La pittura parietale e la creazione di uno spazio immaginario
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Fonti principali per la nostra conoscenza della pittura romana sono gli affreschi parietali delle abitazioni private, e in particolare di quelle sepolte dalla furia del Vesuvio a Pompei e ad Ercolano. Tali affreschi hanno consentito di ricostruire le linee evolutive della pittura romana, ma anche di comprendere quale ruolo rivestissero nel mondo romano la casa e i suoi arredi per l’espressione delle gerarchie, delle aspirazioni e dei valori sociali e culturali.
Un elemento qualificante della domus e della villa romana è costituito dalla decorazione pittorica che ne riveste le pareti, in questo assai diverse da quelle delle nostre case; esse accolgono e riproducono valori e modelli culturali cui si ispira il padrone di casa, fungendo da vetrina delle sue aspirazioni, dei suoi riferimenti intellettuali e del suo successo economico e sociale di fronte ad amici, rivali e clientes. Formule compositive, motivi e generi sono elaborati a Roma, ad opera di maestranze di alto livello al servizio della classe dirigente di età repubblicana prima, della famiglia imperiale e del suo entourage poi; ma in una società fortemente competitiva e tesa verso il successo e l’autoaffermazione come quella romana, in particolare tra l’età tardorepubblicana e la prima età imperiale, le nuove tendenze nella decorazione pittorica parietale vengono rapidamente recepite nelle città italiche e nei centri urbani delle province, e passano dalle sontuose dimore degli aristocratici alle case della media e piccola borghesia e dei liberti “in carriera”, che proprio in quelle dimore riconoscono un modello di autorappresentazione, di manifestazione di ricchezza e di successo, e che tentano di imitarne, anche se con formule economiche e “sintetiche”, elementi strutturali e decorativi caratterizzanti.
Questo è essenzialmente il motivo per cui è possibile delineare una omogenea e fluida evoluzione stilistico-compositiva nell’ambito della pittura parietale romana, in particolare per il periodo che giunge fino al 79, quando l’eruzione del Vesuvio ha sepolto Pompei, Ercolano e altre località campane, conservandone per i nostri occhi quelle che Paul Zanker definisce le “forme dell’abitare”. È stata appunto la scoperta dei siti vesuviani a rivelare il ricco e policromo apparato pittorico che riveste le pareti della casa romana, caratterizzandone in pratica tutti gli ambienti, anche se naturalmente in forme diverse, e con una sostanziale differenziazione tra zone “di passo”, come i corridoi, in cui la decorazione è più semplice e corsiva, e ambienti “di permanenza”, in cui una decorazione più complessa e strutturata si presta alla contemplazione. Le case di Pompei e di Ercolano mostrano in che modo e attraverso quali formule la decorazione pittorica parietale amplifichi nel tempo, nello spazio e nel mito la vita quotidiana che si dipana tra quelle mura, sublimandola attraverso la costruzione di spazi immaginari.
Nel 1882 August Mau propone, sulla base della documentazione pompeiana e del confronto con un celebre brano di Sull’architettura (7. V, 1-2) di Vitruvio contenente un rapido excursus sull’evoluzione della pittura parietale fino ai suoi tempi, una suddivisione in quattro stili. Il “sistema” di Mau mantiene la sua validità, anche se l’ampliamento sia spaziale che cronologico del panorama della pittura romana che oggi conosciamo impone una sua applicazione sfumata e non rigida, che sappia tener conto di attardamenti e sovrapposizioni stilistiche, e della presenza di fasi di transizione. In questa voce, che non ha alcuna pretesa di esaustività, seguiremo il sistema di Mau, e giungeremo, per limiti di spazio, fino al 79. Leggendo Vitruvio, si apprende che “gli antichi, che dettero inizio alla decorazione parietale, imitarono dapprima la varietà e la disposizione dei rivestimenti marmorei”: tale affermazione trova riscontro in alcune case di Pompei (Casa del Fauno, Casa di Sallustio) e di Ercolano (Casa Sannitica), nonché in edifici pubblici pompeiani (Tempio di Giove), dove la decorazione parietale, attraverso l’utilizzo combinato di pittura e stucco, imita l’aspetto di un muro isodomo con inserimento di lastre in marmi policromi. La parete presenta in genere una tripartizione dal basso verso l’alto: uno zoccolo, una fascia mediana con imitazione di lastre colorate in contrasto e una fascia superiore con cornici in stucco aggettanti. Questo, che è il I stile nella griglia di Mau e che viene anche chiamato “stile dell’incrostazione”, costituisce la ripresa italica di una tendenza decorativa (definita Masonry Style, o “stile architettonico”) di cui si trovano numerosi esempi nelle eleganti dimore sorte sull’isola di Delo nel II secolo a.C., e nelle case più sontuose di Pella in Macedonia, già nel III secolo a.C.: a Pella, in particolare, questa semplice decorazione parietale fa da cornice agli splendidi mosaici figurati che ricoprono i pavimenti.
Lo stesso accordo tra una decorazione parietale strutturale e una sontuosa “pinacoteca pietrificata” che si dispiega sul pavimento dei vari ambienti si ritrova nella Casa del Fauno a Pompei, la grande domus che costituisce uno dei più importanti esempi di I stile, e dalla quale provengono mosaici pavimentali di straordinaria raffinatezza e complessità, copie di originali pittorici, come quello, celeberrimo, della Battaglia di Alessandro oggi al Museo di Napoli. Gli esempi di I stile conservati sono poco numerosi: le ristrutturazioni di immobili, a seguito di passaggi di proprietà o di danneggiamenti (e qui basti ricordare che nel 62 Pompei è colpita da un grave terremoto), devono aver comportato una sostituzione di decorazioni “antiquate” con altre più moderne, e non è certo un caso se gli esempi più frequenti di decorazione pittorica parietale a Pompei ed Ercolano rientrano nel IV stile. Occorre però osservare che, evidentemente, tra la fine del III e la fine del II secolo a.C. (periodo in cui si datano le testimonianze di I stile), la moda di decorare le pareti della propria abitazione non è ancora affermata come lo sarà in seguito; si tratta di una novità, appannaggio di una classe colta ed ellenizzata che, imitando certe tendenze decorative delle abitazioni dell’Oriente ellenistico, nobilita la propria casa con un riferimento ai sontuosi rivestimenti in marmi policromi dei palazzi dei dinasti ellenistici, ma anche agli edifici pubblici di Roma e alle dimore della nobilitas romana, in cui quegli stessi marmi avevano cominciato ad essere diffusamente impiegati in colonne e lastre, talvolta suscitando scandalo per l’ostentazione privata di luxuria, ma anche assurgendo a splendido simbolo dei frutti dell’imperialismo romano.
Alcuni esempi di decorazione di I stile presentano una tendenza al gioco prospettico con il ricorso a colonnine in stucco aggettanti, che movimentano in verticale la parete poggiando direttamente sul pavimento. Con il II stile, detto anche “delle facciate da parata” (databile all’incirca tra l’80 e il 30-15 a.C.), questa tendenza diventa dominante: nel primo esempio a noi noto, la Casa dei Grifi sul Palatino a Roma, lo spazio interno è dilatato, illusionisticamente, dalle colonne dipinte in prospettiva sulle pareti che si sovrappongono all’imitazione pittorica delle incrostazioni di marmi colorati.
Si inizia, quindi, a ricorrere al trompe-l’oeil, e non per creare un mondo parallelo rispetto alla realtà, quanto proprio per ampliare gli spazi della casa, conferendole un aspetto di lusso e di grandiosità. Il passo successivo verso la conquista di uno spazio immaginario, intorno alla metà del I secolo a.C., consiste nello “sfondamento” illusionistico della parete, che si apre su grandiose architetture dipinte in prospettiva contro lo sfondo azzurro del cielo: file di colonne, tempietti rotondi, piazze porticate, in un vertiginoso affastellarsi di edifici, che vogliono riecheggiare le monumentali città ellenistiche, ma che non ne costituiscono certo riproduzioni realistiche. Proseguendo nella lettura del brano di Vitruvio, scopriamo infatti che “più tardi, cominciarono anche a riprodurre in prospettiva edifici con colonne e frontoni; nei luoghi aperti, come le esedre, raffigurarono, grazie all’ampiezza delle pareti, scene di ispirazione tragica, o satirica, o comica”.
Vitruvio qui fa riferimento ai fondali scenici dipinti, che dovevano riprodurre edifici e ambientazioni differenti a seconda che fossero destinati all’utilizzo per la rappresentazione di tragedie, di commedie o di drammi satireschi; ed è ormai pressoché unanimemente accettato che le “facciate da parata” di II stile riproducano sì architetture regali, filtrate però attraverso l’immagine che ne restituivano le scaenarum frontes teatrali: solo così è possibile comprendere sia l’affermazione di Vitruvio che il carattere artificioso e la desolazione quasi metafisica di certe architetture parietali, come quelle notissime del cubiculum M della Villa di Publio Fannio Sinistore ricostruito al Metropolitan Museum di New York, o quelle dell’oecus della Villa di Poppea a Oplontis. Del resto, riprodurre scenografie teatrali sulle pareti domestiche non rappresenta un’assoluta novità dell’età tardorepubblicana, se dobbiamo credere a Plutarco (Vita di Alcibiade, 16), che ci parla del sequestro di Agatarco di Samo, l’inventore della scenografia teatrale, da parte di Alcibiade, allo scopo di costringerlo ad eseguire una decorazione pittorica sulle pareti della propria casa. L’affermarsi di questa “moda” proprio in questo periodo è però da riconnettere anche all’esistenza di una prestigiosa tradizione artigianale nell’ambito della realizzazione di impianti scenici effimeri, gli unici nell’Urbe dove si può assistere a spettacoli teatrali fino alla realizzazione del Teatro di Pompeo in Campo Marzio, il primo teatro a Roma in muratura, completato nel 55 a.C. In questi teatri provvisori si concentra una parte significativa dell’evergetismo politico-propagandistico dei protagonisti della vita pubblica di Roma in età tardo-repubblicana; le loro decorazioni costose e ricercate conferiscono prestigio ai committenti e suscitano meraviglia, come la scenografia dipinta in trompe-l’oeil del teatro di Appio Claudio Pulcro (pretore nell’89 a.C.), realizzato nel 99 a.C., talmente ingannevole da invitare dei corvi a posarsi sulle tegole dipinte, o le 360 colonne di vari tipi di marmo pregiato e le 3000 statue fatte giungere a Roma da Marco Emilio Scauro (edile nel 58 a.C.) per una frons scaenae. Le scenografie dipinte sulle pareti delle case possono fungere da sfondo per performances teatrali che allietano i banchetti, e che hanno come protagonisti i mimi che spesso fanno parte del seguito delle famiglie nobiliari; ma costituiscono anche una adeguata cornice per quell’intreccio sapiente di pubbliche relazioni, di liasons politiche e di autorappresentazione sociale di cui la casa romana è teatro, e il dominus l’attore protagonista. In alcuni casi, come nella Sala delle Maschere della Casa di Augusto sul Palatino, splendido esempio di decorazione parietale di II stile maturo, il riferimento al teatro è potenziato dalla presenza di maschere sceniche.
Una atmosfera teatrale è quella che si respira anche nel noto oecus 5 della Villa dei Misteri a Pompei, sulle cui pareti di un rosso violento si dipana una complessa iconografia (da interpretare come allusiva all’iniziazione ai misteri di Dioniso della padrona di casa) affollata di figure corpose cristallizzate nei fotogrammi di una gestualità rituale e immerse in una atmosfera palpitante ed esaltata che presuppone il coinvolgimento emotivo e la comprensione profonda dello spettatore.
Si tratta di un esempio significativo di quelle megalografie che, sempre seguendo l’excursus di Vitruvio, possono degnamente sostituire la decorazione scultorea in ambito domestico: la “grandezza” cui fa riferimento il termine usato da Vitruvio è da interpretare come relativa sia alle dimensioni delle pitture che alla nobiltà dei temi e dei soggetti rappresentati. Altro esempio importante di megalografie è quello, di recente recupero, della villa di Terzigno (vicino a Pompei), databile intorno al 40-30 a.C.: una scena complessa, dominata dalla figura di Venere sulla parete di fondo e di ancora dubbia interpretazione (potrebbe trattarsi della storia di Paride ed Elena), si snoda sulle pareti di un ambiente piccolo, ma sicuramente di rappresentanza, aperto su un peristilio. È con il II stile dunque che i temi narrativi, soprattutto di argomento mitico, cominciano a farsi spazio sulle pareti della casa romana. All’inizio, con l’eccezione delle megalografie (di cui abbiamo rarissimi esempi, e in villae suburbane) si tratta di quadretti di piccole dimensioni, pinakes dislocati sulle pareti a varie altezze e spesso dotati di finte cornici, che ricostruiscono all’interno di una stanza l’atmosfera di una galleria di quadri, come appare palese sulla parete di fondo del cubiculum B della villa rinvenuta sotto la Farnesina a Roma, nella quale si è voluto riconoscere il sontuoso nido d’amore realizzato per le nozze di Giulia, figlia di Augusto, con Marco Vipsanio Agrippa, avvenute nel 21 a.C. Il modello è costituito dalle collezioni dei preziosi capolavori d’arte greca razziati fin dal II secolo a.C. e portati a Roma, custoditi gelosamente nelle pinacoteche private degli amatori o esposti alla fruizione pubblica in portici e templi dell’Urbe, dai Saepta Iulia al tempio di Cerere sull’Aventino dove, secondo Plinio il Vecchio, Lucio Mummio (console nel 146 a.C.) fu il primo ad esporre al pubblico un quadro di un grande maestro greco del IV secolo a.C., Aristide di Tebe (Nat. hist., XXXV, 24).
Nel corso della prima età imperiale la decorazione pittorica della parete tende ad organizzarsi intorno a grandi pannelli centrali a soggetto mitologico, nei quali spesso è possibile trovare un riflesso degli originali dei più importanti maestri greci, per noi perduti ma spesso descritti dalle fonti letterarie antiche. Non si può parlare propriamente di copie, quanto di schemi iconografici e di modelli entrati a far parte di una cultura visiva largamente condivisa, anche grazie alle esposizioni museali aperte al pubblico. Far riprodurre certe immagini sulle pareti della propria casa significa certo trasformarla in una sorta di pinacoteca virtuale, con un richiamo a prestigiose collezioni pubbliche e private, ma significa anche dichiarare la propria adesione intellettuale ad una cultura fortemente ellenizzata, dimostrando di conoscere la storia della pittura greca, il significato di certe iconografie e la fama di alcune opere. È difficile, ad esempio, immaginare che il proprietario della Casa del Poeta Tragico di Pompei, che in età flavia fa dipingere un sacrificio di Ifigenia caratterizzato dalla presenza della tragica figura di Agamennone velato non conoscesse la grandissima fama che circondava il quadro dello stesso soggetto realizzato dal pittore greco Timante di Citno, celebratissimo dagli oratori proprio per il particolare del velo sul volto di Agamennone, simbolo dell’inesprimibilità del suo dolore.
Nella già citata Sala delle Maschere della Casa di Augusto, la parte centrale della parete di fondo, inquadrata da quinte sceniche aggettanti, si apre su un evanescente paesaggio sacro su fondo chiaro con al centro un betilo, rappresentazione aniconica del dio Apollo; è appunto sulle pareti di II stile che cominciano a fare la loro apparizione le prime pitture di paesaggio. All’inizio sono vedute di città o di santuari campestri, di piccole dimensioni e spesso realizzate con la tecnica del monocromo: aperture velate di nostalgia su un mondo parallelo che però non è realistico e la cui dimensione spaziale non è aperta verso l’infinito, ma anzi su un mondo limitato e rassicurante. La pittura di paesaggio si evolve in età augustea, con esempi di grande raffinatezza, come l’esile paesaggio su fondo nero del triclinio della villa della Farnesina e, una decina di anni dopo, il piccolo paesaggio idillico-sacrale della Stanza rossa nella villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase.
In età augustea è attivo il pittore Studio, uno dei pochi artisti romani di cui le fonti letterarie ci conservino il nome, specializzato, secondo la notizia di Plinio il Vecchio (Nat. hist., XXXV, 116-117), nei topiaria opera, cioè appunto nei temi paesaggistici: ville, porti, boschetti sacri, spiagge, fiumi, peschiere, popolati di personaggi affaccendati; sembrerebbe una evoluzione verso le scenette di genere della pittura della varietas topiorum di cui parla Vitruvio, elencando “porti, promontori, litorali, fiumi, fonti, canali, boschi sacri, monti, greggi, pastori e altre scene analoghe presenti in natura”, tutti soggetti opportuni per la decorazione delle pareti dei porticati. Si tratta, comunque, di paesaggi tipizzati e artificiosi, che rispondono a criteri ben precisi e in cui la realtà delle cose è cristallizzata in formule a carattere decorativo, in cui c’è quello che ci deve essere, e nient’altro: questo sarebbe, secondo Pierre Grimal, autore di Les jardins romains à la fin de la Republique (1984, p. 93 ss.), l’esatto significato del termine topia. Termine che torna nel testo di Vitruvio con riferimento al tema dei viaggi di Ulisse (Ulixis errationes per topia): e negli affreschi scoperti in una domus di via Graziosa a Roma (databili con certezza a prima del 46 a.C.), un doppio colonnato dipinto in prospettiva si apre su un paesaggio fiabesco, dominato da rocce scoscese in cui sono ambientati gli episodi narrati nei libri X-XII dell’Odissea, e in modo più particolareggiato quello dell’arrivo nel paese dei Lestrigoni e quello di Circe. In questo caso il tema mitologico sembra poco più di un pretesto per far scorrere sulle pareti un paesaggio certo di fantasia, ma che lo spettatore poteva confrontare mentalmente con quello reale della costa laziale tra il Circeo e Fondi, frequentato luogo di villeggiatura dei romani benestanti, ma anche paesaggio mitico che a quelle avventure di Ulisse aveva fatto da sfondo.
Con il III stile, detto anche “a parete reale” o “stile ornamentale”, che comincia a manifestarsi intorno al 30-20 a.C. (sovrapponendosi agli ultimi sviluppi del II stile) per arrivare fino al regno dell’imperatore Claudio, gli sfondi architettonici di ispirazione scenografica sembrano perdere il loro appeal: esili vedute architettoniche possono comparire sulla parte superiore della parete, ridotte però a miniature.
La parte centrale della parete, che assume una importanza crescente, si risolve in campiture a tinta unita e colori vivaci, con pannelli figurati disposti al centro, ed una profusione di sottili e fantasiosi elementi decorativi (viticci, fiori, candelabri, creature ibride) in cui bisogna riconoscere “ciò che non è mai esistito, che non può esistere né mai esisterà” cui fa riferimento uno scandalizzato Vitruvio, disgustato dal cattivo gusto della pittura dei suoi tempi, nella chiusa del suo excursus sulla pittura parietale. Tra gli elementi decorativi un posto di assoluto rilievo hanno i motivi egittizzanti, allusivi alla conquista dell’Egitto e alla nuova era di pace e prosperità che ha inizio, nella propaganda augustea, con la battaglia di Azio del 31 a.C.: il III stile riflette preferenze e aspirazioni di una borghesia tranquilla e operosa, che si appropria del gusto artistico espresso da Augusto, solido e sensato, ma anche fittamente intessuto di motivi politico-propagandistici. Il rifiuto delle finte architetture e il penchant per il decorativismo, però, non comportano la rinuncia alla ricerca di uno spazio immaginario: è soprattutto con la pittura di giardino che i pittori di III stile aprono le pareti delle case dei loro clienti. La pittura di giardino sembra prendere l’avvio per opera di maestranze attive a Roma per la famiglia imperiale: i primi, e migliori, esempi di questo genere sono la decorazione del triclinio sotterraneo della Villa di Livia a Prima Porta e quella delle nicchie che animano le pareti del ninfeo impropriamente definito Auditorium di Mecenate, probabilmente dipinte dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta nell’8 a.C. Il tema torna in case pompeiane (Casa del Bracciale d’Oro, Casa del Frutteto ed altre), dove la pittura di giardino si colloca, in particolare, in ambienti almeno in parte aperti o comunque in relazione con un giardino reale, dilatandone gli spazi (accorgimento assai opportuno in case modeste, prive di giardini di grandi dimensioni), in alcune ville di area flegrea, ma anche nell’architettura funeraria, come nella tomba del medico greco Patron sulla via Latina a Roma, databile nell’ultimo quarto del I secolo a.C. Come nel caso della pittura di paesaggio, la pittura di giardino non riproduce una natura autentica e sconfinata su cui la parete si squarcia: fiori e frutti di stagioni diverse sono raffigurati tutti insieme, come in un ideale sunto floro-vivaistico, e la vegetazione, pur ampliando lo spazio domestico, lo circoscrive, ponendo un limite all’errare dello sguardo. Non è un tuffo nella natura reale e selvaggia, bensì la contemplazione di una natura addomesticata dietro ai parapetti a graticcio dipinti in primo piano: è la natura del giardino come ambiente prezioso della casa, un altro prestigioso status symbol. Così, in alcune pitture di giardino compaiono fontane, statuette, oscilla e maschere in marmo, effettivi arredi da esterno assai diffusi in questo periodo.
Il IV stile dall’età claudia giunge fino all’eruzione del Vesuvio, anche se testimonianze di Roma e delle province ce ne confermano la tenuta almeno fino al 90 circa. Degli stili pittorici pompeiani è quello di più difficile definizione, probabilmente anche per la grande quantità di attestazioni conservate, che ne mostrano il carattere eclettico e sperimentale, che rielabora aspetti tipici sia del II che del III stile, segnando la fine delle tendenze classicistiche che avevano preso il sopravvento dall’età augustea.
Il gusto per l’ornato convive adesso con un ritorno all’ampliamento illusionistico degli spazi tramite finti tendaggi ed arazzi dipinti sulle pareti a suggerire la presenza di ambienti nascosti, e che costituiscono per noi preziose testimonianze di un artigianato tessile di straordinaria qualità, i cui prodotti, abbondanti nelle case romane, non ci sono giunti. Tornano anche le architetture di illusione, che si scorgono da limitate ma numerose finestre dipinte l’una accanto all’altra, con un effetto di straniamento fantastico; e torna infine l’attrazione per le scenografie teatrali, che sulle pareti di IV stile manifestano tutta la loro artificiosità. La parte centrale della parete, spesso coronata da una edicola, continua ad ospitare gli elementi principali della decorazione, quadri di argomento mitologico che si collegano in unità tematiche all’interno di ogni stanza, o delicate figurine volanti. Si accentua la policromia, con profusione di rosso, blu, giallo, nero e oro, mentre si sviluppa una tecnica pittorica che potremmo definire “impressionista”, caratterizzata dalla giustapposizione di rapide pennellate di colore e lumeggiature in bianco, con suggestivi effetti di fusione ottica: questa tecnica costituirà il carattere fondamentale della pittura del II secolo. Con rapide pennellate sono realizzati paesaggi fantastici e immagini di ville marittime, ma anche scene di vita quotidiana nel Foro, come sulle pareti dell’atrio della proprietà di Gulia Felice a Pompei; i muri dei peristili accolgono, accanto alle pitture di giardino, paesaggi con animali, allusivi a riserve di caccia regali.
A fare tendenza è la Domus Aurea di Nerone, il cui ricchissimo programma pittorico, databile tra il 64 (data dell’incendio di Roma) e il 68, anno della morte di Nerone, è probabilmente da attribuire almeno in parte al Fabullo (o Famulo) ricordato da Plinio (Nat. hist. XXXV, 120) come artista manierista ed eclettico, amante dei contrasti. Gli spazi monumentali della Domus Aurea accolgono una ricca ornamentazione fantasmagorica, basata sul contrasto di colori squillanti, sull’abbondante uso di dorature, di inserti in paste vitree e di rilievi in stucco, nella ricerca di una luminosità particolarmente evidente nella sala detta “della volta dorata”, che diventerà un modello fondamentale per lo sviluppo della decorazione pittorica “a grottesche” ad opera degli artisti (da Raffaello a Pinturicchio a Giovanni da Udine) che nel XVI secolo, affascinati dalla pittura antica, si caleranno nelle rovine della residenza neroniana. I numerosi atelier attivi contemporaneamente a Pompei nei cantieri delle ristrutturazioni successive al terremoto del 62 applicano e rielaborano le tendenze eterogenee presenti nella Domus Aurea, naturalmente adeguandole alle diverse possibilità economiche dei loro clienti, con risultati a volte di grande fascino, tra cui basti ricordare le note pitture della Casa dei Vettii o della Casa del Menandro. Come già detto, dopo il 79 le testimonianze di pittura romana si fanno, per noi, più discontinue e frammentarie: in esse si nota comunque un abbandono dell’illusionismo, con una tendenza a sottolineare le strutture architettoniche, piuttosto che a negarle; ed un’apparenza di maggiore semplicità, che però va messa in relazione anche con una evoluzione dei modelli abitativi verso strutture edilizie di tipo condominiale, come le insulae che ad Ostia hanno restituito buona parte della documentazione per la pittura della media età imperiale. Alla base degli sviluppi successivi ai quattro stili pompeiani resta comunque un riferimento costante all’eterogeneo repertorio pittorico formatosi agli inizi dell’impero.