. Lo Cascio, The Emperor and His Administration. The New State of Diocletian and Constantine: from the Tetrarchy to the Reunification of the Empire, ivi, pp. 131-183 (a partire dall’età severiana); J.-M. Carrié, Developments in Provincial and Local Administration, ivi, pp. 269-312; C. Kelly, Bureaucracy and Government, in Cambridge Companion to the Age of Constantine, ed. by N. Lensky, Cambridge 2006, pp. 183-204; P. Porena, L’amministrazione tardoantica, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, I, Il mondo antico, sez. III, L’ecumene romana, vol. VII, L’impero tardoantico, a cura di G. Traina, Roma 2010, pp. 539-554.
3 Cfr. W. Eck, L’Italia nell’impero romano. Stato e amministrazione in epoca imperiale, Bari 1999, pp. 253-275.
4 Cfr. L’impatto della ‘peste antonina’, Incontri capresi di storia dell’economia antica (Roma, Anacapri 8-11 ottobre 2008), a cura di E. Lo Cascio, in corso di stampa.
5 È il caso di C. Pius Esuvius Tetricus, nel 274 d.C. corrector totius Italiae secondo una fonte (h.A. Tyr. Trig. XXIV 5), ma corrector Lucaniae secondo altre (Aur. Vict., Caes. 35,5; epit. 35,7; Eutr., IX 13,2; Hier., chron. a. Abr. 2289; h.A. Aurel. XXXIX 1): un mandato nella regione più importante per l’approvvigionamento di Roma all’epoca delle riforme annonarie dell’imperatore Aureliano (270-275 d.C.), secondo l’analisi di A. Giardina, Le due Italie, cit., pp. 12-13; Id., La formazione, cit., pp. 58-62.
6 Da P. Porena, Sulla genesi, cit., pp. 1336-1337.
7 Lo storico senatore Cassio Dione (LXVIII 9), un contemporaneo di Caracalla (211-217 d.C.), imperatore avido di contributi per l’esercito, mostra che ai suoi tempi i senatori italici contribuivano soprattutto con prodotti in natura e oro, anche non monetato (anche alle città si chiedevano contribuzioni analoghe). La congiuntura inflazionistica del III secolo d.C. portava a privilegiare contributi di questo genere, piuttosto che in moneta argentea di ridotto valore reale. La rivolta del Senato e delle città italiche contro l’imperatore Massimino il Trace, nel 238 d.C., mostra l’insofferenza verso questo tipo di contribuzioni, portate all’eccesso, per il finanziamento di operazioni belliche protratte.
8 Aur. Vict., Caes. 39,30-32: «Poiché il peso delle guerre, che abbiamo ricordato sopra, incalzava in modo sempre più acuto, diviso l’Impero in quattro parti, tutte le Gallie al di là delle Alpi furono affidate a Costanzo, l’Africa e l’Italia all’Erculio [Massimiano], l’Illirico fino agli stretti del Ponto a Galerio, il resto lo tenne Valerio [Diocleziano]. Per questo da allora alla parte dell’Impero detta Italia fu esteso il gran male dei tributi. Infatti, mentre tutta [l’Italia] era sottoposta allo stesso prelievo e in forme leggere, grazie al quale era possibile nutrire l’esercito e l’imperatore, che sempre o per la maggior parte del tempo vi si trovavano, fu introdotta una nuova regolamentazione dei versamenti fiscali. Essa, che davvero a quei tempi era tollerabile per la sua misurata incidenza, è peggiorata rovinosamente nei tempi presenti» (segue la descrizione delle campagne simultanee degli anni 296-299 e delle imprese civili fino al 305). Cfr. S. Mazzarino, L’Impero romano, II, Roma-Bari 19864, pp. 439-440.
9 La data e la dinamica di istituzione delle «diocesi» è discussa; gli studiosi, discordi, la situano tra il 293 e il 314 d.C., attribuendola ora a Diocleziano, ora a Costantino e Licinio; cfr. di recente W. Kuhoff, Diokletian und die Epoche der Tetrarchie. Das römische Reich zwischen Krisenbewältigung und Neuaufbau (284-313 n. Chr.), Frankfurt a.M. 2001, pp. 379-380; C. Zuckerman, Sur la Liste de Vérone et la province de Grande Arménie, la division de l’Empire et la date de création des diocèses, in Mélanges Gilbert Dagron, Travaux et Mémoires, 14 (2002), pp. 617-637. Nel presente contributo si propende per una creazione di Diocleziano tra il 293 e il 298 d.C.; cfr. P. Porena, Le origini della prefettura del pretorio tardoantica, Roma 2003, pp. 152-186.
10 I governatori delle province italiche noti epigraficamente, sicuramente attivi negli anni 293-312 d.C., prima della vittoria di Costantino, sono: Attius Insteius Tertullus v(ir) c(larissimus) corrector Venetiae et Histriae («chiarissimo governatore di Venezia e Istria»), CIL V 2818 da Padova; CIL VI 1696 da Roma; Vettius Cossinius Rufinus v(ir) c(larissimus) corrector Venetiae et Histriae, corrector Tusciae et Umbriae, corrector Campaniae («chiarissimo governatore di Venezia e Istria, di Tuscia e Umbria, di Campania»), CIL X 5061 = ILS 1217 da Atina campana; T. Flavius Postumius Titianus v(ir) c(larissimus) corrector Campaniae («chiarissimo governatore di Campania»), CIL VI 1418 = ILS 2941 da Roma; Pompeius Appius Faustinus v(ir) c(larissimus) corrector Campaniae («chiarissimo governatore di Campania»), CIL X 4785 da Teanum Sidicinum; AE 1982, 159 da Minturno; Virius Gallus v(ir) c(larissimus) corrector Campaniae («chiarissimo governatore di Campania»), CIL X 3867 = ILS 6310 da Capua; Ulpius Alenus v(ir) p(erfectissimus) corrector Apuliae et Calabriae («perfettissimo governatore di Apulia e Calabria»), CIL IX 687 = AE 1967, 91 da Ordona; (Vibonius ?) Caecilianus v(ir) p(erfectissimus) corrector Apuliae et Calabriae («perfettissimo governatore di Apulia e Calabria»), CIL IX 120* = AE 1995, 347 = Suppl.It. 20, 2003, p. 123, n. 6 da Venosa, con P. Porena, L’Italia prima di Ponte Milvio, cit.; Flavius Delmatius v(ir) p(erfectissimus) corrector Lucaniae et Bruttiorum («perfettissimo governatore di Lucania e Bruzzi»), CIL X 451c = InscrIt. III.1, 5c = AE 1989, 187 da Eboli; [Iun]ius Bassus v(ir) p(erfectissimus) corrector Lucaniae et Bruttiorum («perfettissimo governatore di Lucania e Bruzzi»), ILP 110 = AE 1975, 261 riletta da P. Porena, I dignitari di Costantino: dinamiche di selezione e di ascesa durante la crisi del sistema tetrarchico, in Costantino prima e dopo Costantino, Atti del Convegno internazionale (Perugia, Spello 27-30 aprile 2011), a cura di G. Bonamente e R. Lizzi Testa, in corso di stampa; l’anonimo vir clarissimus corrector («chiarissimo governatore»), senza indicazione dell’ambito provinciale di competenza, menzionato da Massimiano Augusto nel rescritto frammentario confluito in Frg. Vat. 292, del 21 dicembre 295.
11 Il titolo dell’opera è moderno; il documento è contenuto nei fogli 255r-256v del codice II (2) della Biblioteca Capitolare di Verona, una miscellanea redatta tra il tardo VI e il VII secolo (da cui il nome con cui è generalmente indicato); cfr. I Manoscritti della Biblioteca Capitolare di Verona. Catalogo descrittivo redatto da Don Antonio Spagnolo, a cura di S. Marchi, Verona 1996, pp. 51-52. Il testo consta di quattro sezioni di geografia dell’Impero romano e dei popoli barbarici che lo circondano, parte superstite di un’opera letteraria più ampia, perduta. La prima sezione – quella qui in esame – contiene una lista di diocesi e di province (nomina omnium provinciarum, «nomi di tutte le province»), e rappresenta il primo documento superstite a fornire un panorama completo delle province dell’Impero suddiviso nelle nuove diocesi. Per il testo del Laterculus Veronensis cfr. l’edizione critica con commento di T. Mommsen, Verzeichniss der römischen Provinzen aufgesetzt um 297, in Abhandlungen der Berliner Akademie der Wissenschaften, phil.-hist. Klasse, 1862, pp. 489-518 (= Id., Gesammelte Schriften, II, Berlin 1908, pp. 561-588); O. Seeck, Notitia Dignitatum, Berlin 1876, pp. 247-251; e T.D. Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, London-Cambridge (MA) 1982, pp. 201-208, con un’introduzione generale al documento, cui si aggiungano le revisioni dello stesso T.D. Barnes, Emperors, Panegyrics, Prefects, Provinces and Palaces (284-317), in Journal of Roman Archaeology, 9 (1996), pp. 548-550, e le considerazioni di A. Giardina, La formazione, cit. pp. 63-65, e di P. Porena, La Liguria nell’Italia provincializzata, in I Liguri. Un antico popolo europeo tra Alpi e Mediterraneo, Catalogo della mostra di Genova (23 ottobre 2004-23 gennaio 2005), a cura di R.C. de Marinis, G. Spadea, Genova 2004, pp. 541-545.
12 Stessa datazione in C. Zuckerman, Sur la Liste de Vérone, cit.
13 Si riproduce il testo come appare nel f. 256r dell’unico manoscritto veronese che lo conserva (cfr. O. Seeck, Notitia Dignitatum, cit., p. 250; T.D. Barnes, The New Empire, cit., p. 203).
14 La distinzione gerarchica tra correctores e praesides è nella Iuris Epitome di Hermogenianus (in Dig. I 18,10), un testo contemporaneo all’istituzione delle province in Italia. Sul valore del rango del governatore per il peso gerarchico della provincia in Italia cfr. G.A. Cecconi, Governo imperiale, cit., pp. 21-82.
15 Cfr. A. Giardina, Le due Italie, cit., pp. 22-30.
16 Expos. mundi 54-55 (trad. M. Di Branco): «Dopo di essa c’è la provincia di Campania, non grande, in verità, ma in cui vivono uomini ricchi. La Campania è autosufficiente ed è la cantina di Roma, che regna sul mondo. E dopo quella, l’Italia, che anche solo nel suo nome ricorda la sua fama e la sua gloria. Essa possiede città numerose e diverse, è piena di ogni bene [...]. L’Italia dunque abbonda di tutto e inoltre possiede una cosa della massima importanza: la più grande, la più eminente e la più regale delle città: Roma, che nel suo nome mostra la sua virtù. [...] Qui vi è anche un grandissimo senato, formato da uomini ricchi. Se esaminerai i suoi membri uno per uno, scoprirai che tutti sono stati governatori di province, o lo saranno, o potrebbero esserlo ma non lo vogliono, preferendo godere dei loro beni in tutta sicurezza».
17 La ‘fuga’ di Costantino dall’Illirico per raggiungere Costanzo I in Britannia si impresse nella memoria per la sua rapidità; cfr. Lact., mort. pers. 24,5-8; Anon. Vales. I 2,4.
18 Per gli spostamenti di Costantino cfr. T.D. Barnes, The New Empire, cit., pp. 68-80; D. Kienast, Römische Kaisertabelle. Grundzüge einer römischen Kaiserchronologie, Darmstadt 19962, pp. 298-303 (ma con datazione della battaglia di Cibalae al 314 anziché al 316 d.C.). Per il contesto storico dei singoli soggiorni si rinvia alle ricostruzioni proposte nei contributi di U. Roberto e di V. Neri in questa stessa opera.
19 Sui soggiorni romani di Costantino cfr. A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Roma-Bari 1999 (su quello del 315 d.C. cfr. pp. 9-31 e 123-124). Sugli spostamenti di Costantino nel 315 d.C. cfr. P. Porena, Ancora sulla carriera di Flavius Ablabius, prefetto del pretorio di Costantino, in corso di stampa.
20 Sulla data della battaglia di Cibalae cfr. H. Pohlsander, The Date of the «Bellum Cibalense»: a reexamination, in Ancient World, 26 (1995), pp. 89-101.
21 Anon. Vales. I 5,14-15, con Anonymus Valesianus, Origo Constantini. Teil I. Text und Kommentar, hrsg. von I. König, Trier 1987, pp. 40-41 e 113-118 (cfr. Zos., II 18,1). L’Anonymus Valesianus, pars prior, o Origo Constantini imperatoris è la tarda riduzione a breve biografia cristiana di Costantino di un ampio trattato annalistico pagano, scritto da un senatore del pieno IV secolo d.C.; cfr. G. Zecchini, L’«origo Constantini imperatoris», in Id., Ricerche di storiografia latina tardoantica, Roma 1993, pp. 29-38; M. Festy, Réflexions sur l’«Origo Constantini imperatoris» (Anonymi Valesiani pars prior), in Historiae Augustae Colloquium Barcinonense, a cura di G. Bonamente, M. Mayer, Bari 2005, pp. 181-193.
22 Sulla cronologia dell’anno 318 d.C. cfr. P. Porena, Problemi di cronologia costantiniana. L’imperatore, Vettius Rufinus e il senato, in Antiquité Tardive, 13 (2005), pp. 208-216.
23 Sul soggiorno di Costantino a Roma nel 326 d.C. cfr. A. Fraschetti, La conversione, cit., pp. 76-127.
24 Così A. Giardina, Le due Italie, cit., pp. 9-10.
25 L’incarico di Caelius Saturninus è menzionato nel suo lungo cursus honorum epigrafico, CIL VI 1704 = ILS 1215 = I. Di Stefano Manzella, S. Orlandi, Dedica onoraria e carriera di Caius Caelius Saturninus, in Le iscrizioni dei cristiani in Vaticano. Materiali e contributi scientifici per una mostra epigrafica, Città del Vaticano 1997, pp. 267-269. Per l’analisi di questa e delle altre fonti sui vicari della diocesi Italiciana cfr. P. Porena, Sulla genesi, cit., e Id., L’Italia prima di Ponte Milvio, cit.
26 Sul cumulo degli incarichi di «supplente a Roma dei prefetti del pretorio» e di «prefetto dell’annona» cfr. P. Porena, Le origini, cit., pp. 161-163. Per la partecipazione del tribunus fori suarii ai moti che portarono all’elevazione di Massenzio a Roma il 28 ottobre 306 d.C., descritti da Zosimo (II 9,3), cfr. Id., Le origini, cit., pp. 243-246.
27 Sono noti tre supplenti dei prefetti del pretorio a Roma in età dioclezianea e tetrarchica: Septimius Valentio a(gens) v(ices) praeff(ectorum) praet(orio) cc(larissimorum) vv(irorum) (cfr. CIL VI 1125 = ILS 619, l. 8), nel 293-296 d.C.; Manilius Rusticianus a(gens) v(ices) praeff(ectorum) praet(orio) eemm(inentissimorum) vv(irorum) (cfr. CIL XIV 4455, ll. 2-3), negli anni 298-305; Scribonius R[- - -] [a(gens) v(ices) praeff(ectorum) praet(orio) eemm(inentissimorum) vv(irorum)?] (cfr. CIL XIV 4403, l. 5), in un momento imprecisato degli anni 286-305.
28 Cfr. Lact., mort. pers. 26,1-3; Aur. Vict., Caes. 39,47; Zos., II 9,3. Inoltre M. Speidel, Les prétoriens de Maxence. Les cohortes palatines romaines, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité, 100 (1988), pp. 183-186.
29 La versione ufficiale del rapporto tra l’usurpatore Massenzio, il Senato e il popolo romano, dopo ponte Milvio, si trova nell’iscrizione dell’arco trionfale di Costantino (CIL VI 1139 = 31245 = ILS 694, ll. 5-7): «tam de tyranno quam de omni eius / factione uno tempore iustis / rem publicam ultus est armis» («Costantino liberò a un tempo con giuste armi la cosa pubblica tanto dal tiranno quanto da tutta la sua fazione»). Evidente la coincidenza contenutistica e persino lessicale con la fonte senatoria cui attinse Aurelio Vittore (Caes. 40,24): «Huius [scil. Maxentii] nece incredibile quantum laetitia gaudioque senatus ac plebes exsultaverint. Quos in tantum afflictaverat, uti praetorianis caedem vulgi quondam annuerit primusque instituto pessimo munerum specie patres aratoresque pecuniam conferre prodigenti sibi cogeret. Quorum odio praetoriae legiones ac subsidia factionibus aptiora quam urbi Romae sublata penitus, simul arma atque usus indumenti militaris» («È incredibile con quanta letizia e gioia esultarono il senato e la plebe di Roma per la morte di Massenzio. Egli li aveva tormentati a tal punto, che aveva concesso un giorno ai pretoriani di fare strage del popolo, e per primo, con pessimo provvedimento, aveva costretto i senatori e persino i coloni a offrirgli sotto forma di dono il denaro che egli sperperava. Per la loro ostilità [dei senatori e della plebe] le legioni pretoriane e i loro rinforzi, più adatti alle fazioni che alla città di Roma, furono sradicati [dalla capitale], insieme alle loro armi e all’uso di uniformi militari»). Costantino, sconfitto Massenzio il 28 ottobre 312 d.C., considerò il Senato e la popolazione di Roma come le vittime del tirannico usurpatore e non come i suoi sostenitori e collaboratori; il Senato e la popolazione di Roma celebrarono Costantino come il provvidenziale liberatore dal tiranno.
30 Cfr. A. Giardina, Le due Italie, cit., pp. 8-10 e 16-18.
31 Cfr. A. Marcone, Costantino e l’aristocrazia pagana di Roma, in Costantino il Grande, dall’antichità all’Umanesimo. Colloquio sul cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, Macerata 1993, pp. 645-658.
32 Da sempre il prefetto urbano doveva restare a Roma durante l’intero mandato e non poteva allontanarsi dalla città. Nel III secolo d.C. si nota la tendenza a far coincidere il consolato ordinario e la prefettura urbana nel medesimo titolare: probabilmente i principi, spesso consoli ordinari e ormai decentrati altrove, cercarono di rispettare la tradizione repubblicana e augustea dei consoli presidenti del Senato, ma favorirono la transizione della presidenza delle riunioni senatorie al prefetto di Roma, l’unico autorevole funzionario senatorio vincolato alla metropoli durante il suo incarico.
33 Le cause civili tra senatori avevano spesso per oggetto contenziosi sulle immense proprietà dei membri di quelle ricchissime famiglie: le dichiarazioni censuali, i passaggi di proprietà e i testamenti dei senatori erano registrati, aggiornati e archiviati a cura del magister census («maestro del censimento»), dipendente dal prefetto urbano, che attingeva a quei corposi documenti nelle cause da lui istruite e giudicate. Sul tribunale del prefetto urbano cfr. F. Coarelli, La Basilica di Massenzio e la «praefectura Urbis», in Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV-VI secolo), a cura di G. Bonamente, R. Lizzi Testa, Bari 2010, pp. 133-146.
34 Cfr. A. Chastagnol, La Préfecture urbaine à Rome sous le Bas-Empire, Paris 1960; il profilo dei titolari della carica è esaminato in Id., Les Fastes de la Préfecture de Rome au Bas-Empire, Paris 1962, pp. 63-102. Su diciotto prefetti urbani nominati da Costantino tra il 312 e il 337 d.C. uno solo è certamente di origine equestre, cioè non è un senatore di nascita, e soltanto due non sembrano appartenere all’alta aristocrazia di Roma.
35 L’iscrizione CIL VI 1156 = 1658C = 31248A = ILS 722 = 5537, incisa nel periodo 317-337 d.C., ricorda un cavaliere «tribuno del mercato della carne di maiale e delle tre coorti urbane»; la base è impiegata anche per una dedica del «prefetto urbano».
36 L’iscrizione CIL VI 1692, del 337 d.C., celebra un prefetto urbano patrono dei fornai (pistores), collegio cui spettava la cottura del pane destinato a essere distribuito alla plebe urbana. I collegi di mestiere, come i fornai, e di speciali rivenditori, come i distributori di olio d’oliva (oleari), con le loro botteghe, entrambi fornitori della plebe urbana, appaiono precocemente sotto il controllo del prefetto di Roma.
37 Il quadro dei funzionari romani che alla fine del IV e agli inizi del V secolo d.C. sono alle dipendenze del prefetto urbano è in Not. dign. occ. IV; è molto probabile che la maggior parte di questi responsabili delle strutture necessarie alla vita urbana fosse confluita sotto il controllo del prefetto durante il principato di Costantino.
38 Essere nella coppia consolare ordinaria, che dava nome all’anno, era un traguardo prestigioso, sempre più spesso occupato nel III secolo d.C. dagli imperatori e da loro devoti funzionari appartenenti all’ordine equestre. Costantino inserì spesso nel consolato illustri senatori dopo ponte Milvio: nei venticinque anni dal 313 al 337 d.C., su cinquanta posti di console ordinario, escludendo nove coppie consolari imperiali e due consoli parenti di Costantino, su trenta posti disponibili l’Augusto ne concesse diciotto a nobili senatori, quasi tutti membri di illustri famiglie romane. Cfr. R.S. Bagnall, Al. Cameron, S.R. Schwartz, K.A. Worp, Consuls of the Later Roman Empire, Atlanta 1987, pp. 160-209.
39 Cfr. S. Mazzarino, Problemi e aspetti del basso impero, in Id., Antico, tardoantico ed èra costantiniana, I, Bari, 1974, pp. 183-196 (con discussione di CIL VI 41318); A. Chastagnol, Le Sénat romain à l’époque impériale. Recherches sur la composition de l’Assemblée et le statut de ses membres, Paris 1992, pp. 259-291.
40 Per i fasti dei governatori delle province italiche dal 313 al 337 d.C. cfr. G.A. Cecconi, Governo imperiale, cit., pp. 210-223.
41 Costantino promosse a consulares negli anni Venti i governatori delle province di Numidia, Byzacena, Belgica Prima, Pannonia Secunda, Campania, Sicilia, Bitinia e Ponto, Europa-Tracia, Siria, Fenicia: gli incarichi provinciali extra-italici furono affidati da allora per lo più a senatori di nascita.
42 Su questa riforma cfr. P. Porena, Le origini, cit.
43 Per l’attività edilizia di Costantino a Roma si rinvia ai contributi dell’ultima sezione del presente volume. Sull’evergetismo di Costantino, nel quadro dell’evergetismo imperiale tardoromano in Italia, cfr. G.A. Cecconi, Governo imperiale, cit., pp. 109-131.
44 Per il rifacimento del sistema idrico campano e dell’acquedotto di Serino cfr. AE 1939, 151 = AE 1983, 194, su cui cfr. M. Döring, Wasser für den «Sinus Baianus». Römische Ingenieurund Wasserbauten der Phlegraeischen Felder, in Antike Welt, 33 (2002), pp. 305-319; E. Savino, Campania tardoantica (284-604), Bari 2005, pp. 24-25. Sulle terme di Aquileia cfr. W. Riess, Konstantin und seine Söhne in Aquileia, in Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik, 135 (2001), pp. 267-283; sulle terme di Venosa cfr. AE 1995, 348 = Suppl.It. 20, 2003, pp. 123 segg., n. 7; sulle terme di Lavinium cfr. AE 1984, 151. Per il restauro costantiniano dell’Aqua Virgo a Roma cfr. CIL VI 31564 = ILS 702.
45 Il problema della manutenzione delle strutture edilizie urbane e soprattutto degli impianti idrici continuò ad assillare gli Augusti dopo Costantino; una costituzione di Onorio del 395 (Cod. Theod. XV 1,32) recita: «ne splendidissimae urbes vel oppida vetustate labantur, de reditibus fundorum iuris rei publicae tertiam partem reparationi publicorum moenium et thermarum subustioni deputamus» («affinché le bellissime città e i centri abitati non vadano in rovina a causa della carenza di manutenzione nel tempo, destiniamo la terza parte delle rendite derivanti dai fondi rurali appartenenti al demanio pubblico civico alla riparazione degli edifici urbani e degli impianti di riscaldamento delle terme cittadine»).
46 Cfr. gli sgravi frumentari a Pozzuoli decisi da Costantino (Symm., rel. 40,2).
47 Il patrono era un personaggio di alto livello sociale, per lo più esterno alla cittadinanza, che era scelto dai notabili di una città romana come protettore della loro comunità. La tavola era incisa per il patrono destinatario e conteneva un’introduzione (praescriptio), con le coordinate cronologiche e spaziali dell’assemblea civica che aveva decretato il patronato, e con i nomi dei proponenti la mozione di cooptazione del patrono; seguiva una sintesi del discorso dei proponenti a favore del personaggio scelto poi come patrono (relatio); chiudeva infine il documento una sintesi del decreto di cooptazione votato all’unanimità dall’assemblea (sententia).
48 Le tavole di Amiternum, scoperte nel 1929, sono state riedite da S. Segenni in Suppl.It., 9, 1992, pp. 85-92, nn. 34 e 35. Sulle tavole cfr. G.A. Cecconi, Governo imperiale, cit., pp. 194-199; C.J. Goddard, Les formes festives de l’allégeance au prince en Italie centrale, sous le règne de Constantin: un suicide religieux ?, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité, 114 (2002), pp. 1025-1088.
49 Per la data come giorno di elevazione di Costantino ad Augusto nel 307 d.C. cfr. C.J. Goddard, Les formes festives, cit., p. 1074.
50 Cfr. CIL XI 5265 = ILS 705 = Epigrafia anfiteatrale dell’Occidente romano, II, Regiones VI-XI, a cura di G.L. Gregori, Roma 1989, pp. 39-42, n. 20; recente messa a punto a cura di G.A. Cecconi, in Costantino prima e dopo Costantino, cit.
51 Cfr. G.A. Cecconi, Governo imperiale, cit., pp. 87-96.
52 Confluita poi in Cod. Theod. XI 27,1.
53 Sul contenuto della costituzione cfr. di recente C. Corbo, «Paupertas». La legislazione tardoantica (IV-V sec.), Napoli 2006, pp. 11-22 e 66-79. Per l’endemicità del fenomeno in Italia cfr. Novell. Val. 33, del 31 gennaio 451; Edictum Theoderici 94-95; e Cassiod., var. VIII 33,4, nei primi trent’anni del VI secolo.
54 «L’imperatore Costantino Augusto ad Ablabio. Si pubblichi scritta su tavole di bronzo, o di legno imbiancate, o su teli di lino, in tutte le città d’Italia la legge, che fermi le mani dei genitori dal parricidio e volga al meglio i loro propositi. La sollecitudine imponga al tuo ufficio questo, che, se un qualunque genitore dichiari di avere una prole che non riesce a crescere a causa della povertà, non si tardi a fornirgli cibo e abiti, perché non può porsi alcun indugio alla crescita dell’infanzia appena nata. Per questo scopo abbiamo ordinato al nostro fisco e al nostro patrimonio privato di fornire i loro servizi senza discutere. Emessa a Naisso il terzo giorno prima delle idi di maggio durante il consolato di Costantino Augusto per la quarta volta e di Licinio Augusto per la quarta volta [= 13 maggio 315 d.C.]».
55 Cfr. per l’Africa Cod. Theod. XI 27,2, del 6 luglio 322 d.C.; per l’Italia, l’editto di Costantino agli italici in Cod. Theod. V 10,1, del 18 agosto 329 d.C. L’orizzonte normativo è volto alla difesa dell’infanzia libera.