La musica nella cultura cristiana
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I Padri della Chiesa e gli scrittori ecclesiastici della tarda antichità provano un interesse particolare per la musica, intesa nella doppia veste di scienza matematica, secondo la tradizione filosofica platonico-pitagorica, e di arte del canto, che fin dai più antichi rituali adorna la liturgia. Sant’Agostino si colloca su questa stessa linea interpretativa. Egli è autore dell’unico manuale scritto da un cristiano sulla scienza della musica fino all’età medievale, ma il suo giudizio sulla pratica del canto a fini liturgici resta un punto controverso del suo complesso pensiero estetico.
Benedite il nome del Signore
Salmo 96
Cantate al Signore un canto nuovo
cantate a lui da tutta la terra
Cantate a lui, benedite il suo nome.
Fin dai primi secoli dell’era cristiana la riflessione sulla musica da parte degli scrittori ecclesiastici e dei Padri della Chiesa si articola in due diversi contesti: i riferimenti alla musica come disciplina matematica e quelli relativi alla pratica del canto, specialmente di quello religioso. Gli scrittori cristiani della tarda antichità si erano formati secondo il sistema dell’erudizione greca, in genere abbracciando la fede in età matura. La filosofia, per loro, è quindi il complesso pagano dei saperi, che questi autori si sforzano di ricondurre all’interno dell’opera divina, come momenti che introducono alla sapienza, somma scienza rivelata nelle Sacre Scritture. Nel sistema enciclopedico delle conoscenze delineato in età imperiale, i saperi sono organizzati in sette diverse discipline, le cosiddette “arti liberali”, suddivise in “trivio”, cioè le arti del linguaggio (grammatica, retorica, dialettica), e “quadrivio”, le discipline matematiche, cioè aritmetica, musica, geometria e astronomia. Le arti del trivio sono alla base dell’organizzazione del discorso e dell’espressione della verità, mentre le scienze matematiche sono quelle che introducono alla comprensione razionale del mondo fisico. Molti autori cristiani propongono il parallelismo fra le sette arti e le bibliche sette colonne che reggono il tempio di Salomone, i sette pilastri della sapienza, dalle quali l’uomo trae i fondamenti di ogni conoscenza. In questo contesto la musica è concepita secondo la tradizione pitagorico-platonica, come scienza matematica che apre alla comprensione dell’armonia dell’universo. Nel Timeo di Platone, infatti, l’anima del mondo è strutturata secondo parametri matematico-musicali, che ogni realtà terrena riflette in modo più o meno adeguato.
Sofronio Eusebio Girolamo (san Girolamo)
Armonia nella musica e nel mondo
Commento all’Epistola agli Efesini, III, V
La musica è fatta di numeri, e quindi di armonia, tanto che si può cantare anche dentro di sé, senza emettere suono, dal momento che si canta a Dio, e Dio ascolta i nostri cuori. Chi analizza l’armonia del mondo e l’ordine e la concordia di tutte le creature innalza un canto sacro.
San Girolamo, Commento all’Epistola agli Efesini
L’idea della musica come scienza del numero e dell’armonia non era collegata in modo specifico al canto liturgico, strutturato secondo modalità melodico-ritmiche oggi purtroppo ignote – trattandosi di tradizione esclusivamente orale –, ma che senz’altro non si basavano sulle scale matematico-musicali elaborate dagli antichi musicografi, concepite per scopi teorici. L’antica scienza musicale (scienza armonica) concerneva l’indagine matematica degli intervalli, che non sembrava rivestire particolare interesse per i Padri. Diversa, invece, è la questione del canto, che nell’ambito del suo uso liturgico assume una duplice funzione: annunciare ai fedeli la Parola divina e lodare Dio. In conseguenza di ciò, i problemi della corretta modalità del suo uso divengono materia di discussione e confronto per gli scrittori ecclesiastici. I Padri condannano il canto profano, così come la musica strumentale e la danza, in quanto fonti di deviazione dell’anima, ma accolgono con favore il canto religioso, in particolare quello dei salmi e degli inni, che viene giustificato dal punto di vista teologico facendo ricorso ai tanti passaggi biblici sul canto di lode a Dio, e dal punto di vista filosofico riutilizzando, come già sottolineato, il tema neoplatonico dell’armonia cosmica. Uno dei documenti più significativi in proposito è la lettera del vescovo Atanasio di Alessandria a Marcellino, probabilmente un monaco, nella quale si afferma che nel canto dei salmi le sante parole bibliche e un’opportuna modulazione della voce, simboli dell’armonia dell’anima e del corpo, placano la mente, aprendola alla pace meditativa. Oltre al canto dei salmi, anche l’innodia gode in genere di grande favore presso i Padri, tanto che alcuni, come Ilario di Poitiers e Ambrogio, sono addirittura autori di inni, dei quali riconoscono la grande efficacia per i fedeli, anche ai fini della difesa dell’ortodossia. Giocando sul significato di carmen, cioè “canto” ma anche “incantesimo”, il vescovo di Milano ribadisce che è giusto professare le verità di fede anche sfruttando il potere ammaliatore della musica.
Ambrogio
Potere del canto
Discorso contro Assenzio
Alcuni ritengono che abbia affascinato la gente con il canto dei miei inni. Non lo nego affatto! Grande è il canto [carmen] del quale nulla è più potente, e cos’è più potente che professare la Trinità che ogni giorno celebriamo con la parola davanti a tutti?
Allargando lo sguardo sulla giustificazione teorica dell’impiego della musica nel contesto del culto cristiano, possiamo dire che il canto è percepito dagli scrittori ecclesiastici come specchio dell’eterna lode a Dio dei cori angelici e del creato. Questa concezione collega l’antica tradizione pitagorico-platonica della musica delle sfere con l’idea che il cielo risuoni dei canti dei beati, e che tutto l’universo proclami un canto di lode al creatore.
Giovanni Crisostomo
Natura del canto
Commento al Salmo 7
Il nostro canto non è che un’eco, un’imitazione di quello degli angeli. La musica è stata inventata in cielo, attorno e sopra di noi cantano gli angeli. Se l’uomo è un musicista, lo è per rivelazione dello Spirito Santo.
G. Crisostomo, Commenti ai Salmi
Questo tema della musica cristiana come specchio del canto di lode dei cieli e della terra a Dio si sviluppa in modo più circostanziato a partire dal VI secolo, quando il cristianesimo, ormai affermato anche nei nuovi regni barbarici, comincia a porsi problemi più complessi riferiti alla musica, in particolare quello della teoria su cui fondare la prassi. Comincia, infatti, a manifestarsi la necessità di consolidare e trasmettere il repertorio dei canti, ancora assai diversi nelle varie regioni dell’ex impero romano. Il problema della fondazione di una teoria della musica capace di rispondere ai problemi pratici del canto diviene significativo solo nell’età carolingia (IX secolo), quando, con l’avvio della riforma liturgica voluta da Carlo Magno, si frena il pluralismo dei riti locali, “inventando” il linguaggio musicale della Chiesa, cioè il canto gregoriano.
È proprio questo repertorio – delle diverse tradizioni liturgiche prima, gregoriano poi – a essere concepito come accesso all’armonia cosmica, e dunque a Dio: la cultura cristiana, nel linguaggio universale della sua musica, può così dare una risposta coerente alla diffidenza di alcuni Padri, in particolare di Agostino (354-430), verso il piacere sensuale della melodia. L’origine divina delle formule melodiche del canto gregoriano – che secondo la tradizione carolingia fu intonato da papa Gregorio Magno per ispirazione dello Spirito Santo – ha un significato teologico di grande rilievo, perché coniuga il motivo discendente del canto che rivela la parola di Dio a quello ascendente del canto come voce dell’uomo che sale a Dio, e che Dio gradisce in quanto è da lui che proviene. Inoltre la formalizzazione del repertorio gregoriano, proprio per la necessità di istituire un sistema coerente e unico di scrittura della musica, comporta la rinascita della riflessione teorico-musicale, assai coltivata nell’Antichità greca e romana, ma praticamente assente in età patristica.
Agostino d’Ippona
Cambiare Idea
Ritrattazioni
Nel periodo in cui mi stavo preparando a ricevere il battesimo, cominciai a scrivere alcuni libri sulle discipline liberali. In tal modo mi ripromettevo, seguendo un percorso articolato e graduale, di giungere alla conoscenza delle realtà incorporee conducendovi anche gli altri, ma passando prima dalla conoscenza delle realtà corporee.
Agostino d’Ippona, Ritrattazioni
Fino al secolo IX nessuno scrittore ecclesiastico sente la necessità di scrivere un trattato di musica. L’unica eccezione è sant’Agostino, che decide di redigere alcuni manuali sulle arti liberali proprio nel momento della conversione al cattolicesimo. Anche nell’età di Agostino, con l’approssimarsi della caduta dell’impero d’Occidente, le arti liberali restano i veicoli privilegiati attraverso i quali l’intellettuale coglie in modo razionale l’ordine che Dio ha imposto alla creazione. Proprio per questo Agostino può affermare che tali arti conducono la mente umana dall’ammirazione della perfetta armonia della natura alla contemplazione delle realtà incorporee, cioè a Dio. La progressiva astrazione dalla sensibilità perseguita da Agostino si attua proprio partendo dalla musica. È quindi a questa disciplina scientifica che egli dedica il primo manuale sulle arti liberali (di fatto l’unico effettivamente scritto): il dialogo De musica.
Quest’opera, però, non parla, come ci si potrebbe aspettare, del canto della Chiesa, anche se nel sesto e ultimo libro si riferisce costantemente all’inno di sant’Ambrogio Deus creator omnium, ma tratta della musica come scienza della misura che si organizza nella struttura della ritmica e della metrica classica romana. Il De musica propone infatti una discussione fra il maestro e l’allievo finalizzata a condurre l’allievo alla conoscenza delle leggi numeriche insite nella parola e nel modo di pronunciarla. Nell’intenzione di Agostino, a questa trattazione avrebbe dovuto seguirne una sulla scienza armonica, che non è stata realizzata. Il De musica si apre con una discussione su cosa sia “muovere la voce secondo la misura”, cioè scandire la parola in base a una successione numerico-ritmica. La musica insegna a fare proprio questo, afferma Agostino, e quindi: musica est scientia bene modulandi (I, 2, 2), cioè la musica è una scienza che insegna a modulare la voce in modo appropriato, seguendo ritmo e metro.
La distinzione teorica fra ritmica e metrica risale ai musicografi dell’antichità, in particolare ad Aristosseno, in relazione ai due metodi diversi di analisi nella poesia quantitativa: la ritmica indaga il rapporto numerico fra i piedi (dattilo, spondeo, trocheo ecc.) in base alle durate delle sillabe in lunghe e brevi e alla loro alternanza; la metrica, invece, investiga la misura dei piedi sulla base di una successione stabilita di ritmi, cioè il verso. Ma il De musica non tratta di ritmi e metri per il valore che hanno nella poesia classica, da cui pure Agostino riprende molti esempi, bensì per il valore razionale che hanno in sé. Agostino ha lasciato nel suo trattato testimonianze preziose, che saranno assai utili ai teorici medievali della musica, al di là del fatto che la poesia sta ormai passando dalla metrica quantitativa classica a quella basata sull’accento intensivo e sul numero fisso di sillabe nel verso.
A completamento di tale ricerca di razionalità, perseguita nel corso dei primi cinque libri del De musica, Agostino introduce una complessa dottrina della sensazione, sviluppata nel sesto libro, composto più tardi degli altri, e basata sul principio unificante del numero ritmico. Il ritmo sensibile è conoscibile dall’anima, perché anch’essa è ritmica, cioè numericamente strutturata nella sua immateriale essenza. L’anima opera attraverso numeri, “scansioni ritmiche”, simili a quelle recepite dal corpo e conservate nella memoria. Ciò fa sì che ogni verso ascoltato sia piacevole se rispetta il “numero” correlato nell’anima, o sgradevole se non lo fa. I numeri del giudizio intellettivo sono i “comandanti” di tutti gli altri numeri, cioè quelli presenti nella memoria e nel senso: sono essi che, oltretutto, ci frenano dal fare movimenti disarmonici anche nelle operazioni istintive, come il grattarsi. La bellezza consiste nel riconoscere che ogni rapporto numerico ha il suo fondamento nel rapporto più perfetto, cioè quello di uguaglianza (1:1). Questo è il modello eterno che Dio ha posto nell’anima e al quale ha conformato ogni proporzione nel creato. Quindi, il rispetto implicito del ritmo e dell’armonia che regge il mondo e l’uomo, e sul quale si fonda il concetto di bellezza, suggerisce che vi sia un unico artefice alla base di tale legge universale. Perciò è evidente, conclude Agostino, “che Dio è creatore di ogni essere vivente, e che lo si deve credere con certezza autore di ogni convenienza e concordia” (De musica VI, 8, 20). Con queste parole, Agostino rende familiare alla cultura cristiana un’idea essenziale del pensiero platonico, cioè che il numero e l’armonia sono sentieri che conducono alla verità, ovvero, per un cristiano, a Dio.
Agostino d’Ippona
Il canto in chiesa
Confessioni, Libro X, cap. XXXIII
Allora rimuoverei dalle mie orecchie e da quelle della stessa Chiesa ogni melodia delle soavi cantilene con cui si accompagnano abitualmente i salmi davidici; e in quei momenti mi sembra più sicuro il sistema che ricordo di aver udito spesso attribuire al vescovo alessandrino Atanasio: questi faceva recitare al lettore i salmi con una flessione della voce così lieve da sembrare più vicina a una declamazione che a un canto. Quando però mi tornano alla mente le lacrime che versai udendo i canti della chiesa ai primordi nella mia fede riconquistata, e la commozione che ancor oggi suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica. Così oscillo fra il pericolo del piacere e la constatazione dei suoi effetti salutari, e sono piuttosto incline, pur non emettendo una sentenza irrevocabile, ad approvare l’uso del canto in Chiesa, così che lo spirito troppo debole assurga al sentimento della devozione attraverso il piacere dell’ascolto. Tuttavia, quando mi capita di sentirmi mosso più dal canto che dalle parole cantate, ammetto che sto commettendo un peccato da espiare, e allora preferirei non sentir cantare. Ecco il mio stato!
Agostino d’Ippona, Confessioni
Il problema principale che Agostino delinea nel suo problematico giudizio sull’opportunità del canto dei salmi e degli inni, manifestato nelle Confessioni, è quello della liceità nel godimento della bellezza fisica del suono. Come si è detto, la riflessione patristica sul canto salmodico è ampia fra IV e V secolo, segno del consolidarsi di una prassi musicale diffusa, anche se difficile da ricostruire nella sua effettiva modalità esecutiva. Agostino si confronta apertamente con questa tipologia di canto sacro, per la quale manifesta un’inclinazione controversa: egli infatti prende le distanze dal piacere della melodia, ma non può negarne il fascino, oscillando fra lo stimolo positivo dell’emozione indotta dal canto e la netta condanna. Come si spiegano queste esitazioni? Per Agostino lo stato di commozione al quale è indotto l’animo nell’ascolto del canto sacro deriva dalla flessione melodico-ritmica dei suoni, ma i suoni comprendono anche le parole, quelle della Bibbia. Purtroppo, quando i suoni sono troppo “affascinanti”, invece di veicolare il testo, inducono a distrarsi. Il canto degli inni composti da Ambrogio, che Agostino neoconvertito ascolta a Milano, è un’esperienza in sé positiva, ma la forza ammaliatrice del suono musicale – così difficile da domare anche quando l’anima è salda nell’ascolto della parola divina – è comunque fonte di distrazione. Insomma, il piacere suscitato dalle belle melodie, quelle che rispettano le leggi del ritmo e del metro, è imprescindibile, essendo dovuto alla natura “numerica” dell’anima stessa. Il dilemma se accogliere o no il canto sacro dipende dall’essenziale e irrisolvibile problema di frenare l’impulso di piacere che si accompagna all’ascolto di un canto ben modulato; ed è, per il vescovo d’Ippona, un problema che resta irrisolto.
C’è però un tipo di canto sacro che non incorre nei pericoli della deviazione, pur essendo privo di parole. Si tratta del giubilo.
Agostino d’Ippona
Come cantare a Dio
Commento al Salmo 32
Ognuno chiede come cantare a Dio. Canta a Lui, ma canta bene. Egli non vuole che le sue orecchie vengano offese […]. Come potresti offrire una tecnica di canto così elegante da non dispiacere in alcun modo ad orecchie così perfette? Ecco, allora, che Egli ti dà il modo del canto: non cercare le parole, come se tu potessi rendere manifesto come Dio si diletti. Canta nel giubilo: questo è cantare bene a Dio, cantare nel giubilo. E cos’è mai cantare nel giubilo? Comprendere, senza poter spiegare a parole ciò che si canta col cuore. E infatti coloro che cantano nel raccolto, o nella vendemmia, o in altre impegnative occupazioni, non appena iniziano ad eccitarsi per la gioia dalle parole dei canti, come stracolmi di così grande letizia da non poterla spiegare a parole, non pronunciano più le sillabe delle parole, e prorompono in un suono di giubilo. Il giubilo è un suono che significa che il cuore partorisce ciò che non può dire. E a chi conviene questo giubilo se non a Dio ineffabile? Ineffabile è infatti ciò che non si può fare; ma se non lo puoi fare e non lo puoi tacere, cosa resta se non giubilare, in modo che il cuore gioisca senza parola, e l’immensa vastità della gioia non subisca la limitatezza delle sillabe?
Agostino d’Ippona, Commenti ai Salmi
Questo tipo di esperienza canora, così difficile da spiegare, ma tuttavia così vivacemente descritta da Agostino, è un’esperienza unica e singolare, con la quale l’anima esprime la gioia di “sentire” la presenza di Dio. Dio stesso suggerisce, nel cuore di colui che vuole lodarlo, la “misura giusta” nell’emissione della voce, che erompe in grida festose. La parola è inutile: cantare in giubilazione è infatti concepire la parola illuminante di Dio che non si traduce in sillabe, e dunque in strutture ritmiche e metriche precostituite.
Agostino usa il termine “giubilo” affermando che si tratta del grido di gioia dei contadini, quando, per alleviare le fatiche dei campi, iniziano a cantare e si dilettano a tal punto che le parole diventano una sorta di ululato. Fra i Padri latini anteriori ad Agostino, il canto di giubilo appare, sempre nell’esegesi dei salmi, per indicare il grido festoso del popolo d’Israele levato a Dio. Sant’Ilario di Poitiers distingue il giubilo – il grido di contadini –, dal grido vittorioso dell’esercito, anch’esso una forma di acclamazione attestata nella Bibbia. Anche sant’Ambrogio usa la parola “giubilo” per ribadire la forma canora corale e popolare di intonazione dei salmi, contro l’intonazione musicale davidica e regale. Agostino, però, contrariamente agli altri Padri, si riferisce all’esperienza del giubilo come canto individuale di lode. Oggi si tende a pensare che questo particolare vocalizzo fosse una forma di lungo melisma congiunto alla salmodia responsoriale, anche se è difficile, stando alle sole parole di Agostino, pensarlo davvero come un canto di tipo standardizzato.