Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’XI e il XII secolo presentano una novità dirompente nell’evoluzione del concetto di meraviglioso e delle sue manifestazioni letterarie: l’emergere del folklore precristiano dalle forme di trasmissione orale alla narrativa degli intellettuali. Nascono così raccolte di mirabilia e trattati sul miracolo (Pietro di Cluny), e anche nelle storie nazionali (l’Inghilterra di Goffredo di Monmouth) personaggi magici ed elementi fiabeschi entrano in misura imponente e spesso indipendente dalla cornice culturale cristiana.
Goffredo di Monmouth
Prima testimonianza del personaggio di Fata Morgana
Vita Merlini
L’Isola dei frutti, Isola Fortunata,
ha nome di verità, perchè produce
ogni cosa da sola: non servono
contadini che arino i campi, non serve
coltivazione, tutto fa la natura;
produce di suo messi feconde ed uve,
e frutti che nascon
da piante intonse e preziose dei boschi.
Tutto genera la terra che trabocca di piante:
lì si vive cent’anni e di più.
Lì fanno legge
le nove sorelle che vi giunsero
partendo dalle nostre regioni.
La prima di questa divenne sapiente
nella medica arte, e supera le altre sorelle
in bellezza fiorente: il suo nome è Morgana,
e di tutte le piante ha imparato gli effetti,
per curare i corpi malati. Ma conosce
anche l’arte di cambiare l’aspetto,
e volare nell’aria con l’ali come un Dedalo nuovo:
quando vuole va a Brest, a Pavia oppure a Chartres,
quando vuole dal cielo lei scivola nelle vostre terre.
Dicono che imparò la matematica, dicono le sorelle:
Moronoe, Mazoe, Gliten, Glitonea, Gliton,
Tironoe, Titania, e Tithen famosa con la cetra.
Lì, dopo la guerra conducemmo Artù, rimasto ferito da Camblano. Ci guidava Barinto,
che sapeva le stelle ed i mari.
Con lui al timone non appena arrivammo laggiù
Morgana accolse anche noi con tutto l’onore
appropriato, e sistemò il re nelle sue stanze
sopra letti d’oro, e scoprì con la mano gloriosa
la ferita, che a lungo studiò, e alla fine poi disse
di poterla guarire, se restava più tempo con lei
e accettava di seguir le sue cure.
Felici allora affidammo il re a Morgana
e tornammo stendendo al vento propizio le vele.
Jacques Le Goff
Donne serpente
Melusina materna e dissodatrice
Nel capitolo 9 della parte IV del De nugis curialium, scritto tra il 1181 e il 1193 da un chierico che viveva alla corte reale d’Inghilterra, Walter Map, si racconta la storia del matrimonio di un giovane, evidentemente un giovane signore, Henno dai grandi denti (Henno cum dentibus, “così chiamato a causa della grandezza dei suoi denti”) con una strana creatura. Un giorno, a mezzodì, in una foresta non lontana dalle spiagge della Normandia, Henno incontra una fanciulla bellissima che indossa abiti regali, in lacrime. Essa gli confida di essere scampata al naufragio di una nave che la stava conducendo dal re di Francia, che doveva sposare. Henno si innamora della bella sconosciuta, la sposa e questa gli dà una bellissima progenie: “pulcherrimam prolem”. Ma la madre di Henno nota che la giovane donna, che si finge pia, evita l’inizio e la fine delle messe, si sottrae all’aspersione d’acqua benedetta e si astiene dalla comunione. Incuriosita fa un buco nel muro della camera della nuora e la sorprende mentre sta facendo il bagno sotto forma di drago (draco), per poi riprendere la sua forma umana dopo aver strappato in piccoli pezzi coi denti un mantello nuovo. Informato dalla madre, Henno, con l’aiuto di un prete, asperge d’acqua benedetta la moglie che, accompagnata dalla fantesca, balza via attraverso i tetti e scompare nell’aria cacciando un grande urlo. Di Henno e della moglie-drago esiste ancora all’epoca di Walter Map una numerosa discendenza, “multa progenies”. Il nome della creatura non è indicato e non è precisata l’epoca della storia; ma Henno dai grandi denti è forse lo stesso Henno (senza particolari che lo qualifichino) messo in scena in un altro passaggio del De nugis curialium (IV, 15) e che è situato fra personaggi e avvenimenti a metà tra storia e leggenda, che si possono far risalire alla metà del IX secolo.
Alcuni critici hanno avvicinato la storia di Henno dai grandi denti a quella della Dama del castello di Esperver narrata negli Otia imperialia (III 57), composti tra il 1209 e il 1214 da Gervase of Tilbury, un ex protetto, lui pure, di Enrico II d’Inghilterra, passato in seguito al servizio dei re di Sicilia, poi dell’imperatore Ottone IV di Brunswick, di cui era, al momento della redazione degli Otia imperialia, maresciallo per il regno di Arles. È in questo regno, nella diocesi di Valence (Francia, Drôme), che si trova il castello di Esperver. La dama di Esperver arrivava anche lei in ritardo alla messa e non poteva assistere alla consacrazione dell’ostia. Siccome suo marito e alcuni servi l’avevano un giorno trattenuta a forza nella chiesa, al momento delle parole della consacrazione volò via distruggendo una parte della cappella e scomparve per sempre. Una torre in rovina adiacente alla cappella era ancora, all’epoca di Gervasio, testimone di questo fatto di cronaca, che neppure esso è datato. Ma se c’è tra questa storia e quella della moglie di Henno dai grandi denti un’evidente rassomiglianza, se, quantunque non sia designata come un drago, la dama di Esperver è, anche lei, uno spirito diabolico scacciato dai riti cristiani (acqua benedetta, ostia consacrata), il testo di Gervasio di Tilbury è singolarmente povero rispetto a quello di Walter Map.
In compenso raramente si è pensato di avvicinare alla storia di Henno dai grandi denti quella, ugualmente raccontata da Gervasio di Tilbury, di Raimondo dello Château-Rousset. Non lontano da Aix-en-Provence, il signore del castello di Rousset, nella valle di Trets, incontra nei pressi del fiume Arc, una bella dama magnificamente vestita che lo interpella chiamandolo per nome e acconsente quindi a sposarlo a condizione che non cerchi di vederla nuda: in tal caso perderà tutta la prosperità materiale che ella gli avrà recato. Raimondo promette e la coppia conosce la felicità: ricchezza, forza e salute, numerosi e bei bambini. Ma l’imprudente Raimondo strappa un giorno la tenda dietro la quale nella sua camera la moglie sta facendo il bagno. La bella sposa si trasforma in serpente e scompare nell’acqua del bagno per sempre. Solo le nutrici la sentono di notte quando ritorna, invisibile a vedere i suoi bambini. Anche in questo caso la donna-serpente non ha nome e la storia non è datata; ma il cavaliere Raimondo, pur avendo perduto la maggior parte della sua prosperità e della sua felicità, ha avuto, dalla sua effimera sposa, una figlia (Gervasio non parla più degli altri figli) che ha sposato un nobile provenzale e la cui discendenza vive ancora all’epoca di Gervasio.
Come ci sono due donne-serpenti (serpente acquatico o alato) negli Otia imperialia, ce ne sono due nel De nugis curialium, poichè, accanto a Henno dai grandi denti, c’è Edric il selvaggio (“Edricus Wilde, quod est siluestris, sic dictus a corporis agilitate et iocunditate verborum et operum”), signore di Ledbury North, la cui storia è narrata nel capitolo 12 della parte II. Una sera, dopo la caccia, Edric si smarrisce nella foresta. In piena notte arriva davanti a una grande casa dove danzano nobili dame. Una di loro gli ispira una passione così viva che subito la rapisce e passa tre giorni e tre notti d’amore con lei. Il quarto giorno ella gli promette salute, felicità e prosperità a patto che egli non le chieda mai nulla delle sue sorelle, del bosco e del punto dove ha avuto luogo il rapimento. Egli promette e la sposa. Ma parecchi anni dopo, una notte, si irrita a non trovarla al ritorno dalla caccia. Quando infine arriva, egli in collera le chiede: “Perchè le tue sorelle ti hanno trattenuta così a lungo?”. Essa scompare. Lui muore di dolore. Ma lasciano un figlio di grande intelligenza, che è ben presto colpito da paralisi e da tremito alla testa e al corpo. Un pellegrinaggio alle reliquie di sant’Etelberto a Hereford lo guarisce. Egli lascia al santo la sua terra di Ledbury e una rendita annua di trenta libbre.
All’incirca nella stessa epoca – intorno al 1200 – in cui scrivevano Map e Gervasio di Tilbury, il cistercense Elinando di Froidmont raccontò la storia del matrimonio di un nobile con una donna-serpente, racconto che è perduto ma che è stato raccolto in un secco riassunto, quasi mezzo secolo dopo, dal domenicano Vincenzo di Beauvais nel suo Speculum naturale (II 127). “Nella provincia di Langres un nobile incontrò nel folto della foresta una bella donna rivestita di abiti preziosi, di cui si innamorò e che sposò. Essa amava spesso fare un bagno e fu vista un giorno da una serva mentre galleggiava sotto forma di serpente. Accusata dal marito e sorpresa nel bagno, scomparve per sempre e la sua progenie è ancora vivente” (“In Lingonesi provincia quidam nobilis […]”).
Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante, Torino, Einaudi, 1977
Alla corte del re inglese Enrico II fra 1154 e 1189 il gallese Walter Map raccoglie materiali narrativi confluiti nel De nugis curialium (“Gli svaghi dei cortigiani”), dove l’autore racconta “i detti e i fatti che non erano ancora consegnati alla scrittura su tutto quel che c’era di prodigioso (habere miraculum) allo scopo di contribuire al piacere della lettura e all’insegnamento di buoni comportamenti”, spiegando quel che sapeva per averlo visto o sentito.
I racconti riguardano avvenimenti sovrannaturali capitati a personaggi reali o comunque collocati, a differenza delle fiabe, in un tempo storico e in uno spazio geografico relativamente precisi. Guglielmo Rufo d’Inghilterra ad esempio è tormentato da un diavolo meridiano che gli ispira sogni cannibaleschi e gli procura la morte; un marchese arrestato da Luigi VII di Francia viene condannato, ma grazie alle suppliche della moglie incinta, ottiene la commutazione della pena nel taglio dell’orecchio destro, e quattro giorni dopo gli nasce il figlio, privo dell’orecchio destro; Nicola Pipe, che non riusciva a vivere senza sentire l’odore del mare, morì quando fu chiamato dal re di Sicilia che voleva conoscerlo: è lo stesso personaggio che ritroveremo in Gervasio di Tilbury, nel trovatore Raimon Jordan, e più tardi nella ballata di Schiller Der Taucher, o nella fiaba popolare siciliana di Cola Pesce. Wastinus Wastiniauc e Edrico il Selvatico sposano donne “fatate” incontrate in un bosco, che accettano l’unione solo a una determinata condizione, fino a che questa condizione inevitabilmente viene violata, provocando la scomparsa della donna e di quasi tutti i figli da lei generati. Ai racconti di fate si affiancano storie di morti viventi (come quelli che compongono l’esercito di Re Herla, l’Herla-King antenato di Arlecchino), di vampiri e di streghe che minacciano i bambini.
Una sistemazione delle tipologie fiabesche presenti in Walter è realizzata da Gervasio di Tilbury, nobile giramondo autore di Otia imperialia, composti nel 1210 per Ottone IV Brunswick.
Gervasio consapevolmente mette insieme un’enciclopedia etnografica delle meraviglie del mondo e propone una vera e propria categorizzazione dei prodigi naturali, distinti dalle invenzioni dei giullari, riprendendo la riflessione agostiniana sulla meraviglia come frutto dell’ignoranza ma insieme cogliendo l’importanza di narrazioni che suscitano piacere per la loro novità. Egli assume come criterio la “verità delle cose” e distingue i miracoli, che si collocano oltre la natura, dalle meraviglie, che obbediscono a leggi naturali, anche se non ancora decifrate. Il suo atlante del fantastico si basa su due fonti principali: da una parte i testi dell’antichità e la Bibbia, dall’altra la testimonianza quotidiana di persone attendibili o l’esperienza personale. I racconti degli Otia assumono la funzione antropologica di riscoprire il meraviglioso oscurato dall’abitudine e quella morale di mettere in guardia contro il demoniaco, mentre per noi si rivelano una fonte preziosa non solo sul folklore ma sulla storia del pensiero e dei metodi scientifici, della liturgia e dell’“esotismo” crociato, sulla lotta all’eresia e la vita di corte, e soprattutto sul quotidiano fra XII e XIII secolo. Questo atlante, poi letto da Pierre Bersuire e Boccaccio, descrive le virtù della salamandra insensibile al fuoco e la calce che brucia se bagnata con acqua fredda, il vento imprigionato da san Cesario e le sindoni cristiche di Edessa e di Lucca, la strada per gli antipodi e le abitudini dei delfini, le lamie e i demoni mascherati che rapiscono i neonati, la marcia dei morti di Arles e il ritorno dei defunti, l’albero che protegge dagli incubi e le reliquie di Lucca e di Tarascona, inframmezzandovi racconti inglesi come lo scontro di Merlino contro i giganti o la morte di re Artù precipitato nell’Etna.
La prima edizione parziale degli Otia, rimasta l’unica fino al 2002, venne curata dal filosofo Leibniz, bibliotecario del duca di Brunswick all’inizio del XVIII secolo.
Accanto all’immaginario celtico nel XII e XIII secolo trova la sua prima redazione scritta anche la mitologia nordica: la troviamo esposta sia nei poemi norreni come l’Edda o nelle versioni in prosa come l’Edda di Snorri o la Saga dei Volsunghi (o nelle altre saghe dei re, degli islandesi, del tempo antico, degli Sturlunghi, dei vescovi, dei cavalieri, dei santi) sia nella prosa latina classica ed elegante frammista a raffinati intermezzi poetici del misterioso Saxo Grammaticus, “il latinista sassone”, autore dei Gesta Danorum. Composti fra 1208 e 1228 per l’arcivescovo di Lund Absalon, fondatore di Copenaghen, raccontano i miti scandinavi basandosi sul “libro di granito” delle iscrizioni runiche, sui poeti celebrativi danesi di tradizione orale e sulle testimonianze dirette per gli eventi più recenti di un popolo che vive fra sorgenti arroventate e “ghiacci che gridano”: narrano le vicende di Skjöldr, il primo legislatore, arrivato durante l’infanzia da un paese misterioso e divenuto re, o – quattro secoli prima di Shakespeare – le trame di Amleto, malinconico e ironico principe iuto che si vendicherà dello zio fratricida, fino alla biografia di Ragnarr “brachepelose”. In un’ambientazione mitica si dipanano le imprese e gli amori di Giganti e Gigantesse dell’era preistorica, di eroi dai caratteri ondivaghi e complessi, di donne timide o sfrontate sempre sottoposte a violenze: tutti elementi rappresentati con “un’arte visiva e spettacolare, tesa alla drammatizzazione, non alla documentazione” (L. Koch) che fanno di quest’opera la Bibbia della letteratura nordica antica.
Altro grande filone del “fantastico” europeo è l’immaginario attestato nei testi di letterature germaniche, dall’Inghilterra all’Austria, che in molti elementi si incrocia e si sovrappone con quello veicolato da Saxo e dalle saghe norrene. I maggiori documenti anglogermanici di questo filone sono due. Il Beowulf, poema di 3182 versi sulle imprese di un principe dei Geti arrivato dalla Svezia alla corte del re danese Hrothgar per aiutarlo a liberarsi del mostro Grendel, oggetto di celebri riscritture moderne, fu composto verosimilmente fra VII e IX secolo ma è attestato in un solo manoscritto databile all’inizio dell’XI secolo. Il Nibelungenlied, fonte della mitologia tedesca di età romantica e dell’opera wagneriana, fu scritto in tedesco medio-alto nel XII secolo forse su commissione del vescovo bavarese di Passau, Wolfger von Erla, e fonde elementi mitologici relativi all’eroe Sigfried e alla regina Brunhilde con residui storici sulle migrazioni germaniche della tarda antichità come la sconfitta dei Burgundi da parte degli Unni, di cui resta traccia anche nel poema latino Waltharius.
Un caso esemplare di formazione del meraviglioso medievale è quello delle fate, donne “del destino” (fatum) o della natura (fatuae come femminile di fauni) che il folklore celtico conosceva come ninfe magiche e che il Medioevo trasforma gradualmente in una nuova categoria mitica, destinata a imporsi nella letteratura fantastica del romanticismo e poi dei racconti per l’infanzia.
Il sistema narrativo dei racconti di fate si articola sostanzialmente intorno a due tipologie di base. La prima tipologia è quella delle fate madrine, eredi delle Parche, testimoniate ad esempio nella popolarissima chanson de geste francese Huon de Bordeaux (XII-XIII sec., adattata in italiano come Ugo d’Alvernia) o nel romanzo francese del XII secolo Amadas et Ydoine. Anche gli sviluppi moderni come La bella addormentata nel bosco sono spesso riprese mediate di episodi medievali (in questo caso dal Roman de Perceforest).
L’altro modello, dominante nella letteratura medievale ma meno diffuso nei rifacimenti fiabeschi, è quello della fata il cui interesse è l’amore degli uomini, ottenuto a fronte di patti poi forieri di sviluppi tragici, o con rapimenti nel mondo incantato da cui sarà difficile liberarsi senza danni. In questo modello sono stati individuati due schemi. Lo schema-Melusina (fata che si umanizza e si sposa con un mortale, ma scompare alla rottura di un patto segreto) si trova in Map, Gervasio e Goffredo d’Auxerre ma si diffonde soprattutto grazie al vivace romanzo in prosa francese di Jean d’Arras – Histoire de Mélusine, 1392 –, versificato da La Coudrette pochi anni dopo e tradotto in tedesco da Thüring von Ringoltingen nel 1456, fino all’adattamento scenico di Hans Sachs nel 1556 e alle riscritture moderne di Goethe, Tieck, La Motte Fouqué, Baudelaire e Giraudoux.
La fata che non porta la propria sovrannaturalità nel mondo umano ma rapisce l’amato nella propria dimensione oltremondana segue invece il modello di Morgana, la terribile allieva di Merlino – probabile evoluzione letteraria di Muirgen, una divinità acquatica irlandese –, sorella di re Artù e sovrana di Avalon: essa compare all’improvviso nella Vita Merlini di Goffredo di Monmouth e in maniera indipendente nei romanzi di Chrétien de Troyes e in quelli di Robert de Boron prima di conoscere infinite varianti nel ciclo di Tristano, nel ciclo di Merlino e infine nella Morte d’Arthur con cui Thomas Malory la trasmette definitivamente all’immaginario inglese, e poi romantico, e infine cinematografico. In Italia è personaggio del quattrocentesco Cantare di Astore e Morgana e dell’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo. Questo tipo emerge con altri nomi e in altre forme sia nei racconti di Walter Map sia nei lai (novelle in versi) di Maria di Francia, sia nel ciclo arturiano con Viviana, amata da Merlino, e con la Dama del Lago che salverà Lancillotto e ne farà un cavaliere, sorta di doppia funzione narrativa di un personaggio unico. Anche su questo personaggio le riscritture d’autore fioriranno innumerevoli fino alle dame del lago di Walter Scott, di Rossini e Donizetti.