La ricchezza oggi
L’inizio del nuovo secolo è caratterizzato da una profonda instabilità dei mercati finanziari e immobiliari e, più in generale, dell’economia. Alla crisi delle borse scoppiata nel 2000, in seguito alla fine della bolla speculativa sui titoli tecnologici, è seguita, a partire dal 2007, una ben più generalizzata crisi del sistema finanziario e, quindi, una gravissima recessione.
La ricchezza è divenuta vulnerabile? Forse mai come oggi colpisce il divario tra l’ampiezza del potenziale produttivo e quella dell’innovazione tecnologica, la raffinatezza degli strumenti finanziari e di politica economica a disposizione, da una parte, e la capacità, dall’altra, di tradurli in benessere e sicurezza duraturi per la società.
Questo divario sottende una sfida, le cui possibili risposte cercheremo di documentare.
Ci focalizzeremo sulle famiglie. Infatti, se le imprese sono la fonte dell’accumulazione e se gli Stati hanno patrimoni reali e poteri rilevanti, le famiglie rappresentano necessariamente il soggetto di riferimento in tema di ricchezza, sia perché ne sono i beneficiari ultimi, sia per la loro funzione chiave nell’equilibrio dei flussi finanziari di ogni sistema.
Affrontare il problema della ricchezza delle famiglie solleva immediatamente una serie di domande. Ci saranno cambiamenti dovuti a fattori demografici, di rischio ambientale, di progresso tecnologico? Quale impatto potrà avere la volatilità dei prezzi delle attività finanziarie sui comportamenti degli investitori e sulla loro propensione al rischio? Quale fiducia si può riporre nelle istituzioni e negli intermediari finanziari? Si possono migliorare le scelte d’investimento, oppure le famiglie continueranno a scontare un’inferiorità strutturale rispetto agli altri operatori del mercato?
Infine vogliamo chiederci quali nuovi fatti e tendenze potranno segnare questo nuovo secolo. Ne ab-biamo selezionati cinque.
a) La rapida accumulazione della ricchezza nei Paesi di più recente sviluppo.
b) La ‘democratizzazione della finanza’ (Shiller 2003) e l’esigenza da parte delle famiglie di farsi carico con proprie risorse dei rischi del ciclo di vita in seguito alla crisi del welfare state e alla maggiore longevità.
c) L’ulteriore espansione del campo di applicazione della finanza nonché l’aumento delle possibilità di diversificare il rischio.
d) L’educazione finanziaria, l’analisi comportamentale, le neuroscienze e il loro contributo al miglioramento dei processi decisionali.
e) La nascita di una nuova consapevolezza da parte dei regolamentatori riguardo le loro responsabilità e il modo di esercitarle.
Limiti delle definizioni
La ricchezza può essere definita come la disponibilità di beni (reali o finanziari, materiali o immateriali) o di diritti su di essi. In questo senso, la ricchezza riflette anche la capacità di accumulare risparmio.
Ma quanta verità contengono queste semplici definizioni? Da tempo ormai il pensiero economico ne ha evidenziato tutti i limiti.
Già in An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), Adam Smith entra in medias res concentrando l’attenzione sul prodotto nazionale inteso come flusso annuo di beni e servizi e sui fattori che ne consentono la crescita piuttosto che sul loro livello, o stock; e precisa, criticando Thomas Hobbes, che possedere una fortuna vale solo in quanto essa sia scambiabile sul mercato. In altri termini, la crescita economica è il fattore determinante, poiché ogni fortuna, grande o piccola che sia, deve avere un luogo in cui svilupparsi e realizzarsi.
Dal canto suo John M. Keynes, nel mezzo della depressione degli anni Trenta del secolo scorso, ha evidenziato come il risparmio di per sé non solo non crei necessariamente ricchezza ma anzi, in mancanza di investimenti (o di spesa pubblica o per consumi), rischi, a livello aggregato, di distruggerla.
Infine, vi è un importante aspetto tecnico che rende ineludibile il riferimento al prodotto: non appena ci poniamo il problema della misurazione della ricchezza, ci rendiamo conto che proprio il prodotto nazionale ne costituisce il miglior numerario, così come fatto da Raymond W. Goldsmith, autore del primo studio storico e comparativo di ampio respiro sui conti finanziari nazionali (Comparative national balance sheets. A study of twenty countries, 1688-1978, 1985).
Pertanto, l’analisi della ricchezza, sia quella reale sia quella finanziaria, solleva due questioni di ordine fondamentale. Da una parte vi è il problema del risparmio, cui abbiamo già fatto cenno qui sopra; dall’altra, c’è quello del rischio e dell’incertezza cui sono soggette tutte le forme di ricchezza. I rischi connessi alla ricchezza finanziaria risultano più evidenti, ma anche la ricchezza reale è soggetta sostanzialmente alle medesime forme di rischio. In entrambi i casi, l’incertezza sul futuro e sull’andamento dei prezzi delle attività possedute costituiscono i fattori fondamentali sottostanti il rischio connesso al possesso di attività. Nei paragrafi che seguono, concentrandosi in misura maggiore sulla ricchezza finanziaria, ci si occuperà di questi aspetti.
Come si distribuisce la ricchezza tra Paesi e settori dell’economia
Al chiudersi del 20° sec., la ricchezza accumulata nel mondo in attività reali (quali, per es., gli immobili e le infrastrutture) e in attività finanziarie (quali le obbligazioni, le azioni e altri titoli) ha raggiunto livelli, diffusione e tassi di crescita probabilmente mai eguagliati nella storia.
A titolo d’esempio possiamo riferirci al Regno Unito, per il quale disponiamo di serie di dati molto lunghe grazie al citato lavoro di Goldsmith e agli aggiornamenti realizzati sulla base dei conti finanziari nazionali (Fano, Sbano, Georgieva 2008). Dall’inizio del 18° sec., la ricchezza lorda, misurata come multiplo delle attività dei diversi settori dell’economia rispetto al prodotto nazionale, ha teso dapprima ad accrescersi continuamente, in alcune fasi in maniera particolarmente significativa (fatta eccezione per il periodo che è compreso tra la seconda metà dell’Ottocento e la metà del Novecento, caratterizzato da prolungate crisi economiche e dalle due guerre mondiali), per poi, di nuovo, con la crisi attuale, accrescersi a balzi (figg. 1 e 3) e comunque seguire la crescita del prodotto nazionale.
Statistici ed economisti hanno iniziato a misurare la ricchezza nei diversi Paesi e nei diversi settori dell’economia secondo criteri omogenei solo a partire dai decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, grazie allo sviluppo, sotto l’egida dell’ONU, del sistema dei conti finanziari nazionali, che ha portato a sintesi gli sforzi compiuti al riguardo nei diversi Paesi e nei decenni precedenti. Attività per affinare e migliorare la qualità delle informazioni sono tuttora in corso e, ancora oggi, non disponiamo per tutti i Paesi dello stesso livello di dettaglio. Esistono delle stime della ricchezza reale, ma i conti nazionali redatti con una certa periodicità sono solo quelli finanziari. Su questi concentreremo d’ora in poi l’attenzione.
La contabilità finanziaria considera cinque settori istituzionali, i cui saldi si bilanciano. Nell’analisi di ciascun settore, una distinzione importante per la stima della ricchezza è quella tra attività lorde, una misura dello stock disponibile, e attività cui sono state dedotte le passività verso altri settori, che ne misura la posizione finanziaria netta. A livello dell’intera economia, attività e passività si bilanciano. Tra i vari settori, solo quello delle famiglie tende ad accumulare sistematicamente ricchezza finanziaria netta nel tempo, pur con le eccezioni su cui ci soffermeremo in seguito. Gli altri settori, pur avendo rilevanti attivi reali, sono strutturalmente o ciclicamente debitori sul piano finanziario, e la loro ricchezza finanziaria svolge un ruolo soprattutto strumentale.
Le imprese industriali o commerciali (imprese non finanziarie) hanno, di norma, attività reali e una posizione debitoria netta più o meno rilevante o un attivo finanziario netto, a seconda della fase del ciclo. Gli intermediari finanziari e le compagnie di assicurazione (imprese finanziarie) tendono istituzionalmente a bilanciare passività e attività verso terzi. Il settore pubblico, in generale, è debitore netto sul piano finanziario, sebbene alcuni Stati possano accumulare, in particolari momenti storici, rilevanti livelli di ricchezza netta legati a sistematici avanzi di bilancio. I cosiddetti fondi sovrani, posseduti da Paesi produttori di petrolio oppure da Paesi con consistenti avanzi con l’estero, come la Cina, si avvalgono, per es., di tali attivi. Gli Stati sono poi detentori di importanti patrimoni reali. Infine, il resto del mondo riflette la posizione di un Paese verso l’estero. Periodi di disavanzo verso l’estero normalmente tendono a essere seguiti da periodi di avanzo, ma anche in questo caso possono verificarsi eccezioni per archi di tempo più o meno lunghi, come nell’appena citato caso dei Paesi esportatori di materie prime. L’estero ha avuto saldi sistematicamente attivi verso gli Stati Uniti, ovvero questi ultimi hanno mantenuto saldi strutturalmente negativi verso l’estero. Tali saldi negativi, nel periodo recente, si sono aggravati notevolmente, anche per effetto del saldo negativo delle famiglie e del settore pubblico, ma anche grazie al ruolo del dollaro come valuta di riserva e alle opportunità offerte dal mercato finanziario in termini di liquidità e possibilità di diversificazione da parte dell’estero (fig. 2).
Concentrandoci ora sulle famiglie, rileviamo come nei Paesi più sviluppati il loro stock di ricchezza finanziaria fosse, all’inizio del secolo, pari a un multiplo del reddito disponibile: quasi un sestuplo nei Paesi Bassi; oltre il quadruplo negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Giappone; tra il doppio e il triplo in Italia, Francia e Germania (Babeau, Sbano 2003).
Le differenze tra Paesi riflettono in parte la diversità dei sistemi di finanziamento della previdenza (molto più orientati ai sistemi integrativi privati nel mondo anglosassone e nei Paesi Bassi). Secondo alcuni, nel definire l’attivo delle famiglie occorrerebbe anche tener conto del credito rappresentato dai diritti a percepire la pensione pubblica. Quest’ultima viene finanziata con il metodo della ripartizione, cioè non con l’accumulazione di riserve, ma attraverso il prelievo contributivo sulle generazioni in età lavorativa a favore delle generazioni in pensione. Si tratta di un punto di vista pertinente. La quantificazione di questi diritti ha però rappresentato fino a oggi un ostacolo di rilievo. Inoltre, tecnicamente, il diritto alla pensione non gode del medesimo valore legale di un titolo obbligazionario emesso dallo Stato, ed è soggetto a possibili correttivi nel tempo; pertanto la sua quantificazione è incerta.
Le differenze di ricchezza lorda delle famiglie di Paesi diversi dipendono, in parte, anche dal ricorso al debito. Le più indebitate risultano le famiglie dei Paesi Bassi (1,8 volte il reddito disponibile), seguite da quelle britanniche e da quelle statunitensi (oltre una volta il reddito disponibile). Le famiglie italiane e francesi sono quelle meno indebitate (intorno alla metà del reddito disponibile). Ovunque l’indebitamento delle famiglie ha teso ad aumentare dopo il 2000, in particolar modo negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e ciò in parte spiega, insieme alla tradizionale maggiore esposizione ai mercati azionari, la brusca caduta della ricchezza in questi Paesi in seguito alla crisi finanziaria iniziata nel 2007. L’andamento della ricchezza finanziaria delle famiglie britanniche e statunitensi, confrontato con quello delle famiglie italiane, è illustrato nella fig. 3.
La ricchezza reale, in particolare quella investita in immobili, risulta essere mediamente pari a due o tre volte il reddito disponibile per le famiglie dell’area dell’euro della Gran Bretagna, ma solo di una volta e mezzo per quelle statunitensi.
La ricchezza finanziaria globale delle famiglie era, all’inizio di questo secolo, pari a circa 80.000 miliardi di euro, ed era concentrata nei Paesi economicamente più sviluppati: oltre il 40% in Stati Uniti e Canada, intorno al 30% nell’Unione Europea (circa il 14% del quale in Italia) e il 15% tra Giappone e Australia. Tuttavia i Paesi emergenti, da quelli dell’Europa orientale all’India, alla Cina, al Brasile, ancora pochi anni fa di fatto privi di un settore finanziario interno, mo-strano tassi di accumulazione della ricchezza ben superiori al PIL, e già oggi rilevanti.
All’inizio del nuovo secolo e per la prima volta nella storia recente, le famiglie del Regno Unito e degli Stati Uniti hanno generato flussi negativi di risparmio (fig. 2). Ciò solleva la questione se si tratti di una distorsione legata all’eccessivo indebitamento per mutui, che ha generato la crisi finanziaria iniziata nel 2007 e pertanto destinata a rientrare con il ritorno a condizioni normali di mercato, oppure se si tratti di un fenomeno fisiologico, dovuto al decumulo di risorse da parte delle sempre più numerose coorti di anziani. O, ancora, se si stia assistendo a un cambiamento più profondo nei rapporti tra imprese e famiglie, con un ricorso più sistematico delle prime all’autofinanziamento, e un maggior utilizzo da parte delle seconde di nuove forme d’indebitamento.
È certamente vero che si stanno diffondendo strumenti d’indebitamento che tendono a limitare l’esigenza di accantonare attività finanziarie in vista dell’acquisto di beni durevoli o reali, e che permettono nel contempo di sostenere livelli più elevati di consumo lungo l’arco del ciclo vitale. Tali innovazioni si sostanziano nello sviluppo del credito al consumo a breve e del credito per l’acquisto di beni durevoli, in una maggiore flessibilità nell’erogazione dei mutui, nel ricorso a prestiti a medio termine per coprire le spese dei giovani per l’istruzione oppure, nel caso degli anziani, nella possibilità di contrarre mutui sull’abitazione di proprietà per integrare le pensioni.
Se quindi mercati sempre più ‘completi’ tenderanno a limitare le motivazioni strumentali del risparmio, quali potranno essere, in futuro, i motori dell’accumulazione del risparmio?
La risposta al quesito ci porta a guardare a fattori di medio e lungo termine quali la demografia, la crescita e la qualità della diversificazione del rischio.
Prospettive per l’accumulazione del risparmio
Volgendo quindi l’attenzione ai fattori che possono risultare determinanti per lo sviluppo della ricchezza nei prossimi decenni, la presa in esame dei soli fattori demografici porterebbe a una visione decisamente pessimistica per Paesi, come l’Italia, caratterizzati da un forte invecchiamento della popolazione. Tuttavia, fortunatamente, sono all’opera altri fattori, i cui effetti possono essere diversi.
Il fattore demografico
Franco Modigliani e Richard H. Brumberg hanno fornito nel 1954 una spiegazione della funzione del risparmio in relazione alle esigenze del ciclo vitale (Utility analysis and the consumption function: an interpretation of cross-section data, in Post-keynesian economics, ed. K.K. Kurihara, 1954, pp. 383-436). Se consideriamo il singolo individuo, questi, prima di avviarsi a un’attività lavorativa, non ha capacità di reddito o di risparmio, oppure addirittura si indebita per finanziare gli studi. Durante il periodo lavorativo accantona risparmio per la pensione. Il periodo pensionistico è il momento nel corso del quale disinveste gradualmente quanto accumulato.
In un’economia perfettamente statica, senza crescita della popolazione, la ricchezza è stabile, poiché accumulo e decumulo si bilanciano, e il risparmio aggregato è pari a zero. Un’economia in crescita demografica, con molti lavoratori e pochi pensionati, tende ad avere flussi di risparmio positivi; viceversa, un’economia con popolazione che invecchia, e quindi composta in maggioranza da pensionati, a parità di altri fattori tende a un decumulo netto di risorse.
Facendo specifico riferimento all’Italia, la demografia può contribuire a spiegare la vivace crescita del risparmio e della ricchezza nel dopoguerra, ma getta ombre sul futuro. Il forte aumento degli anziani e la crescita della loro longevità, dovuta ai progressi della medicina, potrebbero richiedere il decumulo dei patrimoni finanziari e reali accumulati per sostenere i livelli di vita oltre gli orizzonti inizialmente previsti.
La creazione di sistemi previdenziali ‘a tre pilastri’
Nel secondo dopoguerra, per molti anni, lo Stato ha gradualmente ampliato la copertura previdenziale ai cittadini, assicurandone i livelli di vita per la vecchiaia. I sistemi previdenziali pubblici funzionano con il sistema della ripartizione: non si accantonano riserve, ma i lavoratori attivi pagano i contributi sociali che vengono trasferiti ai pensionati. In sostanza è lo stato che, imponendo trasferimenti intergenerazionali, si fa carico di regolare il risparmio nel corso del ciclo vitale degli individui.
In una situazione caratterizzata dalla piramide demografica classica (come quella italiana negli anni Cinquanta), questo sistema funziona in maniera fin troppo semplice: essendo molto più numerosi i lavoratori attivi dei pensionati, anche aliquote contributive modeste possono trasformarsi in pensioni adeguate. Ma la situazione prevista per il 2050 in molti Paesi è ben diversa: ci troveremo con una piramide demografica rovesciata, e quindi con pochi lavoratori in grado di pagare contributi e molti pensionati che vantano diritti. Di fronte a tale prospettiva, gli Stati dei Paesi più sviluppati hanno da tempo messo in atto una serie di misure, tra cui l’allungamento del periodo lavorativo, la riduzione del tasso di copertura della previdenza pubblica (il cosiddetto tasso di sostituzione, destinato a scendere da livelli intorno all’80% dell’ultima retribuzione a livelli sostanzialmente inferiori, e comunque variabili a seconda del percorso lavorativo) e la creazione di forme previdenziali integrative, fondate sul meccanismo della capitalizzazione. Sin dal 1994, la Banca mondiale ha sostenuto l’opportunità per tutti i Paesi di creare sistemi previdenziali ‘a tre pilastri’ (il pilastro pubblico, il pilastro costituito dai fondi pensione di categoria e il pilastro costituito da forme di risparmio individuale a lungo termine), tali da consentire di sfruttare al meglio i pregi delle diverse soluzioni previdenziali cercando di compensarne in tal modo i limiti.
Con la capitalizzazione, diversamente da quanto avviene con la ripartizione, ognuno accantona flussi di risparmio per creare le riserve da cui poi trarre le future pensioni. In questo modo ogni individuo è, in una certa misura, responsabile del proprio futuro. La differenza tra il sistema a ripartizione e quello a capitalizzazione non risiede tanto nel risultato, che è quello di assicurare un livello di vita adeguato nella vecchiaia, quanto soprattutto nel processo e negli incentivi messi in atto allo scopo di raggiungerlo. Il sistema pubblico offre, in via generale, ampie garanzie di sicurezza per le coperture di base. Tuttavia, vi sono diverse ragioni per affiancare uno o più pilastri a capitalizzazione al pilastro della previdenza pubblica; queste vanno oltre la semplice impopolarità di un aumento eccessivo dei contributi previdenziali a carico delle coorti meno numerose e/o dell’imposizione dell’allungamento della vita lavorativa.
Le pensioni pubbliche hanno infatti un tasso di copertura più limitato per i redditi medi o medio-alti, e sono caratterizzate, per l’insieme dei percettori, da incertezza nel tempo. Per es., nel caso dell’Italia le pensioni pubbliche sono indicizzate nel tempo soltanto parzialmente e con riferimento solo all’inflazione e non alle retribuzioni; esse, poi, sono soggette a possibili revisioni al ribasso per rispettare vincoli di bilancio. Inoltre, in un mercato del lavoro più flessibile anche i periodi contributivi possono risultare meno regolari, con un impatto negativo sulla prestazione finale. Infine i sistemi pubblici possono essere distorti dalle pressioni dei gruppi elettoralmente più forti, e finire con il privilegiare determinate coorti o gruppi sociali. L’esistenza di altri pilastri ha quindi una funzione di riequilibrio e di assicurazione rispetto a tali limiti.
È tuttavia importante sottolineare che la transizione da un sistema a ripartizione a un sistema a più pilastri fa sì che le generazioni ‘di mezzo’ debbano comunque accollarsi oneri aggiuntivi: non solo assicurare la piena copertura pensionistica degli anziani, ma anche preparare la propria. È per questo motivo che tale transizione dovrebbe avvenire prima che le tendenze demografiche diventino troppo sfavorevoli.
La nascita della previdenza complementare fondata sulla capitalizzazione comporta, con l’adesione di una quota rilevante della popolazione lavorativa a veicoli di risparmio a medio e lungo termine, un allargamento dell’accesso delle famiglie ai mercati finanziari. Gli investitori istituzionali (fondi pensione, assicurazioni sulla vita e fondi comuni d’investimento orientati al lungo termine) sono forme d’investimento indiretto realizzate attraverso accordi collettivi o contratti individuali. Molte famiglie che in precedenza non avvertivano l’esigenza di accantonare patrimoni rilevanti in vista della vecchiaia devono ora imparare a seguire, almeno per una parte dei loro bisogni, il modello di Modigliani non soltanto in via implicita, facendo conto sulla previdenza pubblica, ma anche in via esplicita, mediante l’accumulo di risparmio finanziario a medio e a lungo termine.
I Paesi Bassi e il Regno Unito, che hanno preceduto la Francia, la Germania e l’Italia su questa strada, presentano all’interno della loro popolazione un’ampia diffusione di fondi pensione e assicurazioni vita. Ne è risultato un innalzamento della ricchezza finanziaria delle famiglie.
Produttività, investimenti, occupazione
Il modello di Modigliani va oltre la componente demografica. L’economia è caratterizzata dal progresso tecnologico, con conseguenti benefici in termini di aumenti di produttività. Anche con una popolazione statica, l’aumento della produttività favorisce l’aumento del risparmio, in quanto ogni generazione è in grado di produrre più reddito, e di consumare e risparmiare in proporzione. L’aumento della produttività può quindi mitigare gli effetti negativi di un contesto demografico sbilanciato verso le coorti più anziane.
Il progresso tecnologico si combina con i fattori demografici. Così, anche politiche attive per l’occupazione, per l’allungamento della vita lavorativa e per una maggiore partecipazione delle donne e dei giovani al mercato del lavoro, possono dare il loro contributo. In altre parole, gli effetti della minor crescita della popolazione possono venir mitigati da un impiego più esteso delle risorse umane. Un caso a parte, ma di grande rilievo, è rappresentato dai Paesi di recente sviluppo, come Cina, India, Brasile e altri ancora. La crescita dell’industria e dei servizi, e il declino relativo del settore agricolo e della popolazione rurale favoriscono la combinazione di effetti di produttività, di crescita economica e demografici. Gli eccezionali e prolungati tassi di aumento del prodotto interno di questi Paesi hanno innescato una vigorosa accumulazione di attività finanziarie da parte delle famiglie; così, pur partendo da livelli molto bassi, questi Paesi si sono dimostrati in grado di costituire nel giro di pochi anni stock significativi di ricchezza finanziaria, sulla base di processi che appaiono sostenibili e duraturi (su questo aspetto, v. Fano, Georgieva, Marzorati, Sbano 2008).
Tuttavia, anche per questi Paesi l’invecchiamento della popolazione può costituire un’ipoteca per il futuro: ciò vale in particolare per la Cina, la cui politica demografica di un figlio per famiglia genererà a partire dal 2020 una piramide demografica rovesciata simile a quella attesa per l’Italia, il Giappone e altri Paesi maturi. I processi demografici e di crescita possono tuttavia anche bilanciarsi tra aree diverse. L’India e, in prospettiva, l’Africa, presentano condizioni molto più favorevoli, e questo può consentire, teoricamente, di affrontare meglio gli sfasamenti ciclici attraverso sia la diversificazione del rischio sia il coordinamento delle politiche.
Il fattore dinastico
Esistono motivi che possono portare gli individui a risparmiare più di quanto richiesto dal proprio ciclo di vita? I capitali che si trasmettono da una generazione all’altra rappresentano soltanto un sovrappiù generato dalla necessità di cautelarsi rispetto all’incertezza della durata della propria vita? L’accumulo di attività in eccesso potrebbe essere interpretato co-me un fatto fisiologico.
Indagini empiriche sembrano tuttavia indicare che almeno alcuni gruppi sociali tendono effettivamente a guardare oltre il ciclo di vita individuale, e mirano a trasmettere, e se possibile ad accrescere, i patrimoni di generazione in generazione. Il fattore cosiddetto dinastico porterebbe gli individui a voler tutelare con la propria ricchezza non solo sé stessi ma anche il nucleo familiare e il suo consolidamento nel tempo. Indagini condotte sulle famiglie mostrano che coloro che hanno ricevuto patrimoni in eredità tendono, a loro volta, a trasmetterli alla generazione successiva (Cannari, D’Alessio 2008).
Il fattore dinastico può, almeno in una certa misura, contribuire a bilanciare i fattori demografici, a mitigare gli effetti di decumulo e a mantenere relativamente alto il risparmio.
I redditi da capitale e gli ‘effetti di mercato’
L’interesse composto, ovvero la capitalizzazione dei rendimenti dei capitali, costituisce un potente fattore di accumulazione della ricchezza. I rendimenti reali di lungo periodo in mercati che hanno goduto di una buona crescita economica e di continuità storica, come gli Stati Uniti, sono stati di tutto rispetto: del 3% annuo per le obbligazioni e del 7% per le azioni (Campbell, Diamond, Shoven 2001).
La recente crisi dei mercati finanziari ci ricorda, tuttavia, che le attività finanziarie e reali hanno anche un rischio a lungo termine che è difficilmente valutabile ex ante. L’inflazione, per es., in caso di forte aumento rappresenta un fattore corrosivo, dal momento che può innescare un rialzo dei tassi d’interesse, comportare la svalutazione di portafogli obbligazionari di scadenza più lunga e deprimere, almeno per un certo periodo, i corsi azionari. Infatti, i tassi di interesse determinano (o contribuiscono a determinare, insieme ad altri fattori quali gli utili attesi o la valutazione patrimoniale delle attività sottostanti) il valore attuale di un bene o di un titolo, attraverso la funzione di sconto.
D’altro canto, la diminuzione dell’inflazione può portare all’innalzamento dei valori patrimoniali attraverso la discesa dei tassi di interesse. Dopo il superamento delle crisi petrolifere degli anni Settanta, il periodo 1980-2000 è stato caratterizzato da un calo dall’inflazione. Ne è conseguita una discesa dei tassi d’interesse, che ha contribuito in diversa misura a una generalizzata rivalutazione dei patrimoni (aumento di valore degli immobili, delle azioni e delle obbligazioni). Tutto questo spiega, almeno in parte, perché il periodo è stato così favorevole per l’aumento della ricchezza delle famiglie. Un elemento di possibile difficoltà per i prossimi decenni è dato dal fatto che, a partire dalla fine degli anni Novanta, la discesa dei tassi d’interesse trainata dalla diminuzione del tasso d’inflazione è giunta a ‘fine corsa’, e non potrà generare alcun effetto positivo sulle diverse classi di attività possedute dagli investitori.
Naturalmente, l’inflazione non spiega tutto. Se si prende a riferimento il periodo compreso tra il 1969, che segna l’inizio di un decennio caratterizzato dalla ripresa dell’inflazione, e il 2007, il rendimento nominale medio annuo degli indici di borsa è stato rispettivamente del 7% per l’Italia e del 7,7% negli Stati Uniti, ma il tasso d’inflazione è stato rispettivamente del 7,5% e del 4,5%. La borsa statunitense ha quindi fornito, durante questo periodo, rendimenti reali comunque rilevanti, mentre quella italiana non ha difeso il valore dei patrimoni. I motivi che spiegano differenze di questo genere possono essere diversi: il tasso di crescita dell’economia, la distribuzione dei redditi tra lavoro e capitale, la regolamentazione, lo status delle società quotate e altri ancora.
Che si tratti degli effetti incerti dell’inflazione, dell’incertezza del premio per il rischio azionario oppure di altri fattori, scelte di portafoglio più o meno buone possono avere effetti determinanti sul livello della ricchezza. Di questo argomento ci occuperemo pertanto nel prossimo paragrafo.
Prospettive per una migliore qualità dei portafogli
La diversificazione del rischio finanziario è concetto tutt’altro che intuitivo e semplice da applicare. Si può erroneamente ritenere di avere un portafoglio ben diversificato perché si possiedono molti titoli, tuttavia, se questi sono simili nella loro reattività alle vicende dell’economia, non si ottiene una vera protezione. Anche le proporzioni in cui è opportuno detenere attività non correlate tra di loro richiedono un minimo di calcolo. Per un’appropriata diversificazione è necessario detenere almeno cinque categorie di titoli di natura diversa.
Normalmente, gli investitori non professionali come le famiglie intraprendono la costruzione di portafogli in maniera casuale, ingenua o addirittura sprovveduta (Benartzi, Thaler 2001), applicando al mondo finanziario modelli e punti di vista intuitivi. Il cosiddetto home bias, ovvero ‘l’inclinazione per le cose di casa propria’ è un fenomeno ampiamente documentato di distorsione riscontrabile negli atteggiamenti verso il rischio. Riteniamo di conoscere meglio quello che ci è vicino, ma molte volte sopravvalutiamo la qualità delle nostre conoscenze e finiamo con il concentrare pericolosamente i rischi.
I dipendenti della società Enron, considerata all’inizio del nuovo secolo una delle migliori e più innovative degli Stati Uniti, avevano investito il 50% del proprio portafoglio previdenziale nei titoli della loro azienda, per poi vederselo ridurre a zero quando questa è fallita. Anche la preferenza per titoli del proprio Paese può riflettere una distorsione analoga. In realtà, chi lavora in una data azienda o in un dato Paese è già, per l’attività stessa che svolge, legato al rischio (positivo o negativo) che questi rappresentano. Diversificare vuol dire associare rischi diversi, che possono bilanciarsi l’un l’altro e non sommarsi.
Non viviamo in sistemi economici chiusi. Gli individui e i gruppi possono diversificare il rischio legato a un determinato Paese, al suo grado di crescita, alla sua capacità di tutelare il risparmio, al suo profilo demografico e sociale, investendo una quota importante del patrimonio in altri Paesi con situazioni demografiche ed economiche complementari.
Le azioni dovrebbero fornire nel tempo un premio di rendimento (il cosiddetto premio per il rischio) che compensi l’investitore per la maggiore volatilità di questi titoli, mentre le obbligazioni dei governi, che hanno bilanci solidi, forniscono la protezione del capitale. Per questo, i modelli di ottimizzazione di portafoglio indicano che anche gli investitori più prudenti dovrebbero avere portafogli che contengano una sia pur minima quota di azioni (cfr. Jappelli, Pistaferri 2000). Nella realtà, tuttavia, l’accesso ai mercati azionari è tuttora limitato: coloro che investono in azioni, direttamente o indirettamente, attraverso fondi comuni d’investimento o altri veicoli istituzionali risultano essere una minoranza anche nelle economie più sviluppate. Gli economisti hanno cercato di spiegare l’anomalia della scarsa partecipazione ai mercati rischiosi con i costi di accesso al mercato, la mancanza d’istruzione o d’informazione, o ancora con l’avversione alla possibilità di perdere anche una frazione minima dei propri investimenti. Tra gli ostacoli alla diversificazione in azioni figura anche il fatto che molti investono sui mercati sull’onda dell’euforia, salvo poi dovere in seguito subire perdite, rimanere ‘scottati’ e quindi pentirsi per lungo tempo.
Un esempio proviene dalla nostra esperienza recente: alla fine degli anni Novanta sono aumentate molto le quotazioni dei cosiddetti titoli tecnologici, legati in particolare alla crescita di Internet, dei telefoni cellulari, delle biotecnologie. I prezzi di borsa erano cominciati a salire sin dai primi anni Novanta, ma all’avvicinarsi del 2000 una vera febbre aveva spinto molti a investire in questi titoli dall’apprezzamento apparentemente inarrestabile. La fig. 4 mostra l’accelerazione degli acquisti di fondi comuni azionari italiani al culmine del ciclo e durante la prima fase calante, e l’innesco delle vendite scatenato dalla discesa dei mercati, una fase che dura tuttora, nonostante qualche breve e modesta ripresa degli acquisti.
Molti investitori preferiscono realizzare perdite certe piuttosto che rischiare perdite più alte, e quindi sono portati a ‘svendere’ e a tenersi per lungo tempo alla larga dai mercati. L’avversione alle perdite e altri fenomeni distorsivi sono stati documentati dagli economisti comportamentali (su questo tema cfr. Choices, values, and frames, 2000).
L’impatto ricorrente delle bolle speculative
Il fenomeno delle ‘bolle speculative’ è stato studiato tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta da economisti come Charles P. Kindleberger (Manias, panics, and crashes. A history of financial crises, 1978) e Hyman Ph. Minsky (Stabilizing an unstable economy, 1986) e, più recentemente, da Franklin Allen e Douglas Gale (2007). Secondo il modello di Minsky, il copione si ripete a intervalli di tempo secondo una stessa logica: un’innovazione ‘spiazza’ i comportamenti correnti e crea fiducia crescente, e nascono così aspettative di prosperità sempre maggiori; si entra poi in una seconda fase caratterizzata dalla ricerca di plusvalenze a breve termine: la fase della ‘febbre speculativa’, che spinge molti investitori a concentrare il rischio in pochi titoli (che diventano sempre più sopravvalutati o addirittura emessi senza vero valore sottostante) e a indebitarsi nella sola speranza di poter rivendere a terzi con una plusvalenza. Nel momento in cui il mercato comincia a scendere, sono proprio questi investitori incauti che, dovendo ‘fare cassa’, fanno precipitare le quotazioni. In sostanza è l’euforia che porta sia a concentrare i rischi sia a prenderli in misura eccessiva.
Le perdite da insufficiente diversificazione o, da un altro punto di vista, i relativi mancati guadagni possono essere rilevanti. Occorre catturare il premio per il rischio su un ampio spettro di titoli e di mercati. Una vera diversificazione è un fattore importantissimo di difesa del valore dei patrimoni nei periodi difficili e di crescita nei periodi più favorevoli.
Un’adeguata composizione di portafoglio richiede sia la presenza di titoli obbligazionari di emittenti primari, che forniscono una garanzia sul capitale, sia la presenza di un’ampia gamma di titoli azionari poco correlati gli uni con gli altri, attraverso cui catturare il premio per il rischio. La proporzione tra azioni e obbligazioni da detenere è funzione della propensione individuale al rischio e della possibilità di assorbire eventuali perdite senza per questo pregiudicare l’equilibrio patrimoniale della famiglia.
Il grado di istituzionalizzazione delle attività finanziarie delle famiglie fornisce un buon indicatore della qualità della diversificazione. Infatti, gli investitori istituzionali come i fondi pensione, le assicurazioni sulla vita, i fondi comuni e le gestioni patrimoniali tendono ad applicare più sistematicamente dei singoli regole di allocazione dei vari titoli. Il grado d’istituzionalizzazione del risparmio varia da Paese a Paese (fig. 5).
Purtroppo, neanche gli investitori istituzionali sono immuni da errori o da distorsioni nelle scelte. Fondi pensione o compagnie di assicurazione possono avere portafogli eccessivamente sbilanciati verso il rischio o verso strumenti illiquidi.
D’altra parte, alcuni possono essere portati dal conformismo ad adeguarsi a regole comunemente accettate. Così, quando in Italia la CONSOB (Commissione Nazionale per le Società e la Borsa), l’ente preposto alla regolamentazione dei mercati finanziari, ha introdotto per i fondi comuni d’investimento un indice di riferimento del mercato, il cosiddetto benchmark, molti gestori hanno finito con il creare portafogli appiattiti sull’indice medesimo, minimizzando gli scostamenti dallo stesso ma rinunciando, di contro, a una gestione attiva. Gli stessi investitori istituzionali non resistono facilmente alle mode: come giustificare a un consiglio di amministrazione o a un investitore un mancato guadagno derivante da un settore comunemente considerato valido, si tratti dei titoli tecnologici alla fine degli anni Novanta o dell’immobiliare o delle materie prime dopo il 2000? Quando la bolla speculativa inevitabilmente si sgonfia, serve poi a poco dire che è ‘mal comune’. Lo stesso Minsky, cui ci siamo riferiti sopra, notava come durante i cicli speculativi le istituzioni finanziarie accettino passività sempre più importanti da parte dei loro clienti, e finanzino progetti d’investimento che avrebbero invece respinto in tempi normali.
Il nuovo secolo si è aperto prima con la bolla speculativa sui titoli tecnologici e poi con la cosiddetta crisi dei mutui. Kindleberger notava che l’economia è segnata da una crisi finanziaria più o meno ogni dieci anni.
Secondo alcuni, per fare soltanto un esempio l’ex governatore della Federal reserve Alan Greenspan (2007), è molto difficile individuare in anticipo le bolle speculative e distinguerle dai fenomeni normali. È compito della politica monetaria intervenire e impedire danni gravi all’economia reale in seguito a un crollo finanziario. Altre scuole individuano invece proprio in politiche monetarie troppo generose l’origine delle bolle speculative. Tassi d’interesse troppo bassi, indirizzati inizialmente verso investimenti innovativi, verrebbero gradualmente dirottati verso operazioni di tipo speculativo. Questa tesi è stata sostenuta sin dall’inizio del secolo scorso da Harry Gunnison Brown, da Irving Fisher e da Knut Wicksell, ed è stata ripresa recentemente da più parti.
Maggiore consapevolezza e maggiori tutele per l’investitore?
Il singolo investitore può tutelarsi dalle bolle e da altri eventi estremi, e può dotarsi di portafogli almeno in parte immuni dagli effetti più gravi delle crisi finanziarie?
L’importanza di creare presidi è data anche dalla peculiarità degli investimenti a lungo termine e, in particolare, di quelli finanziari: se si compie un errore non vi è modo di rimediare, in quanto gli effetti si manifestano nell’ultimo periodo del ciclo vitale.
L’investitore dovrebbe essere aiutato a valutare l’opportunità di una determinata tipologia di diversificazione del portafoglio, in relazione a una visione d’insieme della sua situazione patrimoniale. Da questo punto di vista ha rilevanza anche un’altra componente della ricchezza che finora non abbiamo considerato, ma che ha un peso molto rilevante: il cosiddetto capitale umano, cioè il valore attuale dei flussi di reddito attesi dall’attività lavorativa, e che potrebbe corrispondere, indicativamente, al 70% del valore complessivo del patrimonio individuale inteso in senso ampio (Stiglitz 2005).
Il nodo delle asimmetrie informative
Un primo nodo è rappresentato dalla natura dei rapporti e dalle regole che definiscono il campo di scelta dell’investitore. Laddove l’informazione non è posseduta oppure non è accessibile in egual misura dai diversi operatori – intermediari, produttori di servizi finanziari, investitori – diviene cruciale la qualità dei rapporti che intercorrono tra i diversi soggetti.
È compito dei regolamentatori promuovere la trasparenza e la diffusione dell’informazione e prevenire i conflitti di interesse, ma è certo che l’investitore singolo si presenta come soggetto strutturalmente più debole rispetto agli altri.
Funzione primaria delle banche e degli intermediari in generale dovrebbe essere quella di ottimizzare i rapporti tra datori e prenditori di risorse (De Bonis 2008). Possono però verificarsi ‘fallimenti del mercato’ che portano gli operatori finanziari a cercare di sfruttare le informazioni a proprio vantaggio e a tutto danno del sistema.
L’investitore singolo è quindi esposto al rischio di diventare l’anello debole del processo.
Il contributo dell’economia comportamentale e delle neuroscienze
Abbiamo già fatto riferimento ai contributi dell’economia comportamentale per spiegare le imperfezioni nelle scelte di portafoglio. I recenti progressi nella ricerca medica hanno aperto nuovi campi di indagine, e sono nate così le ‘neuroscienze’. In particolare, la tecnica della risonanza magnetica ha aperto da pochissimi anni nuove vie alla nostra comprensione del funzionamento della mente umana. La neuroeconomia si avvale di tali nuove tecniche.
La nostra mente non appare perseguire in via diretta algoritmi di ottimizzazione, ma è piuttosto un luogo in cui si confrontano idee, e in cui le parti più emotive della mente a volte si contrappongono a quelle più razionali e a volte interagiscono con esse. Un tipico esperimento consiste nel confrontare due gruppi, uno dei quali deve affrontare un compito semplice in situazione priva di stress, mentre l’altro affronta la stessa situazione in un contesto di eccesso di informazione e di stress. Il secondo gruppo tende a decidere in maniera più impulsiva e ricerca gratificazioni immediate. Le scelte d’investimento fatte in momenti di tensione rendono meno controllabile l’impulso della ricerca di facili guadagni.
Oltre a quelli emotivi, vi sono altri fattori comportamentali molto importanti. Ci siamo già riferiti all’avversione per le perdite. Altri fattori incidono sulla capacità di risparmio a lungo termine e sulla sua qualità.
Esiste, per es., una naturale tendenza a procrastinare decisioni impegnative. Risparmiare per la previdenza è una decisione che molti accettano come perfettamente ragionevole ma preferiscono rinviare nel tempo, come nel caso di altre decisioni difficili (Akerlof 1991; Harris, Laibson 2001). Molti lavoratori giovani sanno che dovrebbero risparmiare per la previdenza complementare, ma preferiscono posticipare l’impegno, mettendo così a rischio la loro vecchiaia.
Un altro esempio riguarda il mantenimento della qualità dei portafogli. Questi ultimi dovrebbero essere periodicamente riequilibrati per mantenere nel tempo una giusta diversificazione, ma anche questa è una attività che rinviamo volentieri. Il solo andamento dei mercati (apprezzamento o deprezzamento) può far sì che la loro composizione si alteri e perda le iniziali caratteristiche di equilibrio. In effetti, una buona parte degli investitori non rivede mai i propri investimenti (Ameriks, Zeldes 2000). Ne derivano due conseguenze: la scelta d’investimento iniziale è sempre importantissima; è opportuno che ogni scelta venga fatta tenendo a mente la diversificazione complessiva del portafoglio piuttosto che come decisione a sé stante.
Una significativa tendenza nei comportamenti riguarda l’eccesso di semplificazione e la tendenza a ignorare la possibilità di eventi estremi. In generale cerchiamo di ridurre soluzioni complesse a casi semplici. Davanti a una distribuzione di probabilità cerchiamo, per es., la media o la moda, e decidiamo di conseguenza. Ma, in alcune circostanze, eventi estremi possono avere probabilità tutt’altro che trascurabili. Forti aumenti o forti cadute dei prezzi, o eventi bellici, accadono anche quando non ce li aspettiamo, e possono avere effetti dirompenti su portafogli poco diversificati (Taleb 2007). La realtà ci sorprende sempre, la normalità in certi periodi diventa l’eccezione ed è quindi preferibile cercare di costruire portafogli a prova di eventi estremi.
L’economia comportamentale e le neuroscienze ci aiutano anche a capire meglio le motivazioni degli investitori nel contesto sociale, il che permette di incanalarle in maniera costruttiva. Ci sono tanti modi per distruggere patrimoni, anche la generosità sconsiderata o l’acquisto di beni particolarmente vistosi. Spese cospicue possono servire semplicemente a segnalare in modo dissennato potere e status sociale, così come forme altruistiche di risparmio a fini dinastici possono invece contribuire a consolidare i patrimoni nel corso del tempo.
Dalle neuroscienze viene poi un ulteriore spunto riguardo al modello dinastico e alle problematiche di risparmio a lungo termine. Mano a mano che cresciamo, aumentano, al contempo, sia la memoria di lungo termine sia la nostra capacità di programmare. Paradossalmente, più siamo giovani e meno vogliamo pensare a programmare il futuro, ma più diventiamo vecchi e più siamo in grado non soltanto di ricordare ma anche di pianificare.
Più istruzione finanziaria e/o soluzioni di silenzio-assenso?
Si può porre rimedio a quella cattiva allocazione delle proprie risorse da parte degli investitori che è dovuta a lacune cognitive e a distorsioni percettive e comportamentali? Le indagini campionarie sulle famiglie e sugli investitori tendono a mostrare che il livello di alfabetizzazione finanziaria è molto basso, e che sono pochissimi coloro che sono in grado di entrare nel merito della natura di prodotti finanziari anche relativamente semplici. Risulta comunque che chi ha un più elevato livello di cultura finanziaria è anche capace di diversificare meglio la propria ricchezza.
Si possono in proposito adottare due punti di vista, che sono potenzialmente complementari. Alcuni ritengono che negli individui prevalgano, alla fine, le capacità di agire razionalmente, e che si tratta, soprattutto e prioritariamente, di elevare il livello di cultura finanziaria della popolazione allo scopo di supportare tale razionalità. Sapere come affrontare i mercati finanziari dovrebbe diventare importante quanto sapere come guidare l’automobile. Introdurre la finanza nella scuola dell’obbligo e fare corsi di formazione aiuterebbe certamente a incrementare sia il livello del risparmio sia la sua allocazione, in particolare per individui che si avvicinano per la prima volta ai mercati (Lusardi 2003). Queste idee si sono già concretizzate in Germania, per es., con l’introduzione nelle scuole dello studio della finanza.
Secondo altri, l’istruzione, seppur importante, non può bastare a evitare errori nelle scelte, in quanto decisioni dettate dall’emotività, dal conformismo o, semplicemente, dalla tendenza a procrastinare possono distorcere le scelte anche delle persone più istruite (Choi, Laibson, Madrian 2006). Inoltre, l’investitore singolo potrebbe avere comunque meno informazioni rispetto agli intermediari, e quindi essere esposto alle asimmetrie informative cui ci siamo riferiti sopra. Una soluzione proposta consiste nel ricorrere, al momento della scelta, alle cosiddette soluzioni default o di silenzio-assenso. Queste soluzioni si possono applicare al ‘quando’, al ‘quanto’ e al ‘come’ investire, rendendo più facili, semplici e talvolta automatiche le scelte d’investimento in portafogli ampiamente diversificati. La libertà di scelta di ognuno viene salvaguardata dal fatto che queste soluzioni non sono obbligatorie.
Soluzioni di silenzio-assenso sono state attuate dal legislatore allo scopo di favorire l’adesione a piani previdenziali, in particolare in Italia e negli Stati Uniti. Infatti, voler procrastinare l’avvio di un programma di risparmio a lungo termine finisce per rappresentare uno degli ostacoli maggiori al decollo della previdenza complementare.
Secondo alcuni critici, i sistemi di silenzio-assenso presentano rischi di paternalismo. In fondo, anche chi propone tali soluzioni potrebbe essere vittima di distorsioni o perseguire fini non coerenti con gli interessi degli investitori. Le soluzioni di silenzio-assenso non sono innocue, e andrebbero applicate soltanto per evitare situazioni potenzialmente gravi di mancanza di risparmio e di cattiva allocazione degli investimenti. Possono essere utili, quindi, per superare l’inerzia nell’avvio di programmi d’investimento, per evitare errori clamorosi nella diversificazione degli investimenti, ma non possono né devono sostituirsi a una presa di responsabilità da parte dei risparmiatori. Una soluzione di buon senso consisterebbe dunque nell’abbinare sforzi in direzione dell’istruzione con soluzioni di silenzio-assenso e con una cultura della responsabilità degli intermediari.
L’esigenza della regolamentazione
L’intervento pubblico supplisce ai limiti del mercato. Come accennato, questi limiti derivano dalla natura stessa delle decisioni di risparmio a medio o a lungo termine, dalle loro caratteristiche di irreversibilità e dalla presenza di asimmetrie informative. Gli organismi pubblici, i governi, i Parlamenti, gli organi preposti alla vigilanza e alla regolamentazione dei mercati mostrano un’attenzione crescente alle tematiche del risparmio a medio e a lungo termine e alla tutela della qualità delle scelte di portafoglio.
Nel Regno Unito il tema della previdenza è stato oggetto di alcuni importanti rapporti e dell’attività di commissioni di lavoro (v., in particolare, Myners 2000; Pickering 2002; Pensions Commission 2004).
Denominatore comune è il rilievo dato alla eccessiva complessità dei prodotti di risparmio offerti, che finiscono con l’essere difficilmente comprensibili e comparabili tra di loro. Questa opacità, unita alla scarsa diffusione della cultura finanziaria, favorisce l’azione di promotori senza scrupoli, i quali possono voler collocare prodotti che non sono nell’interesse del cliente (il cosiddetto misselling). Si crea in tal modo un contesto in cui il proliferare di prodotti e l’opacità delle commissioni fanno aumentare le asimmetrie informative tra distributore e cliente.
Una soluzione potrebbe consistere nella consulenza indipendente. Ma quali presidi possono garantire effettivamente l’assenza di conflitti d’interesse? E vi è un’effettiva disponibilità a pagare questi servizi? Gli investitori non appaiono sempre interessati a remunerare una costosa consulenza finanziaria in maniera separata dall’attività d’investimento. Una delle conclusioni che accomuna i vari rapporti è la raccomandazione dello sviluppo di prodotti che siano caratterizzati dalla massima semplicità, che siano regolamentati in modo standard e che possano essere venduti ai risparmiatori meno sofisticati anche in assenza di una consulenza specifica.
Negli Stati Uniti, il Congresso ha approvato nel 2006, con una maggioranza bipartisan, una legge, denominata Pension protection act, che è ispirata a principi di massima semplicità e che fa proprie le indicazioni della finanza comportamentale. Tale legge prevede l’adesione automatica a piani previdenziali aziendali. Anche la selezione del portafoglio avviene per silenzio-assenso, a condizione però che tale portafoglio segua il processo d’investimento approvato dal Ministero del Lavoro.
Anche in Europa, nel campo previdenziale si fa uso di soluzioni di silenzio-assenso per le scelte di portafoglio, sebbene in modo molto diverso da Paese a Paese. Sarebbe importante, per il futuro, attenersi a poche regole basilari: la semplicità nell’offerta di prodotti, il fatto che essi siano facilmente comprensibili e che sia possibile seguirne l’evoluzione nel tempo in termini di rendimento, di rischio e di qualità della diversificazione (Fano, Onado 2006).
Il tema della qualità delle scelte degli investimenti non riguarda naturalmente soltanto le scelte previdenziali. Una recente direttiva europea, la cosiddetta MiFID (Markets in Financial Instruments Directive), entrata in vigore nel novembre 2007, affronta tra l’altro i rapporti tra investitori e collocatori di prodotti finanziari. Si tratta di un passo molto importante verso un miglioramento della cultura dei primi e della preparazione dei secondi.
La direttiva MiFID introduce delle categorie importanti e, in particolare, la distinzione tra prodotti non complessi (titoli quotati e fondi comuni d’investimento di diritto comunitario), su cui l’investitore può operare di propria iniziativa, e prodotti complessi (tutti gli altri e, in particolare, titoli che fanno uso di derivati), nonché i test di adeguatezza e di appropriatezza. Quando un investitore vuole operare su un prodotto complesso, l’intermediario è tenuto a esaminare e giudicare la sua capacità di valutarne i rischi. Inoltre, ogni qualvolta non sia il cliente a muoversi di sua iniziativa, ma si trovi a interagire con l’intermediario, quest’ultimo deve valutare sia la sua preparazione sia la congruità delle scelte da fare.
Molti Paesi dell’Unione Europea avevano già una loro normativa, ma la MiFID rappresenta uno sforzo per dare coerenza e organicità a una questione così rilevante. Il processo regolamentare europeo (il cosiddetto processo Lamfalussy, dal nome del presidente del comitato di saggi dell’Unione Europea chiamato a definire le linee di sviluppo del processo di integrazione dei mercati finanziari in Europa) prevede una continua verifica dall’attuazione delle norme. Data la novità della regolamentazione dei rapporti tra intermediari e investitori, è molto probabile che in futuro ci potranno essere alcuni adattamenti.
La democratizzazione della finanza e i suoi ostacoli
Il 21° sec. schiude la porta a una diffusione senza precedenti nella partecipazione ai mercati finanziari e a un ulteriore sviluppo della ricchezza, ma si tratta di fenomeni con esito tutt’altro che scontato.
Dalla concentrazione alla diffusione globale
Fino alla fine del 20° sec., la ricchezza era appannaggio dei Paesi con una lunga tradizione di sviluppo economico. Le stesse classi dirigenti dei Paesi emergenti o in via di sviluppo non accumulavano ricchezza finanziaria sui mercati interni, fortemente arretrati e caratterizzati dal ruolo dominante del contante e dall’intermediazione bancaria tradizionale.
Con il passaggio al nuovo secolo si sono manifestati profondi cambiamenti. Da una parte, gli organismi internazionali hanno incoraggiato le economie emergenti, in particolare nell’Europa centrale e orientale e in America Latina, a creare sistemi previdenziali complementari che hanno iniziato a incanalare flussi di risparmio sempre più rilevanti verso forme di risparmio a medio e lungo termine. Dall’altra parte, in questi Paesi si sono create istituzioni finanziarie più evolute, nonché la possibilità di quotare titoli di società locali nelle borse delle grandi piazze finanziarie. Ma sono stati soprattutto l’elevato livello di crescita economica, la sua continuità nel tempo e gli elevati tassi di risparmio a permettere in Paesi come India e Cina la nascita, nel giro di pochissimi anni, di forme di ricchezza finanziaria moderna.
Si stima che la Cina avesse nel 2006 una classe media benestante pari più o meno alla popolazione della Germania, e volumi di risorse gestite nei fondi comuni d’investimento prossimi ai livelli raggiunti in ciascuno dei singoli maggiori Paesi europei nel corso di numerosi anni. Secondo le stime della Cap Gemini e della Merrill Lynch (2008, p. 6), tra il 2006 e il 2007 il numero dei ricchi (persone con patrimoni finanziari superiori al milione di dollari) avrebbe visto la sua crescita più elevata in India, Brasile e Corea del Sud.
È probabile che questa veloce crescita della ricchezza, dovuta alla sua diffusione, agli alti tassi di risparmio e allo sviluppo di infrastrutture finanziarie in grado di gestirla, possa continuare a caratterizzare le economie emergenti nei prossimi decenni.
Una grande trasformazione: l’individuo-istituzione
Stiamo passando da sistemi previdenziali fondati su un pilastro pubblico a prestazione definita a un sistema a tre pilastri, dove la componente pubblica rappresenta una rete di sicurezza più o meno importante, la previdenza di categoria il primo complemento e la previdenza individuale il secondo.
Il Regno Unito, gli Stati Uniti e i Paesi Bassi, dotati di sistemi previdenziali da tempo orientati in questo senso, hanno precorso i tempi. In questi Paesi, per la prima volta nella storia, per una parte rilevante della popolazione i redditi pensionistici dipendono dall’andamento dei mercati finanziari. Negli Stati Uniti, a livello aggregato, il 25% del reddito previdenziale proviene dai mercati finanziari. Come mostra anche l’esperienza del Regno Unito, i fondi pensione sono una potente leva per l’aumento della partecipazione ai mercati finanziari (Banks, Wakefield 2003).
L’individuo e la famiglia devono, sempre di più, prendersi cura di sé stessi. L’individuo deve così diventare una micro-istituzione, capace di programmare risparmi a medio e lungo termine, garantirsi e assicurarsi contro una varietà di rischi, dalla disoccupazione alla malattia. I mercati del lavoro sono diventati sempre più flessibili, in quanto il progresso tecnologico costringe le aziende a rivedere le proprie strategie in maniera più frequente, e nuovi settori appaiono e diventano maturi nel giro di una generazione. L’investimento in istruzione diventa indispensabile per tutelare la propria capacità reddituale. Nel campo sanitario, non tutti i Paesi hanno sistemi pubblici onnicomprensivi e interamente gratuiti. Inoltre, grazie ai progressi della medicina e ad altri fattori, la longevità tende ad aumentare (la speranza media di vita ha oggi, su scala mondiale, un incremento di 3 mesi ogni anno).
Ma gli individui sono pronti ad assumersi queste responsabilità? Trovano nei mercati tutti i servizi di cui avrebbero bisogno? E se sì, sono in grado di avvalersene? Come abbiamo visto, l’economia comportamentale e le neuroscienze mostrano che la nostra capacità di pianificare razionalmente è assai limitata. Un presupposto è comunque rappresentato dalla stabilità dei mercati finanziari. Nel 2007 e nel 2008 abbiamo assistito alla più grave crisi finanziaria del dopoguerra, che rischia di creare una sfiducia duratura tra gli investitori. Gli squilibri macroeconomici degli inizi di questo secolo hanno spianato la via a un’estrema instabilità dei mercati, una minaccia per la validità stessa del sistema previdenziale a tre pilastri.
La democratizzazione della finanza
La nascita dell’individuo-istituzione porta con sé la diffusione di patrimoni finanziari, e quindi l’esigenza di una democratizzazione della finanza. Tuttavia, la diffusione delle attività finanziarie è connessa con le caratteristiche familiari, e in primo luogo con quelle economiche; la penetrazione degli strumenti finanziari cresce infatti con l’aumentare del reddito e del titolo di studio. La ricchezza finanziaria è, in altri termini, un ‘bene superiore’, e ci può attendere una sua crescente diffusione. Rimane una questione aperta: questa diffusione sarà tale da attenuare la forte concentrazione della ricchezza? La ricchezza netta presenta una concentrazione maggiore di quella del reddito: tra le famiglie italiane, nel 2006 il 10% più ricco possedeva quasi il 45% della ricchezza netta complessiva (Banca d’Italia 2008).
L’ampliamento delle frontiere della gestione del rischio
Un fattore di maggior efficienza ma anche di potenziale ulteriore complicazione per l’individuo e la sua famiglia deriva dal continuo ampliarsi delle frontiere di gestione del rischio.
L’assicurazione sulla vita, inventata sin dal Seicento, ha iniziato a essere accettata solo verso la fine dell’Ottocento (Shiller 2003, p. 241). Innovazioni finanziarie più recenti, come i mercati dei derivati e dei futures, hanno avuto uno sviluppo molto più rapido, e hanno trasformato il modo di operare dei mercati. Forme di cartolarizzazione dei rischi, che si tratti di rischi individuali (come la longevità) o di rischi Paese (legati, per es., a un’eccessiva specializzazione produttiva), potranno ancora svilupparsi.
Mercati sempre più ‘completi’ dovrebbero garantirci sempre meglio dai rischi del ciclo vitale. L’ampliamento delle forme di copertura del rischio genera, d’altra parte, sempre nuove categorie di titoli, i quali hanno potenzialmente scarsa correlazione l’uno con l’altro. Si creano di conseguenza, nella gestione del portafoglio, nuove opportunità di diversificazione che tendono a rendere, almeno in via teorica, meno volatili gli investimenti nel tempo. Tuttavia la diversificazione stessa richiede sia capacità di controllo sia capacità di ottimizzazione. L’individuo-istituzione sembra quindi condannato a delegare decisioni allo specialista il quale, come abbiamo visto in precedenza, può a sua volta sbagliare. Mercati sempre più complessi generano asimmetrie informative che possono essere sfruttate da alcuni agenti a danno di altri, e quindi richiedono responsabilità individuale supportata da un’adeguata regolamentazione.
Trasparenza, governance, semplicità, controllo
La scissione dei rischi e il loro ‘re-impacchettamento’ in altri prodotti può rendere i mercati più opachi, minando la fiducia tra gli operatori, fino a provocare vere e proprie crisi di liquidità come quella scoppiata nel 2008, che ha messo a repentaglio il sistema finanziario internazionale.
Le nuove linee di regolamentazione tenderanno a estendere l’area di applicazione dei controlli, dovranno rifondare il modus operandi degli emittenti di titoli cartolarizzati, e dovranno richiedere massima trasparenza informativa e responsabilità.
L’opacità è certamente uno dei maggiori ostacoli alla democratizzazione della finanza, perché ne mina le basi stesse: la fiducia che il sistema economico, gli individui e le famiglie possono riporre nei mercati per salvaguardare e accrescere la loro ricchezza. Gli investitori istituzionali tradizionali (come i fondi pensione, le assicurazioni vita e i fondi comuni d’investimento) sono regolamentati, e hanno sviluppato nel corso del tempo presidi che li hanno, nell’insieme, salvaguardati dagli eccessi più gravi; essi gestivano alla fine del 2007 circa 50.000 miliardi di euro. I fondi sovrani dei Paesi produttori ne gestivano quasi 4000 miliardi.
In questo campo vi sono modelli di governance molto diversi: dalla Norvegia, che ha adottato criteri di gestione professionale e indipendente, e il cui fondo può di fatto essere considerato parte del patrimonio delle famiglie, ad altri fondi dove la discrezionalità dei governi è virtualmente assoluta, con conseguenti gravi rischi riguardo all’impiego delle attività.
Altri attori sono gli hedge funds, o fondi speculativi, e i fondi di private equity, o fondi chiusi, che insieme superavano a fine 2006 i 1500 miliardi di euro ma che, grazie agli effetti di leva finanziaria, avevano sui mercati un’incidenza molto più rilevante. Tradizionalmente questi veicoli sono scarsamente regolamentati, perché riservati a una clientela con grandi patrimoni, ma appare inevitabile una loro maggiore regolamentazione, che dovrà assicurare trasparenza e semplicità (Farrell, Lund 2007).
Agli intermediari dovrebbe essere consentito di proporre agli investitori solo ciò che può essere spiegato in maniera comprensibile nelle sue implicazioni di rischio e rendimento. La finanza ha il compito di allocare le risorse in base alle prospettive di rendimento atteso e di diversificare opportunamente i rischi. L’ulteriore crescita della ricchezza dipende anche dalla capacità degli Stati di garantire la stabilità e dalla capacità delle istituzioni finanziarie di promuovere l’innovazione e gli investimenti.
Le grandi sfide della nostra epoca, non solo la piena occupazione e la crescita equilibrata ma anche la tutela dell’ambiente, ci pongono di fronte a enormi difficoltà, richiedono rilevanti investimenti e un’intermediazione finanziaria trasparente, credibile, capace di convogliare il capitale di rischio verso l’economia reale in maniera efficiente. Questa è la premessa di un nuovo ciclo di sviluppo mondiale allo stesso tempo più diffuso e più responsabile, e per una ricchezza più elevata per le generazioni a venire.
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