La musica in Etruria
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La grande importanza attribuita alla musica nella cultura etrusca è attestata concordemente dalle fonti letterarie greche e latine ed è confermata dallo studio dell’iconografia e dei reperti archeologici. Quasi tutti gli strumenti presenti in quell’epoca nell’area del Mediterraneo sono stati utilizzati dagli Etruschi in numerose occasioni rituali, militari, ludiche e nella vita quotidiana.
Nel suo brillante saggio Vita quotidiana degli Etruschi (1963), Jacques Heurgon introduce l’argomento della musica con un’osservazione perentoria e inconfutabile: “Il posto enorme attribuito alla musica nella vita degli Etruschi è certamente una delle caratteristiche più impressionanti della loro civiltà”. In effetti, la sorprendente quantità di testimonianze relative a questo aspetto della cultura etrusca, nonostante l’assenza di fonti letterarie dirette, di una manualistica musicale di tradizione diretta o indiretta del tipo di quella tramandata dall’antica Grecia, di evidenze riconducibili ad una qualche forma di notazione scritta, dimostra in modo inequivocabile la peculiare rilevanza e la ricchezza del “paesaggio sonoro” dell’Etruria.
Diversi autori greci e latini sottolineano il rapporto privilegiato degli Etruschi con il mondo dei suoni e con alcuni strumenti in particolare, tutti appartenenti alla famiglia degli strumenti a fiato, gli “aerofoni”. Il più diffuso è certamente l’aerofono doppio ad ancia, costituito da due canne separate, che è conosciuto in Grecia come aulos e usualmente indicato dai Romani con il termine plurale tibiae, mentre, per quanto riguarda il nome etrusco, si ritiene che il termine latino subulones, con cui sono originariamente designati i suonatori etruschi di questo strumento, si leghi al termine etrusco suplu; l’uso corrente di denominarlo “doppio flauto” è un frequente errore di classificazione organologica. Aristotele (fr. 608 Rose) si dimostra sorpreso nello scoprire che gli Etruschi praticano il pugilato, frustano i loro servi e preparano i cibi accompagnati dal suono dell’aulos; secondo un ulteriore dettaglio fornito dallo storico Alcimo Siculo (FGrH, 560 F 3), con tale suono impastano il pane. Inoltre, Ateneo nei Sofisti a banchetto (13, 607a) si sofferma sulla consuetudine di deridere un allievo di Teofrasto, l’ateniese Polistrato, che si dedica con eccessiva passione a questo strumento e indossa una veste da auletes, chiamandolo l’Etrusco (Tyrrenos). Eliano, nella sua Storia degli animali (12, 46), sostiene che in Etruria i cinghiali e i cervi vengono catturati non solo con le reti e con i cani ma anche, e soprattutto, con dolcissime melodie suonate dall’aulos; gli animali si lasciano a tal punto ammaliare che cadono nelle trappole, vittime della musica.
I Romani si avvalevano abitualmente di auleti etruschi per le loro cerimonie, di cui la musica costituiva un insostituibile complemento; Virgilio, nelle Georgiche (2, 193-194), presenta proprio un musicista etrusco intento a soffiare nel suo strumento d’avorio presso l’altare, davanti a vassoi di viscere fumanti e, secondo Ovidio (Arte di amare 1, 111), il primo suonatore di tibiae ad entrare nella storia di Roma è un etrusco (tibicen Tuscus) che, durante lo spettacolo organizzato da Romolo per i Consualia, intona la melodia al cui ritmo il ludius batte per tre volte il piede a terra, segnale convenuto per dare inizio al mitico “ratto delle Sabine”. Il prestigio degli auleti etruschi trova conferma anche in Ennio (Satire 65) che, per indicare l’auleta, non utilizza il termine latino tibicen, ma l’etrusco subulo, e in Livio (Storia di Roma, 9, 30), il quale attesta che gli auleti etruschi erano ritenuti indispensabili dai Romani durante i riti sacrificali.
Un altro genere di strumento a fiato, che oltre ad essere considerato essenziale in importanti cerimonie e largamente impiegato in varie circostanze, viene unanimemente presentato dalle fonti come invenzione di origine etrusca è la lunga tromba “tirrenica” (= etrusca) di bronzo (Tyrsenike salpinx) spesso citata nelle tragedie greche classiche del V secolo a.C. Probabilmente, questa definizione non indica un tipo specifico di tromba, ma include invece tutte quelle che possono essere identificate come varianti; dalle trombe diritte, come la salpinx greca o la tuba romana, a quelle ricurve; in quest’ultimo caso la curvatura può riguardare soltanto il tratto del padiglione, come nel caso del lituus, oppure l’intero canneggio, arrivando così ad assumere un profilo circolare e ad essere provvisti di un supporto trasversale sul diametro, come nel caso del cornu romano.
Molte testimonianze antiche, lessicografiche, scoliastiche e letterarie, confermano l’origine etrusca di questi strumenti. Se tutte queste fonti si limitano a segnalare la qualifica di “tirrenica” generalmente attribuita alla tromba, non ne mancano altre che fanno riferimento anche a circostanze specifiche o che addirittura hanno la pretesa di indicare il nome di colui che ne è considerato l’inventore o di colui che ne ha diffuso l’uso presso le altre popolazioni. Diodoro Siculo (Biblioteca storica, 5, 40) è molto chiaro nell’affermare che la tromba è invenzione degli Etruschi, ideata originariamente per scopi bellici; egli afferma che i Tirreni, nell’organizzare le loro forze di terra, concepirono la tromba, strumento estremamente utile in guerra, e precisa che da loro prese il nome di salpinx tirrenica. Pausania (2, 21, 3) sostiene che Tirseno (= Tirreno) per primo inventò la tromba; Silio Italico, dove narra sinteticamente la migrazione etrusca in Italia (Punica, 5, 9-13), nomina anch’egli l’eroe eponimo Tirreno, il quale conduce dalla Lidia i giovani Meoni attraverso il mare fino alle coste latine, dà il nome a quelle terre e per primo fa conoscere il suono della tromba ai popoli presso i quali giunge, in quanto strumento musicale caratteristico dell’attività bellica e simbolo del potere che si accinge ad instaurare in Italia. Igino (Fabula 274) lo indica piuttosto quale inventore di uno strumento idoneo a convocare genti lontane per annunciare eventi importanti: la conchiglia forata (concha pertusa), arcaico prototipo di tutti gli strumenti di questo tipo. Isidoro di Siviglia (Origini, 18, 4, 2) ascrive l’invenzione della tromba ai pirati (praedones) tirreni e ne spiega la ragione: i pirati tirreni, dispersi circa maritimas oras, inventarono la tuba perché, in virtù del suo suono penetrante, poteva essere udita anche da lontano. Altre testimonianze ne attribuiscono l’invenzione a Piseo il Tirreno, eponimo della città di Pisa, o a Maleo, re dei Tusci (= Etruschi) e condottiero di pirati. Inoltre, per Ateneo (4, 184a), anche il cornu è stato inventato dai Tirreni.
Fonti più tarde, scoliastiche o lessicografiche, presentano un ampio elenco di trombe: ellenica, egizia, gallica, paflagonica, medica e tirrenica. Un dato interessante è che Aristonico (p. 165 van der Valk) opera una netta distinzione fra lo strumento dei Greci e quello dei Tirreni: del primo specifica la forma e riferisce che fu inventato da Atena; del secondo, oltre alla forma, riferisce anche la qualità del suono. Inoltre, nell’attribuire ad Atena l’invenzione della tromba ellenica, evidenzia tuttavia un legame di questo strumento con gli Etruschi fornendo la notizia, assente dalle altre fonti, secondo cui la dea inventò la tromba ellenica per i Tirreni.
Il legame privilegiato con la musica e la preminenza degli strumenti aerofoni che le fonti greche e latine attestano, trovano ampia conferma nell’analisi del repertorio iconografico e dei reperti archeologici relativi alla civiltà etrusca.
Le immagini che illustrano questi aspetti peculiari della loro cultura hanno molteplici provenienze: pitture parietali delle tombe, vasi dipinti, incisioni su specchi, ciste, lamine e statuette di bronzo, rilievi su sarcofagi, cippi, stele e urne funerarie, lastre decorative di terracotta e altro ancora. Musicisti e danzatori sono ritratti con sorprendente frequenza nelle circa 180 tombe etrusche dipinte con soggetti figurati (VII-III sec. a.C.). Di queste, quasi l’80 percento si trova a Tarquinia, dove una rilevazione consente di individuare le raffigurazioni di almeno 129 strumenti musicali in 52 tombe, con datazioni che coprono un periodo compreso tra l’ultimo quarto del VI secolo e l’inizio del III secolo a.C.; l’aulos si conferma come lo strumento di gran lunga più diffuso, con 67 diverse rappresentazioni.
Una rilevazione analoga, condotta da Jean-René Jannot sul repertorio delle urne funerarie arcaiche da Chiusi, decorate con rilievi figurati, offre un risultato simile: almeno 42 strumenti appaiono su 38 urne, con datazioni che dalla metà del VI secolo a.C. giungono fino alla metà del V secolo a.C. e, anche in questo caso, l’aulos è lo strumento più ricorrente, con 22 riproduzioni. Le scene dipinte nelle tombe di Tarquinia, Chiusi e Orvieto evidenziano poi la veridicità delle già citate testimonianze degli autori antichi, come la presenza di auleti nei combattimenti di pugili e lottatori o, come nelle pitture della Tomba Golini I di Orvieto, dove il dettaglio fornito da Alcimo sulla lavorazione del pane al suono di questo strumento trova un puntuale riscontro.
Per quanto riguarda i materiali impiegati, Plinio (Storia naturale, 16, 172) sostiene che gli Etruschi per i loro sacrifici si servivano di auloi realizzati in legno di bosso, mentre per gli spettacoli usavano auloi in legno di loto, in osso d’asino o in argento; a causa della deperibilità del legno, soltanto rari esemplari sono sopravvissuti: 14 elementi lignei di auloi sono stati recuperati in un relitto affondato poco dopo il 600 a.C. nella baia di Campese, all’isola del Giglio, e un ulteriore ritrovamento, in osso, ma purtroppo privo delle due estremità, proviene dal territorio di Chianciano.
I vari tipi di trombe, benché siano soggetti meno frequenti, sono comunque raffigurati nelle tombe di Chiusi e Orvieto, negli stucchi a rilievo della Tomba dei Rilievi Dipinti a Cerveteri e sono presenti almeno 18 volte nelle tombe tarquiniesi, illustrando sempre un’evidente funzione cerimoniale e indicando il rango elevato del defunto; a questo proposito è opportuno ricordare che, secondo Strabone (Geografia, 5, 2, 2), le trombe, le pratiche religiose e la musica furono importate a Roma proprio da Tarquinia, da dove provengono infatti frammenti di diversi cornua in bronzo e anche un esemplare quasi completo, integrato da restauri, il cosiddetto Corno Castellani.
I riti di fondazione di una città etrusca prescrivono l’uso di uno strumento rituale, il lituus, la lunga tromba in bronzo dal padiglione ricurvo che Giovanni Lidio (De mensibus, 4, 6) fa corrispondere alla tromba sacra (hieratike salpinx) di cui persino Romolo si serve durante i riti sacri compiuti quando assegna il nome di Roma alla città che sta fondando; come osserva Cicerone (Della divinazione, 1, 30), questo strumento musicale e l’omonimo bastone augurale caratteristico degli Etruschi sono indicati con lo stesso nome proprio per la loro somiglianza. Un esemplare di lituus è stato rinvenuto nel 1985 in un’area sacra a Tarquinia, ritualmente ripiegato in tre e perciò intenzionalmente defunzionalizzato, deposto in una fossa votiva tra il 700 e il 675 a.C. in associazione con oggetti di uso militare, un’ascia e uno scudo, resi analogamente inservibili.
Reperti di questo genere sono stati scoperti anche in altri contesti etruschi, come il cornu in bronzo dal Tumulo dei Carri di Populonia (prima metà del VII sec. a.C.) e quello in avorio dalla Tomba Barberini di Palestrina (seconda metà del VII sec. a.C.). Alcuni esemplari di lituus sono attualmente conservati in diversi musei, in Italia e all’estero, mentre la più antica raffigurazione di una tromba diritta proveniente da un centro etrusco, una salpinx apparentemente lunga circa due metri e utilizzata durante uno scontro navale, è dipinta su un vaso figurato proveniente da Cerveteri, il notevole Cratere di Aristonothos (650 a.C.). Infine, dalla sepoltura tarquiniese (Poggio dell’Impiccato, Tomba 1) di un eminente guerriero della prima metà dell’VIII sec. a.C. proviene anche una conchiglia forata, l’arcaico prototipo di tutte le trombe citato da Igino.
Per concludere con gli strumenti a fiato, nell’affresco della Tomba dei Giocolieri a Tarquinia (510 a.C.) viene rappresentata per la prima volta la syrinx, il cosiddetto flauto di Pan; successivamente tale strumento appare riprodotto su vari oggetti di pregio in bronzo, su un cippo da Chiusi e su almeno tre urne da Volterra. In una di queste urne, datata alla fine del III secolo a.C., è inoltre possibile riconoscere un probabile flauto traverso che, comunque, è sicuramente raffigurato su un’urna del II-I secolo a.C. proveniente dalla Tomba dei Volumni presso Perugia.
Per quanto auloi, litui, cornua ed altri aerofoni costituiscano l’aspetto dominante dell’universo sonoro etrusco, anche gli strumenti a corde sono largamente attestati. Gli strumenti con corde di uguale lunghezza come la lira e la kithara, solitamente in compagnia degli auloi, sono raffigurati nelle tombe dipinte di Tarquinia almeno 34 volte e, come gli aerofoni, appaiono in centinaia di vasi dipinti di produzione locale. La prima rappresentazione di una specie di proto-kithara (o phorminx) a sette corde, suonata con un plettro, compare su uno dei più antichi vasi dipinti figurati (680-660 a.C.) provenienti dall’Etruria, l’anfora del Pittore dell’Eptacordo. Purtroppo, a causa del materiale deperibile utilizzato per realizzare questa classe di strumenti, nessun esemplare sembra essere sopravvissuto fino ad oggi ma, in compenso, un buon numero di plettri in avorio e in osso è stato recuperato nelle necropoli di vari centri etruschi come Vulci, Cerveteri e Tarquinia, con datazioni comprese tra la prima metà del VII secolo a.C. e la metà del VI secolo a.C.
Le ultime classi di strumenti analizzate sono quelle degli “idiofoni”, dove il suono è prodotto dal materiale stesso di cui sono costituiti, come nel caso dei sonagli, e dei “membranofoni”, ovvero i tamburi. I più antichi oggetti sonori idiofoni provenienti dall’Etruria risalgono al X-IX secolo a.C.; si tratta di sonagli fittili piriformi rinvenuti in sepolture dell’antica Età del Ferro di Tarquinia e di Verucchio. Altri sonagli di forma analoga, con datazioni che giungono fino alla fine del VII secolo a.C., sono stati recuperati in vari siti dell’Italia centrale; sono tutti in ceramica, con l’eccezione di un esemplare in bronzo da Veio. Tra gli idiofoni, oltre ai ritrovamenti di sonagli, di piccole campane e piattini in bronzo e di tintinnabula metallici di vario genere, vanno inseriti anche i krotala, un tipo di nacchere spesso rappresentato nelle mani delle danzatrici raffigurate su vasi, rilievi funerari, pitture tombali, statuette in bronzo.
Nonostante i membranofoni siano presenti in quell’epoca nell’area del Mediterraneo, in particolare il tamburo a cornice, chiamato tympanon dai Greci e tympanum dai Romani, questi strumenti costituiscono la presenza più elusiva ed enigmatica dello strumentario etrusco. Nessun reperto pertinente a questa classe è stato ancora identificato e le evidenze iconografiche, di solito copiose, si riducono a un limitato numero di vasi dipinti con scene a carattere dionisiaco, dove il tympanum sembra assumere un ruolo di vitale importanza nei relativi rituali.
La danza e il canto La danza illustra un altro aspetto notevole e chiaramente complementare alla musica della cultura etrusca. I passi e i gesti delle danzatrici e dei danzatori, che è possibile ammirare nei moltissimi esempi dell’abbondante documentazione iconografica, suggeriscono coreografie evocative e complesse; si è persino cercato di ricostruire alcune successioni di movimenti con sequenze ottenute dalle singole immagini a disposizione. Come ricorda Livio nella Storia di Roma (7, 2), nel 364 a.C., a causa del perdurare di una pestilenza che aveva colpito la città, in un tentativo di placare l’ira degli dèi, si organizzano degli spettacoli (ludi scenici) al suono delle tibiae, ma senza alcun canto, con danzatori chiamati dall’Etruria.
L’assenza del canto in questa circostanza non esclude però la sua pratica in altre occasioni; infatti, non mancano le raffigurazioni in cui è plausibile ipotizzarla. Ad esempio, nella già citata anfora del Pittore dell’Eptacordo, oltre a cinque personaggi coinvolti in una danza acrobatica, di cui tre armati, il protagonista principale è proprio un cantore dall’aspetto ispirato che suona un singolare strumento a sette corde; la sua bocca è aperta, come per una sostenuta emissione di voce. Una serie di elementi sinuosi, quasi delle onde sonore, appare ripetutamente tra le figure; la sua reiterazione potrebbe forse rappresentare la propagazione del canto nell’aria.
Inoltre, con una ricerca negli scarsi resti letterari etruschi, è possibile individuare alcune testimonianze epigrafiche che suggeriscono elementi sulla loro natura ritmica, e forse melica, considerando anche la possibilità che la cosiddetta “interpunzione sillabica”, presente su iscrizioni arcaiche, indicando la separazione tra sillabe di quantità diversa, stabilisca una notazione sia metrica che melodica in quanto, nel mondo antico, l’accento tonico e il suono alto/acuto spesso coincidevano. Si è più volte individuata, nei testi etruschi, la presenza di raggruppamenti regolari di parole e di sillabe, ripetizioni, allitterazioni, rime, che denunciano una forte disposizione alla forma ritmica. In effetti, fin dall’epoca orientalizzante (VIII-VII sec. a.C.) esistono in Etruria esempi di lettere utilizzate per rendere sillabe, cantilene e stringhe di caratteri, espressive di un puro ritmo, che, una volta pronunciate, ne restituiscono anche una dimensione “musicale”. A proposito del testo etrusco conosciuto come Liber Linteus, è stato notato come certe parti contengano formule ripetute che assumono l’andamento di una specie di nenia e che danno l’idea di una ritmica cadenzata. Anche per la lamina bronzea dell’area C di Pyrgi si fa riferimento a una cadenza ritmata, compiendo un accostamento ai carmina latini preletterari, del genere dei canti che accompagnavano le danze rituali dei Salii. Un’ulteriore conferma di lettura ritmica è offerta dall’epigrafe di San Manno (III sec. a.C.) presso Perugia, in cui è stato riconosciuto un testo metrico con tre versi ritmici, affini ai saturni latini, seguiti da un esametro dattilico. Il confine tra poesia e musica rimane ancora incerto; l’elemento che accomuna questi pochi ma significativi esempi etruschi è comunque il ritmo, che con la sua cadenza può assolvere l’esigenza di un linguaggio ispirato e trascendente, distinto dall’ordinario.