La prima guerra punica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Superando riserve giuridiche e morali, nonché timori legati a un’avventura nuova e rischiosa, i Romani inviano nel 264 a.C. Appio Claudio Caudex a occupare la città di Messina, contesa ai Cartaginesi. Scoppia così la prima guerra punica, che costringerà le due grandi potenze del Mediterraneo a un confronto durissimo (Roma perderà nel corso della guerra oltre 700 navi da guerra), al termine del quale i Cartaginesi saranno costretti ad abbandonare la Sicilia. L’isola, di lì a poco, costituirà la prima provincia romana.
Grazie alla rete di appoggi che le garantisce un parziale monopolio nel Mar di Ponente, Cartagine controlla, nel 264 a.C., vasti territori. Questi comprendono in Africa una fascia costiera tra il golfo di Sidra, in Libia, lo stretto di Gibilterra e le coste atlantiche del Marocco. Oltre alle basi in terra spagnola e ad alcune isole minori, al di là del mare sono di fatto sotto la sua influenza le isole maggiori: la Sardegna (con l’appoggio delle élite nuragiche) e la Sicilia.
La marina da guerra è il suo principale strumento bellico. L’ingegneria di Cartagine ha prodotto la quinquereme, o pentera, la più moderna tra le navi militari del tempo; e le sue flotte eccellono per qualità degli scafi e per abilità delle ciurme. Il potenziale demografico, al contrario, è fruibile solo in parte perché rispetto a Roma sono diversi i vincoli con le diverse comunità. Per le aristocrazie locali non sono previste forme di inserimento nei quadri del potere egemone simili a quelle che costituiscono invece la forza di Roma; e la fornitura di truppe non rientra nei trattati. Cartagine, attenta agli aspetti economici e tributari, sottovaluta il fattore militare e subordina di norma la politica all’economia, pronta a sospendere le guerre troppo onerose in termini economici o di vite. Gli eserciti sono composti per lo più di mercenari. Le città sorelle, di fondazione fenicia o punica, danno ufficiali ed equipaggi alle flotte. Fra le tribù dell’entroterra africano, Numidi e Mauri, seminomadi fieri della loro indipendenza e tiepidamente legati allo stato punico, si arruolano eccellenti cavalieri e milizie leggere. Solo gli indigeni della chora punica, i Libi, sono – pare – sottoposti alla leva; e solo in caso di attacco al territorio africano si reclutano i cittadini.
L’ultimo foedus tra Roma e Cartagine risale al 279 a.C., quando si stipula un’alleanza contro Pirro. Nulla fa presagire lo scontro, ma l’uscita del re d’Epiro dalla Sicilia apre a Cartagine la via degli stretti, su cui si affaccia Roma. Il casus belli viene da Messana (Messina): la città era stata anni prima (288 a.C.?) occupata dai Mamertini, mercenari osci. Alla partenza di Pirro costoro riprendono le razzie contro i territori limitrofi. Ma nel 275-274 a.C., divenuto stratego di Siracusa, Ierone, un giovane ufficiale, li sconfigge al fiume Longano; e li costringe a chiudersi entro le mura.
I Mamertini chiedono allora aiuto a Cartagine e a Roma. Secondo il bizantino Giovanni Zonara essi interpellano prima i Romani, mentre Polibio ricorda solo che si rivolgono separatamente alle due potenze. I primi a giungere dalla base nelle Lipari sono i Punici, che tengono Messina al momento dello sbarco romano. La repubblica infatti esita: la maggioranza del senato è contraria, per l’opposizione dei gruppi agrari e per i rapporti personali che uniscono gentes come i Fabii a esponenti dell’aristocrazia cartaginese. Esistono poi riserve morali: i Mamertini sono consanguinei – e rei di colpe simili – rispetto alle truppe campane che hanno poco prima occupato Reggio e che Roma ha punito. E vi è un trattato che, secondo lo storico Filino di Agrigento, preclude l’Italia ai Cartaginesi e vieta ai Romani l’ingresso in Sicilia. Negata da Polibio, la realtà di questa clausola è implicita in Livio; il quale, accusando i Punici di avere inviato nel 272 a.C. una flotta verso Taranto, li incolpa così di aver violato l’accordo per primi. Ma il gesto è difficile da provare.
Le riforme di Appio Claudio Cieco avevano concesso il voto alla plebe urbana, controllata dai capi della fazione mercantile, favorevoli all’impresa. Secondo Polibio sono i consoli – e in particolare Appio Claudio Caudex, membro di quella famiglia ed esponente di spicco della pars mercantile – che spingono il popolo a votare l’intervento. È dunque una riforma "democratica" a favorire l’azione?
L’incarico tocca proprio a Claudio, il quale, traghettata in Sicilia parte delle truppe, con l’aiuto degli stessi Mamertini, occupa Messina (264 a.C.). Appoggiati da Siracusa, i Cartaginesi lo stringono allora d’assedio. Appio Claudio riesce però a resistere; e l’anno dopo entrambe le armate consolari sbarcheranno nell’isola. Siracusa decide di trattare, ottenendo la pace al prezzo di un’indennità, di rinunce territoriali – metà dei suoi domini – e dell’alleanza con Roma. L’esercito punico, inviato a difendere Agrigento, viene sconfitto e la città, indifesa, cade (262 a.C.). A Cartagine restano le piazze occidentali dell’isola.
Occorre ora sfidare il nemico sul mare. A capo di una grande flotta il console Duilio affronta i Cartaginesi nelle acque di Mylae (Milazzo). Ottenuta grazie ai corvi, i ponti mobili che facilitano l’arrembaggio, la vittoria romana costa ai Punici oltre 40 vascelli. A partire dall’estate 256 a.C. i Romani paiono prevalere. All’altezza di Capo Ecnomo (Finziade /Licata) una nuova flotta, forte forse di 230 navi, agli ordini dei consoli Lucio Manlio Vulsone e Marco Attilio Regolo, affronta un’armata cartaginese di 250 vascelli guidata da Amilcare e Annone. Nella battaglia, tra le maggiori dell’antichità, 24 galere romane colano a picco contro, però, 30 affondate e 64 prese al nemico.
La vittoria permette ai Romani di passare in Africa. Rimasti oltremare alla fine dell’estate, Regolo e le sue forze (15 mila fanti e 500 cavalieri) sconfiggono più volte i Punici, e le legioni si accampano presso Tunisi. Ma l’impresa fallisce per la presunzione del proconsole, che pone condizioni inaccettabili al nemico, pur disposto a trattare. Raccolto un esercito superiore a quello romano in cavalleria ed elefanti, Cartagine ne affida l’organizzazione a Santippo, un mercenario spartano. Regolo non sa né allearsi ai berberi in rivolta, né attendere la buona stagione e l’arrivo dei rinforzi; e accetta battaglia in pianura (valle del Bagradas-Medjerda?). La manovra avvolgente adottata dai Punici distrugge l’armata romana. Duemila legionari si salvano, ripiegando su Clupea; 500, con lo stesso console, vengono fatti prigionieri, gli altri cadono sul campo.
Inviata in Africa sotto i nuovi consoli, la flotta romana vince quella punica presso il Capo Ermeo e imbarca i superstiti, facendo vela per la Sicilia, ma presso Camarina viene sorpresa da una tempesta: e di 364 vascelli se ne salvano un’ottantina soltanto. Svanita così la supremazia navale, i Romani rinunciano a invadere l’Africa. In Sicilia prendono alcune città, tra cui Panormos (Palermo), ma non hanno fortuna sul mare. Nel 253 a.C., di ritorno dalla costa nemica, un’altra flotta, colta da una tempesta al largo di Capo Palinuro, perde 150 vascelli.
Malgrado l’occupazione romana di Terme e delle Lipari (252 a.C.), la guerra è in stallo. Nel 250 a.C. i Punici puntano su Panormos, ma vengono sconfitti da Cecilio Metello. L’anno dopo i Romani attaccano le ultime fortezze nemiche nella Sicilia di Ponente, soprattutto Lilybaeum (Lilibeo), ma alcune navi veloci eludono il blocco, rianimando la resistenza. La squadra navale del console Publio Claudio Pulcro viene battuta presso Drepana (Trapani) e poco dopo, sulla costa sud della Sicilia, un’altra squadra, al comando del collega Lucio Giunio Pullo, viene – ancora – distrutta da un fortunale. Con le risorse al minimo – il censimento del 247 a.C. registrerà oltre 50 mila cittadini in meno – Roma decide di trattare, concordando uno scambio di prigionieri: ciò stabilisce, di fatto, un preliminare di pace.
Nel 247 a.C. appare il primo grande generale punico: Amilcare Barca, "la folgore". Da Erice e dal pianoro dell’Eircte (Monte Pellegrino) contende con un pugno d’uomini la Sicilia ai Romani. Per sei anni Roma ne sopporterà gli attacchi prima di decidersi a tagliare il legame che lo unisce alla madrepatria. Gli abbienti concedono allo stato un finanziamento, da rimborsare in caso di vittoria; e la repubblica allestisce una flotta di circa 200 vascelli. Agli ordini del console Caio Lutazio Catulo l’armata blocca le ultime piazze in mano ai Punici e l’assedio viene mantenuto durante l’inverno. Cartagine invia allora in soccorso una flotta di forza pari, affidandola ad Annone. Mentre scorta il naviglio mercantile che reca agli assediati armi e vettovaglie, questa viene però sorpresa nelle acque delle Egadi e pienamente battuta: 50 navi vengono affondate, 70 catturate (241 a.C.).
Cartagine accetta ora la pace, fissata da una commissione senatoria. Amilcare rifiuta di consegnare i disertori e ottiene che i Romani recedano (caso rarissimo) da una clausola di solito irrinunciabile. Ottiene altresì che le sue truppe, invitte, lascino le basi tenendo le armi. Cartagine deve però abbandonare la Sicilia e le isole vicine; deve poi rinunciare a far leve in Italia e nell’isola e a toccarne le coste con navi da guerra, restituire i prigionieri senza riscatto e pagare in dieci anni 3200 talenti d’argento.
Nello scontro ai Romani ha nuociuto l’imperizia sul mare, ma più ancora ha nuociuto ai Punici la concezione utilitaristica della guerra. Se gli uni, quasi sempre vittoriosi, hanno perduto – secondo Polibio – 700 vascelli contro i circa 500 affondati al nemico, la mentalità mercantile non ha permesso agli altri di evitare la sconfitta. Questo rimprovera ai suoi Amilcare quando si duole che, disperando della vittoria, si sia rinunciato troppo presto alla Sicilia.
Messana, Tauromenion (Taormina) e Siracusa ottengono dei trattati. Ierone controlla il territorio fino all’altezza di Enna, dove comincia il dominio di Roma. Libere ed esenti da imposte sono cinque città: i centri elimi di Alyciae e Segesta, più Panormos, Halaesa e Centuripe. Con l’eccezione del Mamertini, Sicelioti e indigeni sono esenti dall’obbligo di dar truppe. Nella sua parte dell’isola Roma mantiene il precedente sistema tributario (lex Hieronica), che prevedeva il pagamento della decima agraria.
Nasce ora la provincia di Sicilia. L’area oltremare, redacta in formam provinciae, viene gestita direttamente e affidata prima a uno dei quaestores classici, poi, dal 227 a.C., a un pretore di nuova istituzione. Questi sarà coadiuvato da due questori preposti all’amministrazione e accompagnato da una cohors praetoria e da una cohors amicorum, il complesso del personale tecnico al seguito e il gruppo di individui, clienti o amici personali, che lo seguono come consiglieri.
Di contenuto dapprima giuridico – definisce, di fondo, la sfera delle competenze di un magistrato cum imperio operante al di fuori dalla cinta sacra di Roma – il termine provincia assume ora un’accezione territoriale precisa. Costretti dalla distanza a creare magistrati specifici, i Romani finiscono per considerare la Sicilia e la Sardinia et Corsica come le provinciae, l’ambito di competenza, dei nuovi pretori; sicché il significato giuridico e quello territoriale finiscono per sovrapporsi.
Il potere del governatore si basa sull’imperium. È cioè identico a quello posseduto dai magistrati di pari livello, ma la presenza di truppe al suo fianco è costante ed effettiva: la rende necessaria lo stato spesso precario delle conquiste e la vicinanza di popolazioni indipendenti che non si possono controllare con la fondazione di colonie fuori d’Italia – il processo comincerà molto tardi –; nonché la lontananza e la posizione dei territori oltre il mare, chiuso gran parte dell’anno. È spesso impossibile far rientrare insieme al pretore i coscritti, che finiscono per dover restare lontani a lungo. Proprio questa è la prima differenza che oppone Roma (e l’Italia) a quelle che si definiranno poi province tout court; una differenza che fa delle guarnigioni il nucleo iniziale dell’esercito permanente.