La nuova disciplina sull'immigrazione
Il massiccio intervento normativo sulle modalità di accesso alla giurisdizione dei cittadini stranieri che richiedano un titolo di soggiorno nel nostro Paese risulta insufficiente ed inefficace. Insufficiente perché permane un quadro disomogeneo di giudici competenti e modelli processuali. Inefficace perché manca l’obiettivo di contrazione della durata dei giudizi. Ma la criticità maggiore riguarda l’eliminazione del grado d’appello per i giudizi sulla protezione internazionale per la forte diversità riscontrabile tra il sindacato del giudice d’appello, esteso alla valutazione dei fatti, e quello di legittimità.
Il diritto dei cittadini stranieri al riconoscimento di un titolo di soggiorno, così come quello ad opporsi ad un provvedimento di allontanamento dal nostro Paese è stato investito ciclicamente da modifiche dei modelli processuali applicabili, tendenzialmente ispirate dall’esigenza, condivisibile, di creare un sistema omogeneo di accesso alla giurisdizione e dall’aspirazione, meno condivisibile in relazione agli strumenti prescelti, ad una definizione rapida delle controversie. Questo processo è culminato nella recente introduzione delle sezioni specializzate in materia d’immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea (e dei loro familiari) mediante il d.l. 17.2.2017, n. 13 convertito con modifiche dalla l. 13.4.2017, n. 46.
È necessario procedere all’illustrazione critica dei procedimenti investiti dalle modifiche normative processuali e quelli rimasti immutati, al fine di evidenziare l’obiettivo mancato della concentrazione delle tutele.
Il riconoscimento dell’elevato grado tecnico delle controversie in tema di diritto all’ingresso e soggiorno dei cittadini stranieri e la delicatezza del giudizio di bilanciamento con l’interesse statuale all’integrità e sicurezza del proprio territorio hanno indotto il legislatore alla creazione di sezioni dotate di una specializzazione peculiare i cui componenti siano selezionati per titoli (art. 2), siano obbligati alla partecipazione, almeno una volta ogni biennio, ai corsi di formazione organizzati dalla Scuola superiore della magistratura in collaborazione con l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (E.A.S.O.) e l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati. Le sezioni specializzate sono costituite presso le sedi di corte d’appello ed il tribunale giudica in composizione monocratica salvo che per il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale e per l’impugnazione dei provvedimenti adottati dall’autorità preposta alla determinazione dello Stato competente per l’esame della domanda di protezione internazionale (art. 3, co. 1, lett. e-bis) [1]. Per queste due tipologie di controversie il rito applicabile è quello camerale (art. 737 ss. c.p.c.).
Sono assoggettate alla competenza del tribunale in composizione monocratica, all’interno delle sezioni specializzate composte ex artt. 1 e 2 d.l. n. 13/2017:
a) le controversie relative al diritto di soggiorno dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e dei loro familiari. All’interno di questa categoria devono distinguersi i titoli di soggiorno temporanei, di durata non superiore a tre mesi (art. 6 d.lgs. 6.2.2007, n. 30) e quelli di durata superiore. Di rilievo preminente ai fini dell’indagine che si svolge sono i permessi di soggiorno dei quali ha diritto il familiare (extraeuropeo) del cittadino dell’Unione europea o del cittadino italiano (art. 7, co. 2, d.lgs. n. 30/2007) [2], in funzione della salvaguardia del diritto all’unione familiare, in quanto tali permessi sono eziologicamente collegati al divieto di espulsione stabilito dall’art. 19, co. 2, lett. c), d.lgs. 25.7.1998, n. 286 in favore del coniuge del cittadino italiano e dei conviventi stranieri con parenti entro il secondo grado di nazionalità italiana;
b) le controversie, anch’esse relative a titoli di soggiorno volti ad attuare il diritto all’unione familiare ma tra cittadini stranieri extraeuropei [3];
c) le controversie in materia di riconoscimento della protezione umanitaria. La scelta legislativa di ricondurre ad un’autonoma categoria i permessi umanitari, costituisce un’innovazione positiva perché per la prima volta se ne fornisce una collocazione normativa univoca anche sotto il profilo del regime processuale ma – come verrà illustrato infra, § 2.6 – non mancano incertezze sia in ordine al giudice competente che al modello processuale applicabile;
d) le controversie in materia di apolidia e cittadinanza.
Per quanto riguarda l’apolidia, se ne è sottolineata, anche di recente, la contiguità, specie sotto il profilo processuale dei poteri istruttori officiosi del giudice [4], con la protezione internazionale ma può condividersi l’opzione legislativa per il tribunale in composizione monocratica e per il rito sommario, fondato sulla necessaria attivazione del contraddittorio partecipato e sul grado d’appello. In ordine alla cittadinanza, la rilevanza e gli effetti del riconoscimento dello status in questione inducono a ritenere necessaria anche per queste controversie il contraddittorio partecipato, uno sviluppo istruttorio adeguato e il controllo del giudice d’appello;
e) le controversie in materia di allontanamento coattivo dei cittadini dell’Unione europea per motivi imperativi di pubblica sicurezza o per altri motivi di ordine pubblico e sicurezza di cui all’art. 20 del d.lgs. n. 30/2007 o perché sono venute a mancare le condizioni che determinano il diritto al soggiorno (art. 21) [5];
f) i procedimenti di convalida dei provvedimenti di allontanamento di cui alla lett. e) e quelli di convalida del trattenimento o della proroga del trattenimento del richiedente la protezione internazionale.
A questi deve essere aggiunta la convalida dei provvedimenti limitativi della libertà di circolazione (quali l’obbligo di firma o di dimora) adottati dal questore quando il termine massimo per il trattenimento del richiedente la protezione internazionale sia scaduto [6].
Non è stata investita dall’intervento normativo sopra illustrato la rilevante parte di controversie, in materia d’immigrazione, di competenza del giudice di pace così come è rimasta inalterata la competenza del tribunale per i minorenni stabilita nell’art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998.
Rimangono fuori dalla competenza delle sezioni specializzate in materia d’immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini dell’Unione europea (d’ora in poi sezioni specializzate) sia le controversie riguardanti l’opposizione all’espulsione disposta con provvedimento amministrativo dal prefetto sia i giudizi di convalida delle misure di attuazione coattiva del decreto espulsivo [7] o delle misure limitative della libertà circolazione dello straniero (obbligo di presentazione presso un ufficio di polizia, ritiro del passaporto, obbligo di dimora), disposte dal questore in caso di provvedimento di rimpatrio adottato mediante partenza volontaria o di allontanamento coattivo quando lo straniero sia munito di passaporto e sia stato espulso non per ragioni di ordine pubblico. In quest’ultima ipotesi le misure limitative della circolazione sono sostitutive del trattenimento presso il centro di permanenza per i rimpatri [8] anch’esse soggette al giudizio di convalida del giudice di pace (art. 13, co. 5, d.lgs. n. 286/1998).
Sia per il provvedimento che definisce l’opposizione al decreto espulsivo sia per tutti quelli relativi alla convalida delle misure coercitive di attuazione del rimpatrio è previsto come unico mezzo d’impugnazione il ricorso per cassazione. I giudizi di convalida seguono il rito camerale (artt. 737 ss. c.p.c.) e richiedono l’attivazione necessaria del contraddittorio [9] nonostante siano caratterizzati da particolare celerità, in ossequio all’art. 13, co. 3, Cost. Al riguardo, per le misure limitative della libertà di circolazione conseguenti all’opzione prefettizia per la partenza volontaria (art. 13, co. 5) e per quelle analoghe che possono essere disposte anche all’esito di un provvedimento coattivo di attuazione dell’espulsione (art. 14, co. 1-bis), il provvedimento amministrativo deve essere comunicato o notificato al giudice di pace entro quarantotto ore dall’adozione ed il giudice deve decidere a pena d’inefficacia delle misure adottate nelle quarantotto ore successive. Stessa limitazione temporale per il provvedimento di trattenimento. Sull’applicabilità dei termini sopra indicati al giudizio relativo alla proroga del trattenimento, qualora permangono le esigenze poste a base della misura originariamente adottata, deve registrarsi una non univocità di orientamenti nella giurisprudenza di legittimità determinata dalla diversa natura giuridica del provvedimento originario. La proroga del trattenimento viene richiesta preventivamente dal questore, mentre il trattenimento viene disposto dall’autorità amministrativa e successivamente assoggettato al sindacato del giudice della convalida.
Tale diversità strutturale ha dato luogo ad un orientamento secondo il quale tra la richiesta e l’adozione del provvedimento giurisdizionale di verifica dei presupposti può decorrere anche un termine superiore alle quarantotto ore purché non si oltrepassi il termine originariamente disposto per il trattenimento [10].
Una successiva pronuncia, invece, ha affermato che sulla richiesta di proroga il giudice (di pace, o il tribunale in composizione monocratica se la proroga attiene ad un trattenimento posto a carico di un richiedente protezione internazionale) deve decidere inderogabilmente nelle quarantotto ore successive alla richiesta del questore.
Il ricorso per cassazione per queste ultime tipologie di provvedimenti, caratterizzati da un’efficacia temporale limitata, risulta sempre intempestivo, intervenendo quasi sempre dopo che la misura coercitiva abbia esaurito i propri effetti. È stato tuttavia ritenuto [11] che anche in tale ipotesi si conservi l’interesse ad agire del ricorrente sia per il diritto al risarcimento derivante dall’illegittima privazione della libertà personale, sia al fine di eliminare ogni impedimento illegittimo al riconoscimento della sussistenza delle condizioni di rientro e soggiorno nel territorio italiano.
Le interferenze tra giudizi, assoggettati alla competenza di organi giudiziari diversi, riguardanti, da un lato, il diritto al rilascio o al rinnovo di un titolo di soggiorno e, dall’altro, l’opposizione al provvedimento di espulsione sono riconducibili a due tipologie. La prima riguarda la contemporanea pendenza dei due procedimenti sopra richiamati. All’esito del diniego da parte dell’autorità amministrativa della richiesta di permesso di soggiorno (generalmente riconducibile lato sensu all’esercizio del diritto all’unità familiare) viene emesso provvedimento di espulsione. Il cittadino straniero può impugnare entrambi ma, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità, l’accertamento relativo alla verifica giudiziale delle condizioni per il titolo di soggiorno non si pone in nesso di pregiudizialità con l’opposizione all’espulsione, con la conseguenza che il giudice di pace non può adottare un provvedimento di sospensione del processo ex art. 295 c.p.c. Peraltro, a differenza che per il giudizio di primo grado relativo alla protezione internazionale, il ricorso davanti al tribunale in composizione monocratica non produce un effetto sospensivo automatico sul provvedimento di diniego del permesso di soggiorno. Il ricorrente può esclusivamente richiedere in via cautelare la sospensione degli effetti del provvedimento impugnato ex art. 5 d.lgs. 1.9.2011, n.150 (o in virtù della generale applicabilità della tutela cautelare) ma non può attivare alcuno strumento di tutela nel giudizio davanti al giudice di pace. A parte le perplessità espresse anche in dottrina in ordine al principio della totale assenza di pregiudizialità tra i due giudizi [12] deve osservarsi che ove gli interventi legislativi sui modelli processuali relativi all’ingresso ed al soggiorno dei cittadini stranieri fossero stati meno mutevoli e non avessero determinato la frammentazione di competenze che permane anche dopo l’introduzione delle sezioni specializzate per l’immigrazione, le criticità segnalate avrebbero potuto essere eliminate, specie nell’ipotesi di procedimenti pendenti nello stesso grado ed all’interno della medesima circoscrizione giudiziaria (questa è l’ipotesi più frequente), facendo confluire davanti allo stesso giudice le due controversie.
Un altro versante d’interferenza riguarda gli effetti del giudicato relativo al diniego od alla revoca del titolo di soggiorno (od all’inoppugnabilità del provvedimento amministrativo) e l’operatività dei divieti di espulsione stabiliti nell’art. 19 d.lgs. n. 286/1998 nel successivo giudizio di opposizione al provvedimento espulsivo.
L’art. 19 sopra richiamato prevede, al co. 1, la non espellibilità del cittadino straniero verso un Paese dove possa essere oggetto di persecuzione, in applicazione del principio di diritto internazionale del non refoulement ed, al co. 2, lett. c), del cittadino straniero che sia coniuge o parente entro il secondo grado di cittadino italiano.
Per quanto riguarda la prima ipotesi, il rigetto definitivo di una domanda di protezione internazionale impedisce al ricorrente in un procedimento di opposizione all’espulsione di far valere le medesime ragioni poste a base della precedente azione ma non di evidenziarne nuove e diverse o di allegare fatti non emersi nell’ambito dell’accertamento della protezione internazionale perché non ancora conosciuti dal richiedente [13].
Analogamente se il permesso di soggiorno per motivi familiari rilasciato al coniuge o parente entro il secondo grado di cittadino italiano sia stato definitivamente revocato, la causa di non espellibilità non può essere fatta valere nel successivo giudizio in quanto l’accertamento giudiziale, anche in ordine al bilanciamento del diritto all’unità familiare con gli interessi statuali legati alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dello Stato, è stato già definitivamente eseguito.
Diversa è la soluzione nell’ipotesi opposta della allegazione della causa di non espellibilità per la prima volta in sede di opposizione all’espulsione. La cognizione del giudice di pace è in questo caso piena e deve essere svolta secondo i criteri stabiliti nell’art. 19 anche in ordine all’eventuale valutazione, in concreto, di profili di pericolosità sociale del richiedente ostativi alla positiva valutazione della causa di non espellibilità.
Infine, l’esistenza e l’effettività dei vincoli familiari, unitamente alla durata del soggiorno e ai legami concreti (familiari, sociali e culturali) con il Paese d’origine deve essere sempre tenuta in considerazione in sede di decisione in ordine alla legittimità del provvedimento di espulsione, quando la misura sia fondata sull’ingresso o soggiorno irregolare (e non per la ricorrenza di condizioni più gravi, quali la pericolosità sociale), sulla base di una valutazione da svolgere caso per caso secondo le prescrizioni provenienti dalle direttive europee n. 86/2003 e 115/2008 [14].
L’art. 31, espressamente intitolato Disposizioni in favore dei minori, prevede al co. 3 che, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psico-fisico del minore, tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute dello stesso, si può autorizzare temporaneamente l’ingresso o la permanenza del genitore straniero non regolarmente entrato o soggiornante nel nostro territorio. La norma, fondata sull’espressa esigenza di protezione del preminente interesse del minore, attribuisce la competenza al tribunale per i minorenni territorialmente competente, sulla base della residenza abituale del minore, da ritenersi, in mancanza di un espresso criterio diverso imposto dalla norma, il parametro ordinario di radicamento della competenza territoriale in tema di diritti dei minori.
Ancora una battuta d’arresto rispetto all’obiettivo della concentrazione delle tutele. La conservazione della competenza del tribunale per i minorenni, per la collocazione territoriale di questo organo giudiziario, in primo luogo, non è coerente con il principio di prossimità che dovrebbe sostenere l’accesso alla giurisdizione per la tutela dei diritti fondamentali ma coincide con la collocazione territoriale delle sezioni specializzate per l’immigrazione, competenti in tema di diritto all’unità familiare. Il rito camerale e l’articolazione dei poteri-doveri delle parti e del giudice sono diversi rispetto alle sezioni specializzate per l’immigrazione, le quali giudicano in composizione monocratica e con il rito sommario di cognizione. Infine, anche per questa tipologia di giudizi vale la considerazione svolta supra, § 2.3, in ordine agli effetti della contemporanea pendenza di un giudizio ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 ed uno di opposizione al provvedimento di espulsione emesso nei confronti del genitore richiedenti. Tra i giudizi è escluso il nesso di pregiudizialità tecnica ed il rischio di un ordine di rimpatrio attuato prima della definizione del giudizio ex art. 31, co. 3, d.lgs. n. 286/1998 è concreto.
L’intervento sul giudice competente e sui modelli processuali applicabili non è stato di lieve entità. Come già accennato (v. supra, § 1.), ha coinvolto la gran parte delle cause riguardanti i diritti dei cittadini stranieri al riconoscimento di un titolo di soggiorno valido ed efficace nel nostro territorio ed, infine, ove ne ricorrano le condizioni, di ottenere lo status di cittadino italiano. Le modifiche più rilevanti hanno riguardato i procedimenti relativi al riconoscimento della protezione internazionale ed i permessi umanitari. Per i primi l’intervento legislativo ha riguardato sia la fase che si svolge davanti alle Commissioni territoriali, in ordine alla quale è stata prevista l’audizione del cittadino straniero mediante videoregistrazione, sia quella che si svolge davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, in ordine alla quale è stata radicalmente modificata l’articolazione endoprocessuale, in relazione al primo grado ed alla prefigurazione dei rimedi impugnatori. Il giudizio si svolge davanti alla sezione specializzata per l’immigrazione a composizione collegiale. È tendenzialmente escluso il contraddittorio partecipato, secondo una prognosi di piena sufficienza dell’istruzione svolta davanti alle Commissioni territoriali ed, infine, eliminato il grado d’appello.
Lo stesso modello processuale e la competenza delle sezioni specializzate per l’immigrazione in composizione collegiale sono previste per le impugnazioni dei provvedimenti adottati dall’autorità preposta [15] alla determinazione dello Stato competente all’esame della domanda di protezione internazionale e contro le decisioni di trasferimento assunte da tale autorità (art. 3 bis d.lgs. 28.1.2008, n. 25, così come modificato dal d.l. n. 13/2017).
Come già indicato (v. supra, § 1.), anche il riconoscimento dello status di apolide e di cittadino italiano sono stati inclusi nella competenza delle sezioni specializzate per l’immigrazione e più esattamente del tribunale in composizione monocratica. Il rito applicabile è quello sommario di cognizione e la competenza territoriale si radica in relazione al luogo in cui il richiedente ha la dimora ex art. 19 bis d.lgs. n. 150/2011 [16]. Il provvedimento di primo grado è appellabile ex art. 702 quater c.p.c. e avverso quello di secondo grado può essere proposto ricorso per cassazione. Per quanto riguarda l’ammissibilità della sospensione dell’efficacia del provvedimento amministrativo di diniego (in particolare dell’apolidia [17]) si rinvia al paragrafo successivo, essendo identico il modello processuale. Deve condividersi la scelta legislativa di definire il rito applicabile ed, in particolare, il criterio di radicamento della competenza territoriale, in quanto non vi era certezza né in ordine al primo né in relazione al secondo. Si riteneva, prevalentemente, applicabile, in assenza d’indicazione e, conseguentemente, in via residuale, il rito ordinario di cognizione per i gradi di merito [18], con assegnazione del procedimento al tribunale in composizione collegiale (ex art. 50 bis, n. 1, e 70, n. 3, c.p.c., qualificando la domanda come relativa allo status del richiedente). Per quanto riguarda la competenza territoriale, questa veniva radicata nel foro di Roma, in quanto convenuto era il Ministero degli interni. L’intervento legislativo ha fornito un assetto soddisfacente al rito ed ha fissato un criterio di competenza territoriale più coerente con il principio di prossimità.
Alle sezioni specializzate per l’immigrazione è attribuita anche la competenza in ordine al diritto di soggiorno sul territorio nazionale dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e dei loro familiari, comprendente i permessi di soggiorno per motivi familiari richiesti dal coniuge o dal parente entro il secondo grado di cittadino italiano o di uno Stato membro dell’Unione europea (art. 3, co. 1, lett. a) ed anche le controversie in materia di diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare e gli altri permessi relativi all’esercizio del diritto all’unità familiare riguardanti cittadini stranieri (artt. 2830 d.lgs. n. 286/1998). Si applica il rito sommario di cognizione (artt. 16 e 20 d.lgs. n. 150/2011). Il tribunale presso la sezione specializzata decide in composizione monocratica. La competenza territoriale per i procedimenti di cui al citato art. 16 (riguardanti i titoli di soggiorno dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari, nonché dei familiari stranieri dei cittadini italiani), è radicata nella sede della sezione specializzata ove ha la dimora il richiedente. Si deve ritenere che il criterio della dimora valga anche nell’ipotesi in cui vi sia stato un provvedimento di diniego della richiesta originaria, di modifica o di rinnovo del permesso di soggiorno. Per i procedimenti di cui all’art. 20 ( titoli di soggiorno giustificati dal diritto all’unione familiare ma con riferimento a rapporti di coniugio e parentela tra cittadini stranieri extra Unione europea) la competenza territoriale si radica sul diverso criterio identificativo dell’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato. Verosimilmente, con la costituzione delle sezioni specializzate presso la sede delle corti d’appello, l’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato ha sede nel medesimo distretto (generalmente coincidente con l’area territoriale regionale) della corte d’appello ma, nell’ipotesi in cui ciò non accada, non è comprensibile la ratio della diversa individuazione del criterio di radicamento della competenza territoriale per procedimenti omogenei quanto al diritto azionato (all’unità familiare) e all’accertamento giudiziale da svolgere (effettività del vincolo di parentela; esistenza di un legame coniugale; assenza di condizioni ostative ed in particolare, ove ricorra, valutazione bilanciata della pericolosità sociale, anch’essa concreta ed attuale, del richiedente).
Le pronunce di primo grado sono impugnabili ex art. 702 quater c.p.c. presso la corte d’appello, con atto di citazione e non con ricorso [19].
La sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento di diniego o revoca del titolo di soggiorno richiesto all’autorità amministrativa può essere richiesta, ex art. 5 d.lgs. n. 150/2011, con l’atto introduttivo del giudizio. La proposizione dell’istanza non sospende l’esecutività del provvedimento impugnato. La previsione espressa di un sub-procedimento rivolto alla decisione dell’istanza di sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato e l’applicabilità del procedimento sommario di cognizione pongono l’interrogativo dell’ammissibilità in corso di giudizio della ordinaria tutela cautelare prevista dal codice di procedura civile (art. 669 bis ss. c.p.c.). Poiché la decisione che definisce il giudizio ha attitudine al giudicato [20] e non ha natura giuridica “sommaria”, non dovrebbe escludersi il ricorso ex art. 669 quater c.p.c. alla tutela cautelare o d’urgenza, potendo la necessità della sospensione del provvedimento impugnato intervenire in corso di giudizio per la caducazione di un ulteriore titolo giustificativo del soggiorno del richiedente. Una recente pronuncia del Tribunale di Napoli [21] ha ritenuto ammissibile la proposizione di una domanda cautelare in corso di giudizio assoggettato al rito sommario. In questa ipotesi il reclamo avverso il provvedimento cautelare è di competenza del tribunale in composizione collegiale (art. 669 terdecies c.p.c.).
Le sezioni specializzate sono competenti anche per le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di allontanamento coattivo dei cittadini di Stati membri dell’Unione europea o dei loro familiari giustificato da motivi imperativi di pubblica sicurezza e dagli altri motivi di pubblica sicurezza (secondo la definizione contenuta nell’art. 20 d.lgs. n. 30/2007) o sono venute meno le condizioni che determinano il diritto al soggiorno. Sia nella prima che nella seconda ipotesi il prefetto può adottare il provvedimento di allontanamento coattivo ma, con particolare riferimento all’art. 21, la sopravvenuta mancanza delle ragioni giustificative del titolo di soggiorno può dar luogo anche ad un mero provvedimento reiettivo del titolo in sede di rinnovo od ad un provvedimento di revoca. L’attuazione coattiva del provvedimento di allontanamento è disposta dal questore. Anche questo provvedimento è assoggettato al controllo giurisdizionale mediante giudizio di convalida [22]. Per entrambi i procedimenti è competente il tribunale in composizione monocratica della sezione specializzata per l’immigrazione ed il modello processuale è quello del rito sommario (art. 17 d.lgs. n. 150/2011) per i procedimenti relativi all’accertamento delle condizioni di legge per disporre l’allontanamento coattivo. Per il procedimento di convalida, in mancanza d’indicazioni normative specifiche dovrebbe applicarsi il rito camerale anche in considerazione della natura del giudizio e dell’esigenza di celerità, enfatizzata dalla nuova previsione relativa alla possibilità di disporre l’audizione dell’interessato mediante collegamento audiovisivo dal centro ove è trattenuto (art. 20 ter d.lgs. n. 30/2007 così come modificato dall’art. 10, co. 1, lett. a-b, d.l. n. 13/2017). La sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento di allontanamento coattivo è prevista espressamente dall’art. 17, co. 6, d.lgs. n. 150/2011, per il procedimento relativo all’allontanamento coattivo. Si ritiene, tuttavia, che l’accesso alla tutela cautelare possa essere più ampio e si richiamano al riguardo le condizioni indicate nel paragrafo che precede. Non si rinviene, invece, per il procedimento di convalida dell’esecuzione immediata dell’allontanamento coattivo, una disposizione riguardante il diritto a richiedere la sospensione dell’efficacia sospensiva del provvedimento impugnato, ma la derivazione costituzionale (art. 24 Cost.) della tutela cautelare induce a ritenere ammissibile anche questo efficace strumento processuale.
Il quadro delle competenze delle sezioni specializzate per l’immigrazione in tema di controllo giurisdizionale sulle misure limitative della libertà personale si completa con i procedimenti di convalida del trattenimento o della proroga dei richiedenti la protezione internazionale e delle misure alternative al trattenimento ma impositive di vincoli alla circolazione ex art. 14, co. 6, d.lgs. 18.8.2015, n. 142.
La parte più controversa della riforma processuale oggetto della presente indagine riguarda i giudizi relativi alla protezione internazionale e quelli concernenti le condizioni per il rilascio di permessi umanitari.
Le modifiche di natura processuale più incisive hanno riguardato il complessivo procedimento relativo al riconoscimento della protezione internazionale nelle due forme tipizzate dal legislatore [23], il rifugio politico e la protezione sussidiaria. Nell’impianto originario disegnato dal d.lgs. n. 25/2008 di attuazione della direttiva 2005/85/CE, la fase giurisdizionale del procedimento prevedeva tre gradi di giudizio, sottoposti al rito camerale (art. 35). Con l’entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2011, il procedimento giurisdizionale di primo grado è stato assoggettato al rito sommario ed è stato attribuito alla competenza del tribunale in composizione monocratica. Al giudizio d’appello è stato applicato l’art. 702 quater c.p.c. ed il giudizio di cassazione si è svolto nelle forme ordinarie. Questo modulo processuale è stato vigente dal 6 ottobre 2011 al 17 agosto 2017. Con l’entrata in vigore del d.l. n. 13/2017, convertito dalla l. n. 46/2017, all’art. 21, co. 1, è stato stabilito che le disposizioni relative all’istituzione delle sezioni specializzate per l’immigrazione, all’adeguamento del modulo processuale e alle modifiche riguardanti il giudizio davanti la Commissione territoriale, sarebbero state applicabili dal centottantesimo giorno dall’entrata in vigore del decreto legge (18 aprile 2017) ovvero dal 18 agosto 2017. L’innovazione processuale è stata radicale, avendo investito sia il procedimento amministrativo, sia il procedimento giurisdizionale nel suo complesso. Essa rappresenta un modus agendi tipico del legislatore del processo nell’ultimo decennio. I rimedi legislativi alla durata eccessiva dei giudizi sono piuttosto ripetitivi: la concentrazione del procedimento, l’elasticità dell’articolazione endoprocedimentale, garantita dal modello camerale ed arricchita, nella specie, dalla volontà di eliminare il contraddittorio partecipato nel giudizio di primo grado [24]. E inoltre la previsione di una durata massima di ciascun grado del giudizio: quattro mesi per il primo grado, sei mesi per il giudizio di legittimità ma il limite massimo scatta solo «in caso di rigetto», ovvero, provando a decifrare la disposizione non priva di oscurità, a seconda dell’esito del giudizio precedente, così prevedendo una disparità di regime giuridico (ove il limite acquisti una qualche operatività) non giustificata.
Infine, deve richiamarsi la modifica relativa a tutta la fase giurisdizionale, relativa all’omessa applicazione della sospensione dei termini feriali. Anche questa previsione è applicabile solo ai giudizi instaurati a partire dal 18 agosto 2017.
L’art. 6, co. 1, lett. g), d.l. n. 13/2017 ha introdotto nel corpus del d.lgs. n. 25/2008 l’art. 35 bis, specificamente rivolto a disciplinare il procedimento giurisdizionale relativo alla protezione internazionale. La presente indagine deve essere limitata alle modifiche del modello processuale preesistente senza alcuna menzione di ciò che è rimasto immutato.
L’innovazione di maggior rilievo è l’eliminazione, quanto meno tendenziale, dell’udienza di comparizione delle parti nel giudizio di primo grado, da ritenersi eziologicamente collegata allo svolgimento nel giudizio davanti le Commissioni territoriali, dell’audizione mediante videoregistrazione del colloquio [25] con il richiedente (art. 14 d.lgs. n. 25/2008 così come sostituito dall’art. 6, co. 1, n. 3-sexies, lett. c, d.l. n. 13/2017), oltre che dell’acquisizione di tutti gli atti, i documenti e le informazioni sul Paese d’origine. La trattazione del giudizio di primo grado non partecipata subisce talune eccezioni elencate nel co. 10 dell’art. 35 bis sopra citato. La norma, nonostante nell’incipit indichi che l’udienza di comparizione deve essere fissata «esclusivamente» nelle ipotesi elencate, non ha carattere tassativo dal momento che si apre con una previsione elastica, stabilendo che il giudice può disporre l’audizione della parte «quando lo ritenga necessario». Anche le altre prescrizioni sono molto generali e non limitano il potere del giudice di dare al giudizio lo sviluppo istruttorio che richiede.
È prevista la comparizione delle parti [26] quando il giudice ritenga indispensabile chiedere chiarimenti o decida d’integrare l’istruzione probatoria, ed ovviamente quando la videoregistrazione non sia disponibile o l’interessato ne faccia motivata richiesta e il giudice l’accolga o siano stati dedotti elementi nuovi rispetto a quelli che hanno condotto alla decisione della Commissione territoriale. Anche se non prevista, deve ritenersi necessaria la comparizione delle parti quando il richiedente non abbia voluto avvalersi della videoregistrazione e la Commissione abbia deciso di accogliere tale istanza. La discrezionalità del giudice del merito in ordine all’attivazione del contraddittorio non è, tuttavia, insindacabile. In particolare, da una motivata richiesta di parte deriva l’obbligo di motivare il diniego (o di disporre la comparizione). L’omessa valutazione dell’istanza può ritenersi una violazione del contraddittorio, attenendo specificamente all’esercizio del diritto di difesa. Analogamente può ritenersi nell’ipotesi in cui, formulate istanze istruttorie specifiche, si proceda alla decisione senza alcuna risposta in ordine alle stesse e al preventivo obbligo di disporre la comparizione della parte. Anche il rigetto che si fondi sulla mera insufficienza delle dichiarazioni rese davanti alla Commissione deve ritenersi illegittimo [27] avendo in questa ipotesi il giudice l’obbligo di colmare le lacune riscontrate disponendo la comparizione della parte, ed eventualmente esercitando il potere-dovere d’informarsi sulla corrispondenza alla realtà del Paese di provenienza della situazione narrata. In conclusione, l’audizione è necessaria ogni qual volta le dichiarazioni del richiedente richiedano un approfondimento istruttorio in ordine alle condizioni generali del Paese o di alcune aree dello stesso o, come indica lo stesso art. 35 bis, co. 11, l’impugnazione si fondi su elementi non dedotti nel corso della procedura amministrativa in primo grado. Deve essere rilevato che all’esito di tale fase, non si produce alcuna preclusione in punto di allegazione di fatti, e che le nuove deduzioni ed allegazioni possono essere di natura oggettiva o sorgere dalla situazione personale del richiedente, dovendo la valutazione delle condizioni per il riconoscimento della protezione internazionale essere svolta sempre con riferimento alla situazione attuale al momento della decisione (art. 3 d.lgs. 19.11.2007, n. 251).
La compulsione acceleratoria del legislatore, oltre a prefigurare un modello di accesso alla giurisdizione tendenzialmente non partecipato, ha prodotto anche l’eliminazione del grado d’appello, ovvero di un controllo giurisdizionale esteso al riesame dei fatti e delle risultanze istruttorie. Il giudizio sulla protezione internazionale è un giudizio prevalentemente fondato sull’accertamento e la valutazione di elementi di fatto, allegati dalle parti e ricercati officiosamente dal giudice, al fine di verificare se le dichiarazioni della parte, una volta ritenute credibili, secondo il criterio normativo stabilito nell’art. 3 d.lgs. n. 251/2007, trovino riscontro nella situazione sociopolitica del Paese. La valutazione relativa all’intrinseca veridicità delle dichiarazioni del ricorrente integra un giudizio sul fatto. Il sindacato sulla credibilità del ricorrente non è censurabile in sede di giudizio di legittimità, ma certamente sarebbe riesaminabile nel giudizio d’appello. Anche sotto il profilo dei riscontri oggettivi, relativi alla situazione generale del Paese, la valutazione del giudice di primo grado non può essere riesaminata dal giudice di legittimità, mentre può formare oggetto anche di esercizio dei poteri istruttori officiosi da parte del giudice d’appello. Queste sintetiche notazioni, non certo esaustive delle differenze tra giudizio d’appello e di cassazione, evidenziano la crucialità del giudizio di primo grado ed il rigore nell’accertamento dei fatti che tale giudizio, nonostante le indicazioni normative che tendono a fornirne una veste meramente impugnatoria, deve avere.
L’esame dei fatti nel giudizio di legittimità è limitato all’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti. Non può più essere valutata la congruità logica della motivazione a meno che essa non sia meramente apparente, mancante o assolutamente perplessa. L’omissione deve riguardare i fatti e non i mezzi istruttori [28].
La recente opzione legislativa per il modello camerale non partecipato anche nel giudizio di legittimità [29] accentua tale carattere dei procedimenti giurisdizionali relativi alla protezione internazionale e ne evidenzia la peculiarità negativa consistente nella concentrazione dell’attività di accertamento istruttorio nella fase amministrativa iniziale del procedimento, nonostante il rilievo cruciale dei profili fattuali, nonostante la natura dei diritti coinvolti e l’esigenza di procedere ad una valutazione attuale, riferita al momento della decisione, della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente.
Sono assegnate alla competenza delle sezioni specializzate anche le controversie in materia di riconoscimento della protezione umanitaria ex art. 3, lett. d), d.l. n. 13/2017. La norma sembra indicare esclusivamente le misure di protezione umanitaria delle quali le Commissioni territoriali richiedono il rilascio al questore, quando non possono essere riconosciuti gli status tipici della protezione internazionale ma si ravvisano condizioni di vulnerabilità (art. 32, co. 3, d.lgs. n. 25/2008). La predeterminazione normativa del modello processuale applicabile alla “protezione umanitaria” costituisce una novità rilevante e positiva dal momento che prima dell’intervento legislativo è stata la giurisprudenza a definire la giurisdizione [30], i modelli e gli strumenti processuali applicabili, oltre che a riempire di contenuto la categoria delle situazioni di vulnerabilità dalle quali può sorgere il diritto alla protezione umanitaria [31].
Anche nel nuovo quadro normativo processuale tuttavia, permangono perplessità applicative.
Il primo interrogativo sorge proprio per l’esclusivo riferimento all’art. 32 sopra illustrato. Il collegamento alla decisione delle Commissioni territoriali pone il problema del modello d’impugnazione e dell’individuazione del giudice competente nell’ipotesi non infrequente in cui la Commissione territoriale abbia rigettato integralmente la domanda di protezione internazionale, così implicitamente negando che vi fossero le condizioni anche per il rilascio del permesso umanitario. L’art. 3, co. 4, d.l. n. 13/2017 assegna al tribunale in composizione monocratica le controversie relative al riconoscimento della protezione umanitaria ma l’impugnazione dei provvedimenti delle Commissioni territoriali è generalmente rimessa al tribunale in composizione collegiale, in quanto giudice della protezione internazionale ed assoggettata in ordine al rito ai termini di proposizione del ricorso, all’effetto sospensivo automatico conseguente alla proposizione del ricorso stesso e all’eliminazione del grado d’appello, al regime giuridico processuale di tale giudizio.
Deve rilevarsi, preliminarmente, che l’art. 35, co. 1 e 2, d.lgs. n. 25/2008, richiamato dall’art. 3, co. 4-bis, d.l. n. 13/2017, individua solo nei provvedimenti relativi al rifugio politico ed alla protezione sussidiaria quelli cui è applicabile il nuovo regime processuale stabilito nell’art. 35 bis, sopra citato, ovvero al rito camerale (artt. 737 ss. c.p.c.).
Il legislatore sembra, pertanto, non aver considerato le difficoltà applicative sopra individuate oltre ad aver ignorato che i permessi di natura umanitaria preesistevano al sistema normativo della protezione internazionale, essendo già previsti e disciplinati nell’art. 5, co. 6, d.lgs. n. 286/1998.
Qualsiasi soluzione applicativa si voglia adottare, deve essere considerato che di fronte ad un quadro normativo nuovo e non perspicuo, non possono essere assunti provvedimenti impedienti in rito l’accesso al riconoscimento giurisdizionale delle condizioni per il rilascio di un permesso umanitario se fondati su un’opzione processuale oltre che non univoca non preventivamente conosciuta o conoscibile.
La giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto, nella materia processuale, l’applicabilità del principio dell’affidamento negli orientamenti consolidati e l’inoperatività degli ovverruling sui giudizi in corso (Cass., S.U., 21.11.2011, n. 24413) proprio al fine di dare attuazione piena al principio costituzionale del diritto al contraddittorio.
La competenza territoriale non pone, invece, alcun problema essendo individuata nella sezione specializzata, monocratica o collegiale, nella cui circoscrizione ha sede l’autorità che ha emesso il provvedimento impugnato (art. 4 d.l. n. 13/2017, convertito dalla l. n. 46/2017). L’ indicazione specifica dell’organo giudiziario (tribunale) è sufficiente. L’indicazione della composizione monocratica o collegiale, eventualmente diversa da quella prescelta dall’ufficio giudiziario deve ritenersi priva di conseguenze sul piano degli effetti processuali dell’atto introduttivo del giudizio. Più problematica è la soluzione nell’ipotesi in cui la domanda relativa alla protezione umanitaria sia proposta autonomamente e non in conseguenza del provvedimento della Commissione territoriale. Ove tale domanda sia ritenuta ammissibile, in conseguenza della inclusione delle misure di protezione umanitaria nelle modalità di attuazione del diritto costituzionale d’asilo [32], occorrerà verificare in primo luogo se la competenza spetti alle sezioni specializzate ex art. 3, lett. d), nonostante si tratti di azioni non scaturenti dai provvedimenti assunti dalle Commissioni territoriali ex art. 32 d.lgs. n. 25/2008, ed in secondo luogo come individuare la competenza territoriale. Si deve ritenere che qualsiasi forma di protezione qualificabile come umanitaria sia di competenza delle sezioni specializzate, in composizione monocratica, se il ricorso ha questo esclusivo oggetto. Il tribunale avrà composizione collegiale ove la domanda sia proposta in via subordinata rispetto agli status tipizzati e monocratica se proposta autonomamente. La competenza territoriale, quando manchi un provvedimento impugnabile deve essere ancorata residualmente alla dimora del ricorrente. In ordine all’assoggettamento ai medesimi termini perentori che governano il giudizio relativo alla protezione internazionale, occorre distinguere il caso in cui viene impugnato un provvedimento della Commissione territoriale dalla autonoma azionabilità del diritto. Nella prima ipotesi sembra inevitabile, in via interpretativa, applicare i termini perentori previsti per la protezione internazionale. Nella seconda ipotesi invece non appare configurabile alcun limite all’accesso alla giurisdizione ordinaria. Il legislatore non ha indicato quale sia il rito applicabile. Quello preferibile sembra essere quello camerale. Ma non può escludersi residualmente il rito ordinario o quello sommario in quanto prevalente nei procedimenti assegnati alle sezioni specializzate. Deve essere conservato per queste controversie il grado d’appello, in quanto tale limitazione è prevista normativamente soltanto per i giudizi relativi agli status di rifugiato politico o richiedente la protezione sussidiaria. Questa soluzione non controvertibile nell’ipotesi di domanda rivolta soltanto al riconoscimento delle condizioni per il rilascio di un permesso umanitario, diventa problematica se la medesima domanda è formulata in via subordinata rispetto agli status tipici ed è assoggettata al rito proprio di questi giudizi.
L’intervento legislativo sul variegato sistema di tutela giudiziale dei diritti dei cittadini stranieri, pur se apprezzabile per il tentativo, peraltro incompiuto, di dettare un regime giuridico onnicomprensivo e coerente, si caratterizza soprattutto per la scarsa considerazione della natura giuridica dei diritti oggetto di tutela e della peculiarità dell’accertamento di fatto rimesso al giudice del merito in particolare nei giudizi relativi alla protezione internazionale e alla verifica delle condizioni per il rilascio di permessi di natura umanitaria. In questi due ambiti, l’urgenza di provvedere, dettata dall’agenda politica, ha prodotto un sistema di tutela giurisdizionale insufficiente (per la protezione internazionale) ed incoerente (per i permessi umanitari). Insufficiente perché la creazione di un modulo processuale che limita la fase attiva dell’istruzione probatoria al procedimento amministrativo davanti le Commissioni territoriali sembra ignorare la crucialità dell’accertamento attuale ed effettivo dei fatti posti a base della domanda e l’importanza dell’audizione del richiedente (art. 3 d.lgs. n. 251/2007).
Incoerente, con riferimento ai permessi umanitari perché non indica il modello processuale da seguire ed espone a soluzioni costituzionalmente non giustificabili, in particolare ove si dovesse affermare, in via analogica, l’eliminazione del grado d’appello anche per queste controversie.
[1] L’autorità competente è individuata nell’art. 3 d.lgs. 28.1.2008, n. 25 nella Unità Dublino, operante presso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Ministero degli interni. L’art. 3, co. 1, lett. e-bis), si riferisce alla decisione riguardante il trasferimento del richiedente protezione internazionale nello Stato membro identificato ex reg. UE n. 604/2013 che ha modificato il precedente (cd. Dublino 1) reg. CE n. 343/2003.
[2] Il regime giuridico relativo ai permessi di soggiorno per motivi familiari cui è assoggettato il familiare (coniuge, discendenti, infraventunenni, ascendenti, partner che abbia contratto un’unione riconosciuta dallo Stato membro ospitante) del cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea è esteso anche al familiare del cittadino italiano ex art. 23 d.lgs. n. 30/2007.
[3] Si tratta delle controversie relative al diniego del nulla osta al ricongiungimento familiare, ai permessi per motivi familiari, e agli provvedimenti assunti dall’autorità amministrativa (da identificarsi nella questura) competente in tema di diritto all’unità familiare, così come previsto dall’art. 30 d.lgs. n. 286/1998.
[4] Cass., 3.3.2015, n. 4262 che ha stabilito i seguenti principi: «L’onere della prova gravante sul richiedente lo status di apolide deve ritenersi attenuato, poiché quest’ultimo, oltre a godere della titolarità dei diritti della persona la cui attribuzione è svincolata dal possesso della cittadinanza, beneficia, in base ad una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa vigente, di un trattamento giuridico analogo a quello riconosciuto ai cittadini stranieri titolari di una misura di protezione internazionale».
[5] Nelle ipotesi in cui il provvedimento è emesso dal ministro dell’interno la giurisdizione è del giudice amministrativo.
[6] La convalida del trattenimento e della proroga sono adottati dal questore a norma dell’art. 6, co. 5, d.lgs. 18.8.2015, n. 142. I provvedimenti limitativi della libertà di circolazione sono contenuti nel successivo art. 14, co. 6.
[7] Le modalità di attuazione coattiva del decreto espulsivo sono molteplici: l’accompagnamento coattivo alla frontiera (art. 13, co. 4, lett. a-g); questa misura può essere preceduta dal trattenimento presso un centro di permanenza per i rimpatri (in precedenza denominato centro per l’identificazione ed espulsione) per un termine di trenta giorni prorogabile di altri sessanta. Ove lo straniero sia in possesso di passaporto ma ricorrano le condizioni per l’attuazione coattiva dell’espulsione, invece del trattenimento possono essere imposte misure limitative della libera circolazione, quali la consegna del passaporto l’obbligo di dimora, l’obbligo di presentazione presso un ufficio di polizia.
[8] Secondo la nuova denominazione adottata nel d.l. n. 13/2017.
[9] Cass., 24.2.2010, n. 4544 ha stabilito la necessità dell’attivazione del contraddittorio anche per la proroga del trattenimento richiesta dal questore.
[10] Cass., 12.4.2016, n. 7158.
[11] Cass., 30.7.2014, n. 17407.
[12] Cass., S.U., 28.9.2006, n. 22217, in Dir. giust., 2006, fasc. 41, 21, con nota critica di F.A. Genovese; v. anche Zorzella, N., Giudizio avverso il titolo di soggiorno e giudizio relativo all’espulsione: due mondi non comunicanti?, in Dir. imm. citt., 2006, fasc. 4, 27. L’orientamento delle Sezioni Unite è stato confermato di recente da Cass., 22.6.2016, n. 12976.
[13] Cass., 20.2.2013, n. 4230. Nella pronuncia è affermato che i fatti nuovi possono essere anche quelli soggettivamente appresi successivamente alla chiusura del procedimento di protezione internazionale.
[14] Attuate rispettivamente con il d.lgs. 31.1.2007, n. 5 e con il d.l. 23.6.2011, n. 89 convertito dalla l.2.8.2011, n. 129.
[15] Vedi supra, nt. 3.
[16] Introdotto dall’art. 7 d.l. n. 13/2017 così come modificato dalla l. n. 46/2017.
[17] La fase amministrativa è, ex Cass., S.U., 9.12.2008, n. 28873, meramente eventuale.
[18] Ma l’orientamento non era seguito unanimemente tra i giudici di merito. Per l’adozione del rito camerale cfr. App. Firenze, 8.5.2009, n. 138, in asgi.it.
[19] L’orientamento è costante: si vedano Cass., 26.6.2014, n. 14502; Cass., 11.9.2015, n. 18022; Cass., 6.7.2016, n. 13815. In dottrina si richiama Cea, C.M., L’appello nel processo sommario di cognizione, in Judicium.it; per i profili generali sia consentito il richiamo ad Acierno, M., Il nuovo procedimento sommario: le prime questioni applicative, in Corr. giur., 2010, 503.
[20] Così la dottrina nettamente maggioritaria; per i richiami si rinvia a Cea, C.M., op. cit. La giurisprudenza non ha mai dubitato dell’attitudine al giudicato delle ordinanze emesse all’esito del procedimento sommario di cognizione sia di primo che di secondo grado (Cass., 14.5.2013, n. 11465).
[21] Trib. Napoli, decr. 2.7.2015, in lanuovaproceduracivile.it.
[22] Il procedimento relativo all’allontanamento coattivo è disciplinato dall’art. 17 d.lgs. n. 150/2011; il giudizio di convalida dall’art. 20 ter d.lgs. n. 30/2007 interpolato dal d.l. n. 13/2017 convertito dalla l. n. 46/2017.
[23] L’attuale sistema pluralistico è stato introdotto dalla direttiva 2004/83/CE attuata mediante il d.lgs. 19.10.2007, n.251. Allo status di rifugiato politico, derivante dalla Convenzione di Ginevra del 28.7.1951 ratificata con l. 24.7.1954, n. 722, e modificata con il Protocollo di New York del 31.1.1967, ratificato con l. 17.8.1970, n. 848, è stata aggiunta la protezione sussidiaria (art. 14).
[24] Un esame critico puntuale, correlato all’analoga modifica introdotta nel giudizio di legittimità, in De Santis, A.D., Profili critici su alcune delle novità in tema di tutela giurisdizionale dei diritti dei migranti, in corso di pubblicazione in Riv. dir. proc.
[25] Il colloquio è videoregistrato con mezzi audiovisivi e trascritto in lingua italiana con l’ausilio di sistemi automatici di riconoscimento vocale. Della trascrizione del colloquio è data lettura al richiedente in una lingua a lui comprensibile e in ogni caso tramite interprete. Del verbale è consegnata alla parte copia in lingua italiana. Questa previsione induce a qualche sospetto d’incostituzionalità in ordine all’esercizio effettivo del diritto di difesa.
[26] Con una sentenza recentissima la Corte di giustizia (sentenza 26.7.2017, C348/16) ha escluso la necessità dell’audizione del ricorrente in sede giurisdizionale quando non vi siano dubbi sul rigetto della domanda, già ritenuta manifestamente infondata nel grado precedente.
[27] Cass., 10.4.2015, n. 7333.
[28] Cass., S.U., 7.4.2014, n. 8053.
[29] L’art. 375 c.p.c. è stato profondamente modificato dal d.l. 31.8.2016, n. 168, convertito con modificazioni dalla l. 25.10.2016, n. 196. La trattazione dei ricorsi, dopo questa modifica, è prevalentemente camerale, potendo essere destinati ad udienza pubblica soltanto le cause che presentino questioni di diritto di particolare rilevanza (art. 376, ult. co., c.p.c.).
[30] Cass., S.U., 19.5.2009, n. 11535; Cass., S.U., 9.9.2009, n. 19393; di recente, Cass., S.U., 28.2.2017, n. 5059.
[31] Cass., 18.2.2011, n. 4139 e Cass., 9.12.2011, n. 26481 sui requisiti e le condizioni di riconoscimento del permesso umanitario.
[32] Cass., 26.6.2012, n. 10686; Cass., 4.8.2016, n. 16362.