Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La ricerca scientifica estende enormemente le possibilità di trattare il dolore e ricorrere all’anestesia, sia per la crescente disponibilità di sostanze, sia per lo straordinario sviluppo dei mezzi tecnici legati alla somministrazione. Importanti sono stati i progressi nell’analgesia con oppiacei, grazie a nuove molecole che hanno ridotto enormemente il potenziale tossicomanico di questi trattamenti. Ma straordinari sono stati anche gli avanzamenti nell’anestesia locale e in quella chirurgica, dove l’aumento dell’efficacia si è accompagnato alla riduzione della tossicità e degli effetti collaterali.
Dalla morfina all’encefalina: gli analgesici oppiacei
L’Ottocento è l’entusiasmante e controverso secolo della morfina. Il principale alcaloide dell’oppio viene isolato indipendentemente nel 1804 da Armand Seguin (1767-1835) e nel 1805 dallo speziale tedesco Friedrich Sertürner (1783-1841), cui si deve pure l’introduzione nel 1817 del termine morphium, che lo stesso anno viene corretto in morfina, secondo l’indicazione di Joseph Louis Gay-Lussac (1778-1850) che propone di unificare col suffisso -ina tutti i principi attivi estratti dai vegetali.
Nel 1853 l’invenzione della siringa ipodermica da parte di Alexander Wood (1817-1884) dava un eccezionale impulso all’uso della morfina. La rapidità, l’intensità e la riproducibilità degli effetti analgesici sono realmente “stupefacenti”. L’accoppiata morfina-somministrazione ipodermica moltiplica tuttavia i pericoli di sovradosaggio e tossicomania già largamente riconosciuti nell’oppio.
Il XIX secolo si conclude con il lancio di un derivato semisintetico della morfina, definito dalla Bayer (che ne avvia la commercializzazione nel 1898), un “medicamento eroico”, molto più efficace e sicuro della morfina: l’eroina. Nei dieci anni successivi, il consumo di eroina per le sue proprietà stupefacenti supera largamente gli impieghi in clinica, per fini terapeutici. Nei primi decenni del Novecento, così, gli studi nel campo dell’analgesia farmacologica tentano vanamente di arrivare all’isolamento di un alcaloide naturale o sintetico dotato della stessa potente azione antidolorifica della morfina, ma privo di effetti tossicomanici.
Nel 1939 presso i laboratori della Hoechst, Otto Eisbel e Otto Schaumann fanno una sorprendente scoperta, lavorando allo sviluppo di nuovi farmaci antispastici. Una delle molecole sintetizzate saggiate sugli animali provoca una particolare reazione di inarcamento della coda. La sorpresa sta nel fatto che questo effetto, detto reazione di Straub, è caratteristico degli analgesici narcotici. Eisbel e Schaumann giungono così casualmente all’identificazione del primo analgesico oppiode di sintesi, la petidina, ancora oggi usato soprattutto in anestesiologia ostetrica e chirurgica nella medicazione preoperatoria.
Negli anni immediatamente successivi vengono formulati decine di morfinici tra cui l’etorfina, analgesico 10 mila volte più potente della morfina, e il metadone (1946). Nel 1942, inoltre, due ricercatori dei Laboratori della Merck Weijlard ed Erikson sintetizzano la nalorfina, prima sostanza antagonista degli oppiati. Questo agente farmacologico è in grado di invertire alcuni effetti della morfina e dell’eroina come la depressione dei centri respiratori e precipitare la sindrome d’astinenza. Allo stesso tempo, tuttavia, la nalorfina dimostra evidenti proprietà analgesiche. Di segno opposto la sua azione sull’umore, inversa rispetto agli oppiati. La nalorfina produce infatti ansia e disforia e questi effetti non la rendono indicata per l’uso in clinica e nella terapia del dolore, sintomo la cui natura è strettamente legata agli stati emotivi.
La ricerca sulla nalorfina porta tuttavia alla successiva messa a punto di nuovi e più potenti antagonisti degli oppiati, come il naloxone, entrato nell’uso clinico nei primi anni Sessanta, in particolare nel trattamento della sindrome da overdose, per sbloccare la depressione respiratoria, e talora usato nella disintossicazione.
Dalla metà degli anni Sessanta, a complicare il già intricato panorama degli oppioidi di sintesi vengono derivate altre sostanze, come la pentazocina, la nalbufina e la buprenorfina, che si comportano come agonisti – e quindi analgesici – quando impiegati da soli e come antagonisti quando impiegati in presenza di un altro agonista.
La varietà e la complessità del comportamento degli oppioidi naturali e di sintesi suggeriscono l’esistenza di una varietà di interazioni di questi agenti farmacologici con il sistema nervoso verosimilmente dovute a una pluralità di recettori per gli oppiati.
Il primo a proporre una spiegazione recettoriale della pluralità degli effetti degli oppioidi è negli anni Cinquanta Arnold Beckett, allora giovane docente di farmacologia al Chelsea College di Londra. Beckett è convinto che il vasto spettro d’azione degli oppiodi sia legato alla loro diversa capacità di adattarsi e inserirsi nella struttura tridimensionale di recettori specializzati su specifiche cellule nervose. A una maggiore affinità recettoriale corrisponde secondo Beckett una efficacia più elevata. Contrariamente l’antagonismo verso gli oppiati poteva dipendere da un tipo di legame con un recettore capace di determinarne il blocco.
Per circa vent’anni dall’ipotesi di Beckett, la tecnologia degli strumenti di ricerca rende impossibile la dimostrazione sperimentale dell’esistenza di questi siti cellulari. La svolta giunge negli anni Settanta, quando grazie allo sviluppo di tecniche autoradiografiche che prevedono l’utilizzo di marcatori radioattivi, Candace Pert (1946-) e Solomon Snyder (1938-) alla John Hopkins University di Baltimora dimostrano l’esistenza di recettori cerebrali per gli oppioidi. Nel 1973 John Hughes, e Hans Kosterlitz (1903-1996) ad Aberdeen, estraggono dal cervello di cavia e poi dall’encefalo del maiale un composto che mima l’azione della morfina. È la scoperta della prima endorfina, chiamata encefalina (1974), chiave chimica del sistema analgesico endogeno attraverso cui si esplica l’azione di tutte le sostanze oppioidi.
Chirurgia senza dolore: gas anestetici e anestetici iniettabili
Per i primi due decenni del Novecento, l’anestesia chirurgica resta sostanzialmente ferma all’uso del cloroformio per inalazione, tecnica introdotta da tra il 1847 e il 1848 da James Young Simpson (1811-1870) e dal medico ed epidemiologo inglese John Snow (1813-1858).
La prima vera novità nel campo dei gas anestetici è il ciclopropano. Gli studi su questo nuovo agente inalante hanno inizio nel 1929, quando George H. Lucas e Velyien E. Henderson dimostrano a Toronto che nei gatti sotto una campana di vetro l’esposizione a una debole concentrazione di ciclopropano commisto a ossigeno provoca uno stato di incoscienza da cui si riprendono velocemente se riportati all’aria aperta. Nel 1934, Ralph M. Waters, primo docente di anestesiologia degli Stati Uniti, inizia la sperimentazione clinica sul ciclopropano all’Università del Wisconsin. I positivi risultati della ricerca avviano l’era del ciclopropano, il gas anestetico più impiegato sino agli anni Sessanta, quando l’uso sempre più largo dell’elettrobisturi e dei respiratori aumenta considerevolmente i rischi di esplosioni.
Dalla seconda metà degli anni Quaranta, la ricerca tenta di arrivare alla formulazione di un gas anestetico che rappresenti il miglior compromesso tra volatilità, infiammabilità e tossicità. Un contributo fondamentale in questa direzione viene dall’industria nucleare, che fu essenziale allo sviluppo della conoscenza dei solventi fluorocarbonati usati per solubilizzare alcuni derivati dell’uranio. Sulla base di questi nuovi dati, nel 1951 Charles W. Suckling, e James Raventos avviano in Inghilterra un programma di ricerca che porta nel 1956 alla sintesi dell’alotano, un gas che aumenta in maniera straordinaria la sicurezza dell’anestesia e che sino agli anni Ottanta resterà l’anestetico inalante più usato nelle unità chirurgiche.
Nel 1863, il futuro Nobel per la chimica Adolph von Baeyer sintetizza l’acido barbiturico. Per quattro decenni questa formidabile sostanza rimane una semplice curiosità chimica senza alcuna applicazione. Nel 1902, ignaro delle ricerche di Baeyer, Josef von Mering (1849-1908), docente di medicina a Strasburgo, sintetizzava un analogo dell’acido barbiturico con la collaborazione di Emil Fischer (1852-1919). Per le eccezionali proprietà sedative, la maneggevolezza e i relativamente scarsi effetti indesiderati, Fischer decide di brevettare immediatamente la molecola, che viene commercializzata dalla Bayer: nasce il Veronal, che negli Stati Uniti assume il nome di Barbital. Centinai di barbiturici saranno sintetizzati negli anni successivi, ma il primo tra questi nuovi agenti farmacologici a essere usato come narcotico preoperatorio iniettabile è il butobarbital, nel 1922. Sino alla fine degli anni Venti vari altri barbiturici affiancano il butobarbital per l’induzione di narcosi profonda, tra cui l’amilobarbital e il pentobarbital.
Nel decennio successivo l’anestesia con barbiturici viene del tutto rinnovata. Nel 1931, la I.G. Farben sintetizza l’esobarbital, un barbiturico capace di indurre una rapida anestesia, della quale è possibile regolare l’intensità attraverso la velocità di iniezione. Mentre nel 1934, negli Stati Uniti, la ricerca di derivati ad azione molto breve porta i laboratori di ricerca della Parke Davis a ripescare il tiopental, su cui aveva già lavorato quasi trent’anni prima von Mering. Il tiopental risulta nettamente più rapido degli altri anestetici endovenosi, sia nella fase di induzione della narcosi, sia nella metabolizzazione e quindi nella velocità con cui il paziente può riacquistare coscienza. Come tutti gli altri barbiturici, tuttavia, il tiopental presenta margini terapeutici limitati, a causa dell’elevata lipofilia della sostanza, che favorisce la sua concentrazione nei depositi lipidici e conseguentemente il raggiungimento di concentrazioni ematiche pericolose nel caso di nuova somministrazione postoperatoria.
Queste problematiche legate ai barbiturici indirizzano la ricerca farmacologica verso nuovi agenti. Una delle varie linee di indagine che così si sviluppano è quella sugli steroidi, di cui il medico austriaco Hans Selye (1907-1982), negli anni Quaranta, aveva dimostrato le proprietà neurotrope, cioè capace di agire in maniera selettiva sul sistema nervoso. Il primo steroide anestetico endovenoso fu messo a punto nel 1955 nei laboratori della Pfizer: il sale sodico dell’acido idrossidione-succinico, commercializzato col nome di Viadril.
In altra direzione, ma nello stesso periodo, da ricordare la sintesi (1962) e l’introduzione in uso (1966) della ketamina, primo anestetico dissociativo, cioè a dire in grado di produrre incoscienza e analgesia ma non anestesia classica e che per queste proprietà è anche diventato una sostanza d’abuso.
Successivamente un altro filone di ricerca ha portato verso la metà degli anni Settanta il Dipartimento Ricerche Cliniche dell’ICI alla sintesi del propofol (Diprivan), oggi probabilmente l’anestetico endovenoso più usato.
L’anestesia locale: dalla cocaina alla peridurale
L’anestesia locale si afferma come pratica negli ultimi anni dell’Ottocento grazie a una serie di studi sulle applicazioni terapeutiche della cocaina, isolata da Albert Nieman (1834-1861) a Gottinga nel 1860. È Vasilij von Anrep, giovane medico russo allora in viaggio studio a Würzburg, il primo a osservare nel 1880 gli effetti anestetici delle infiltrazioni di cocaina. Quattro anni più tardi la cocaina viene universalmente riconosciuto come l’anestetico locale più efficace. Nel 1884, in una lunga monografia sulla cocaina, Sigmund Freud, interessato in particolare alle applicazioni della sostanza nella disintossicazione dal morfinismo, rileva le spiccate proprietà anestetiche dell’alcaloide estratto dalle foglie di coca. Lo stesso anno, l’oftalmologo viennese Karl Koller (1857-1944) rende pubblici i suoi studi sull’utilizzo della cocaina negli interventi chirurgici sull’occhio. Ancora nel 1884, a Baltimora, William Halsted (1852-1922) introduce la cocaina come anestetico locale in chirurgia dentale, dimostrando l’anno successivo che essa è capace di interrompere la trasmissione nervosa dello stimolo doloroso e definendo così la tecnica del blocco nervoso.
Negli anni successivi emerge drammaticamente l’eccezionale potenziale d’abuso della cocaina, al punto che lo stesso Halsted ne diviene dipendente. All’inizio del Novecento, così, il problema centrale della ricerca sull’anestesia locale è l’individuazione di un sostituto farmacologico della cocaina. Gli studi chimico-farmacologici individuano velocemente la parte strutturale utilizzabile a tal fine. Il primo derivato così prodotto fu l’ortoformio o ortocaina, seguito dal neo-ortoformio. Queste sostanze svolgono anche un’azione antisettica oltre a quella anestetica e ciò li rende particolarmente indicati come farmaci iniettabili, in quanto garantiscono la sterilità dei preparati. Fondamentali in questa direzione furono gli studi del chimico tedesco Alfred Einhorn (1856-1917), che portano alla sintesi di due importanti anestetici locali, la benzocaina (1900) e la procaina (1902). Quest’ultimo in particolare resterà per decenni il prototipo dell’anestesia locale.
Una originale linea di ricerca prende successivamente le mosse dagli studi sui derivati di un alcaloide presente in una varietà asiatica della pianta Gramina. Lavorando alla sintesi di varianti sempre più efficaci, costruite intorno a un amide – un particolare composto chimico ricavato con la sostituzione degli atomi di idrogeno dell’ammoniaca con acili – lo svedese Nils Lofgren formula nel 1948 la lidocaina, primo modello di una classe interamente nuova di anestetici locali cui seguiranno altre molecole assai efficaci come la mepivacaina (1957), la prilocaina (1960), la bupivacaina (1963), il primo anestetico locale ad azione protratta. Nei primi anni Settanta, tuttavia, l’uso clinico evidenzia la tossicità della bupivacaina sul sistema nervoso centrale e successivamente sul sistema cardiovascolare. A partire dagli anni Ottanta, il numero sempre maggiore di effetti avversi e morti associate all’uso di bupivacaina, incoraggiano lo sviluppo di un nuovo tipo di anestetico amide. La prima di queste nuove sostanze è la ropivacaina, un anestetico strutturalmente correlato con la bupivacaina ma con un profilo farmacodinamico piuttosto diverso, in particolar modo sulla elettrofisiologia cardiaca e perciò nettamente più sicuro, come dimostrato nei primi studi clinici realizzati nel 1990.
Nel 1900, la prima monografia sul tema sancisce l’entrata in uso dell’anestesia loco-regionale. La prima tecnica, proposta nel 1885 da James Leonard Corning (1855-1923), è la via rachidea. Essa prevede infiltrazioni di soluzioni di cocaina in prossimità della radice di un nervo spinale, così da ottenere una sorta di resezione funzionale della fibra nervosa interessata. Nel 1901 il francese Fernand Cathelin (1873-1945) propone la via peridurale (o epidurale). Più sicura di quella rachidea, in cui l’anestetico entra in contatto con il liquor cerebrospinale che circonda oltre al cervello anche il midollo e i nervi spinali, la metodica di Cathelin interessa soltanto lo spazio peridurale, cioè lo spazio situato tra la faccia interna dei legamenti che rivestono il rachide e la dura madre. Passeranno però vent’anni per la prima concreta valutazione della nuova metodica, pubblicata in “Anestesia Metamerica”, dello spagnolo Fidel Pages Mirave (1886-1923). A partire dagli anni Trenta, un contributo fondamentale all’affermazione dell’anestesia epidurale giunge dall’attività clinica, dalla ricerca e dalle pubblicazioni di Achille Mario Dogliotti (1897-1966). Alla fine degli anni Trenta, in Romania, Eugen Bogdan Aburel sperimenta tecniche per l’esecuzione di anestesie epidurali continue. Nel 1944 viene descritto il primo approccio lombare all’anestesia epidurale, metodo che nel 1947 veniva perfezionato e utilizzato finalmente con successo dall’anestesista cubano Manuel Martinez Curbelo.
A partire dagli anni Settanta l’anestesia epidurale viene somministrata alle partorienti, in quanto si tratta di un metodo relativamente sicuro ed efficace di alleviare i dolori del parto. Usata per procurare un sollievo immediato nel caso di una durata particolarmente lunga del travaglio, di fatto la richiesta è diventata sempre più frequente anche quando tutto procede in modo naturale per evitare le doglie. È stato sostenuto che l’uso sarebbe collegato a un’aumentata probabilità di intervento cesareo, ma diversi studi hanno dimostrato che non è vero. Una meta-analisi pubblicata nel 2005 mostra che l’epidurale non aumenta la probabilità di taglio cesareo, ma solo il ricorso alla ventosa o al forcipe durante il parto.