Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La poliedrica opera di Lorenzo Valla esprime il tentativo di riportare la filosofia a una maggiore aderenza alla realtà nel rispetto della verità dei testi classici e delle naturali inclinazioni dell’uomo. Da qui l’interesse per la filosofia pratica declinata nei termini di un antistoicismo edonista e l’esaltazione della retorica come metodo, applicabile a tutte le discipline, in grado di rinnovare il rapporto tra verba e res, ormai ridotto dalle sottigliezze della logica scolastica a un linguaggio puramente formale e astratto.
Tra Medioevo e umanesimo
Nell’analizzare il passaggio tra Medioevo e umanesimo, buona parte della storiografia ha generalmente insistito sull’idea di chiusura di un’epoca e di apertura di un’altra, spesso mettendone in risalto due diverse fondazioni epistemologiche.
In tale orizzonte di studi, la figura di Lorenzo Vallaè stata comunemente assimilata a quella di uno dei più illustri e raffinati umanisti italiani del XV secolo, sostenitore di una nuova corrente di pensiero in aperta opposizione alla scolastica medievale. In realtà, pur optando per una prospettiva filologica che indubbiamente inciderà nella tradizione rinascimentale successiva e pur polemizzando con il metodo scolastico, ormai tutt’uno con un panorama intellettuale sempre più asfittico e intellettualmente intorpidito, Lorenzo Valla non può dirsi certo indipendente dall’orizzonte culturale del Medioevo. Tanto più che la filosofia medievale non rappresenta una rielaborazione unitaria e costante di temi ricorrenti, ma è costituita dall’intrecciarsi di tradizioni e posizioni teoriche piuttosto diverse tra loro. Valla rifiuta dunque lo scollamento dalla realtà prodotto dalle dispute accademiche ancora legate ad aristotelismo e averroismo, ma nemmeno partecipa di quell’orientamento che confluirà poi nel platonismo fiorentino e che sarà caratterizzato da un’ermeneutica sacrale dei testi e dalla creazione di una filosofia dai risvolti magico-esoterici. Quello di Valla è piuttosto un contributo critico, tipico del retore, che si oppone all’incompetenza di chi travisa il senso originario dei testi e che richiama l’uomo alla dimensione della vita pratica, che la retorica ha il compito di sviluppare mediante il criterio della elegantia linguistica. La filologia di Valla diviene così contemporaneamente storiografia, dal momento che consente un’effettiva comprensione del passato, e filosofia, perché introduce una corretta comprensione delle parole e delle categorie con cui si esprime il pensiero umano. Solo in questo modo, infatti, è possibile cogliere la realtà delle cose e la natura dell’uomo nella sua completezza.
Vita e opere
Nato a Roma nel 1405 da genitori piacentini, Lorenzo Valla intraprende sin da giovanissimo lo studio dei classici latini e greci dapprima a Roma, poi a Firenze come allievo di Giovanni Aurispa e di Ranuccio da Castiglion Fiorentino. Nel 1430 si trasferisce a Pavia, dove insegna eloquenza e scrive il famoso dialogo De voluptate (1431), testo sulla rivalutazione del piacere epicureo che conoscerà diverse stesure e continue variazioni di titoli – De vero falsoque bono (1433), De vero bono (1444), Panegiricon de vero bono (1483) – suscitando non poche polemiche e accese diatribe.
Proprio in seguito a una disputa piuttosto aspra in merito all’opera del giureconsulto Bartolo da Sassoferrato, nel 1433 Valla è costretto a lasciare la città e a spostarsi in diversi centri italiani tra cui Milano, Genova e Firenze fino all’approdo a Napoli nel 1435, dove ricopre l’incarico di segretario di Alfonso V di Aragona. Il famoso opuscolo De falso credita et emenditia Constantini donatione (1440), volto a dimostrare filologicamente la falsità del documento su cui si era basata per secoli la rivendicazione del potere temporale da parte dei papi, offre del resto uno strumento politico e culturale proprio agli orientamenti anticuriali della corte aragonense, la quale interviene in difesa di Valla, accusato e processato dall’Inquisizione nel 1444. Oltre alla stesura del De libero arbitrio e delle Disputationes dialecticae (1439), al periodo napoletano risalgono anche la redazione dell’importante trattato Elegantiarum latinae linguae libri sex (1435-1444), con il quale Valla fornisce gli strumenti per il completo ripristino del latino classico liberato dalle impurità sedimentatesi nei secoli, e l’applicazione della filologia ai testi sacri, come mostrano le Annotazioni sul Nuovo Testamento (1449), opera che sarà molto apprezzata da Erasmo da Rotterdam e che verrà messa all’indice dal concilio tridentino durante la Controriforma.
Nel 1448, grazie all’elezione a pontefice di Niccolò V, iniziatore del mecenatismo papale che accoglie, tra gli altri, Leon Battista Alberti, Piero della Francesca, Poggio Bracciolini, Valla ritorna a Roma (dove morirà nel 1457) in qualità di insegnante di retorica e segretario apostolico. In questi anni si dedica anche alla traduzione delle opere di Omero, Esopo, Erodoto e Tucidide.
L’importanza della retorica
Diversamente da quanto talvolta è stato affermato, l’opera di Lorenzo Valla non rappresenta una critica alla filosofia in nome della retorica e dell’eleganza linguistica. L’applicazione della filologia e l’importanza attribuita alla parola anche in materia filosofica mirano piuttosto a offrire un diverso punto di vista in risposta ai dibattiti accademici interni alle università, che avevano ridotto la filosofia a mero esercizio di una logica formale e rigorosa del tutto incapace di aderire alla realtà. Priva di una conoscenza adeguata delle lingue classiche, la scolastica medievale aveva inoltre dato luogo a una serie di fraintendimenti ed equivoci creando un linguaggio artificiale che non era più in grado di rapportarsi al vero.
In questo senso, la riflessione valliana propone una sostanziale revisione del linguaggio attraverso l’analisi grammaticale dei fondamenti concettuali dei termini logici aristotelici: partendo dall’assunto che, se oggetto della conoscenza umana sono le “cose”, allora i termini della metafisica classica risultano del tutto privi di significato e mancano di universalità, Valla giunge a sostenere che i concetti primi di ens , aliquid , unum , verum , bonum non sono altro che particolarità espressive di un’unica parola realmente concreta: res. I termini astratti rinviano solo ad aggettivi e questi, a loro volta, sono destinati esclusivamente a qualificare la cosa e non a esprimerne la sostanza: i predicati vengono ridotti a tre (sostanza, azione, qualità) e i trascendentali a uno, perché solo res non indica una determinazione particolare dell’ente.
Il linguaggio diviene autentico criterio di verità e la retorica, attraverso la lezione di Quintiliano (35 ca. - 96 ca.), diviene una disciplina nuova, lo strumento privilegiato di tutte le scienze, dalla filosofia, alla storiografia, alla teologia. Non più confinata alla sfera di ciò che è semplicemente persuasivo, la retorica assorbe in sé non solo l’insieme dei discorsi concernenti probabilità e credibilità, ma anche le argomentazioni apodittiche necessarie proprie della dialettica. In tale prospettiva, la filologia, intesa come scienza storica in grado di accertare la validità epistemica del linguaggio (anch’esso considerato nella sua storicità), fonda un nuovo modello di conoscenza basato sulla riconquista della dimensione terrena. Il De falso credita et emenditia Constantini donatione è un chiarissimo esempio di una corretta lettura dei classici e dell’applicazione della filologia così delineata.
La polemica antistoica
La rivalutazione della retorica esprime certamente una critica all’impianto fallace della filosofia dominante nelle scholae. Quella di Valla, tuttavia, non è solo una denuncia dell’astrattezza di un metodo filosofico troppo lontano dalla realtà: la sua critica si estende anche al culto quasi esclusivo della logica aristotelica.
Spostando l’attenzione alla filosofia pratica, Valla ripropone il tema classico della felicità affrontando la questione dal punto vista epicureo. Tale ripresa viene a configurarsi come una soluzione piuttosto originale, da una parte perché segna la rivalutazione di una corrente di pensiero diversa dall’aristotelismo, dall’altra perché sostiene il diretto antagonista del rigorismo stoico e monastico. Del resto, ciò che a Valla preme difendere è un’immagine completa dell’uomo considerato nella sua concretezza e valutato senza pregiudizi nelle sue naturali inclinazioni. Risulta pertanto evidente come un’etica che rintraccia i propri fondamenti nell’apatheia del saggio e che vede nel perseguimento della virtù un’attività fine a se stessa non possa che diventare un facile bersaglio polemico a cui contrapporre una filosofia pratica più aderente alla realtà e rispettosa della natura umana.
Tale etica viene rintracciata da Valla nell’identificazione epicurea tra virtù e piacere e il dialogo De voluptate ne rappresenta il più chiaro manifesto teorico. Strutturato in tre libri, esso propone (nella sua prima stesura) un dibattito tra Leonardo Bruni (1370 ca. - 1444), sostenitore dell’etica stoica che considera le passioni errori che la ragione può emendare, il Panormita (1394-1471), che esalta il piacere come causa e fine ultimo delle azioni umane, e Niccolò Niccoli (1364-1437), rappresentante della cristianità chiamato a prendere posizione tra stoicismo ed epicureismo. Proprio nell’intervento di quest’ultimo risiede l’originalità del dialogo valliano, che sta non tanto nel confrontare le due famose etiche ellenistiche, quanto piuttosto nella considerazione del cristianesimo come una forma di edonismo: tra l’aspirazione dell’epicureo e la fede del cristiano esiste una fondamentale continuità basata sul perseguimento del piacere. Uno tutto terreno e mondano, l’altro di natura celeste e ultraterrena. Nel corso del dialogo, infatti, Niccoli respinge come vuota e ingannevole la moralità stoica, riconoscendo al piacere il telos ultimo della morale cristiana, fondata sulla promessa della beatitudine celeste (i piaceri ultraterreni diventano la più alta manifestazione della voluptas). Contro ogni pratica ascetica che mutila l’uomo della sua parte corporea, la felicità viene dunque intesa come la piena realizzazione nell’uomo di tutte le potenzialità che l’esistenza offre.
In questo senso, la rivalutazione operata da Valla della natura dell’uomo in ogni sua forma e dimensione potrebbe in realtà apparire più vicina all’etica eudaimonistica di Aristotele che a quella, erroneamente definita edonista, di Epicuro – il quale, com’è noto, identificava il piacere con l’assenza di dolore e per il suo conseguimento indicava una via fatta di molte rinunce tutt’altro che semplice. Ciò che in ogni caso preme al filologo, e che rappresenta una posizione interessante e innovativa all’interno del panorama quattrocentesco, è fondare un’etica il più possibile conforme alla natura e alle inclinazioni umane. Per questo e in tale orizzonte teorico avviene la rivalutazione dell’hedoné, perché anche i più alti valori dello spirito rispondono allo stimolo naturale dell’utile e del piacevole: ““nulla di più conserva la vita quanto il piacere; senza il gusto, la vista, l’udito, il tatto, l’odorato, non possiamo vivere, ma senza l’onestà sì. Così se qualcuno osa violare in sé quello che la natura prescrive, lo farà contro la propria utilità; perché ciascuno deve operare per il proprio vantaggio”” (De voluptate, I, 36).
Il libero arbitrio e la critica a Boezio
Nello smascheramento delle posizioni dello stoico che crede di perseguire la virtù fine a se stessa senza ammettere il naturale conseguimento di un utile e di un vantaggio personale, Valla ha come evidente bersaglio polemico il De consolatione philosophiae di Severino Boezio, di cui il De Voluptate esprime una critica esplicita ai primi quattro libri. Il De libero arbitrio rappresenta invece una polemica contro il quinto libro della stessa opera, in cui Boezio, definito da Valla “l’ultimo dei romani e il primo degli scolastici”, aveva offerto una singolare soluzione del rapporto tra prescienza divina e libertà dell’uomo. Egli aveva infatti fondato la libera conoscenza dell’uomo sull’assunto che la sapienza di Dio si estendeva sino a comprendere i futuri contingenti in un eterno presente, in modo tale da conoscerli non in se stessi ma in relazione alla modalità e alla presenza della propria cognizione. A tale posizione Valla rimprovera un esagerato intellettualismo e un’eccessiva fiducia nella conoscenza dell’uomo a scapito di un indebolimento, se non addirittura di una negazione, della provvidenza divina. Tuttavia, il tentativo dell’umanista di salvaguardare e armonizzare i due termini del problema finisce per non conseguire apprezzabili risultati e l’annosa questione della libertà dell’uomo, data l’onniscienza divina, rimane priva di spiegazioni e giustificazioni.
Del resto, considerare la prescienza di Dio non una causa necessitante (se Dio conosce il futuro è perché lo prevede e non perché lo determina) non è una soluzione dimostrabile e pertanto Valla opta, anche in questo caso, per un ribaltamento del punto di vista: approfondire la teologia, la scienza delle cose divine che si fonda su un terreno dominato dalla sola probabilità, non ricopre in fondo alcun vantaggio per l’uomo. È sufficiente la certezza dell’utilità dell’amore e della carità per condurre una vita indirizzata al conseguimento dalla beatitudo. Quello di Valla è, in conclusione, un appello all’umiltà e all’accettazione del mistero; un richiamo alla religiosità intesa come esercizio della carità e della fede che non mancherà di far avvertire la propria influenza su Lutero e Calvino.
Lorenzo Valla
Del vero e del falso bene
Se qualcuno mi chiedesse quale sia stata l’origine e la causa prima della falsa onestà e delle false virtù, io risponderei che ci fu in principio un modo di guardare alle cose divine diverso dal modo di comportarsi nei confronti delle cose umane: gli uomini chiamarono quello onestà e virtù, questo utilità. Ma dopo che, per l’irrompere delle false religioni e per il prevalere dei vizi, la considerazione delle cose divine cadde in dimenticanza e si restrinse a pochi, delle virtù rimasero soltanto i nomi, unici testimoni della loro antica maestà. Quando poi svanì del tutto la memoria dei fatti e dei detti antichi degni di lode, queste virtù divennero come ombre senza corpi e alcuni, commossi dal loro splendore e non sapendo tuttavia a cosa riferirle, sostennero che esse fossero da desiderarsi per se stesse, in quanto aliene dalle cose terrene, e tra costoro i principali assertori furono gli stoici. Altri invece ritennero che le virtù fossero desiderabili per la loro utilità, e questi furono gli epicurei (con i quali concorda la maggior parte dei pagani), i quali giunsero a sostenere che per le stesse utilità fossero da adorarsi gli dei.
Ora, per noi che siamo cristiani, l’onestà non è desiderabile di per sé, in quanto dura, aspra e difficile; ma nemmeno lo è per i vantaggi terreni. Essa costituisce piuttosto un gradino verso quella felicità di cui l’anima, liberata dal corpo, potrà godere accanto al creatore delle cose, dal quale è venuta.
Questa felicità, chi dubiterebbe di chiamarla, o come si potrebbe chiamare se non piacere? [...]. Da ciò bisogna intendere che non l’onestà ma il piacere sia desiderabile per se stesso, tanto da quelli che vogliono esserne dilettati in questa vita, quanto da quelli che vogliono goderne nella vita futura
L. Valla, Scritti filosofici e religiosi, trad. it. a cura di G. Radetti, Firenze, Sansoni, 1955
Lorenzo Valla
Dialogo intorno al libero arbitrio
So bene che sembra intollerabile e quasi sacrilego non acconsentire ai libri già approvati dalla tradizione, ma è innegabile che essi in molte cose non vadano d’accordo e difendano dottrine diverse; e sono ben pochi quelli la cui autorità è tanto alta che le loro affermazioni non vengono messe in discussione. Normalmente non mi oppongo mai agli scrittori, considerando più probabili ora le affermazioni di uno, ora quelle di un altro: in questo caso però non sono d’accordo con nessuno. Che potrei dire infatti degli altri quando Boezio stesso, cui tutti attribuiscono il primato nella soluzione del problema del libero arbitrio, non riesce a portare a conclusione ciò che si è proposto, ma si rifugia in certe entità immaginarie e artificiose? Egli dice infatti che Dio sa tutto e ha tutto presente con l’intelligenza, che è al di sopra della ragione, e nell’eternità. Ma io, che sono razionalista e nulla conosco al di fuori del tempo, come posso aspirare a una conoscenza dell’intelligenza e dell’eternità? Sospetto che lo stesso Boezio non abbia ben considerato questo punto. E così, pur avendo posto esattamente la questione, egli non l’ha tuttavia risolta rettamente [...]. Infatti, se Dio prevede gli avvenimenti futuri, non può accadere qualcosa di diverso da ciò che egli ha preveduto. Così, se ha previsto che Giuda sarà un traditore, è impossibile che costui non debba essere un traditore, ossia è necessario che Giuda tradisca (a meno di ritenere, e ciò non sia, che Dio non possegga la provvidenza). Stando così le cose [...] sembra o che Egli non preveda gli avvenimenti futuri, se siamo forniti di libertà dell’arbitrio, o che Egli non sia giusto, se ne manchiamo. Ecco ciò che mi fa stare in dubbio a questo proposito.
L. Valla, Scritti filosofici e religiosi, trad. it. a cura di G. Radetti, Firenze, Sansoni, 1955