Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per neolatina si intende solitamente la letteratura composta in lingua latina dal Medioevo al nostro tempo; un’ampia ed eterogenea produzione che si specifica nel Cinquecento con la ripresentazione dei generi lirico, epico, didascalico e satirico ricondotti al paradigma attivo del grande classicismo e del suo epilogo alessandrino.
Premessa
Desiderando liberarsi dalle “barbarie” del latino medievale, gli umanisti quattrocenteschi traggono dagli autori latini, di cui riscoprono anche i testi perduti (come quelli di Lucrezio e Quintiliano) e che leggono con spirito rinnovato, un latino colto e raffinato, pur nella consapevolezza di non poter raggiungere la vivente naturalezza dei poeti della Roma classica.
I modelli più amati sono Catullo, Virgilio, Orazio, gli elegiaci, Ovidio e Marziale. Dal XV al XVI secolo, la poesia neolatina fiorisce in tutta Europa: prima in Italia, poi in Germania, Francia, Olanda, Inghilterra, Polonia, Ungheria. Si coltivano tutti i generi poetici, dal poema epico a quello filosofico, dall’ode all’elegia, dalla satira all’epigramma, dall’epistola alla favola.
Italia
Nel Quattrocento italiano, alba gloriosa dell’umanesimo europeo, la poesia neolatina è brillantemente coltivata dal Panormita, Landino, Poliziano, Tito Vespasiano Strozzi, Alessandro Piccolomini, Pontano, Marullo e da non pochi altri umanisti. L’umanista Battista Spagnoli, detto Il Mantovano, è poeta apprezzato - il grande Erasmo da Rotterdam, per esempio, lo definisce “il Virgilio cristiano” - e di sconcertante fecondità (una settantina d’opere, fra cui egloghe, poemi epici e religiosi, per un totale di circa 55.000 versi). Appartenente all’ordine dei Carmelitani, celebra sentitamente i valori cristiani e inserisce modi realistici e popolari nella poesia bucolica, raffigurando il mondo contadino con notevoli effetti vivaci. Nel corso del secolo, la sua ampia e varia produzione è ristampata a più riprese, soprattutto in Francia.
Sincero fervore religioso si avverte anche nel De partu Virginis (Il parto della Vergine), squisito poema in esametri virgiliani di Jacopo Sannazaro, che arricchisce di bei versi tanto la letteratura neolatina quanto quella in lingua volgare. Dato alle stampe nel 1526, narra l’annunciazione, la nascita del Messia e l’adorazione dei Magi.
Jacopo Sannazaro
Nascita di Gesù
Il parto della Vergine
Quand’ecco una nuova luce risplende dall’alto e supera colla sua venuta l’ombra fitta della notte, e si sentono cori celesti e schiere di angeli, che fanno suonare la curva cetra e intonano il loro canto. La Vergine riconobbe quel suono e, piena di gioia, sentì da quei segni sicuri che il parto era vicino. Subito si alza dal suo giaciglio, leva al cielo gli occhi splendenti in atto di adorazione e dice: - O Padre onnipotente, che col tuo potente cenno governi le stelle e l’aria, la terra e il mare, forse è giunto il momento in cui il tuo Figliuolo senza macchia nascerà alla luce serena? In cui la terra riderà in mio onore e cospargerà i prati di teneri fiori? Ecco, ti rendo il frutto maturo ed il grande deposito; tu, dall’alto del cielo, fa’ che nulla venga a violare il mio pudore. Dunque io ti potrò stringere tra le mie braccia amorose, o caro bambino, mentre tu ti agiterai nel mio grembo e cercherai le mie mammelle? E tu darai dolci baci alla tua mamma, e mi sorriderai, e, cingendo il mio collo coi tuoi braccini di bimbo, ti abbandonerai al sonno desiderato? - Così dice e gode della presenza di Dio e della splendida schiera degli angeli, colmando il cuore di quella musica divina. Ed intanto, col volgere delle stelle, si avvicinava per lei l’ora felice. Chi mi rapisce? Accogli, o donna divina, il tuo poeta, sostienilo; io son portato su nelle alte nuvole e vedo che tutto il cielo discende, desiderando assistere al miracolo. Concedimi di cantare un avvenimento meraviglioso, inaudito, insolito, immenso. Allontanatevi, pensieri terrestri, mentre io canto cose sacre! (...)
O prova certa dell’esistenza di qualcosa lassù, gloria aggiunta alla terra, Figlio di Dio e Dio tu stesso, luce promanante dall’eterna luce, te, te io canto, insieme con tua madre, e con i lieti angeli, e per primi celebriamo la tua gloria ed inauguriamo nell’eternità un lungo rito. (...)
Oramai, o dei, mi basti aver tentato di cantare la santa nascita; il dolce Posillipo mi chiama alla sua ombra desiderata, mi chiamano i lidi di Nettuno ed i Tritoni bagnati, ed il vecchio Nereo, e Panope, ed Efire, e Melite, e Mergellina che prima tra tutte mi dona i suoi piacevoli ozi nei recessi scavati delle rocce sacre alle Muse là, dove hanno messo fiori novelli i cedri che provengono dai boschi sacri dei Medi, ed intreccia per me un’insolita corona di foglie.
in Poeti latini del Quattocento, a cura di F. Arnaldi, L. Gualdo Rosa, L. Monti Sabia, Milano-Napoli, Ricciardi Editore, 1964
In quegli stessi anni, Girolamo Fracastoro, medico, umanista, filosofo e originale teorico della letteratura, descrive con eleganza, nel Syphilis sive de morbo gallico, un argomento apparentemente scabroso e poco poetico. I suoi raffinati Carmina rivelano, fra l’altro, la poliedricità della sua intelligenza.
Oltre al non spregevole poema religioso Christias, a raffinati poemetti e a inni fervidamente religiosi, Marco Girolamo Vida compone una poetica (De arte poetica), rielaborazione diligente del pensiero estetico di Aristotele e di Orazio che influirà specialmente sullo sviluppo del classicismo francese.
Nel XVI secolo si compongono poi diversi rilevanti poemi filosofici, ispirati soprattutto al De rerum natura di Lucrezio.
Non ferrarese, come a lungo si è creduto, ma partenopeo è Palingenio Stellato, autore dello Zodiacus vitae, un ampio poema in dodici libri che corrispondono ai segni zodiacali.
Ispirandosi al pensiero epicureo, platonico e in special modo al neoplatonismo di Ficino, il poeta descrive l’universo, la natura, l’uomo, e satireggia rabbiosamente i costumi del suo tempo; gli attacchi al clero contribuiscono in maniera decisiva alla diffusione dello Zodiacus nei paesi protestanti, ove è più volte ristampato e anche tradotto.
Inoltre, tanto il De immortalitate animae del filoprotestante Aonio Paleario - che, sebbene intriso di platonismo e stoicismo, è riconducibile al cristianesimo –, quanto il De principiis rerum del giurista napoletano Scipione Capece imitano più nella forma che nella sostanza di pensiero il grande poema lucreziano incompiuto.
Riferimenti alla riflessione di Ficino, di Pico della Mirandola e di Palingenio si riscontrano infine nei tre poemi lucreziani di Giordano Bruno.
Apprezzati e largamente imitati sono, ancora, i poeti d’amore.
Le liriche neolatine di Francesco Maria Molza, che è anche petrarchista non convenzionale, sono notevoli per la finezza, la leggiadria e la capacità di dare nuova vita all’antico.
Anche Andrea Navagero – letterato, storiografo e diplomatico veneziano – e il suo allievo Marcantonio Flaminio dimostrano non comune sapienza classica, e ottengono forse i loro esiti migliori nei versi bucolici, in cui si avverte un sincero amore per i campi e per la vita serena che vi si può condurre. Sia le poesie amorose di Ercole Strozzi, figlio dell’umanista Tito Vespasiano, sia quelle di Ludovico Bigo Pittori, pur non mancando di freschi accenti personali, non vanno invece oltre la maniera.
I pochi componimenti pervenutici di Giovanni Cotta, morto a poco più di trent’anni, sono colmi di immagini efficaci e possiedono una grazia preziosa, che sfiora talvolta l’affettazione.
Fra i neolatini meridionali è figura interessante Girolamo Angeriano, autore del fortunato Erotopaegnion, una raccolta di epigrammi soprattutto amorosi che si distingue anch’esso per la raffinatezza un poco manierata; stende inoltre gradevoli egloghe virgiliane e il De miseria principum, tagliente poemetto in cui attacca certi costumi dei signori rinascimentali. Anche scrittori in volgare quali Ariosto, Bembo, Castiglione, Della Casa e Berni compongono poesie latine di impronta originale, nell’aura di una classicità che si fa nostalgia, sentimento del bello e della misura.
Germania
Umanista operoso – curatore dei testi di Seneca e Tacito – e poeta particolarmente sensibile all’edonismo pagano, Konrad Celtis pubblica nel 1502 quattro libri di Amores, la cui spregiudicatezza sfiora non di rado l’oscenità: sono canti gagliardi, nei quali il lirico, attento lettore fra l’altro di Catullo e di Orazio, rappresenta senza troppi pudori la sua passione per quattro donne di età e provenienze geografiche diverse. Molti poeti tedeschi lo imitano, ma senza attingere la forza espressiva del suo realismo.
Heinrich Bebel, umanista dotato d’una arguzia amara, docente di poesia ed eloquenza a Tubinga, traduce nella sua lingua le Facezie di Poggio Bracciolini e in latino numerosi testi tedeschi; compone inoltre un frizzante poema satirico, il Triumphus Veneris, in cui si scaglia risentito contro l’immoralità degli ecclesiastici.
Eoban Koch (Helius Eobanus Hessus), professore presso l’università di Erfurt, canta con autentico trasporto gli splendori e le miserie della Riforma luterana; i suoi versi sono pieni di veemente vigore, ma spesso di una studiata ricercatezza.
Le odi, gli inni e gli Amores del luterano G. Fabricius manifestano una religiosità tanto fervida e desiderosa della purezza del cristianesimo primitivo, quanto ostile alla Chiesa di Roma. Ma in Germania è forse Peter Lotich (Petrus Lotichius Secundus) la voce lirica neolatina più personale ed efficace.
Dopo anni di studi, viaggi, milizia e insegnamento (è docente di medicina a Heidelberg) si spegne assai prematuramente.
Le sue elegie e odi, in cui sublima soprattutto momenti della sua movimentata esistenza, rivelano un animo nobile, fine e delicato.
Francia
Jean Salmon detto Maigret (Macrinus) – che i letterati contemporanei considerano l’Orazio di Francia – pubblica una dozzina di raccolte poetiche di ispirazione sacra (è zelante discepolo di Lefèvre d’Etaples) e profana; e alcune sue odi sono di rara bellezza. Intanto a Lione si forma una vera e propria scuola di poesia neolatina, il cui esponente più valido è Nicolas Bourbon, autore di un poema didattico, Ferraria, di opuscoli pedagogici e di Nugae, una raccolta di ben 1.200 componimenti (odi, preghiere e specialmente epigrammi, il genere a lui più congeniale).
Delle opere di Jean Visager (detto anche Jean Vouté) – professore a Parigi, Bordeaux, Tolosa e Lione, morto giovanissimo, forse assassinato – ci limitiamo a ricordare i quattro libri di epigrammi, pieni di maliziosa salacia.
Prima di divenire il severo e austero successore di Calvino, Théodore de Bèze è un raffinato intellettuale che si diletta nella composizione di selve, odi ed epigrammi latini in cui è presente anche una schietta sensualità; nel 1548 escono gli Juvenilia, che riuniscono la sua produzione in versi anteriore al 1540. L’umanista Jean Dorat, coltissimo maestro di Ronsard e di altri illustri scrittori di Francia, pubblica soltanto nel 1586 i Poematia, ove sono contenuti versi (soprattutto d’occasione) greci, latini e francesi di ottima fattura.
Il grande allievo di Dorat, Joachim Du Bellay, cui sono particolarmente cari Virgilio e Orazio, canta nei Poemata l’avvampata passione per una bella romana, Faustina.
Anche Rémy Belleau e Jean-Antoine de Baïf si cimentano nella poesia latina, con risultati pregevoli: il primo traduce alcuni suoi componimenti volgari e imita non servilmente l’olandese Secundus, mentre il secondo sembra addirittura riuscire meglio nei Poemata, sovente liberi da schemi mitologici e da manierismi stilistici, che nelle molte poesie francesi.
Anche Scévole de Sainte-Marthe si esprime forse in maniera più personale nelle composizioni latine: la sua Pedotrophia, oltre a fornire orientamenti pedagogici talora suggestivi, rivela un vivo impegno morale. Dotto e appassionato commentatore degli Amours di Ronsard, di pensatori greci e poeti latini, Marc-Antoine Muret scrive versi francesi e latini: gli Juvenilia, notevoli per eleganza e sensuale naturalezza, contengono le sue più felici poesie latine.
Le favole raccolte dal filologo Isaac Nevelet nella Mythologia aesopiana saranno una delle principali fonti delle Favole di Jean de La Fontaine.
Remacle d’Ardenne compone eleganti Elegiae in cui ricostruisce il percorso esistenziale del Messia; più originali risultano comunque i suoi Amores, in cui predomina una cupa tristezza, derivante soprattutto dai rifiuti dell’amata. Qualche decennio dopo, Jean Lernout (Lernutius) compone idilli sacri che affrontano diversi argomenti religiosi, soprattutto intorno al Natale; è anche autore di Basia che, sebbene palesemente ispirati a quelli di Secundus, se ne differenziano per serenità e certa grazia.
Estimatore degli umanisti italiani e del connazionale Erasmo, Jan Everaert (Janus Secundus) di Leida è forse il maggior poeta d’amore del Cinquecento. Benché muoia giovanissimo (a meno di 25 anni), lascia una produzione ampia e varia: elegie, epistole, silvae (poesie varie), e i fortunatissimi Basia, in cui il suo genio nervoso e appassionato si esprime in modo più pieno. Sin dalle prime prove letterarie, a una sensualità potente e compiaciuta in lui si associa sovente una malinconia amara, una precoce consapevolezza delle delusioni e dei mali che accompagnano costantemente il vivere. Poeta in cui talento autentico e cultura classica si armonizzano felicemente, Secundus sa cantare con rara efficacia non soltanto l’amore non corrisposto per la giovane Julia e la passione per la più prosaica Neaera, ma anche le bellezze della natura, gli affetti familiari, l’amicizia e altri sentimenti. Da Ronsard a Montaigne, fino a Goethe e oltre, numerosi scrittori hanno amato questo olandese eternamente giovane, anche assimilandone motivi o figurazioni.
Nella seconda metà del secolo e all’inizio del successivo, si forma a Leida una vivace scuola poetica: fra i suoi esponenti giova menzionare Jan van der Does (Dousa), allievo di Dorat a Parigi e autore, soprattutto, di elegie amorose, che appaiono sentite, ma un poco di maniera; il figlio omonimo che, quantunque morto giovanissimo, lascia una produzione cospicua che spazia dal genere amoroso all’encomiastico, dal satirico al didascalico; Daniel Heinsius, filologo assai esperto che pubblica i suoi versi latini – ove la vasta cultura letteraria non sembra opprimere la spontaneità – nei primi due decenni del Seicento.
Il grande giurista e teologo Ugo Grozio, che vive fra Cinquecento e Seicento, compone versi latini i cui temi principali sono religiosi (vi si ritrova un Cristianesimo sentito e aperto) e patriottici.
Autore di importanti tragedie in latino, l’umanista protestante scozzese George Buchanan insegna anche in Francia (nel 1543 è maestro di Montaigne); le sue poesie latine più originali sono quelle amorose, notevoli per la forza dell’espressione e la maestria nelle descrizioni naturalistiche. I fortunati epigrammi di John Owen, pur risentendo dell’esempio di Marziale, se ne differenziano per il dichiarato intento morale.
Se poi si passa nell’Europa orientale, fra i poeti neolatini di Polonia, occorre menzionare Krzycki e Dantiscus, dotti e raffinati versificatori di circostanza, nonché Jan Kochanowski, il maggiore lirico in lingua polacca fino al romanticismo, che compone anche elegie ed epigrammi che ben manifestano la ricchezza del suo spirito e della sua cultura.