La musica nel pensiero pitagorico
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’individuazione matematica delle consonanze, sistematizzata nel mondo greco dal pitagorismo, viene sempre fatta cadere nel regno della notte della teoria. Il fatto che in essa elementi legati all’immaginazione (la creazione di uno dei primi miti scientifici legati alla scoperta di uno strumento di misurazione) e rappresentazioni visive di sistemi di calcolo camminino fianco a fianco, in una forma di rimando continuo fra forme di analisi e posizioni di credenza ha fatto sì che gli storici moderni delle scienze matematiche abbiano sempre teso a prendere sottogamba l’esuberante stratificarsi dei suoi contenuti. In realtà la continua riemergenza di temi apollinei e le prefigurazioni logico-ricorsive che in essa si intrecciano, indicano in modo assai ricco la complessa dialettica che le speculazioni teoriche intrecciano con le forme immaginative. Il tema della misurazione dei rapporti al monocordo si muove così fra immaginario scientifico e rappresentazione narrativa, aprendo una via alla comprensione non solo del concetto di logos, inteso come capacità di mettere numeri e cose, ma anche di quel delicato terreno percettivo a cui il pitagorismo ricorre, pur nelle sue forme estenuate di calcolo. Un calcolo che vuol mettere in scena figure e schemi intuitivi, che mostrino l’articolazione interna delle relazioni che stringono numero, mondo e bellezza.
Ogni discorso sul pitagorismo si scontra con un duplice problema: da un lato l’assenza di fonti storiche di prima mano, che illustrino dall’interno gli insegnamenti della scuola – i frammenti di Filolao sono posteriori più di mezzo secolo alla vicenda pitagorica –, dall’altro il proliferare di fonti alessandrine, di straordinario interesse, ma ineludibilmente mescolate a forme di sincretismo filosofico, in cui i riferimenti al pensiero pitagorico originario si colorano di suggestioni culturali piuttosto eterogenee.
Vi è poi un ultimo paradosso: la ricchezza delle fonti platoniche, e l’ampiezza dei riferimenti aristotelici al pitagorismo, sono interni a impegnative discussioni teoriche legate a tematiche complesse, che vanno dall’educazione alle forme dell’anima, sino alla struttura ontologica del mondo: in un terreno percorso da sollecitazioni filosofiche così dense, la preoccupazione teorica dei filosofi non è certo tesa a delineare una ricostruzione attendibile degli insegnamenti della scuola, ma la trasfigura nelle spire del proprio discorso. Questa frammentarietà non è, tuttavia, priva di sensi interni, o di nuclei riconoscibili capaci di delineare centri tematici su cui le fonti convengono, delineando uno stile filosofico peculiare: dal punto di vista musicale, la tipicità è ancora più evidente, caratterizzandosi nella tendenza assai marcata a definire la tipologia spaziale degli intervalli musicali, la distanza corrispondente a due note musicali fuse (e dunque in consonanza) o in attrito (e dunque in dissonanza), incapsulandone i contorni all’interno di una misurazione matematica rigorosa: certamente, già ai tempi di Pitagora si accordavano strumenti e ci si avvaleva di consonanze, ed esistevano sistemi in grado di organizzare strutture melodiche complesse, ma il pitagorismo ripensa tali temi, collocandoli in una nuova cornice metodologica, che darà origine a una autentica teoria musicale.
Il nucleo della ricerca consiste in un’analisi metodologica della misura dei rapporti consonantici. Il termine misura indica già con precisione una istanza sperimentale: non si tratta di scoprire le consonanze, che ci sono già, facendo parte della grammatica elementare di qualunque musica, ma di elaborare la loro misurazione attraverso il monocordo, uno strumento scientifico che permette di tradurre i livelli di consonanza in segmenti misurabili. Lavorando sulla distanza spaziale corrispondente alle note che definiscono un intervallo, il filosofo pitagorico organizza un reticolo di posizioni in grado di isolare una serie di relazioni fisse tra intervalli, costruendo una sorta di matrice matematica, che ne identifica i confini.
Le relazioni musicali vengono ricondotte a un modello matematico che illustra i rapporti che legano i suoni tra di loro attraverso la visualizzazione degli intervalli come segmenti lineari, con ai loro estremi dei numeri che ne definiscono l’ampiezza. La riflessione musicale viene così sottoposta al modello di una schematicità astratta, che va oltre l’aspetto sensibile del suono stesso. Tali aspetti sembrano rimandare irreversibilmente verso la dimensione dell’apollineo aprendo la via al modello ideologico che sostiene l’immaginario pitagorico.
Del Pitagora storico sappiamo solo che nasce nell’isola di Samo attorno al 570 a.C. e che, dal 530 a.C., vista l’indifferenza dei suoi concittadini ai propri insegnamenti, fonda una fiorente scuola pitagorica a Crotone, in Magna Grecia. È da qui che inizierebbe la diffusione del pitagorismo, filosofia che coniuga una pratica politica poco rispettosa dei valori tradizionali del mondo greco a una continua analisi sulle strutture matematicamente descrivibili della realtà. Magia e matematismo sono saldamente intrecciati nella preistoria della teoria.
Nella Vita pitagorica di Giamblico ricorrono molti riferimenti all’elemento apollineo, tema visibile fin dal nome del fondatore: la madre di Pitagora, Pitaide, concepisce Pitagora dopo la visita all’oracolo delfico; e gli stessi nomi Pitagora e Pitaide (che contengono entrambi la radice pyth-) rimandano proprio a Pito, il drago-serpente ucciso da Apollo per la fondazione del santuario delfico. I nomi rivendicano un legame nascosto con l’Apollo misterico. L’insegnamento pitagorico presenta caratteri che ricordano le religioni orientali, a partire da un profondo rispetto per ogni essere vivente (nel tempio di Apollo non vuole sacrifici cruenti: “Su un altare non dovrebbe essere sacrificato neppure un insetto”); del resto, i pitagorici sono essenzialmente vegetariani, manifestando un profondo disprezzo per la religione tradizionale, pur onorando Apollo. Altro elemento comune alle religioni orientali è la credenza nella metempsicosi e nella reincarnazione: il pitagorismo fonderà tale credenza con le concezioni orfiche, mentre l’immagine di uno sciamanismo pitagorico, del filosofo pitagorico guaritore, mostra contatti con la sfera religiosa dell’apollineo. Alcuni tratti legano Pitagora al lato oscuro dell’Apollo che scuoia: va ricordato che Pitagora e i pitagorici cantano, anche dopo la morte, come attesta una leggenda relativa a Filolao, e lo fanno usando lo strumento apollineo per eccellenza, la lira. Nel canto celebrano l’uccisione di Patroclo da parte di Euforbo: l’identificazione da parte di Pitagora con un guerriero troiano la dice lunga sull’ambiguo rapporto del pitagorismo con i valori omerici della grecità.
Nelle mani del filosofo pitagorico la musica diventa catarsi: egli calma le passioni con la lira o, più raramente, con l’aulos. Una decisa enfasi sulla componente dell’ascolto caratterizza l’atteggiamento dei filosofi pitagorici: il tirocinio degli allievi comprende una fase, detta acusmatica, in cui si può solo ascoltare l’insegnamento del maestro, che rimane nascosto dietro a una tenda. L’attenzione si concentra così sul suono, oltre che sul significato, sollecitando una sorta di anteriorità del suono rispetto all’immagine. Alle stesse componenti va riportata l’altra grande metafora dell’inaudibilità pitagorica: i pianeti danzando in circolo producono una musica inudibile, inudibile per tutti, ma non per Pitagora. Quella musica è tutta retta da proporzioni matematiche che, connettendo fra di loro il movimento armonioso e ordinato dei pianeti, armonizzano due elementi in opposizione come forma e materia.
Secondo Aristotele (Metafisica, 1, 5, 985b) per i pitagorici tutto era numero: prendendo alla lettera questa testimonianza, potremmo subito dire che se per i pitagorici ogni cosa andava riportata al numero, allora anche la musica va riportata all’essenza della realtà, cioè al numero stesso. Veniamo subito inchiodati a una fortissima tesi ontologica, di cui è difficile cogliere il senso.
Potremmo attenuare il tono perentorio con cui viene spesso intesa la testimonianza aristotelica, leggendo direttamente il quarto frammento di Filolao, dove la fonte pitagorica dice, in modo più prudente, che ogni cosa ha rapporto o è in relazione con il numero: se ogni cosa conosciuta ha rapporto con il numero, significa che il numero è un affilato strumento gnoseologico, perché la realtà ha una struttura matematica, come ha ben mostrato lo studioso Carl Huffman. Il filosofo pitagorico va alla ricerca di quei rapporti, delle relazioni che collegano il piano della realtà sensibile alla struttura numerica che la sostiene. L’idea di una relazionalità segreta, che stringa tutte le cose, trova una risonanza peculiare nell’espressione logos, che indica originariamente la nozione di rapporto, di proporzione. Il presupposto del pitagorismo si articola così lungo due direttrici che devono dialogare tra loro: la prima, naturalmente, è che vi siano aspetti nel mondo sensibile che, al di là della mutevolezza delle apparenze, possano costituirsi come molteplicità ordinata di oggetti, come accade per i suoni e le loro relazioni spaziali, la seconda che vi siano dei potenti criteri d’ordine in grado di descriverne il senso, come i numeri interi o le frazioni. Il mondo è una selva di rapporti analogici, ripensabili in termini quantitativi: se le cose sono in rapporto fra loro, e con i numeri che ne indicano le relazioni interne, i rapporti che le stringono fra loro sono conoscibili, perché si adattano ai numeri. In greco esiste un verbo per indicare l’adattarsi di qualcosa a qualcos’altro, il verbo harmozo, il cui campo semantico sviluppa, secondo gradi crescenti di complessità, l’idea di tenere assieme.
Vi è armonia fra numero e cose, perché esiste un nesso fra la conoscenza delle cose e la possibilità di descriverle attraverso rapporti numerici, che indichino come la parte si stringa al tutto: il filosofo pitagorico sarà un attento soppesatore di relazioni, un accanito ricercatore di rapporti misurabili anche dove sembra che non ve ne siano, un decifratore della realtà sensibile. La ricerca di rapporti sotterranei tocca lo stesso piano delle successioni numeriche, che vanno riorganizzate attraverso le forme di calcolo che le hanno generate: dai numeri figurati alle tabelline il filosofo pitagorico cerca schemi notazionali, che possano illustrare le proprietà dei numeri dal loro interno.
Le cose che incontriamo nel mondo sono degli interi, di cui dobbiamo decifrare le regole di composizione, il modo in cui si connettono le loro parti: un intervallo musicale è consuonare di due suoni, e noi dobbiamo comprendere la grammatica spaziale di questa relazione, come i suoni si combinino tra loro, che tipo di struttura quantitativa si nasconda dietro alla rotondità del fenomeno sonoro.
Del resto, lo stesso mondo, come scrive Filolao nel primo frammento, si costituisce attraverso l’armonizzazione di cose illimitate e di cose limitanti, di elementi continui e di forme che li vincolano, come accade, in un altro frammento, per il movimento vorticoso del fuoco, immagine di un universo che evolve dal caos illimitato, trovando il proprio limite, e la propria fecondità, nel momento in cui il fuoco va a occupare il centro dell’universo, attorno a cui ruoteranno ordinatamente tutti i pianeti, e il sole stesso: limite e fissità di posizione, rapporto e reticolo trovano la loro armonizzazione a partire dal disciplinarsi di un movimento ordinato, nel costituirsi di un centro. Il rapporto armonico così è una dialettica fra continuo e discreto, e, come ha mostrato bene Giovanni Piana nel suo Album per la teoria greca della musica, tale aspetto si imprime nella speculazione musicale, dove la continuità dello spazio musicale viene riportata a un nucleo fisso di relazioni. Non è certo un caso che nei frammenti di Filolao la misura dell’armonia si esemplarizzi attraverso la rappresentazione matematica delle consonanze pitagoriche: la musica va riportata al principio primo della realtà, il numero, e la possibilità di misurarla ci è garantita da alcuni numeri, privilegiati, che indicano rapporti fra pari e dispari, suono e numero: quarta = 4/3, quinta = 3/2 e ottava = 2/1 diventano la cifra delle relazioni armoniche che legano l’ordine del mondo ai rapporti matematici che ne fissano l’intelleggibilità. L’accordatura fissa della lira apollinea è così il doppio musicale del monocordo, lo strumento per tradurre un fenomeno qualitativo come quello della consonanza in un rapporto quantitativo limitato dal numero, in un passaggio dalla dimensione della soggettività a quella dell’oggettivo e del ripetibile.
La musica diventa un modello per l’analisi del numero e della realtà: entriamo nella prospettiva teorica che sostiene tale relazione attraverso il mito del fabbro armonioso: l’episodio appare tanto nel Manuale di armonica di Nicomaco di Gerasa che nella Vita Pitagorica di Giamblico (115e ss.). Il fatto che le testimonianze siano così tarde mostra bene il sedimentarsi della sua esemplarità, colorata da elementi neoplatonici. La sua forma narrativa cade tutta sotto il segno della ricerca di uno strumento di misurazione: come studiare le regole che stringono l’articolazione dei suoni attraverso uno strumento, come accade per il compasso del geometra o per la bilancia con cui opera il fisico?
L’esito finale di tale riflessione, che il mito adombra tra le pieghe dei propri giochi immaginativi, sarà la costruzione del monocordo che, per il musicista, diventerà lo strumento con cui studiare ampiezza e accordatura degli intervalli, dando forma a una vera e propria metamorfosi della figura del musico, che viene proiettato in una teoria matematica del suono. L’idea di misurazione viene avvicinata poco a poco, secondo continui rovesciamenti prospettici.
Pitagora sta camminando, meditabondo, per strada, preso dall’idea di una scienza musicale, di qualcosa che permetta di ricostruire sul piano quantitativo quanto viene registrato dall’udito. In quel momento, il filosofo ascolta i suoni provenienti dai martelli che giungono dall’officina di un fabbro e riconosce le consonanze fondamentali di quarta, quinta e ottava e la differenza tra quinta e quarta, l’intervallo di un tono. Il mito scientifico del pitagorismo dialoga con quel mitologema della scienza moderna rappresentato dalla mela newtoniana, con l’immagine dell’intuizione, e con l’eureka archemideo. Esiste un metodo per ricostruire tali consonanze, misurandole? Per farlo, bisogna passare dal piano percettivo a quello numerico: ma come poter ricostruire tali differenze percettive attraverso dei numeri? Come quantificarle? Da qui l’idea fulminea di entrare nell’officina, a misurare il peso dei martelli: ci allontaniamo dall’immediatezza del musicale, per entrare nel terreno di una teoria, che cerca cosa si nasconda dietro al fenomeno. Tornato a casa, il filosofo appende quattro corde uguali, sollecitate da pesi diversi, che stiano in un rapporto numerico pari a quelli che definiscono le consonanze, 1/2, 2/3, 3/4. Un metodo filosofico deve aspirare al piano di massima oggettività possibile, eliminando gli errori che possano inficiare l’esperimento: si valutano attentamente le variabili, che vanno dallo spessore della corda, ai materiali, trasformando il racconto nell’immagine mitica del procedere scientifico. Il primo passo consiste nel radicarsi su un terreno fenomenologico che pone in relazione suono e movimento. La corda vibra ed è sotto gli occhi proprio nel momento in cui produce il suono: da quel contesto percettivo nasce, per esempio, la suggestione dell’armonia delle sfere in cui il suono armonico si fonde al movimento ordinato. Ma come calcolare un movimento così veloce, come quello di una corda? La ricerca si arresterebbe subito, per mancanza di strumenti tecnici. La forza del rapporto numerico come sigillo dell’esperienza è tutta qui: individuato il giusto peso, Pitagora lo utilizza legando dei pesi a delle corde, calcolandone il valore secondo proporzioni fisse: l’individuazione dei rapporti matematici definisce la misura delle consonanze, proteggendo il significato del fenomeno dalla turbolenza del movimento: con il variare dei pesi, mantenendo costante la tensione ottenuta appendendo le corde, si individueranno tutte le consonanze, misurando la lunghezza della corda. Sollecitata da un peso che ne raddoppi la lunghezza, la corda tesa fornisce una consonanza d’ottava, e così via, per i rapporti 3/2 per la quinta e 4/3 per la quarta. La lunghezza sostituisce il peso e prepara alla sperimentazione fra corde, creando un modello di segmento sonoro analizzabile esclusivamente con lo strumento matematico, in un racconto invero molto bello, ma falso. I rapporti sono doppi per l’ottava, 4/1, e non 2/1, lo dimostrerà un filosofo-scienziato francese nel 1600, Mersenne.
Tale falsità sperimentale (diciamo così), tramandata per secoli, ci impone di riprendere in mano l’esperimento, andando oltre Nicomaco di Gerasa, perché i rapporti individuati da Pitagora, o da Laso di Ermione che sperimenta con vasi, sono corretti. L’ossessione per la misura va oltre l’incongruenza scientifica, e mostra bene la direzione in cui si muove la speculazione pitagorica, oltre che gli intrecci che legano, in questo contesto, scienza e immaginazione. Nel mito i numeri si riferiscono a rapporti fra lunghezze delle corde, ma è proprio questo criterio, che sembra il più ovvio sul piano sperimentale, a esser segnato da profonde equivocità. Bisogna infatti considerare, come fa lo stesso Pitagora nel mito, l’omogeneità del materiale, lo spessore e soprattutto la tensione, perché senza corda tesa, non c’è suono.
Tale passaggio è essenziale, anche se meno avvertito: la corda deve essere misurabile nella sua tensione. Il riferimento nascosto alla tensione implica che i pesi, nel racconto, abbiano solo la funzione di dare un indice numerico, di indicare i giusti rapporti numerici, rapporti calcolati evidentemente altrove. L’idea di armonia, di collegamento, che permette di stabilire una relazione fra opposti (piano della sensibilità e ordine della misurazione), scambia i poli della relazione, coniuga momento estetico a dimensione matematica, piacere a indice numerico. La consonanza ha un logos, può essere riportata al rapporto fra due numeri, che descrivono quel rapporto fra intero e parte, che individua la tensione a cui va sottoposta la corda per produrre quel suono, mentre la lunghezza della corda risonante si fa segmento geometrico.
Il mito ci riporta ancora alla lira, strumento dove la tensione delle corde è facilmente controllabile attraverso l’avvitatura dei pioli. Il monocordo ne è certamente una stilizzazione e permette di produrre una consonanza, attribuendole un valore numerico. La base del monocordo viene graduata, e la corda viene tesa fra due ponticelli fissi, e pizzicata, emettendo un suono di riferimento.
Tendiamone ora un’altra, inserendo un ponticello mobile, che ne blocchi una parte. Pizzicando la corda, si muoverà solo la parte non bloccata dal ponticello e avremo, al tempo stesso, una consonanza, una visualizzazione della consonanza legata al movimento della corda e una misurazione degli estremi dell’intervallo, legata alla posizione del ponticello sulla corda stessa, che verrà letta sulla base del monocordo. Nel caso dell’ottava (1/2), che in un pianoforte odierno otterremmo, per esempio, suonando un do e il primo do raggiunto saltando sei tasti bianchi, vedremo oscillare solo metà corda, visualizzando il rapporto numerico sulla corda stessa, e potremo riportare la corda alla dimensione di un segmento geometrico: musica e scienza si incontrano sul terreno di una sperimentazione, ancora empirica, ma che permette già di coniugare ripetibilità a descrizione. Prendiamo la consonanza di quinta, che in un pianoforte odierno otterremmo (approssimativamente) suonando un do e il fa raggiunto spostandoci verso il grave di tre tasti bianchi: collocando il ponticello in E, risuona un intervallo di quinta con AB. Se osserviamo la figura 1, il segmento ED, che è la parte non risuonante della corda, bloccata dal ponticello, risulta dalla differenza tra AB e CE: possiamo prendere il resto ED, continuando a sottrarlo da CE, facendo coincidere E con C. Attraverso questa rotazione geometrica, possiamo ripetere l’operazione, per verificare l’esistenza di eventuali resti. La presenza di resti falsificherebbe il risultato, mostrando la non validità del rapporto matematico 2/3 per indicare la consonanza di quinta.
Il rapporto intero-parti viene così formulato e controllato prima sul piano matematico e poi su quello musicale. I filosofi pitagorici probabilmente eseguivano questa sottrazione avvalendosi di strumenti come fili o bastoncini, che permettessero di riportare in successione queste sottrazioni concrete. La successione di operazioni di sottrazione avrà come resto 0, essendo i segmenti FE e CF della seconda figura uguali tra loro. In questo modo, riportando i tratti verticali sul segmento AB, esso risulterà diviso in tre parti uguali, e CE viene determinato come 2/3 di AB (vedi figura 2).
La ricchezza del concetto pitagorico di armonia si staglia sotto i nostri occhi: nel diagramma che viene ricostruito leggiamo il rapporto acustico, fissato all’interno di una matematica che si muove ancora nel concreto, ma che va avviandosi verso il piano formale dell’iterazione logica ricorsiva. Il suono si è fatto diagramma, la corda sonora si è scorporata, portando alla luce il rapporto intero-parti espresso dalla consonanza e dal logos che ne è l’indice matematico. L’armonia mette insieme due segmenti sonori, un’immagine, e li fonde in un unico senso: il suono accordato della lira, vero doppio dell’immagine della freccia di Apollo che coglie il centro di un problema gnoseologico, ci guida ora dal mito alla scienza. In una pratica ancora impastata di elementi sensibili e di riferimenti concreti, dove base di calcolo e coincidenze di estremi sono ormai pensate nei termini di una geometria che illustra procedimenti essenzialmente aritmetici, la teoria musicale scopre i fondamenti della propria grammatica relazionale.