La nazionalizzazione delle masse
Nel 1975 G.L. Mosse diede alle stampe il suo famoso libro intitolato The nationalization of the masses; political symbolism and mass movements in Germany from the Napoleonic wars through the Third Reich. Fu con esso che l’espressione «nazionalizzazione delle masse» entrò stabilmente a far parte del lessico storiografico degli ultimi trent’anni. Nei due capitoli iniziali di quel libro Mosse spiegava che, parlando di nazionalizzazione delle masse, intendeva riferirsi a quell’imponente fenomeno di pedagogia della nazione che ebbe luogo attraverso canali svariati nella Germania del 19° sec. e nei primi anni del 20° (ma le sue analisi si sono rivelate essenziali sia per altri Paesi europei sia per gli Stati Uniti). Il prius storico e logico di questo processo è la nascita di una idea politica di nazione, fenomeno che ebbe luogo tra la fine del 18° sec. e l’inizio del 19°, quando con tale termine si cominciò a designare il soggetto collettivo che doveva possedere la sovranità politica. Mosse costruì la sua analisi sulla base di tale presupposto, che tuttavia nel suo lavoro restava piuttosto implicito; esso, invece, è stato esplicitato molto chiaramente da autorevoli storici e scienziati sociali che tra il 1983 e il 1990 hanno pubblicato testi fondamentali sull’argomento (E. Gellner, Nations and nationalism, 1983; B.R.O’G. Anderson, Imagined communities. Reflections on the origins and spread of nationalism, 1983; E.J. Hobsbawm, Nations and nationalism since 1780, 1990). In questi studi essi hanno sostenuto che la nazione non era una realtà storica che preesistesse ai movimenti nazionalisti o agli Stati-nazione, ma era un concetto politico che venne «creato» o «inventato» dai leader politici dei movimenti nazionalisti o degli Stati-nazione. Ciò significa che, mentre prima della fine del 18° sec. il lemma non fa riferimento che a realtà geografiche o culturali piuttosto maldefinite, dalla fine del 18°-inizio 19° sec. – grazie all’opera di intellettuali e di leader nazionalisti – esso cominciò a designare una collettività di uomini e donne che si riteneva condividessero gli stessi tratti etnici, la stessa storia e la stessa cultura: ed era in ragione di questa presunta comunanza di elementi identitari che a tale collettività (la nazione) doveva essere riconosciuto il diritto di esercitare la sovranità politica su un territorio che si pensava a essa appartenesse. Non si trattava di idee semplici e banali, specie quando dovettero esser comunicate a persone che non le avevano mai sentite declinare prima – e si trattava di molti milioni di uomini e donne, contadini, artigiani, operai, ma anche buoni borghesi, che vivevano in Europa all’inizio del 19° secolo. Per tale motivo, chi era interessato a far circolare idee politiche nazionaliste aveva, in prima istanza, il problema di spiegarle, di insegnarle, di farle capire. È da qui che, secondo Mosse, nacque la nazionalizzazione delle masse che si sostanziò subito di una «nuova politica»: si trattò di una politica che – come si è detto – si basava sull’idea secondo la quale l’unica vera titolare della sovranità era un’intera e ampia collettività (la nazione); per questo era una politica che aveva bisogno di coinvolgere tutti i membri di quella collettività, i quali, in un modo o nell’altro, dovevano essere toccati da un discorso politico che doveva renderli consapevoli di far parte di questo inedito soggetto collettivo. Dunque la nuova politica nacque subito con la forma potenziale di una politica «dei grandi numeri», ossia di una politica che aveva bisogno di coinvolgere il maggior numero di persone, e, in prospettiva, addirittura le «masse».
A questi grandi numeri, e poi a queste masse, andavano spiegate le nuove idee. Ma – aggiungeva Mosse – questa politica era «nuova» anche per un altro motivo: il suo «spiegare» la nazione non faceva appello alla ragione degli illuministi, alla solida cultura, all’indagine lucida e distaccata; e c’erano ottimi motivi perché fosse così: come avrebbe potuto essere altrimenti, se si volevano coinvolgere nel discorso politico anche persone analfabete o semianalfabete? E come avrebbe potuto essere altrimenti, se si voleva diffondere un discorso politico altamente innovativo e, almeno nelle sue formulazioni iniziali, radicalmente eversivo degli assetti politici dominanti? Fu così che quei leader o quegli intellettuali i quali volevano propagare le idealità nazionaliste fecero appello all’emozione, piuttosto che alla ragione; al cuore, piuttosto che al cervello; a forme di comunicazione tradizionali, piuttosto che a radicali innovazioni. E dunque, in primo luogo, concepirono il discorso politico come un discorso religioso: da un lato, infatti, invitarono le masse a comportarsi nei confronti dei valori ideali che proponevano come i fedeli si comportano nei confronti delle verità rivelate della religione cristiana. Dall’altro lato, modellarono anche i momenti fondamentali di comunicazione sulla base delle pratiche della religione: e così, sin dalla Rivoluzione francese, il culto della nazione venne edificato attraverso la diffusione di «catechismi rivoluzionari» (e poi «nazionali»); e così si organizzarono feste pubbliche che avevano modalità e andamenti liturgici; o si cercò addirittura di inventare nuovi culti religiosi terreni, che si sostituissero o affiancassero a quelli metafisici tradizionali. Inoltre si fece un gran ricorso a simboli, immagini, allegorie, figure memorabili, che incarnassero la passata grandezza e il fecondo avvenire della comunità.
A queste nuove pratiche corrispose infine anche un «nuovo stile politico», che si impose come necessario. Poiché era uno stile che voleva fare appello alle emozioni, aveva bisogno di manufatti che tali emozioni fossero in grado di suscitare; aveva bisogno, cioè, di un’«estetica della politica», ovvero di una strategia comunicativa che sapesse parlare ai sensi e ai sentimenti. Per questo è stato necessario andare a studiare anche le statue e gli edifici, le poesie e le narrazioni, le bandiere e gli inni, le pitture e le stampe, i melodrammi e le opere teatrali di ispirazione nazionalpatriottica, poiché – ha osservato Mosse – sono stati quelli i principali strumenti per la costruzione di un’identità nazionale; ecco, dunque, perché nella sua opera Mosse ha analizzato monumenti ed edifici nazionali, rituali delle associazioni ginniche e di quelle canore, il melodramma wagneriano e le liturgie dei movimenti e dei partiti politici, dal Partito socialdemocratico al Partito nazista. Vale la pena sottolineare che Mosse ha incluso nella sua analisi partiti così diversi perché ha ritenuto che la «nuova politica», il nuovo stile politico, fossero modalità organizzative e comunicative a cui nessuna formazione politica contemporanea poteva sottrarsi, nemmeno quelle che non si appellavano esplicitamente ai valori del nazionalismo; e perché l’esame del processo di formazione della nuova politica consentiva di capire meglio fenomeni come il nazismo o il fascismo, i quali, se erano nati per ragioni che avevano a che fare con il contesto politico-sociale dell’Europa del primo dopoguerra, attingevano però il loro repertorio comunicativo da pratiche rituali e da discorsi simbolici che avevano almeno un secolo di vita.
Un anno dopo la pubblicazione del libro di Mosse, la Stanford university press diede alle stampe un lavoro di uno storico statunitense, E. Weber, intitolato Peasants into Frenchmen (1976). Come dice il titolo, si trattava di un’analisi della nazionalizzazione delle masse rurali francesi durante il periodo della terza Repubblica (anche se Weber non usava la locuzione coniata da Mosse). Weber descriveva le comunità contadine francesi degli anni Settanta come realtà che non vedevano più lontano dell’ombra del campanile della loro chiesa, che non conoscevano altro che la dimensione del loro villaggio, in cui molti non sapevano parlare francese o lo sapevano parlare poco senza essere in grado di scriverlo, in cui quasi nessuno sapeva dove fosse Parigi e cosa esattamente vi stesse succedendo. Per opera dei governi della terza Repubblica si avviò un processo che si sviluppò in parallelo a quello indagato per la Germania ottocentesca da Mosse. Non è necessario soffermarsi sugli specifici risultati raggiunti dall’uno o dall’altro storico, né sulle peculiarità e sulle differenze del caso francese in confronto a quello tedesco. Conviene piuttosto sottolineare che Weber richiamava l’attenzione su altri elementi che egli riteneva avessero contribuito al processo di nazionalizzazione. Tali processi erano: la costruzione di una rete viaria e ferroviaria ben articolata, in grado di facilitare moltissimoi movimenti, gli scambi e la conoscenza diretta delle varie parti che componevano il proprio Paese; la fondazione di un sistema scolastico elementare obbligatorio, la cui funzione primaria – scriveva Weber – era quella di «insegnare non tanto cognizioni utili, quanto un nuovo patriottismo e cioè l’amore per una patria che supera i confini ovviamente noti ai suoi alunni»; l’organizzazione di un sistema politico-rappresentativo che attraverso il suffragio universale maschile invitava un largo numero di individui a partecipare attivamente alla vita della comunità nazionale; l’organizzazione di un esercito basato sulla coscrizione militare obbligatoria (ciò che in Francia avvenne nel 1872-73, dopo la sconfitta nella guerra franco-prussiana), che è un altro strumento fondamentale di mobilitazione e di socializzazione ai valori nazional-patriottici, oltre che di effettiva conoscenza diretta di luoghi e persone diversi e distanti da quelli del quartiere oppure del villaggio di origine.
I vari aspetti segnalati nelle opere di Mosse e di Weber non si escludono a vicenda: la maggior parte degli storici dell’epoca contemporanea concorda nel ritenere che essi sono stati gli strumenti essenziali attraverso i quali gli Stati-nazione dell’Europa ottocentesca hanno fondato il loro sforzo, volto a consolidare tra le masse il senso di appartenenza a specifiche e distinte comunità nazionali.
Naturalmente il processo di nazionalizzazione delle masse venne incoraggiato e sostenuto soprattutto da intellettuali e leader di vario orientamento nazionalista; ma esso – come osservava lo stesso Mosse – toccava anche ambiti di sociabilità o formazioni politiche che al nazionalismo erano estranee, come nel caso dei movimenti socialisti di fine Ottocento, i quali, fra l’altro, adottarono strumenti simbolici originariamente forgiati dalla nuova politica nazionalista, dotandosi pertanto di propri inni, bandiere, simboli, liturgie, eroi. Se l’apparato simbolico socialista derivò da una matrice nazionalista, esso tuttavia se ne volle differenziare in profondità, organizzandosi intorno a una negazione radicale del tratto identitario fondamentale del nazional-patriottismo: i partiti socialisti nacquero, infatti, come movimenti che si volevano internazionalisti, legati, cioè, da una fratellanza proletaria che non aveva confini né etnici né nazionali.
C’è tuttavia una contraddizione profonda nell’esperienza socialista europea di questi anni, che ha rilievo per sondare il senso e la profondità del processo di nazionalizzazione delle masse. Per quanto i vari partiti socialisti insistessero sul loro carattere internazionalista, pure tutta la loro azione politica si svolse all’interno delle cornici istituzionali degli Stati-nazione. Se si trattò di una scelta imposta dalla storia e dalle circostanze, essa, alla fine, ebbe ripercussioni paradossali e, in certa misura, tragiche. Così, tanto insistentemente il principio di appartenenza alle rispettive nazioni venne negato nelle rappresentazioni pubbliche dei partiti socialisti, quanto profondamente esso si radicò nelle coscienze di una parte non trascurabile di militanti e di leader, essi pure, come tutti, esposti al bombardamento della retorica nazional-patriottica, mediata giorno dopo giorno da scuola, esercito, pubblicistica, sociabilità ufficiale, toponomastica e arredo urbano. In effetti è proprio su questa profonda contraddizione che si spezzò l’internazionalismo del socialismo europeo, poiché, quando i partiti socialisti vennero chiamati ad assumere una posizione chiara di fronte allo scoppio della Prima guerra mondiale, la maggior parte di essi scelse di dare la priorità agli interessi nazionali: la loro rinuncia a boicottare lo scontro bellico, in quanto naturalmente difforme dall’imperativo dell’internazionalismo proletario, dimostra quanto profondamente fosse stato introiettato il principio secondo cui la vera comunità di appartenenza era quella nazionale.
Nel primo dopoguerra i più vistosi processi di nazionalizzazione delle masse si incontrano nell’Italia fascista e nella Germania nazista, dove, come hanno mostrato in primo luogo gli studi di Mosse (Masses and man: nationalist and fascist perceptions of reality, 1980, oltre alla già citata pubblicazione del 1975) e di E. Gentile (Il culto del littorio: la sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, 1993), la ritualizzazione del politico raggiunse un grado di elaborazione e di pregnanza emozionale mai prima immaginati. Proprio la stretta connessione che si instaurò tra il principio nazionale e le esperienze politiche del fascismo e del nazismo fece sì che, nel secondo dopoguerra, si attenuasse la rilevanza che il discorso e la simbologia nazionale avevano avuto nei precedenti centocinquanta anni; con questo, anche i processi di socializzazione nei confronti della politica si riempirono di valori diversi o non coincidenti con la tavola valoriale del nazional-patriottismo.
Tuttavia, se questa enunciazione generale serve a descrivere i processi dominanti che caratterizzarono l’esperienza politica di massa nel secondo dopoguerra, alcune importanti precisazioni vanno comunque proposte. La prima riguarda gli Stati Uniti, dove la religione della nazione, il culto della bandiera, nonché il rispetto per gli «eroi» della patria non hanno smesso di connotare il paesaggio politico anche dopo la Seconda guerra mondiale; la forma identitaria patriottica ha continuato a trovare alimento nel particolare ruolo politico, di grande potenza internazionale spesso impegnata in conflitti bellici, che gli Stati Uniti hanno mantenuto in una fase che – per la maggior parte dei Paesi europei – è stata invece contrassegnata da un lungo e quasi ininterrotto periodo di pace.
In secondo luogo, non si può non ricordare che, sebbene riempiti di diverso contenuto simbolico e valoriale, numerosissimi aspetti che appartengono alla nuova politica e alla «estetica della politica» hanno connotato anche l’esperienza novecentesca del comunismo sovietico, dal culto degli eroi e del capo all’impegno massiccio nella costruzione di statue, di monumenti e di edifici, tutti politicamente significanti, dall’organizzazione di sfilate militari alla messa in scena di rituali pubblici orientati a trasmettere l’armoniosa coerenza del soggetto collettivo nel quale ogni individuo è tenuto ad annullarsi, tutti aspetti costruiti, almeno in prima battuta, imitando il modello dei rituali nazionalisti.