Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La grande innovazione della poesia religiosa bizantina è senza dubbio la poesia di tipo innico, che utilizza una metrica accentuativa e strutture assai elaborate e accompagnate dalla musica nel caso dell’utilizzazione liturgica; ma non mancano altre forme poetiche, legate ai generi e ai metri della tradizione classica, alla riflessione teologica o al sentimento devozionale. Tutta la poesia religiosa a Bisanzio è una continua riscrittura e meditazione del testo biblico, visto come fonte inesauribile di innalzamento spirituale, di meditazione e di variazione poetica.
I presupposti estetici e ideologici della poesia religiosa bizantina risalgono alla tarda Antichità (fine III-VI sec.), o all’epoca antico-bizantina – secondo la definizione di Sergej Sergeevic Averincev – quando la cultura cristiana si affranca dalle resistenze verso la poesia, sentita come eccessivamente compromessa col paganesimo, e comincia a comporre poemi in metri classici, riprendendo una tradizione che era stata avviata con la produzione di carmi epigrafici e con i carmi sapienzali e profetici (gli Oracoli Sibillini, raccolta di quattordici libri in parte di origine giudaica, più antica, e in parte cristiana). Se si eccettua la ricca ed estremamente varia produzione di Gregorio Nazianzeno, autore di poesie teologiche in esametri e in distici, ma anche di raffinati poemi autobiografici in trimetri, di elegie e di poesie satiriche, la poesia cristiana tardoantica appartiene quasi tutta al genere dell’epica biblica, vale a dire della parafrasi in esametri dei Testi Sacri (un genere praticato con molta maggiore ampiezza nell’Occidente latino). Preceduti da alcuni esperimenti nell’Egitto del IV secolo, a noi noti da un codice di papiro recentemente edito (P. Bodmer 29-36, con testi visionari, inni e riscritture della Bibbia), i poeti biblici del V secolo si dedicano a riscrivere l’Antico e il Nuovo Testamento in stile omerizzante, come l’autore della metatarsi dei Salmi (falsamente attribuita a un Apollinario), o le metafrasi dell’Ottateuco e di Zaccaria e Daniele, perdute, opera di Eudocia, colta moglie dell’imperatore Teodosio II.
Il presupposto ideologico è la cristianizzazione di Omero, anche in vista di un dialogo coi pagani colti: tanto che sempre Eudocia e altri poeti giungono a comporre dei centoni in cui la vita del Cristo è cantata usando solamente emistichi o versi interi tratti dall’Iliade e dall’Odissea. Questo esperimento verrà più tardi ripreso nel poemetto Christus Patiens, centone sulla passione e il compianto del Cristo in trimetri su base euripidea, di età e attribuzione incerta (si oscilla dal IV secolo all’XI-XII).
Di tutt’altro tenore la parafrasi del Vangelo di Giovanni di Nonno di Panopoli, il poeta più importante della tarda antichità, che ha riscritto il quarto vangelo in esametri barocchi e in uno stile arduo, unendo alla cura stilistica un forte impegno esegetico. Negli anni Trenta del VII secolo Giorgio di Pisidia, autore di poemi epico-storici in onore dell’imperatore Eraclio e di poemi dottrinari, compone un Esamerone in dodecasillabi (l’evoluzione bizantina del trimetro giambico), un lungo poema cosmologico che si presenta come una omelia sul Salmo 103 e come una lode di Dio attraverso il racconto della creazione. Nei secoli successivi la parafrasi biblica riappare sporadicamente: a parte alcuni carmi epigrammatici del IX secolo confluiti nell’Antologia Palatina, come i 57 esametri su Lazzaro di Cometa (A.P. 15.40), si distingue in questo genere letterario Leone il Filosofo, autore di un poemetto in esametri su Giobbe che è una parafrasi-riassunto del libro biblico, ma anche una diatriba poetica sulla pazienza e la virtù.
Nella media e tarda età bizantina si trovano piuttosto poesie sulle Scritture, come la riscrittura della parabola di Lazzaro e del ricco epulone in Ignazio Diacono. Fini più propriamente didattici hanno i Tetrastici (gruppi di quartine) di Teodoro Prodromo, una sorta di sommario dei due Testamenti; le poesie in decapentasillabi sui Salmi e sul Cantico dei Cantici che si trovano anche fra i carmi di Michele Psello; la Sinossi in dodecasillabi dei libri storici dell’Antico Testamento di Niceforo Callisto Xantopulo. Ma non mancano anche testi di riflessione teologica, come la Teologia Chiliastica (in mille dodecasillabi) di Leone Choirosfacte.
Fra i generi antichi che a Bisanzio conoscono nuova vita va ricordato l’epigramma. Dopo l’esempio di Gregorio di Nazianzo, i cui epigrammi, per lo più funerari, costituiscono l’VIII libro dell’Antologia Palatina, e la rinascita del genere in età giustinianea (527-565: una selezione di epigrammi cristiani si trova nel I libro dell’Antologia), a partire da Giorgio di Pisidia e poi, più decisamente, nel IX e X secolo si assiste a una fioritura dell’epigramma che ritorna a essere un vero genere strumentale. Gli epigrammi, in distici elegiaci e in trimetri/dodecasillabi, rinnovano gli antichi generi in senso cristiano, celebrando gli evangelisti e Davide salmista, i santi e le loro icone; diffusissimi gli epigrammi funerari o quelli ecfrastici, ad accompagnare le immagini nei manoscritti o i monumenti artistici. Fra gli epigrammatisti un posto di rilievo hanno Teodoro Studita, Costantino Rodio, cui si deve in collaborazione con altri scribi il celebre manoscritto di Heidelberg dell’Antologia Palatina, Giovanni Geometra, Giovanni Mauropode, Manuele File.
Infine, anche un genere legato nell’antichità alla poesia leggera come l’anacreontica si carica a Bisanzio di nuova spiritualità e viene utilizzato per componimenti teologici, e persino per epitafi; fra gli autori di anacreontee (contenute in un celebre codice Barberiano) spicca Sofronio, patriarca di Gerusalemme; a Michele Sincello si deve una anacreontea per la seconda restaurazione delle sacre immagini (843).
La produzione senz’altro più caratteristica e innovativa della poesia religiosa a Bisanzio è quella innografica. Anche per questa forma le radici risalgono alla tarda antichità, in cui ben presto si cominciò a dare veste letteraria agli inni liturgici, che si componevano fin dalla prima età cristiana sull’esempio dei canti vetero e neotestamentari (ad esempio il Magnificat di Lc. 1, 46-55 o Efesini 1, 3-14).
I primi esperimenti sono in metri tradizionali. Già il Pedagogo di Clemente Alessandrino termina con un lungo inno in anapesti al Salvatore; fra il III e il IV secolo Metodio di Olimpo pone alla fine del suo Simposio (un dialogo sulla castità, che imita quelli platonici) un partenio (“canto delle vergini”) in tetrametri giambici di 24 strofe con acrostico alfabetico. Allo stesso periodo risalgono inni che avranno poi una grande fortuna, come l’antifona mariana o il Phos ilaron (“luce gioiosa”, ancor oggi in uso nella Chiesa greca), composti in metri giambici o anapestici. Forma molto più raffinata e complessa hanno i nove inni in metri lirici e in dialetto dorico di Sinesio di Cirene, la più matura trasposizione sul piano poetico del neoplatonismo cristiano. Si tratta di inni non concepiti a scopi liturgici, ma piuttosto devozionali. Un genere che avrà fortuna a Bisanzio e che sarà praticato con altissimi risultati nella poesia mistica di Simeone il Nuovo Teologo.
Nel corpus dei poemi di Gregorio di Nazianzo si trovano anche due inni in metrica accentuativa (Inno vespertino ed Esortazione alle vergini), che preludono alle nuove forme dei secoli successivi. Nel V secolo è già pienamente sviluppato il tropario, originariamente un canto intercalato alla recitazione dei versetti salmici e dei cantici biblici, che poi assume forme autonome, organizzandosi in una forma ritmica di cola variabili per lunghezza e per posizione degli accenti, adatta all’elaborazione musicale. Il contenuto di questi canti era aderente al testo scritturistico, una sorta di parafrasi poetica, ma poteva anche esprimere testi dottrinali come nel caso di un tropario attribuito all’imperatore Giustiniano.
Ben presto da esso si genera una struttura più complessa, forse per influenza della poesia siriaca (e del suo più grande poeta del IV secolo, Ephrem di Edessa), quella del contacio, una serie di stanze (oikoi) che ripetono lo stesso schema metrico-musicale della prima e che sono chiuse da un ritornello (efimnion): le strofe erano cantate da un solista, mentre l’efimnio dall’assemblea. L’architettura del contacio è arricchita da una stanza proemiale (cuculion), con diverso schema metrico-musicale ma con lo stesso efimnio; le stanze inoltre sono connesse da un acrostico formate dalle lettere iniziali di ognuna di esse. Gli acrostici sono alfabetici o formano il nome dell’autore o indicano il passo biblico commentato (indicazioni che i manoscritti riportano prima di ogni contacio, assieme all’indicazione della festività celebrata e al tono musicale). Nativo della Siria, ma attivo a Costantinopoli in età giustinianea, Romano il Melodo ha portato il contacio alla massima perfezione facendone una vera e propria omelia ritmica di grande raffinatezza poetica e di insuperata forza espressiva e drammatica, con una lingua immaginosa e metaforica. Di Romano ci sono rimasti circa 80 contaci, ispirati a figure dell’Antico e del Nuovo Testamento e a momenti della vita terrena del Cristo. Alla prima età bizantina (ma non mancano attribuzioni al IX secolo) si fa ormai risalire anche il più famoso componimento liturgico bizantino, l’Innoacatisto (cioè “che si canta in piedi”), composto di 24 strofe in acrostico alfabetico, con due efimni differenti che si alternano, dedicate all’infanzia di Cristo e alle lodi di Maria. L’uso sapiente delle risorse linguistiche, delle figure di suono e di pensiero, della tipologia, fanno dell’acatisto il capolavoro del genere.
Nel VII secolo dal contacio si sviluppa una forma nuova e ancora più complessa, il canone, una lunga composizione non più a carattere omiletico e narrativo, ma piuttosto lirico e devozionale-liturgico e in cui l’accompagnamento musicale aveva un ruolo rilevante. I tropari intercalati nella funzione mattutina alla recitazione dei nove cantici biblici vengono uniti a formare una serie di odi di più strofe (un’ode per ciascun cantico biblico): una stanza iniziale (irmos) funge da modello metrico e melodico per tutte le strofe di ciascuna ode. Da una fase iniziale di odi composte di nove tropari (che alludono alle nove odi bibliche) si passa a un numero più contenuto (quattro, poi tre tropari per ogni ode, che a partire dal IX secolo sono conclusi da altri tropari di soggetto mariano o trinitario). Le maggiori possibilità offerte alla variazione musicale, ma anche alla imitazione variata e alla rivisitazione dei modelli, sono alla base della fortuna del canone. La sua fase più antica sembra legata ad ambienti siropalestinesi e in particolare al monastero di San Saba: da qui viene Andrea di Creta, autore fra l’altro del Grande Canone di 250 tropari, e i suoi contemporanei Giovanni Damasceno e Cosma di Maiuma, cui si devono inni di grande potenza espressiva e di pari complessità teologica. Dopo l’iconoclasmo compone molti canoni Teodoro Studita, teologo, riformatore monastico e poeta prolifico, autore anche di epigrammi e di contaci. Compone inni anche la più celebre poetessa bizantina, Cassia, autrice di versi profani e di una cospicua raccolta di inni, canoni e irmi. Sempre nel IX secolo si registra la prodigiosa produzione di Giuseppe l’Innografo, che già riutilizza irmi più antichi: una consuetudine che continua nei secoli seguenti, con figure di rilievo come Giovanni Mauropode, i cui numerosissimi canoni, oltre che al Cristo e alla Vergine, sono anche dedicati a vari santi. Dopo di lui più che produrre nuovi testi si procede alla sistemazione per gli uffici liturgici dell’immenso patrimonio innico; vengono anche prodotti calendari liturgici in metro innografico (come quello di Cristoforo di Mitilene nel’XI sec.). Ma comunque continuano a dedicarsi alla composizione innografica intellettuali di spicco come Teodoro Metochite. E, data la complessità linguistica e teologica di molti inni, si elaborano commentari, attività in cui sono impegnati intellettuali come Eustazio di Tessalonica.
Dal canone si sviluppa una serie di generi liturgico-musicali minori, fra i quali una particolare rilevanza assume il genere dei katanuktikà (carmi di compunzione), riflessioni penitenziali spesso strutturate sotto forma di dialogo interiore, che vengono praticati anche nella lingua volgare.