La medicina greca a Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le fonti raccontano variamente l’arrivo della medicina greca a Roma: il mito narra l’importazione del culto di Asclepio dopo un’epidemia nel 292 a.C., la storiografia l’apertura di una bottega nel Foro ad opera di Arcagato, medico ippocratico, intorno al 219 a.C. Solo con Asclepiade di Bitinia e la sua teoria dei poroi, però, inizia un processo di accettazione di pratiche sanitarie percepite, inizialmente, come invasive e crudeli.
La questione dell’ellenizzazione della medicina a Roma è complessa e ancora oggetto di dibattito storiografico. Ovidio nelle Metamorfosi (XV, 723-728) fornisce la versione poetica dell’arrivo della medicina greca teurgica a Roma: nel 292 a.C., la città, funestata da un’epidemia inarrestabile, invia un’ambasceria al tempio di Asclepio ad Epidauro, e il dio, in risposta alle preghiere, manda sull’isola Tiberina un serpente, che indica la sua volontà di ottenere un tempio nella città. Plinio, negli anni Settanta del I secolo, narra con tono polemico la stessa penetrazione, attribuendola al medico ippocratico Arcagato di Lisania, giunto nella città sotto il consolato di Lucio Emilio Paolo e Marco Livio Salinatore (219 a.C.). Arcagato avrebbe ottenuto la cittadinanza romana e la possibilità di esercitare in uno iatreion (“bottega medica”), acquistato con fondi pubblici nel compito Acilio, in quella che rimarrà la zona dell’esercizio medico a Roma fino all’epoca di Galeno, nel II secolo (Nat. Hist., XXIX, 6, 12-13). L’arrivo della medicina greca è un fatto traumatico per i Romani, avvezzi a una medicina locale, a carattere empirico e magico, fatta di rimedi semplici e di pratiche igieniche salutari: l’abitudine di Arcagato di ricorrere al salasso e al cauterio gli guadagnano ben presto il titolo di carnifex e i medici greci diventano oggetto di una campagna denigratoria, condotta dai principali esponenti del conservatorismo romano, tra i quali Catone, che si scaglia contro le pratiche mediche greche nei libri indirizzati al figlio Marco e nel De agricultura.
Del resto anche Plauto, cui si doveva una commedia dal significativo titolo Parasitus medicus, oggi perduta, aveva offerto nei Menaechmi un ritratto a dir poco spietato dei medici greci, incapaci di guarire, vanitosi e presuntuosi. La medicina greca è percepita come corruttrice dei buoni costumi degli antichi, perché i medici badano solo al guadagno, prescrivendo medicine senza senso e trattamenti invasivi. L’intero apparato concettuale della medicina ippocratica è considerato privo di senso, perché la sola natura è in grado di produrre rimedi, sicché si può dire che Roma per molti secoli abbia fatto a meno dei medici, ma non di una medicina (Nat. Hist., II, 155): la conoscenza dei rimedi vegetali e animali è affidata al pater familias, cui spetta il compito di curare tutti coloro che risiedono all’interno della domus. Anche gli animali domestici possono essere trattati, senza ricorrere all’aiuto del medico, in base agli stessi rimedi (Varrone, De agricultura, 2.1, 21-22); nella loro preparazione confluisce anche tutta una tradizione magica, che prevede l’uso di sostanze curiose e talvolta ributtanti, come nel caso delle ricette pliniane che citano tra gli ingredienti per la cura dell’epilessia il sangue del gladiatore, o animali disgustosi, o il sangue mestruale.
A questa considerazione negativa corrisponde a Roma, per un lungo periodo di tempo, lo status sociale estremamente basso di chi esercita la medicina, che è affare di schiavi e di liberti.
Questa situazione va lentamente modificandosi nel I secolo a.C., quando il medico greco Asclepiade di Bitinia, abbandonata la sua città dopo la presa di Corinto nel 146 a.C., inizia ad esercitare a Roma, a quanto testimoniano le fonti, con buon successo e discreta fama. Celso riconosce ad Asclepiade il grande merito di aver rinnovato l’approccio romano alla medicina greca; mentre la tradizione medica greca inizia ad essere assimilata dal mondo romano, in un processo che culminerà nella creazione di un linguaggio specifico ad opera, tra il I secolo a.C. e il I d.C. di autori non medici (Cicerone, Marziale, Giovenale) e dello stesso Celso, Asclepiade trova il sistema di venire a patti con la cultura romana. Ha buone capacità oratorie (Cicerone, De oratore, 1, 14), è avverso alla violenza nei trattamenti, propone una terapia varia, essenzialmente fondata sul regime di vita, bagni, massaggi, blando uso del vino, esercizio fisico moderato, del tutto compatibile con le abitudini romane. Tuto, celeriter et iucunde, ne dice Celso (De medicina, III, 4,1). La concezione terapeutica di Asclepiade è fondata sull’idea che la medicina debba favorire il corretto fluire nel corpo delle minuscole particelle che lo compongono, che sono in continuo movimento attraverso i condotti del corpo (poroi), più o meno dilatati. Il loro flusso deve essere regolare e costante, per evitare scontri che ne causino la rottura e la moltiplicazione; esso non deve essere impedito né da uno stato di eccessiva costrizione dei canali (status strictus), né dalla loro eccessiva rilassatezza (status laxus).
La salute è nella condizione intermedia (status mixtus), che deve essere tutelata attraverso pratiche piacevoli, che mantengano i canali nel giusto grado di dilatazione. Il sistema di Asclepiade, che gli guadagna la fama di resuscitare i morti (Nat. Hist., 7, 37, 124), apre definitivamente la strada alla medicina greca a Roma, alle sette mediche, a una discussione teorica che arriverà, con Galeno, acerrimo nemico della memoria di Asclepiade, a raggiungere livelli altissimi.