Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella seconda metà dell’Ottocento in Francia la reazione al positivismo si esprime in una nuova forma di spiritualismo che rivendica l’irriducibilità della coscienza e della vita alle rappresentazioni proposte dalla scienza meccanicistica. La via per accedere alla realtà assoluta diventa la coscienza, relegando la conoscenza scientifica a una forma non autentica del reale. Il riferimento alla coscienza consente la rivalutazione di valori etici, estetici e religiosi sottraendoli alle leggi deterministe della scienza. L’uomo ritorna a una dimensione intima libera e creatrice le cui conseguenze, non solo in ambito francese, avranno risonanza nella filosofia del Novecento.
Il mondo spirituale dell’uomo
Rispetto al paradigma positivista comtiano che riduce la realtà ai fatti naturali e ritiene che la scienza meccanicistica sia l’unica loro forma di conoscenza possibile, nel dibattito filosofico francese di fine Ottocento emergono posizioni contrastanti, di tipo spiritualista: alcuni filosofi sentono la necessità di definire il compito della filosofia e la sua posizione nei confronti delle scienze naturali, rivendicando l’originalità del mondo spirituale dell’uomo, in particolare dei valori estetici, etici e religiosi irriducibili ai rapporti necessari e costanti delle leggi che governano i fenomeni naturali e meccanici. La filosofia viene dunque difesa come forma di conoscenza alternativa alla scienza, applicabile all’ordine di fenomeni che non possono essere ridotti al mero piano fattuale. Per gli spiritualisti la realtà assoluta è infatti di ordine spirituale e la via per accedervi è la coscienza, mentre la scienza è ritenuta una forma di conoscenza non autentica del reale.
Nel porre l’esperienza interiore come punto di partenza di ogni analisi, lo spiritualismo di fine Ottocento ripropone un atteggiamento filosofico radicato nella filosofia francese sin da Montaigne, Cartesio, Malebranche e Pascal, che già all’inizio dell’Ottocento era stato rilanciato da François-Pierre Maine de Biran. In opposizione al tentativo degli idéologues di partire dalle sensazioni per giustificare le facoltà teoretiche dell’uomo, Maine de Biran si propone di ricavarle dalla coscienza o “senso intimo”. Anziché individuare il principio soggettivo nella res cogitans, Maine de Biran lo vede nella volontà e nello sforzo: questi sono la causa e la forza produttiva di effetti, atto primitivo con cui l’io si rivela a se stesso in contrasto al corpo che gli oppone resistenza. Come avrebbero detto anche gli spiritualisti successivi, il soggetto consiste dunque in un’attività pratica e non più, cartesianamente, nella conoscenza teoretica. Il sentimento dell’attività è posto a fondamento dell’idea di libertà, che coincide così con lo sforzo creativo del soggetto. Reciprocamente, il sentimento della passività coincide con la necessità, che non è dunque un sentimento primario ma subordinato al riconoscimento dell’attività. L’estensione e la materia sono dunque secondarie rispetto al principio dello sforzo, al quale si oppongono come resistenza (Influence de l’habitude sur la faculté di penser, 1803). La coscienza è insomma presentata come realtà primaria, oltre che come luogo del manifestarsi della rivelazione. Il primo a riferirsi a Maine de Biran è Victor Cousin, esponente di uno “spiritualismo eclettico”, che ne pubblica gli inediti e che, come lui, riconosce nello spiritualismo e nel metodo della coscienza l’unica via d’accesso alle verità immutabili del Vero, del Bello e del Bene.
Il riferimento di Maine de Biran e Cousin al “senso intimo” e alla coscienza assume per le generazioni successive una funzione di difesa della libertà umana dalla minaccia del determinismo positivista. Alla filosofia biraniana del “senso intimo” si riallaccia in particolare Félix Ravaisson, che contrappone l’analisi scientifica del reale operata dalla scienza alla sintesi che può essere svolta dalla “filosofia della coscienza”, la sola via capace di restituire l’essenza dinamica del movimento e la sua causa ultima, identificata con Dio. Ravaisson contrappone la filosofia “plebea” positivista o materialista, che spiega il superiore con l’inferiore, allo spiritualismo “aristocratico”, che riconduce tutto alla coscienza, intesa in senso non idealista né dualista, ma come spirito che anima la natura stessa: per lo spiritualismo il principio generatore è “la coscienza che lo spirito prende in sé stesso di una esistenza di cui riconosce che deriva e dipende ogni altra esistenza, e che non è altro che la sua azione” (Rapport sur la philosophie en France au XIX siècle, 1868). Ravaisson si riallaccia così alla tradizione schellinghiana della natura come spirito inconscio e automatico: natura e materia sono intese come manifestazioni apparenti dello spirito divino che si dispiegano nell’abitudine, ovvero in una sorta di dispersione o decadimento della libertà e della consapevolezza spirituale nella ripetizione e nella cieca riproduttività, che si fa a mano a mano istintiva e meccanica. L’abitudine fa così da tratto d’unione tra i due estremi dello spirito e della materia, della libertà e della necessità: sorgendo inizialmente come atto libero e consapevole, nella sua ripetizione forma i concetti analitici delle scienza meccanicistica, avvicinando lo spirito ai movimenti meccanici della materia. L’inerzia è così sottomessa all’attività, il mondo materiale al mondo morale. L’unità della natura e dello spirito è data infine dall’amore e dal desiderio di Dio, riconosciuto come causa finale della coscienza e della libertà umana. (L’abitudine, 1838, trad. it. 1860).
Il ricorso alla causa finale riecheggia nell’opera del neocriticista Jules Lachelier, che anziché riferirsi come Boutroux alla tradizione biraniana e pascaliana offre una rilettura della Critica della ragion pura e della Critica del giudizio di Kant distinguendo nella natura una realtà astratta fondata sulle leggi necessarie di causalità, e una realtà concreta basata invece sulle cause finali (Il fondamento dell’induzione, 1871, trad. it. 2008).
Allievo di Ravaisson e di Lachelier, Émile Boutroux affronta direttamente il concetto di legge naturale, chiave di volta del positivismo. Egli constata l’inadeguatezza delle leggi meccaniche a spiegare la totalità dei fenomeni naturali, compresi quelli biologici e psicologici, non solo perché si tratta di fenomeni più complessi (come riconoscevano gli stessi positivisti), ma in quanto tali fenomeni sono eterogenei tra loro: le leggi che spiegano i fenomeni sociali, psicologici o biologici sono dunque irriducibili alle leggi meccaniche che rendono conto dei fenomeni fisici, e il passaggio da un ordine all’altro della realtà è contingente e libero. Boutroux sostiene così la tesi del contingentismo, per cui le stesse leggi di natura non sono necessarie ma contingenti e non possono essere estese al mondo biologico né al mondo della coscienza umana. Come già per Ravaisson, anche per Boutroux la natura è espressione di una creatività spirituale, ma ci appare meramente meccanica e materiale poiché le sue creazioni hanno la tendenza a cadere nella ripetitività e nell’abitudine. La vita animale e la spiritualità umana sono però segno della capacità della natura di rinnovarsi e ricrearsi continuamente. La vita morale dell’uomo, in particolare, è l’ambito in cui più si esprime la risposta a leggi non necessarie ma di conformità a un fine, che anche Boutroux identifica con Dio, causa prima e libera di sé e di tutti i mondi. Senza negare la legittimità della scienza, il contingentismo di Boutroux ne relativizza così il valore rispetto a una causa finale superiore (La contingenza delle leggi della natura, 1874, trad. it. 1938). L’eredità dello spiritualismo sarà raccolta e profondamente rielaborata da Bergson, che la tramanderà al Novecento trasformandola in una filosofia della durata e della vita.