Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La lirica occidentale moderna nasce nel Medioevo con la poesia dei trovatori. Tali poeti costituiscono il primo movimento letterario d’Europa e, insieme, una società di uomini di lettere che è la prima dopo la scomparsa del mondo antico. Cortesia e fin’amor, poesia di corte e lirismo costituiscono così, con altre poche esperienze letterarie, la vera “educazione sentimentale” dell’Europa. I professionisti di tale nuovo canto in lingua d’oc, i trovatori, forniscono modelli, temi e forme a un’espressione lirica che dalla provincia delle corti meridionali della Francia diviene presto internazionale e si diffonde nel nord (sino in Inghilterra e Germania), all’est (sino alle corti ungheresi), a ovest, nelle corti della penisola iberica, e a sud, in Italia settentrionale e poi nella corte siciliana di Federico II di Svevia.
Ben prima della loro attestazione scritta si hanno numerose testimonianze indirette dell’esistenza di canzoni d’amore cantate, spesso giudicate severamente negli ambienti ecclesiastici: così nei sermoni di Cesario di Arles o – relativamente ai giullari (da joculator, jocularis ossia i girovaghi professionisti della parola e di ogni pubblico intrattenimento: poeti, buffoni, musici, saltimbanchi) – già nel concilio di Toledo del 589 e poi nel concilio di Tours dell’813 ove si fa sprezzantemente riferimento alle frivole canzoni d’amore cantate anche durante le feste. Tale poesia era forse in rapporto con quella mediolatina dei goliardi e dei clerici vagantes o almeno dovette coesistere sul medesimo territorio, assieme ad altre, diverse, esperienze poetiche. Di questa poesia certamente esistita, non si hanno testimonianze documentarie né si sa se essa costituisse un’unica tradizione comune a tutta l’area romanza o addirittura a tutta quella europea. L’indagine che sottolinea il ricorrere in diverse e più tardive attestazioni di tratti simili (canzoni cantate da donne, fornite di refrains e ritornelli) o temi comuni (motivo dell’alba, dell’incontro dialogato degli amanti ecc.), non riesce efficace e, validando di fatto una banalità – ossia la propensione umana a cantare dovunque i medesimi sentimenti e motivi –, rischia di lasciarsi sfuggire la realtà specifica delle singole e diverse tradizioni.
Porre oggi il problema delle origini della poesia moderna volgare significa dunque anzitutto sottrarre al termine “origini” ogni sfumatura meccanicistica, naturalistica o metafisica: come l’etnicità è un concetto storico, tanto più fenomeni storici come le lingue e le letterature moderne, sorte e sviluppatesi nel Medioevo, riescono estranei a una riduzione semplicistica che non tenga conto di un’etimologia plurale ossia della compresenza efficiente di più di una tradizione (classicità greco-romana, tradizione mediolatina, elementi nordici e barbarici o orientali e arabi).
La lirica romanza nasce e si sviluppa infatti in un ambiente di vivace plurilinguismo culturale e nessuna delle dialettiche entro le quali la nuova parola poetica si forma e si diffonde riesce, per ciò stesso, esclusiva. Come relativamente alle origini della chanson de geste, ma per ragioni parzialmente diverse, la questione delle origini della poesia lirica ha interessato generazioni di studiosi: illuministi e romantici e poi la “scuola storica” hanno sottolineato il carattere “popolare” di tale lirica, assieme alle idee di collettivo, primitivo e nazionale; in tale visione restavano rigidamente separati e pure compresenti gli elementi dell’ecclesiastico colto, del cavalleresco barbarico e del nazionale popolare-romanzo, ma l’autentica e autoctona espressione popolare riusciva di fatto irraggiungibile, persino di difficile definizione. La coesistenza di Medioevo latino e Medioevo romanzo dovrebbe viceversa per sé sola mettere in guardia da una derivazione totale, senza soluzione di continuità, della nuova poesia trobadorica dalla grande tradizione classica, ossia da quella speciale forma del passato classico che permaneva ed era trasmessa nelle scuole e nei centri di cultura medievali. Per quanto evidente ed esplicita sia poi nei poeti volgari la dipendenza da modelli classici, soprattutto ovidiani, o l’apporto delle retoriche mediolatine (ad esempio relativamente all’elitaria e sofisticata elaborazione metrico-strutturale dei testi trobadorici) essa non basta tuttavia a spiegare l’intera poesia volgare e, di necessità, deve trovare ogni volta dimostrazione in un’opportuna verifica, sempre puntuale, delle fonti e delle riprese specifiche. In generale la tradizione mediolatina può riuscire particolarmente espressiva per comprendere taluni profili poetici – per il trovatore Marcabru, ad esempio, la presenza efficace di talune fonti propriamente cistercensi. E ciò pare utile anche relativamente alla dialettica fra poesia sacra e poesia profana, perché se è vero che la cortesia trobadorica ha la sua matrice nell’amore e il cristianesimo è, per definizione, la religione dell’amore, la distinzione tra amore sacro e amore profano riguarda evidentemente l’oggetto, non la natura della forza spirituale. Da qui spesso lo scambio di piani, l’interferenza e le ambiguità espressive reciproche.
Un elemento importante che viene ad aggiungersi al dibattito fra i sostenitori delle origini colte della poesia volgare moderna e i sostenitori dell’origine popolare è, nel 1948, il rinvenimento e la decifrazione di alcuni testi che sembrarono sparigliare definitivamente i conti: si trattava di un’altra, antica, tradizione lirica in lingua volgare rinvenuta appunto nelle kharagiat mozarabiche (la più antica khargia è anteriore al 1042). Con tale termine si indica la parte finale (o “uscita”) della muwaššaha, genere diffuso in al-Andalus (la Spagna araba) dal X secolo.
La muwaššaha è invece un genere poetico strofico in lingua araba classica (ma ne esistono anche in ebraico) il cui schema di base è: AA, bbbAA (AA), cccAA (AA) ecc., ove AA è un preludio a cui seguono delle strofe costituite da una prima parte monorima (bbb) – con una rima diversa per ogni strofe – e una seconda che riprende il preludio, poi spesso ripetuto come ritornello. Tale forma del tristico monorimo con volta costante è peraltro quello tipico dello zajal arabo-andaluso (in arabo ghazal, in spagnolo zéjel). Nel testo si esprime il poeta (si è detto, in arabo o in ebraico), nell’ultima parte (AA) dell’ultima strofe invece (la khargia appunto) parla in genere una donna innamorata e tale parte è redatta nell’idioma romanzo di al-Andalus ossia in quel dialetto mozarabico che continuava il latino.
Le più antiche kharagiat precedono di circa mezzo secolo la produzione del primo trovatore noto e aprono evidentemente il problema relativo all’esistenza eventuale di una lirica pretrovatoresca, così come confermano l’antichità della canzone di donna in area europea. Tuttavia occorrerà precisare che almeno una parte delle kharagiat pare derivare dalla tradizione lirica romanza e che esse ci giungono attraverso una mediazione forte che ne condiziona la stessa genuinità. Per una serie di ragioni però – anche ad esempio per il fatto che il citato tristico monorimo con volta non pare attestato nella lirica mediolatina e invece è già impiegato dal primo trovatore noto, Guglielmo IX –, il contatto tra lirica araba e lirica trobadorica è un fatto importante, da collocarsi in epoca protoletteraria.
D’altra parte assai stretto appare per la poesia volgare trobadorica il legame con la tradizione mediolatina e più propriamente liturgica. La prossimità si mostra, fin dagli esordi, relativamente ai procedimenti retorici di cui la poesia mediolatina forniva i modelli e persino relativamente agli schemi metrici e ritmici sviluppati già dai primi trovatori: dai “tropi” (così si chiamavano le inventiones interpolate alla liturgia, specialmente nella messa dopo l’Alleluia) i nuovi poeti traggono infatti il loro stesso nome e da tropo invenire, ossia “comporre tropi”, si deriverà tropare. Tropatores, ossia “trovatori, inventori di forme nuove” sarà perciò il termine che indicherà e contraddistinguerà i nuovi poeti in volgare. Da qui anche l’elemento che differenzierà i trovatori dai giullari – relegati nelle più modeste funzioni di ripetitori dei testi, di divulgatori cioè ed esecutori –, assieme all’orgogliosa coscienza della propria maestria tecnica e musicale o tout court del proprio valore.
La poesia trobadorica in lingua d’oc ossia la lingua derivata dal latino e propria della zona meridionale della Francia – da cui l’aggettivo “occitanico”, termine più esatto di “provenzale” che indica propriamente solo una delle regioni del Sud – è una poesia cortese poiché si sviluppa e si diffonde nelle corti ed è una poesia che pone al centro del suo discorso la fin’amor ossia una concezione speciale dell’amore che permette per l’appunto la costituzione e l’espressione dell’io lirico. Solo più tardi i trovieri scriveranno i loro testi in lingua d’oïl ossia in francese antico, su modelli occitanici.
La poesia dei trovatori è lirica in senso proprio: poesia cantata, monodica, di cui il trovatore compone los motz e·l so (“le parole e la musica”). Genere principe di tale lirica è la canso (“canzone”), termine che si attesta dopo il più antico vers (da versus), impiegato prevalentemente dai primi trovatori e fino alla fine del XII secolo. La canso comprende generalmente da cinque a sette strofe e si chiude con una o più tornadas (“invii”) che possono comprendere il nome del destinatario o della dama celato spesso sotto uno pseudonimo, il senhal. La canzone offre l’espressione compiuta e massima dell’arte trobadorica e permette nell’originalità della sua forma (metrica, ritmica e musicale) l’espressione del tema amoroso.
L’amore è per i trovatori forza vitale, religione dell’anima e centro geometrico del canto: Bernart de Ventadorn, uno dei massimi fra i trovatori della generazione del 1170, stabilirà una perfetta corrispondenza fra espressione poetica e sentimento d’amore, tanto che amare equivarrà a cantare e cantare ad amare: Non es meravelha s’eu chan / Melhs de nul autre chantador. / Que plus me tra·l cors vas amor / E melhs sui faihz a so coman (“Non è meraviglia s’io canto / Meglio d’ogni altro cantore / Ché più il cuore mi tira verso amore / E meglio son disposto al suo comando”). L’amore vale per se stesso, vale per la perfezione che procura e la donna (domna da domina, “signora”) che è l’oggetto di tale inclinazione che affina – pure nella distanza siderale in cui ella è posta, per condizione e statuto poetico (si pensi all’amor de lonh, “l’amore di lontano” di Jaufré Rudel) – deve permettere che la si ami e deve mostrarsi degna di tale amore.
L’amante è un vassallo, la signora inaccessibile, l’amore spesso adultero, il joi – termine tecnico complesso, anche concretissimo, che allude alla gioia e al compimento d’amore – diventa l’amore stesso, fonte di ogni virtù e perfezione. E per quanto i trovatori non abbiano lasciato un trattato sistematico e completo dell’amore – il De Amore, in latino, di Andrea Cappellano è una sistemazione particolare e pur offrendo una casistica sottile, è di fatto prodotto diverso quanto complesso –, il codice del perfetto amante e del perfetto poeta risulta dai testi assai severo, fatto di regole e valori precisi (ad esempio la mezura, “misura”, nel comportamento e nell’espressione; lo saber, “la cultura del cuore” e lo sen, “la dirittura del giudizio”, la conoissensa, “la saggezza” ecc.) che fanno di tale codice di virtù anche un corrispettivo di quello della cavalleria.
Relativamente allo statuto sociale si è infatti da alcuni affermato che tale poesia cortese riflettesse l’ideologia di una classe specifica di marginal men, i piccoli cavalieri (detti iuvenes, “jovens”) sprovvisti di feudo e costituenti la masnada del signore, da cui economicamente dipendevano. I trovatori sarebbero così gli ideologi di tale classe, coloro che attraverso una particolare concezione della cortesia e della fin’amor giustificherebbero l’idea di una nobiltà che procede non dagli averi o dalla stirpe, ma dalle qualità e dalle virtù intime dell’uomo. Naturalmente tale tesi sociologica spiega solo parte del fenomeno trobadorico e chiarisce solo alcune delle dialettiche interne al complesso mondo poetico della Francia medievale.
La canso, si è detto, è il genere deputato per veicolare la dottrina cortese dei trovatori, nella virtuosità dello stile adibito, dei giochi prosodici, della lingua. L’espressione è scientemente complicata, spesso ellittica, e ciò particolarmente in coloro – ad esempio Raimbaut d’Aurenga – che scelgono il trobar clus ossia il “poetare chiuso”, la parola oscura e preziosa, una scelta che equivale anche a un’esplicita affermazione aristocratica e alla selezione del proprio pubblico. Il trobar leu (“trovare lieve”, quello ad esempio di Bernart de Ventadorn o Giraut de Bornelh) sceglie l’opposto, uno stile accessibile e un’estetica apparentabile anche a una, diversa e laica, idea di caritas di tipo paolino. Il trobar ric (“comporre ricco”), il cui massimo esponente è Arnaut Daniel, è un’accezione specifica del trobar clus di cui accentua la raffinata virtuosità metrica e lo spericolato gioco verbale.
L’estensione analogica della canso investe quasi tutti i generi poetici, organizzati in un complesso e ampio sistema di cui trattati tardivi (Leys d’amors, Regles de trobar ecc.) rendono solo in parte etimologia esatta e diacronia: dal sirventese (in esso si comprende anche la canso de crozada) che in particolare si distingue per mutuare la forma e la musica da una canzone d’amore, ai generi dialogici (tenso e partimen), ad altri ancora (planh, alba, pastorella). Si distinguono inoltre generi minori a pertinenza lirico-coreografica: la balada (il rondeau dei trovieri) e la dansa, mentre probabilmente importati dal dominio d’oïl sono l’estampida e la retroencha.
Destinata al canto (dunque non solo alla lettura, come il romanzo) la poesia è composta dal trovatore plausibilmente per iscritto (si nomina ad esempio il breu de pergamina, “breve di pergamena”, ossia i fogli sciolti attraverso i quali si poteva poi diffondere il testo), ma può trasmettersi anche oralmente e attraverso giullari, spesso anonimi. I testi dei circa 460 trovatori noti ci sono giunti attraverso canzonieri manoscritti (95 quelli repertoriati da Brunel) e solo quattro di essi conservano la notazione musicale di circa 250 componimenti ossia pressappoco di un decimo dell’intero corpus. Complessa l’interpretazione del testo musicale poiché alla notazione manca l’indicazione relativa al ritmo, essenziale per una corretta esecuzione delle poesie. Il testo verbale obbedisce invece alle regole della nuova metrica romanza che, per sintetizzare, si possono spiegare ricorrendo alla metafora spaziale – usata da Brunetto Latini – che paragona il comporre poetico a un sentiero da percorrere, stretto e aspro, racchiuso fra i muri e le palizzate del peso, del numero e della misura (il numero è il computo delle sillabe, la misura è data dall’elaborazione delle rime, il peso dalla scansione degli accenti).
E se con metrica intendiamo quel complesso di regole relative alle costrizioni iterative strutturali proprie del componimento poetico, si dirà che esse valgono sia sul piano delle misure dei versi, delle pause interne, degli accenti primari e secondari; sia riguardo agli omoteleuti dei versi, propri alla versificazione europea medievale e moderna (le rime) e alle ripetizioni strofiche con le loro modalità; sia, infine, riguardo agli espedienti retorici, interni al verso o alla strofe, ma organizzati in modo da costituire un reticolo unitario di rispondenze.
In conclusione si dirà che caratteristica della metrica romanza – derivata dal sistema ritmico del latino tardo e impiegata appunto per la prima volta dai trovatori (Frank ha repertoriato più di 800 forme metriche differenti nella lirica trobadorica) – è: 1) l’elaborazione di strutture metriche rispondenti al principio dell’isosillabismo; 2) l’utilizzazione sistematica dell’omoteleuto (rima o assonanza) con funzioni, oltre che estetiche e storico-culturali, specificamente metriche, dirette cioè a livellare il verso e a stabilirne i confini nell’ultima vocale tonica; 3) l’organizzazione funzionale e combinata di metri e rime nella strutturazione dei generi (la lassa per l’epica, la stanza per la lirica, il distico monorimo per il romanzo, la quartina d’alessandrini per la poesia didattica ecc.). I due primi principi mancano alla metrica classica, caratterizzata dal sistema quantitativo e dall’assenza di omoteleuto sistematico; analogia vi è invece fra sistema romanzo e sistema germanico relativamente all’utilizzazione della rima.
Il primo poeta in lingua volgare d’Europa la cui opera ci sia giunta è Guglielmo, VII conte di Poitiers e IX duca di Aquitania. Rampollo di una delle più illustri e potenti famiglie di Francia – i suoi feudi si estendevano dalla Loira ai Pirenei ed erano dunque più vasti di quelli del re – Guglielmo era un gran signore, possedeva una delle più ricche biblioteche dell’epoca, riunita sostanzialmente da quel suo celebre e omonimo avo che era stato amico di Fulberto di Chartres. Nei suoi vasti domini fiorivano centri culturali eccellenti: la scuola episcopale di Poitiers, fondata dal discepolo di Fulberto, Ildegario, e l’abbazia di San Marziale di Limoges, uno dei centri più importanti per la poesia mediolatina e la composizione di innari e tropari. Fra i suoi feudatari dovette essere quell’Ebolus cantator, visconte di Ventadorn, di cui non ci sono pervenuti testi, ma il cui nome è ricordato dai trovatori posteriori come quello di un caposcuola, l’escola N’Eblon, appunto.
Numerosi e pittoreschi sono i riferimenti a Guglielmo nella cronachistica latina coeva: ce lo descrivono libertino e leggero, “iocundus et lepidus, fatuus et lubricus”, intento a mimare, lui gran signore, le scurrili e giocose abilità dei giullari (“facetos etiam histriones facetiis superans multiplicibus”, così Orderico Vitale) o a comporre in volgare canti erotici, sentimentali o umoristici, attingendo a quella linea che era propria dei clerici vagantes, ma anche di Abelardo e dei poeti della Loira.
Tale promozione delle facetiae a poesia – che ricorda però l’esempio “alto” degli Amores di Ovidio e, a suo modo, ricomparirà ancora quando Petrarca assegnerà alle sue composizioni l’epiteto nugae. L’incontro fortunato di tradizione profana, colta e scolastica, con la tradizione liturgica – molte forme metriche e i cosiddetti “versi lunghi” adoperati da Guglielmo sono ripresi, forse anche parodisticamente, da celebri tropi – e infine l’apporto della poesia più schiettamente popolare e giullaresca riesce qui particolarmente istruttiva, paradigmaticamente: già alle origini, insomma, la poesia nuova della nuova Europa, si situa all’incrocio ibrido di mondi diversi, a torto ritenuti rigidamente separati e invece assai prossimi, profondamente interferenti.
Di Guglielmo restano undici testi di cui uno di dubbia autenticità. Complesso e non uniforme il profilo del poeta che se ne ricava: da una parte composizioni allegre, irriverenti e quasi ciniche, dall’altro canzoni perfettamente cortesi, con temi (come quello dell’incipit primaverile o della dama inaccessibile, dei lauzengiers, “maldicenti” o della trasposizione delle immagini feudali al linguaggio amoroso) che poi diventeranno caratteristici di tutta la poesia trobadorica. Si può anzi affermare che i tre filoni principali secondo la cui stilizzazione si svolgerà poi l’intera tradizione lirica sono già tutti presenti: la linea amoroso-sentimentale, il filone burlesco-satirico e l’ispirazione moraleggiante (religiosa, ma anche civile).
Il movimento trobadorico si concluderà alla fine del XIII secolo: Guiraut Riquier scriverà la sua ultima poesia nel 1292, ma già la crociata contro gli albigesi (1208-1229) aveva inferto un colpo grave al sistema feudale delle corti meridionali di Francia, spezzando di fatto la condizione stessa in cui la poesia dei trovatori aveva potuto diffondersi e fiorire.
A partire da tali estremi, nel movimento trobadorico si distinguono solitamente tre periodi. Il primo va dalle origini alla metà circa del XII secolo e i suoi principali esponenti sono Guglielmo IX, Jaufré Rudel e Marcabru. Come Guglielmo anche Jaufré è un grande feudatario (principe di Blaya – all’estuario della Gironda – secondo la vida), partecipa probabilmente alla crociata nel 1147 e il suo celebre amore per una dama lontana e mai vista, mito che la vida contribuisce a fissare, continuerà poi ad alimentare la fantasia di numerosi scrittori (Petrarca, Heine, Carducci, Rostand fino a Pound e Döblin). Decisamente più robusta e difficile l’ispirazione di Marcabru, probabilmente di umile condizione e attivo fra 1130 e 1148, prima alla corte di Guglielmo VIII di Poitiers poi a quella di Alfonso VII di Castiglia. In un linguaggio molto personale e realistico, ricco di hapax e di termini rari e coloriti, Marcabru si scaglia contro una fin’amor piena di menzogne e adultera e denuncia la corruzione della società cortese di cui dileggia i vizi. Fiero e solitario, consapevole del valore della propria opera e difensore di un genus dicendi e di un ornatus attento, volutamente orientato all’invettiva come all’oscurità e alla densità semantica, di Marcabru conserviamo una quarantina di testi che ebbero un grande impatto sulla poesia coeva e successiva.
La seconda stagione trobadorica (metà XII sec. - metà XIII sec.) è quella più ricca e articolata. Comprende la generazione del 1170 ossia quei poeti attraverso i quali si definisce il modo classico del “grande canto cortese”. Fra loro i più celebri: Bernart de Ventadorn, Raimbaut d’Aurenga, Peire d’Alvernhe, Giraut de Bornelh, Bertran de Born, Arnaut Daniel, Folquet de Marseilla, Peire Vidal, Raimbaut de Vaqueiras e anche qualche voce femminile, le cosiddette trobairitz.
Bernart de Ventadorn è il poeta che forse meglio di tutti rappresenta l’ispirazione fondamentale della poesia trobadorica. Per quanto riesca sempre banalizzante e inesatto considerare in blocco l’opera di un trovatore, spesso assai sfaccettata per temi e forme sperimentate, si potrebbe affermare, generalizzando, che per Bernart argomento di tutta la poesia è solo l’amore, sentimento svincolato da ogni caratterizzazione biografica e quasi ipostatizzato. Il paesaggio e il mondo reale scompaiono e sono completamente interiorizzati in uno spazio lirico in cui l’unico movimento resta quello, melodioso e piano, della memoria innamorata, della solitudine del cuore. Con Raimbaut, il principe di Orange prematuramente morto nel 1173, siamo in tutt’altro clima: se egli riprende il tono ludico di Guglielmo IX, sottolineando dell’amore piuttosto il gioco e il contrappunto, il virtuosismo formale e lessicale, talune forme assai originali preludono ai modi tipici di colui che, secondo Dante, “fu miglior fabbro del parlar materno”: Arnaut Daniel. Arnaut è poeta degli adynata (cioè cose impossibili come “cacciare la lepre col bue”, “ammassare l’aria”, “nuotare contro la marea montante”) e il noto inventore della sestina, ossia di quella canzone di sei strofe e di sei rimanti, ipnoticamente ricorrenti secondo il principio della retrogradatio cruciata, che tanto affascinerà la poesia di ogni tempo (sestine comporranno Dante e Petrarca, ma anche Michelangelo e Cervantes, Ungaretti e Pound sino a Fortini). A solo titolo d’esempio relativamente alle sezioni non amorose presenti nell’opera di un trovatore si ricorderà qui la produzione belligerante e realistica di Bertran de Born considerato da Dante (De vulgari eloquentia, II,2) l’altissimo cantore delle armi. Bertran, signore di Autafort, scrive con precisione storica circa lo scontro fra Capetingi e Plantageneti e della guerra di Riccardo Cuor di Leone, rendendo con vivezza e partecipazione i colori e i suoni della battaglia, realizzando insomma una poesia che con più efficacia si approssima alla vita feudale e alla realtà contemporanea.
La terza epoca, dalla metà alla fine del XIII secolo, comprende invece la produzione dei trovatori più tardi: Peire Cardenal, dalla spiccata vena satirica, Guilhem de Monhanhagol, i trovatori italiani (tra cui Sordello), il catalano Cerveri de Girona.
Già dalla metà del XIII e dopo la diaspora procurata dalla crociata albigese si assisterà alla sistemazione consapevole del patrimonio trovadorico: l’allestimento, anche in Italia, di grandi compilazioni manoscritte che ordinano e orientano la lettura di opere e poeti mediano la fruizione dei testi anche attraverso un genere narrativo specifico: le vidas e le razos. I testi sono insomma preceduti da profili biografici (le vidas) che, sul modello degli accessus ad auctores raccolgono informazioni sul trovatore di cui si propone una forma dell’opera, informazioni però spesso romanzate o tipizzate. Le razos (“ragioni”) sono invece premesse a singoli testi di cui spiegano l’occasione di composizione o la destinazione specifica.
La poesia dei trovatori si acclimata nella Francia del Nord verso la metà del XII secolo. Simbolo di tale translatio sono il primo matrimonio, nel 1137, di Eleonora d’Aquitania, nipote del primo trovatore, col re di Francia Luigi VII e poi (dopo il ripudio) il suo secondo matrimonio, nel 1154, con Enrico II Plantageneto.
Non sono note le circostanze e le esatte vie attraverso le quali la poesia trobadorica penetra al nord della Loira nelle corti francesi e avvia il rapporto di emulazione dei trovieri: forse attraverso poeti itineranti come Guiot de Provins o giullari, forse in corti specifiche particolarmente attente alla letteratura romanza come quella di Maria di Champagne, figlia di Eleonora, corte che accoglie Chrétien de Troyes al quale peraltro si debbono le due più antiche canzoni trovieriche in lingua d’oïl . Contemporanei a tali prime prove, attorno al 1170, sono i pochi testi lirici di Guiot de Provins e del visconte di Meaux, Huon d’Oisy. Ancora alla corte di Maria è attestato un altro, fecondo, troviero champenois: Gace Brulé, un cavaliere di piccola nobiltà, come i suoi amici Gilles de Vieux-Maison e Pierre de Moulins la cui attività è databile a ridosso della terza crociata (1189).
Un modello univoco per comprendere la diffusione si rivela tuttavia insufficiente: non mancano infatti esempi di un dialogo a più voci che mette a colloquio direttamente la lingua d’oïl e lingua d’oc – ad esempio il rapporto sicuro fra Chrétien, Bernart de Ventadorn e Raimbaut d’Aurenga circa il modello tristaniano dell’amore, o fra Raimbaut de Vaqueiras e Conon de Béthune – proprio Raimbaut mostra anzi un’influenza contraria, quando dal troviero Huon d’Oisy deriverà una nuova forma alla poesia provenzale. Fra i più grandi e importanti trovieri si ricordano Adam de la Halle, Colin Muset, Thibaut de Champagne fino poi a Jean Bodel e Rutebeuf il quale incarnerà definitivamente la mutazione del linguaggio lirico.
I poeti del Nord, pure emuli dei trovatori, si distinguono tuttavia dai loro modelli: assente è ad esempio il trobar clus e il trobar ric, la poesia realistica (ad eccezione di alcuni testi satirici e delle canzoni di crociata), persino lo stile aspro e paradossale. La produzione trovierica è costituita infatti prevalentemente da grands chants, canzoni d’amore cortesi classiche e fisse, le cui minute variazioni retoriche sono sempre comprese entro una costante ortodossia formale: le innovazioni sono infatti prevalentemente di ordine musicale, aspetto questo particolarmente curato (nei manoscritti è stato trasmesso un gran numero di melodie trovieriche). Anche talune condizioni specifiche paiono diverse: pure con l’eccezione di alcune corti, i trovieri sono poeti urbani (più che “borghesi”), appartengono cioè piuttosto all’ambiente cittadino, alle fiorenti e commerciali città del Nord fra le quali si distingue in particolare Arras. Da qui forse il gusto spiccato per generi speciali, i cosiddetti “generi oggettivi”, sconosciuti ai trovatori, che se da una parte fanno da contrappunto al gran canto cortese, dall’altro sembrano continuare forme più antiche.
Fra questi generi si ricorderanno l’alba, che svolge il motivo della veglia degli amanti e della loro separazione, e soprattutto il tipico registro lirico-narrativo dei lais e delle canzoni di donna. Fra esse notevoli sono le chansons de toile (“canzoni di tela”), un’ottantina di testi che mettono in scena – prevalentemente in décasyllabes e in forma di piccole canzoni di gesta narrative – delle fanciulle che attendendo alla finestra al lavoro manuale cantano di atti di seduzione o di amori lontani. Peculiari inoltre sono le cosiddette reverdies, che estendono a tutta la canzone il tema dell’incipit primaverile; le canzoni di “malmaritata” ossia di donne sposate insoddisfatte e soprattutto le pastorelle, un tipo di canzone a personaggi la cui matrice è però trobadorica. Assai fiorenti infine anche generi a evidente vocazione musicale o coreografico-musicale: rondeaux e balletes.
I trovieri furono il primo movimento nell’irradiazione europea della lirica trobadorica: presto la penisola iberica, le regioni nordiche e germaniche e l’Italia “tradurranno” nei loro specifici idiomi il gran canto cortese ossia quella modalità espressiva che, svincolandosi via via dalla performance musicale e precisando lo statuto dell’io lirico, giungerà poi a divenire quella propria della poesia moderna occidentale.