Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Machiavelli nel De principatibus stigmatizza la trattatistica quattrocentesca sul principato, rilevandone l’impostazione moralistica incentrata sul profilo etico del sovrano “ideale” ed enfatizzando il radicale rovesciamento da lui operato al fine di impostare una nuova “arte dello Stato” sulla base delle reali leggi che regolano il potere. Tale giudizio non rende tuttavia giustizia a un secolo di esperienze culturali e politiche variegate come fu il Quattrocento italiano, caratterizzato dell’ascesa e dall’espansione delle signorie e della politica dell’equilibrio.
Il principato
La genesi del pensiero politico moderno si fa in genere risalire al contesto italiano, politico e culturale, del primo Rinascimento, e segnatamente all’opera di Niccolò Machiavelli. Intrecciando “cognizione delle storie” ed esperienza diretta, egli operò un radicale rovesciamento nell’approccio teoretico alla materia politica: la dimensione dell’agire politico, e dunque la storia tutta, sono visti come un autonomo campo di forze conflittuali, l’orizzonte della “verità fattuale”, in cui la religione è subordinata e funzionale alla sovranità, e l’ordine politico, interpretato come conflitto, si scinde dall’ordine etico. Egli liquidava così, in una famosa pagina del De principatibus, la complessa letteratura politica umanistica, che tuttavia costituì l’humus culturale da cui il suo pensiero aveva tratto non pochi nutrimenti.
Nel Quattrocento i fragili Stati italiani si risvegliano dal sogno della “politica dell’equilibrio”, che si rivela una battuta d’arresto per la penisola italiana nel quadro del processo storico che, nel Nord Europa, avanza verso la formazione degli Stati nazionali. Questa evoluzione viene favorita da un progressivo decadere degli opposti universalismi: il papato e l’impero.
I nuovi corpi sociali che, tra sviluppi economici e demografici, lentamente erodono istituti e simboli universalistici, in Italia assumono una forma distante dall’autocrazia: la repubblica cittadina. Una legittimazione giurisdizionale in tale direzione giunge dall’opera di glossatori e giuristi due-trecenteschi, come Azzone e Bartolo di Sassoferrato, per i quali, laddove esiste una universitas , una collettività de facto, ogni trasferimento di poteri da parte del populus , analogo a quello della lex regia a favore dell’impero, può essere revocato. Oltre al piano giuridico, la costruzione delle nuove sovranità trova un terreno concettuale autonomo grazie alla riscoperta e alla diffusione dell’Aristotele politico, il cui linguaggio condiviso contribuisce a fondare una nuova “arte politica”, in grado di definire le caratteristiche del regimen politicum, come complesso di istituti e leggi, oltre che i requisiti di principi e reggenti, atti a garantire l’unità e la pace del consorzio civile, per lo più identificato con la dimensione della civitas.
L’umanesimo
Se è vero che l’umanesimo è il frutto del sistema italiano delle città-Stato, esso fin dalle sue origini si presta a legittimare e sostenere lo status quo dei molteplici regimi vigenti, tra repubbliche, principati e regni, ivi compreso il cesaropapismo rinascente dopo la “cattività” avignonese e il Grande Scisma.
Frutto del rinnovamento della cultura giuridica universitaria scaturito dall’apertura alla teoria e alla realtà di governo dei sistemi elettivi e delle magistrature municipali, il nuovo statuto della retorica e degli studia humanitatis determina un radicale mutamento nelle forme e nei contenuti della letteratura politica e un diverso ruolo del letterato. Un sostegno degli umanisti alle nascenti signorie si manifesta soprattutto nel contesto padovano, tra Ferretto de’ Ferretti, con il suo panegirico in versi De Scaligorum origine per Cangrande della Scala e il trattato in forma epistolare sul governo dei principi di Petrarca, rivolto a Francesco da Carrara nel 1373. Petrarca, insistendo sugli ideali romani della gloria mondana e della fama, sostiene che la “gloria deriva naturalmente dall’amore per la virtù”, e per delineare questa virtus principesca ricorre a tre fonti principali: il De officiis ciceroniano, la Politica di Aristotele e il diritto romano.
Firenze, per i primi tre decenni del Quattrocento, cioè prima di cedere all’egemonia larvata di un unico signore, riesce a preservare il sistema repubblicano che porta al fiorire del cosiddetto umanesimo civile. Coluccio Salutati, cancelliere dal 1375 al 1406, esalta la Florentina libertas in opposizione alla nemica tirannide milanese dei Visconti, e forgia l’ideale umanistico dell’uomo politico, servitore della patria, amante della libertà e obbediente alle leggi, “che regolano tutti con la giustissima misura dell’uguaglianza” (Invectiva).
L’ambiguità sulle forme di governo, l’ideale universalistico e nostalgico dell’Impero romano, l’incertezza sulla preminenza della vita attiva sulla vita contemplativa: elementi questi che “limitano” la connotazione civile dell’umanesimo di Salutati e che vengono meno in Leonardo Bruni. Con Bruni l’esaltazione della vita attiva e dell’impegno civile trova il suo apice, e nel contempo la linea repubblicana assume una nettezza senza precedenti. Con l’uso delle traduzioni, del dialogo, e della storiografia, il programma di Bruni mira a “laicizzare” la morale e la politica operando una saldatura tra cultura e vita civile, ma si arena dinanzi al processo storico di aggregazione territoriale e accentramento autocratico del potere imposto a Firenze dalla signoria dei Medici.
La rottura tra intellettuale e potere
Le Disputationes Camaldulenses (1472) di Cristoforo Landino, dedicate al duca Federico da Montefeltro, ricorrono al dialogo ciceroniano per mettere in scena direttamente il rapporto tra intellettuali e potere a Firenze.
Landino, Leon Battista Alberti, Alamanno Rinuccini, Marsilio Ficino, in soggiorno estivo presso il monastero di Camaldoli insieme a Lorenzo e Giuliano de’Medici, si diffondono in conversari filosofici e politici incentrati sul rapporto tra vita attiva e vita contemplativa. Con i toni e i temi che saranno poi tipici nella conversazione cortigiana, viene risolta l’opposizione tra i due modelli di vita: adottando il punto di vista neoplatonico di Ficino (1433-1499), si decreta la supremazia della vita contemplativa mediante una conciliazione tra letteratura umanistica e teleologia cristiana. Si consentiva così al letterato, nella mutata scena politica fiorentina, di riacquisire prestigio vestendo i panni sapienziali ma politicamente depotenziati di dotto consigliere, o segretario di corte, paradigma poi consolidatosi dai primi del Cinquecento.
Le Disputationes landiniane inscenano in realtà un tentativo di riconciliazione tra intellettuali e potere principesco con l’intento di ricomporre i contrasti che avevano coinvolto o avrebbero coinvolto alcuni degli stessi interlocutori del dialogo, in primis Leon Battista Alberti e il suo amico e conterraneo Poggio Bracciolini. Questi ultimi, infatti, assumono, in relazione all’affermarsi dei poteri autarchici, una posizione fortemente critica, che però scaturiva da una generale visione del mondo e della società molto diversa da quella dell’umanesimo civile, e in parte anche dall’umanesimo tradizionalmente inteso. Entrambi entrano a far parte della burocrazia di curia nella Roma pontificia nel momento in cui il papato si avvia a restaurare la sua autorità spirituale a partire dall’affermazione graduale di un solido Stato territoriale. A una simile sovranità doveva far seguito, quale ulteriore conferma, la rinascita culturale della latinità romana nella veste simbolica di Roma stessa communis patria agostiniana: i neoplatonici Cencio de’ Rustici e Giannozzo Manetti, contribuiscono a rifunzionalizzare questo modello conciliando l’umanesimo con la visione teocratica, e rappresentando il nuovo principe romano come celestis homo et terrenus deus, principe di Roma, nuova Gerusalemme.
Per Alberti e Poggio, la curia romana diventa un rifugio obbligato dinanzi allo sfaldamento del rapporto dell’intellettuale con le istituzioni fiorentine e di ogni illusione repubblicana, ma senza alcuna identificazione con l’autorità e il primato papale. Nel quadro di un condiviso pessimismo, l’opzione del ripiegamento nella dimensione privata e nella quiete degli studi diventa una diretta conseguenza del venir meno di ogni protagonismo politico del letterato e della constatazione della negatività del potere, che entrambi sferzano grazie all’uso della satira. Scartando ogni visione provvidenzialistica della storia, essi descrivono il potere come un campo di forze irrazionali in cui dominano la violenza e l’inganno, soprattutto, il potere principesco una degenerazione predisposta al contagio del peggiore dei mali politici, la tirannide. In tal senso il De infelicitate principum (1440) e il De varietate fortunae (1448) formano le due parti di un ideale dittico dedicato alla rappresentazione del potere e della storia. In essi Bracciolini insiste su due concetti fondamentali: le virtù non abitano i palazzi dei principi, nei quali imperversa, sotto le mentite spoglie di uno splendore quasi divino, l’iniquità, l’ipocrisia, l’infelicità; le glorie mondane del potere sono puri inganni della storia, che non risponde ai criteri della ratio ma è interamente soggetta alla volubilità della fortuna e agli impeti della guerra. Virtù e ragione, secondo l’ascesi laica del Bracciolini, sono amministrati dai letterati, “sacerdoti delle virtù e amici della pace”, nell’immortale tempio privato della cultura. Più tagliente e complesso è il pessimismo di Alberti. Tre sono le opere che possono considerarsi più significative sul piano della rappresentazione del principato: il Theogenius (1440 ca.), il Momus seu de Principe (1450 ca.) e il De iciarchia (1465 ca.).
Jacopo Bracciolini
Su Cesare ed Augusto
Commento al Trionfo della Fama
Facto consolo in quarantatré anni, ch’era il termine legiptimo, [Cesare] solo governò quel consolato e come tiranno. Marco Bibolo suo collega, che facea resistentia alla iniquità sua, per timore lo costrinse tutto il suo tempo a stare rinchiuso in casa; e Marco Catone Uticense, huomo sanctissimo, ripugnante alle sue tiranniche voglie, fece mectere in prigione […]. Prese la dictatura perpetua per potere a suo modo, senza timore di leggi, governare quella misera e infelice repubblica, ridotta da lui in estrema servitù, sublevando e facendosi familiari infiniti sediciosi e captivi cittadini, ministri delle sue voluptà. Della libidine e luxuria sua smisurata assai cose se ne leggie; della rapacità sua ne sono testimonio locupletissimo molte città e terre che dècte in preda a’ militi suoi, non per colpa che meritassimo tal suplicio, ma per rubarle. Sono molti che lodono Cesare di liberalità somma: ma che liberalità è torre per forza la roba a chi non debbi, e rubargliela per darla ad altri? Ma in quello che più lo commendono è che fu di somma clementia; il quale giudizio è molto perverso, imperò che perdonare e concedere la vita a coloro che, difendendo la libertà della patria, si sono sforzati di fuggire la tyrannide, non mi pare di giudicare virtù o clementia alcuna: perché a’ rubatori di strade o assassini solo basta, a chi truovono alla strada, tôrre la roba e spogliarli e perdonare la vita […].
Augusto fu il secondo tyranno de’ Romani, che successe a Cesare dictatore […]. Fu severissimo nella disciplina militare, crudelissimo e inexorabile, non havendo in sé misericordia; il che dimostrò grandemente nella divisione del’imperio contro a’ ciptadini sua […]. Nella gioventù sua, Augusto hebbe gravissima infamia di più vitii; onde Marco Antonio diceva havere acquistato l’adoptione dello imperio per essere stato Cesare innamorato di lui.
D. Canfora, Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Roma-Bari, Laterza, 2005
L’affermarsi della “soluzione principesca”
A partire dagli anni Sessanta fiorisce un genere di manualistica ispirata alla tradizione dello speculum principis. Tale genere nasce nel XII secolo con Goffredo da Viterbo, ma di fatto esiste fin dall’Antichità presentandosi di volta in volta sotto diverse forme letterarie. In questi scritti si forma un canone di virtù – filantropia, pietà, moderazione, giustizia, amore per la verità –, che si affianca a quello platonico classico delle quattro virtù fondamentali: saggezza, coraggio, moderazione e giustizia. La trattatistica del secondo Quattrocento, intrecciando la tradizione medievale, soprattutto Giovanni di Salisbury ed Egidio Romano, al recupero delle fonti classiche, mira a consolidare la posizione dell’umanista nelle corti italiane come consigliere del principe. Giovanni Pontano (1429-1503) dedica il suo De principe al duca Alfonso di Calabria, erede al trono del Regno di Napoli, nel 1468, mentre un trattato omonimo è dedicato da Bartolomeo Platina a Federico Gonzaga, erede del ducato di Mantova, nel 1471; Francesco Patrizi, sempre negli anni Settanta, dedica il suo De regno et regis istitutione ad Alfonso d’Aragona (1448-1495). Altri umanisti del Regno di Napoli, oltre al Pontano, danno il loro contributo, tra cui Giuniano Maio con il De maiestate e Diomede Carafa con il De regis et boni principis officio. Che il trattato del mantovano Platina (Bartolomeo Sacchi) prenda a modello, come principale bersaglio polemico, il De infelicitate principum di Poggio Bracciolini non sorprende per la lunga permanenza che egli ebbe nella curia, ma anche per aver scritto il significativo Liber de vita Cristi ac omnium pontificum, dedicato a Sisto IV. Nel suo De principe abbraccia tutti gli ambiti dell’agire politico, compresa l’arte militare, e mira all’affermazione, in termini realistici, della necessità del principato e del ruolo della religione nello Stato. Ma il polo principale della soluzione cortigiana al problema del potere principesco è il regno aragonese. A dimostrare la valenza laicizzante di certo cesarismo umanistico, è nientemeno che Lorenzo Valla, il quale apre per primo la strada all’uso politico e religioso della filologia con il De falso credita et ementita Costantini donatione (1440), che demolisce la pretese papali di dominio temporale e plenitudo potestatis.
Francesco Patrizi
Introduzione
De regno et regis istitutione
Potrà forse apparire strano e inusuale a molti il fatto che io, dopo aver composto un trattato in nove libri sulla repubblica, ora mi accinga a scrivere sul regno. Tale sorpresa deriverà probabilmente dalla convinzione che non dovrebbe la stessa persona, che abbia elogiato, esaltato e approvato il regime repubblicano, mostrare ammirazione e favore anche per la monarchia. Né mancheranno, immagino, coloro che si prenderanno la briga di dire che si tratta di temi contrastanti, sicché, se un medesimo scrittore esprime precetti prima su uno e poi sull’altro, rischi di cadere in contraddizione: e tireranno fuori l’esempio di Platone e Senofonte, i quali, pur discepoli della stessa scuola e dello stesso maestro, tuttavia furono rivali e in disaccordo reciproco, e formularono l’uno la teoria repubblicana, l’altro l’elogio della monarchia di Ciro. A costoro dovrei in primo luogo rispondere che i giudizi degli uomini sono liberi e che ciascuno di noi può lodare chi vuole senza che ciò comporti vituperare un altro e può anche, se crede, approvare due soggetti diversi […]. Ma quella contraddittorietà è anche accresciuta dalla diversità nelle consuetudini dei popoli. È infatti raro che un popolo abituato da tempo a vivere sotto i re riesca ad apprezzare in breve l’eguaglianza civica a cui è stato disavvezzo per generazioni. Al contrario, quei cittadini che hanno per costume consolidato l’uso di obbedire a magistrati elettivi non possono serenamente accettare di accondiscendere al volere di un unico principe. E così accade che ogni popolo, felice del proprio sistema di governo, disprezza gli altri, per non dire che li detesta. I Cappadoci, quando la dinastia regnante presso di loro si estinse, rifiutarono la libertà offerta dai Romani e preferirono un re straniero, Ariobarzane, con l’argomento che non sarebbero stati in grado di vivere se non guidati da un re. Gli Ateniesi, all’opposto, dopo aver cacciato i re, diedero vita ad uno stato popolare e, per quanto nel tempo la fortuna si mostrasse mutevole, sicché sul loro capo si alternarono re e tiranni, tuttavia essi tornarono sempre, non appena poterono, alla repubblica a cui erano abituati.
D. Canfora, Prima di Machiavelli. Politica e cultura in età umanistica, Roma-Bari, Laterza, 2005
L’opera che arriva a conferire una piena dimensione cortigiana al rapporto tra umanisti e principato è il De principe di Giovanni Pontano, nel quale il livello della riconciliazione umanistica al potere principesco è spinto verso una precettistica comportamentale che anticipa la letteratura di corte cinquecentesca dei Castiglione (1478-1529) e dei Guazzo (1530-1593). L’impianto formale della sua opera è ispirato a Egidio Romano, con la bipartizione tematica tra istituzione e personalità del principe, ma il fulcro teorico è tutto racchiuso nell’elencazione delle virtù del sovrano ideale, le cui finalità sono la pace e il contenimento del popolo: la sua autorità si fonda bensì sugli apparati esteriori, ma in misura maggiore sulla virtus, che si declina principalmente in virtù umane, come la liberalità e la clemenza, ma assume la petrarchesca fides il perno che ancora la virtù alla giustizia.
A rendere più sfaccettato il modello aragonese di trattatistica del principe, e meno fondato il giudizio machiavelliano, contribuiscono sensibilmente i trattati di Maio e Carafa. Il primo, che insiste molto sulla funzione degli apparati esteriori e della magnificenza, ha una finalità adulatoria che s’incentra sull’identificazione di Ferrante di Napoli con il sovrano ideale, ma nel metodo adottato assume un carattere innovativo: dalla virtù in astratto, Maio passa a descriverne la sua esplicazione storica con exempla tratti dagli antichi, quindi conclude sulla dimensione storica contemporanea citando episodi collegati alla vita di Ferrante. Per contro Carafa confeziona un memorandum privato e non destinato alla pubblicazione, in cui trasmette con disincantata asciuttezza le sue lezioni pratiche sul potere e sulla politica, che egli realisticamente legge nei termini di “interesse”, poiché ogni governante commoda sua sequi.
Con Francesco Patrizi ritorna parzialmente l’ambiguità tra repubblica e principato, dal punto di vista più “tecnico” dei sistemi di governo. Nel De repubblica e nel De regno, il principato teoricamente è migliore, per la sua semplificazione in termini di governo e per l’aura di sacralità, ma in pratica è vincolato alla virtù di una singola persona, e quindi più fragile, mentre la repubblica garantisce maggior stabilità ed equità. Egli insiste poi sulla legittimità di studiare il buono di entrambe le forme guardando, oltre alla persona, anche alle necessità e alle circostanze del potere (le condizioni oggettive: abitudini del popolo, scarso progresso), avendo ben presente il tema delle “varazioni de’ governi”, che sarà caro a Machiavelli.