La lessicologia dialettale
Se per lessicologia dialettale intendiamo lo studio scientifico del sistema lessicale di un dialetto o di un insieme di dialetti, una panoramica sui suoi sviluppi dal secondo dopoguerra a oggi non potrà prescindere dai due strumenti che più l’hanno caratterizzata nel corso del Novecento, ovvero l’opera lessicografica e l’atlante linguistico.
I prodotti della lessicografia dialettale saranno al centro della prima parte del saggio. Il posto occupato dai vocabolari dialettali all’interno del quadro lessicografico odierno verrà discusso nella prima parte del saggio (La lessicologia dialettale tra teoria e prassi), mentre le varie tipologie di opera lessicografica (vocabolari etimologici e descrittivi, glossari, repertori di proverbi e modi di dire) saranno presentate nel paragrafo La lessicografia dialettale: glossari, vocabolari etimologici, vocabolari descrittivi; chiuderà la sezione un profilo storico della lessicografia dialettale in Italia, volto soprattutto a metterne in luce l’evoluzione teorica e metodologica, dalla metà del 18° sec. ai giorni nostri.
Il tema degli atlanti linguistici occuperà per intero la seconda parte del saggio (L’atlante linguistico). Tra le tipologie di atlante linguistico, ci soffermeremo, in particolare, su quelli regionali, poiché hanno contribuito, in modo assai significativo, a scrivere la storia della geografia linguistica del secondo Novecento; è infatti in seno agli atlanti linguistici regionali che è venuto maturando, negli ultimi decenni, l’acceso dibattito su teorie e metodi della geografia linguistica, di cui daremo conto nelle sottosezioni dedicate al rapporto fra atlante linguistico e sociolinguistica, informatica, etnografia. Proporremo infine un bilancio sulla lessicologia dialettale a partire dal confronto tra metodi e obiettivi dei due strumenti.
In lessicografia è consuetudine distinguere tra vocabolari monolingui, in cui la lingua della definizione coincide con la lingua oggetto della raccolta, e vocabolari bilingui che mettono in contatto due lingue con il fine principale della traduzione. Rispetto a questa definizione e in base alle caratteristiche di volta in volta prese in esame, i vocabolari dialettali si avvicinano ora all’una ora all’altra tipologia, non rientrando pienamente in nessuna delle due. Analizzeremo di seguito alcune caratteristiche del vocabolario dialettale per dimostrare quanto appena affermato.
A prima vista i vocabolari dialettali possono sembrare più affini ai vocabolari bilingui in quanto entrambi sono redatti con l’intento prioritario di essere utili ai parlanti di una sola delle due lingue considerate: solo in rari casi infatti i vocabolari dialettali presentano un indice italiano-dialetto che funge da seconda chiave d’accesso rispetto a quella principale dell’entrata dialettale. Ne consegue che il lessicografo può tralasciare le informazioni che ritiene già in possesso del parlante a favore di una maggiore abbondanza descrittiva nella lingua ritenuta estranea.
Bisogna però rilevare che i vocabolari dialettali presentano una maggiore complessità sia perché l’affinità tra il definiendum (il dialetto) e il definiens (la lingua di cultura che nel nostro caso è l’italiano) è molto stretta sul piano formale, semantico e culturale, sia perché il confronto avviene fra una lingua il cui uso è da tempo codificato (l’italiano) e una essenzialmente parlata (il dialetto) e sociolinguisticamente subordinata alla prima. È per questo che in ambito dialettale si preferisce parlare di vocabolari omoglossi (Quémada 1968): la complessità linguistica italiana vede da una parte i dialetti dell’Italia mediana molto affini alla lingua nazionale, a tal punto da avvicinare i vocabolari di quest’area alla tipologia monolingue, e dall’altra i dialetti dell’Italia settentrionale o insulare maggiormente differenziati rispetto all’italiano a tal punto da far pensare più a vocabolari bilingui.
Una seconda differenza che non permette di ascrivere tout court il vocabolario dialettale alla tipologia bilingue è la funzione che esso ricopre: abbiamo accennato che un dizionario bilingue ha lo scopo precipuo di essere un supporto per la traduzione dalla lingua x alla lingua y; questo è stato anche l’intento dei primi vocabolari dialettali pubblicati alla fine del Settecento e nel corso dell’Ottocento che avrebbero voluto insegnare l’italiano ai dialettofoni (vedremo poi più avanti i limiti di questo scopo dichiarato, nel paragrafo Breve storia della lessicografia dialettale in Italia); nei vocabolari più recenti invece prevale il fine conservativo e descrittivo (talvolta anche normativo) di una lingua sentita come minacciata di estinzione. Lo scopo didattico risulta quindi secondario.
Infine, una terza diversità si ritrova nelle fonti utilizzate per l’allestimento del lemmario: per un vocabolario dialettale si utilizzano in genere materiali ottenuti attraverso la competenza linguistica dell’autore o, più raramente, attraverso inchieste sul terreno; per i vocabolari bilingui che trattano lingue nazionali è più opportuno (e consueto) fare riferimento a un buon dizionario monolingue per ciascuna delle lingue prese in considerazione.
Entrambi i dizionari, sia quelli bilingui sia quelli dialettali, si scontrano con il problema dell’equivalenza delle parole in lingue diverse, quello che tecnicamente è chiamato anisomorfismo. Le lingue, seppure imparentate fra loro come le lingue neolatine e, fra di esse, l’italiano e i dialetti parlati in Italia, organizzano in modo differente le proprie strutture fonologiche, sintattiche, semantiche e lessicali e fanno affiorare in superficie l’organizzazione del reale di ciascuna comunità. Alla genericità dell’inglese car corrisponde la specificità dell’italiano carro, automobile, vagone ferroviario, cabina di ascensore e persino navicella di dirigibile; alla genericità dell’italiano rifiuti corrisponde un’accurata differenziazione in torinese: mnis per i rifiuti organici, drugia per gli escrementi da concime, rumenta per i rottami metallici, banastre per le masserizie da buttare e così via.
Anche i lessicografi dialettali si accorgono della difficoltà di tradurre uno a uno tutte le entrate (si veda già nel 1817 la prefazione del Vocabolario bresciano-italiano di Giovan Battista Melchiori), ma non sempre pare esserci una consapevolezza ragionata. Inoltre nei dizionari bilingui la parola è diversa ma il referente è lo stesso; in quelli dialettali invece è possibile che la parola non sia traducibile perché il referente non esiste nella lingua, oppure che la parola sia la stessa ma che nella lingua si intenda un’altra cosa (Grassi, in Lessicografia dialettale, 2006). Negli ultimi decenni inoltre si è aggiunta la possibilità che la parola sopravviva senza una effettiva corrispondenza con una cosa, non più in uso.
Una difficoltà particolarmente onerosa per i vocabolari dialettali, ma non per quelli bilingui e monolingui, è il problema della grafia: le lingue di cultura hanno alle spalle una lunga tradizione letteraria che ha contribuito in maniera determinante alla standardizzazione dei segni grafici; il dialetto invece non ha subìto lo stesso processo di regolarizzazione scritta, o lo ha subito in maniera minore. Questo ha comportato la nascita di numerose grafie personali, soprattutto tra i lessicografi non specialisti, basate su sistemi talvolta non organici né uniformi.
La lezione che i vocabolari dialettali dovrebbero invece trarre dai vocabolari monolingui è un’attenzione scrupolosa all’impostazione generale del vocabolario (macrostruttura) e all’articolazione all’interno di ciascun lemma (microstruttura) con particolare riferimento alla descrizione accurata dei lemmi nelle loro varianti d’uso, diatopiche, diastratiche e, anche se con maggiore difficoltà vista la relativa scarsità della produzione scritta dialettale, diacroniche.
Per quanto riguarda la macrostruttura affrontiamo due aspetti in particolare: l’ordine dei lemmi e il corpus da lemmatizzare. Rari sono i casi in cui i vocabolari, a qualsiasi tipologia appartengano, rinunciano all’ordinamento alfabetico, anche se tale criterio è stato aspramente criticato perché non rispetta il sistema di intrecci semantici creati dalla lingua. La critica è nella teoria ampiamente condivisibile, ma nella pratica inaccettabile in quanto l’ordine alfabetico rappresenta uno strumento inequivocabile e sicuro, sia in fase di consultazione sia in fase redazionale; inoltre un lavoro lessicografico ordinato alfabeticamente può essere elaborato e utilizzato a segmenti relativamente autonomi e come catena aperta in cui è agevole aggiungere in ogni punto nuovi elementi. La critica dell’impossibilità di far emergere i rapporti sintagmatici e paradigmatici della lingua viene almeno in parte superata se all’interno della macrostruttura si intesse una rete di riferimenti incrociati sulla base di campi semantici o di famiglie.
Nella lessicografia nazionale un buon riferimento è il Grande dizionario italiano dell’uso diretto da Tullio De Mauro (2000) che introduce una serie di rimandi all’interno della struttura e soprattutto una serie di interrogazioni rese possibili nel CD interattivo che accompagna l’opera cartacea. Da qualche anno l’informatica è infatti entrata nella redazione dei vocabolari e, pur senza aver ancora espresso tutto il suo potenziale, ha offerto buoni spunti per creare un vocabolario relazionale. La lessicografia dialettale da questo punto di vista è invece indietro, forse per le difficoltà che lavori di questo genere comportano e le competenze che richiedono. Una felice eccezione è rappresentata dal Dizionario del dialetto di Montagne di Trento (2009) di Corrado Grassi, che propone una serie di tavole sinottiche dedicate a iperonimi (abit ‘abito’, car ‘carro’) che riuniscono un insieme di voci del dizionario (registrate secondo l’ordine alfabetico e descritte singolarmente) ricostruendo agli occhi dell’utente un’unità segnica (l’abito tradizionale o il carro agricolo a quattro ruote) che altrimenti andrebbe dispersa dalla consueta registrazione lessicografica.
Grassi va oltre la lezione del Grande dizionario italiano dell’uso di De Mauro e instaura una serie di rinvii interni non solo per ricostruire campi semantici, ma anche per dare conto delle corrispondenze e delle diversità semantiche fra due lemmi. È il caso di cò e tèsta: dalla compilazione in parallelo delle due voci emerge chiaramente la libera alternanza per gli usi traslati e l’opposizione semantica per gli usi propri (in un’area di confine e di antagonismo fra i due termini, infatti, il dialetto di Montagne di Trento specializza cò per gli animali e tèsta per il corpo umano). Da segnalare la soluzione adottata da Gianfranco Gribaudo, Ël neuv Gribàud. Dissionari piemontèis (1996), che riconduce a un lemma base (per es. feu «fuoco») le forme derivate e alterate (per es. afoé «arroventare», fogassa «focaccia», foghera «braciere» ecc.); ogni forma derivata o alterata, registrata secondo l’ordine alfabetico, prevede il rimando al lemma base.
Il secondo aspetto della lemmatizzazione concerne le cosiddette polirematiche, cioè unità di significato che sono composte da almeno due elementi separati (solo per citare qualche esempio: ferro da stiro, vicolo cieco, filo da torcere, venire meno, farsi indietro, vedere rosso). Si veda l’analisi condotta (Cini 2005a) per il trattamento delle polirematiche nei maggiori dizionari monolingui italiani, in cui si evidenzia l’assenza di un criterio omogeneo all’interno della macrostruttura, a eccezione del De Mauro che esplicita i criteri di lemmatizzazione. I vocabolari dialettali anche in questo caso dovrebbero riflettere con più attenzione sulla natura dei lemmi: molto spesso viene intuita la presenza di sequenze costituite da due o più parole che hanno coesione interna semantica e/o sintattica tale da poter essere considerate un unico lessema, ma il loro trattamento non è omogeneo.
Terminiamo la nostra disamina confrontando il vocabolario dialettale con il dizionario enciclopedico. Secondo una distinzione che risale ai compilatori dell’Encyclopédie esistono dizionari di parole, che hanno il compito di informare sui segni linguistici in quanto tali, e i dizionari di cose, che informano sulle realtà significate dai segni stessi. D’altra parte, un dizionario linguistico che a prima vista potrebbe limitarsi a essere un dizionario di parole, se è ben fatto diventa necessariamente anche un dizionario di cose. La natura particolare del dizionario enciclopedico, che è insieme vocabolario ed enciclopedia, permette di dare alla parola d’entrata nella prima parte dell’articolo le informazioni più linguistiche (categorizzazione grammaticale, definizione ed esempi di contestualizzazione, fraseologia) e nella seconda parte un maggiore approfondimento semantico-culturale inquadrandola nei diversi campi nozionali a cui essa appartiene. Il dizionario enciclopedico è, dunque, un dizionario doppio: presenta tutte le caratteristiche di un dizionario di lingua (descrizione del lessico) e tutte quelle dell’enciclopedia (descrizione del mondo).
Da questo punto di vista la tipologia del dizionario enciclopedico si avvicina moltissimo al vocabolario dialettale, ma la rilevante diversità consiste nel corpus delle voci accolte. Il dizionario enciclopedico amalgama due macrostrutture diverse: accoglie tutte le parti del discorso come un dizionario di lingua, ma lemmatizza anche i nomi propri, i personaggi illustri della cultura, le opere letterarie più note e importanti; in genere invece il vocabolario dialettale inserisce come entrate tutte le parti del discorso, solo raramente nomi propri di luoghi e di persone, mentre è del tutto assente ogni riferimento alla letteratura in dialetto, anche di estrazione popolare.
Le due tipologie sono molto simili per la microstruttura che presenta una prima parte più strettamente linguistica, articolata in informazioni fonetiche, lessicali e semantiche, talvolta etimologiche, ma che in alcuni casi è meno curata rispetto a una seconda parte più ampia e descrittiva, che aggiunge informazioni extralinguistiche alla definizione principale; molto spesso queste informazioni sono corredate e supportate da illustrazioni.
Dall’analisi comparativa del tipo di dizionario (monolingue, bilingue ed enciclopedico) emerge che il vocabolario dialettale accoglie tratti distintivi ora dell’una ora dell’altra tipologia, formando forse un quarto tipo distinto. Riassumendo i tratti peculiari, ricordiamo che il vocabolario dialettale ha in comune con il dizionario bilingue il problema dell’anisomorfismo, poiché mette in contatto codici diversi anche se a diversi gradi di complessità (dialetto e lingua nazionale); come un dizionario monolingue intende invece descrivere il lessico della lingua; come un dizionario enciclopedico tende a inserire la descrizione del mondo concettuale che è alla base del lessico stesso. L’oggetto di un vocabolario dialettale è dunque rappresentato dagli atteggiamenti linguistici e non, ripetibili e riconosciuti da una comunità che spaziano dalla tecnica d’uso a una moda, dal modo di vestire o di mangiare alla forma di saluto, senza tralasciare il linguaggio non verbale sia come fatto comunicativo in sé sia come fatto ridondante rispetto a quello verbale (già nel 1899 nel Vocabolario del dialetto calabrese (casalino-apriglianese) di Luigi Accattatis sotto le voci aa, no, noni è descritta la mimica che in alcune situazioni accompagna la formulazione verbale).
La lessicografia dialettale, scientifica o amatoriale, ha prodotto strumenti di diverso tipo: oltre ai vocabolari di cui tratteremo in modo approfondito, corre l’obbligo ricordare i glossari, liste di parole che possono essere fonti interessanti, poste alla fine di testi che spesso nulla hanno a che fare con la lessicografia. Con Grassi, Sobrero, Telmon (1997) ricordiamo le tipologie più frequenti:
a) lista di termini alla fine di un testo letterario in cui sono raccolte parole dialettali (per es. i romanzi romani di Pier Paolo Pasolini);
b) raccolta di termini che integrano e completano il testo narrativo (per es., in Croniche epafaniche, 1989, Francesco Guccini, pur dichiarando di non volere redigere un glossario, fornisce un elenco dettagliato con informazioni che ricostruiscono il quadro linguistico, sociale e culturale in cui l’autore e la sua opera si muovono);
c) lista di parole posta alla fine di opere di carattere etnolinguistico in cui vengono descritti lavori, attività, strumenti, tradizioni, usanze, con un’attenzione particolare al dato linguistico (come per es. nel lavoro di A. Nesi, La pesca nella laguna di Orbetello, 1989);
d) raccolte legate alla tassonomia popolare del mondo vegetale e animale che si configurano come veri e propri lessici specialistici: di indubbio valore le opere di A. Sella, Flora popolare biellese. Nomi dialettali, tradizioni e usi locali (1992) e Bestiario popolare biellese. Nomi dialettali, tradizioni e usi locali (1994).
Molto frequenti sono pure le raccolte di proverbi e modi di dire, organizzate in genere per categorie quali la natura, l’uomo, la vita morale, la società, in cui spesso la mancanza di indici di parole e di frasi impedisce la ricerca all’interno del testo (si veda per es. la bella raccolta di O. Lurati, Dizionario dei modi di dire, 2001, in cui l’assenza di qualsiasi tipo di indice, anche quello delle parole scelte come lemma d’entrata, rende difficile la consultazione). Un esempio di buon livello è la raccolta di Proverbi e detti della Tuscia viterbese (2001) di Luigi Cimarra e Francesco Petroselli, in cui è fatta particolare attenzione alla trascrizione fonetica del testo, con l’indicazione di eventuali varianti, la fonte e la localizzazione, l’interpretazione prevalente del proverbio da parte della comunità. Di particolare interesse il metodo di inchiesta adottato: per le loro riflessioni i due curatori sono partiti dal questionario dell’Atlante paremiologico italiano diretto da Temistocle Franceschi, in cui all’informatore è richiesto il riconoscimento e l’eventuale equivalente di un proverbio italiano. I limiti e i rischi metodologici sono sufficientemente evidenti (per un approfondimento cfr. Cini 2005b, pp. 59-68); infatti Cimarra e Petroselli hanno preferito adottare una griglia di argomenti da esplorare e metodi di elicitazione diversi e interagenti fra loro: l’attestazione di un proverbio, il contesto della gara in cui due o più persone si confrontano nell’enunciazione del maggior numero di proverbi, la sollecitazione alla produzione di testi narrativi autobiografici o descrittivi. Non sfugge che le prime due modalità rischiano di far raccogliere in modo acontestuale il proverbio che invece per sua natura assume sfumature di significato particolari proprio in base al tipo di discorso, all’atmosfera complessiva del momento, agli interlocutori eccetera.
Prima di trattare in dettaglio i vocabolari dialettali, è necessario citare ancora i vocabolari etimologici che, per la complessità dell’argomento trattato sono per lo più redatti da gruppi di specialisti. Il lavoro etimologico ha sempre esercitato un fascino particolare tra i cultori dialettali, ma spesso coloro che vi si sono cimentati lo hanno fatto allo scopo di dimostrare l’origine esotica e ‘altra’ delle parole dialettali.
Tra i vocabolari etimologici che possono interessare la ricerca dialettale, vi sono le opere interlinguistiche che presentano come entrata la base etimologica, seguita dai continuatori nelle diverse lingue (W. Meyer-Lübke, Romanisches etymologisches Wörterbuch, 1911 e W. Wartburg, Französisches etymologisches Wörterbuch, 1922) oppure le opere dedicate alla singola lingua, sia essa di rango nazionale oppure locale. A differenza dei primi, in questi ultimi l’entrata è dalla parola all’etimo. Tra quelli dedicati (anche) ai dialetti, ricordiamo il Lessico etimologico italiano, diretto da M. Pfister e W. Schweickard, pubblicato a fascicoli periodici e ancora in corso di redazione; il Dizionario etimologico sardo (1960-1964) di M.L. Wagner, il Lessico etimologico abruzzese (1985) di E. Giammarco, il Vocabolario etimologico siciliano (1990) di A. Varvaro e R. Sornicola.
Arriviamo ora a parlare di ciò che comunemente viene in mente quando si parla di vocabolario dialettale. Innanzitutto occorre precisare che la bontà di un vocabolario non si può basare tout court sulla competenza del lessicografo, contrapponendo linguisti/dialettologi di professione ai cultori appassionati, in quanto questi ultimi
possono essere degli scaltrissimi dialettologi, se non quanto alla professione, almeno per quanto riguarda la preparazione scientifica e culturale. Anzi, in taluni casi alla preparazione linguistica del dialettologo si può aggiungere, negli Autori ‘locali’, quel quid in più che è dato dalla competenza attiva della varietà vocabolarizzata e soprattutto dalla conoscenza ‘vissuta’ dell’enciclopedia della cultura locale (Telmon, in Lessicografia dialettale, 2006, pp. 25-26).
Nell’arco del Novecento, come vedremo nel paragrafo successivo, si assiste a una proliferazione della produzione lessicografica dialettale, dedicata sia al repertorio comune di un’area linguistica sia al repertorio della singola località. Introduciamo qui un’altra distinzione che si basa proprio sull’area o la località oggetto della descrizione.
Un primo problema per i vocabolari di area è la delimitazione dei confini dell’area stessa che dovrebbe essere caratterizzata da un’omogeneità linguistica e culturale. Identificare un’area linguisticamente compatta non è semplice, soprattutto in prossimità dei confini che spesso sono aree grigie in cui una varietà sfuma progressivamente in un’altra. Il compito può apparire più facile se ci si riferisce ai confini amministrativi di una regione, ma rimane il problema organizzativo di dare conto all’interno della microstruttura della variabilità interna: si veda il complesso sistema di localizzazioni del Vocabolario siciliano (VS, 1968) fondato da Giorgio Piccitto e diretto da Giovanni Tropea che utilizza la sigla automobilistica della provincia per delimitare aree più ristrette ammettendo tuttavia che l’indicazione della sigla non comporta necessariamente che in tutti i comuni della zona il lemma sia stato raccolto e/o usato. In genere in un vocabolario di area in cui devono coesistere unità e differenza, il criterio utilizzato per la scelta della variante da mettere a lemma è la frequenza: l’entrata sarà la variante fonetica più diffusa, seguita dalle varianti registrate in numero inferiore con relativa localizzazione.
La produzione dei vocabolari dialettali dedicati alle singole località ha avuto inizio nel secolo scorso; infatti, nell’Ottocento molte opere avevano carattere regionale, anche se poi, come vedremo, sono legate alla varietà regionale più prestigiosa. Ciò che caratterizza, o dovrebbe caratterizzare, il vocabolario di un singolo dialetto è l’attenzione alle varianti centro/frazione, città/contado e alle varianti diastratiche. Un buon vocabolario da questo punto di vista è quello di Maria Teresa Greco, Dizionario dei dialetti di Picerno e Tito (1990) in cui è messo in evidenza che il dialetto lucano di Picerno più prestigioso è parlato da artigiani, bottegai e professionisti, mentre quello parlato dai contadini residenti nel contado è socialmente meno prestigioso. Allo stesso modo, emerge che a Tito esistono quattro gruppi di parlanti che corrispondono anche a varie professionalità il cui dialetto si diversifica su base fonetica e lessicale. Oltre alle differenze di classe, Greco mostra un’attenzione particolare anche al sesso e all’età, per es. nella descrizione dei giochi fanciulleschi e nella loro modalità di esecuzione.
La seconda particolarità di un buon vocabolario di località è l’attenzione alle varianti diacroniche, alle parole cadute in disuso, dimenticate o sostituite. Accanto alla competenza delle generazioni più anziane sarebbe auspicabile una ricerca anche su fonti scritte che potrebbero (retro)datare forme dialettali. È un terreno pressoché incolto di cui si hanno rari esempi, fra cui citiamo L. Anelli, Vocabolario vastese (1901) – interrotto alla lettera D – e G. Tomasi, Dizionario del dialetto di Revine (1992).
Breve storia della lessicografia dialettale in ItaliaNella seconda metà del 18° sec. l’attività lessicografica italiana si arricchisce di numerosi vocabolari dialettali – tra i quali ricordiamo il Vocabolario bresciano-toscano (1759) di B. Pellizzari, il Vocabolario etimologico siciliano, italiano e latino (1785-1795) di P.M. Pasqualino e il Vocabolario piemontese (1783) di M. Pipino – le cui caratteristiche anticipano talune di quelle dei vocabolari del secolo successivo. Si tratta, infatti, di opere di eruditi che dichiarano di rivolgersi ai loro concittadini meno istruiti perché possano apprendere a volgere il loro dialetto nella lingua italiana.
Nel 19° sec. l’apprendimento dell’italiano, identificato ancora sommariamente con il toscano, si lega al nascente sentimento nazionale e diventa condizione necessaria, come dice Vittorio di Sant’Albino nell’introduzione al suo Gran dizionario piemontese-italiano (1859), per l’unità morale e sociale di un popolo, per la comunanza di idee, per l’identità di affetti e per l’unità di intenti.
La prima evidente costante dei vocabolari dialettali ottocenteschi è il pubblico al quale si rivolgono: ai meno dotti, agli uomini che vivono alla giornata, al popolo. In realtà però il vero utente dell’opera non può che essere un’élite di dotti studiosi, un pubblico istruito e di classe agiata: infatti il tasso di analfabetismo, strettamente legato al monolinguismo dialettale, sfiora, nel 1861, il 90% della popolazione italiana e la ridotta tiratura dei testi non permette la diffusione capillare necessaria per opere pedagogiche quali gli autori intendono redigere.
Tuttavia la finalità dichiarata del vocabolario ottocentesco è di insegnare ai soli dialettofoni (raramente i vocabolari sono bidirezionali) a esprimersi correttamente in italiano. Uniche eccezioni sono il Vocabolario dei dialetti della città e della diocesi di Como (1848) di Pietro Monti, il quale dichiara di volere adeguare la sua opera ai «progressi generali che fa la linguistica in Europa» e il Dizionario del dialetto veneziano (1856) di Giuseppe Boerio, che vorrebbe che
tutte le città d’Italia formassero i rispettivi vocabolari, per poter compararli fra loro, estrarne i migliori e i più comuni termini, arricchire la lingua dei dotti ed accrescere il gran Vocabolario della Crusca (p. II).
Se alla base della redazione di un vocabolario ottocentesco ci sono criteri omogenei, non si può dire lo stesso per le considerazioni di carattere diatopico, diastratico e diacronico, per le quali si passa da un totale disinteresse a osservazioni intuitive e marginali sulle differenze di spazio e di registro, fino ad arrivare a lodevoli sforzi per dare conto di queste varianti all’interno dell’opera.
Per es. i lessicografi dialettali del Piemonte definiscono il dialetto preso in esame come genericamente piemontese senza arrivare alla precisione dimostrata nel tracciare confini linguistico-geografici da Francesco Cherubini con il Vocabolario milanese-italiano (1839), dal già citato Monti oppure da Antonio Tiraboschi con il Vocabolario dei dialetti bergamaschi antichi e moderni (1873). Ritornando però alla lessicografia piemontese, da un’analisi più attenta non è difficile capire che il dialetto piemontese altro non è che la lingua della corte e della città di Torino. L’identificazione con il torinese, basata per lo più su criteri qualitativi e su una concezione retorico-letteraria della lingua, è già presente nel vocabolario di Pipino e continua nelle opere successive. Alcuni redattori intuiscono la variazione diatopica, per es. Sant’Albino afferma che
in Piemonte non v’ha per così dire città o villaggio che non abbia un modo suo di parlare, che in qualche parte lo distingue dagli altri, e con minore o maggiore differenza si diparte da quello della capitale» (Gran dizionario piemontese-italiano, cit., p. 6).
Il corpus maggiore delle entrate, tuttavia, è costituito dal torinese e anzi anche l’inserimento di voci legate all’artigianato o all’agricoltura può essere visto come la risposta alle esigenze di un pubblico borghese colto che, per le sue attività, avrebbe potuto aver bisogno di un’adeguata competenza in materia.
Un’altra spia della concezione linguistica ottocentesca sono le fonti cui gli autori hanno attinto: per la parte dialettale si può ipotizzare la conoscenza personale supportata da operette letterarie in dialetto, mentre nel caso di ambiguità alcuni fanno cenno al consiglio di professori (probabilmente l’epiteto non è casuale) per scegliere la voce da lemmatizzare.
Dall’analisi della microstruttura (il profilo di ciascuna voce lessicografica, ovvero presenza di sottolemmi, ordine dei traducenti, distribuzione degli esempi) emerge un’omogeneità nella lemmatizzazione delle cosiddette parti variabili del discorso: sostantivi e aggettivi (al maschile singolare), verbi (all’infinito), pronomi personali e possessivi; in genere l’autore avverte di aver inserito parole esclusivamente dialettali e non quelle che per consonanza di suoni si avvicinano all’italiano. La polisemia per i nostri autori sembra un problema di facile soluzione: si accorgono della possibilità di più significati per lo stesso significante, ma che si tratti di accezioni o di reali polisemie, trattano tutto come singole entrate: alla voce dialettale corrisponde quasi sempre un solo significato italiano. Bisogna precisare, però, che non è raro trovare definizioni costituite da una serie di presunti sinonimi, come tentativo a scopo didattico di abbracciare tutta la sfera semantica cui la voce dialettale può riferirsi rispetto all’italiano.
Per quanto riguarda le note grammaticali e/o stilistiche, quel che emerge è la loro scarsità e ambiguità: le prime si limitano all’accento, a volte alla categoria grammaticale (non mancano esempi in cui al vocabolario è premessa una breve grammatica, come in M. Ponza, Vocabolario piemontese-italiano, 1877), le seconde non sono distribuite omogeneamente e non vengono chiarite nel loro valore.
La struttura più frequente della voce introduce come terzo elemento il traducente, la cui metalingua è senza dubbio modellata sul Vocabolario della Crusca nella sua quinta edizione (1811), che, nonostante un’apertura alle voci moderne, rimane ancorata a un italiano letterario, su modello fiorentino, suffragata dall’autorità degli scrittori del Trecento.
Il Vocabolario della Crusca, in modo esplicito o sottinteso, rappresenta, al di là delle diverse concezioni linguistiche, uno strumento valido e di facile consultazione per tradurre i termini dialettali e per rispondere all’esigenza di creare una lingua italiana comune, che avrebbe dovuto realizzare l’auspicata unificazione nazionale. La Crusca, però, non è l’unica fonte di cui si sono serviti i lessicografi ottocenteschi: sono riferimenti espliciti l’opera di F. Cherubini, Vocabolario milanese-italiano (1839), il lavoro di G. Carena, Prontuario di vocaboli (1846, 1853 e pubblicato postumo nel 1860) per la definizione di termini legati alle arti e ai mestieri. Là dove si cerca di definire scientificamente fitonimi e zoonimi è ipotizzabile il ricorso a opere più specifiche, di difficile individuazione; in realtà parlare di carattere scientifico dei definitori è un po’ azzardato, in quanto l’unico tentativo di scientificità è il nome latino e la classificazione in specie, famiglia e ordine, con scarsa sicurezza a causa della complessità delle corrispondenze tra tassonomia popolare e tassonomia scientifica. La difficile identificazione è aggravata dalla mancanza di immagini o disegni, particolarmente utili in caso di voci legate alla botanica, agli strumenti del mondo contadino e della casa, sicuramente più efficaci di definizioni quali «sorta di albero», «specie di erba» oppure «istrumento notissimo, comune a tutta la nostra provincia».
Le carenze scientifiche e tecniche dei vocabolari ottocenteschi risultano evidenti quando, agli inizi del 20° sec., nasce la geografia linguistica e prende piede un nuovo strumento di lavoro, l’atlante linguistico, che impone una revisione dei criteri alla base della redazione di un vocabolario dialettale (cfr. il paragrafo L’atlante linguistico). È indubbio che l’impulso dato dalla geografia linguistica agli studi sulla lingua si sia ripercosso anche sulla lessicografia dialettale che nel 20° sec. comincia a interessare anche specialisti e non solo appassionati cultori. Infatti, i primi ad accettare la lezione della rappresentazione cartografica sono stati i redattori del Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana (VDSI, diretto da F. Lurà presso il Centro di dialettologia ed etnografia di Bellinzona, pubblicato a fascicoli a partire dal 1958) introducendo carte linguistiche a rappresentazione di alcuni fenomeni fonetici e morfologici.
L’insegnamento della geografia linguistica influisce anche sui metodi di raccolta del dato: a fianco delle fonti scritte non è infrequente assistere a indagini sul territorio con un apposito questionario. Per es. l’integrazione tra fonti scritte e orali ha permesso a Gerhard Rohlfs di inserire nel suo Nuovo dizionario dialettale della Calabria (1977) ben 34 voci per il lemma ‘diavolo’ contro le 6 trovate dallo stesso Rohlfs, come raccoglitore dell’AIS (Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz, Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale, 8 voll., 1928-1940), nei 15 punti di inchiesta sul territorio calabro. Infine, l’influenza dell’orientamento di ricerca denominato Wörter und Sachen («parole e cose»), sviluppato all’inizio del 20° sec. da Hugo Schuchardt e Rudolf Meringer, che ha attratto l’attenzione dei linguisti sui rapporti tra il lessico e le cose, è stata determinante per rendere i vocabolari enciclopedie di cultura e non solo repertori linguistici. Ancora una volta è il VDSI che accoglie per primo questo insegnamento, ma anche alcune opere di appassionati presentano verso l’aspetto etnografico un’attenzione particolare: Giovanni Bernard in Lou saber. Dizionario enciclopedico dell’occitano di Blins (1996) inserisce una serie di voci enciclopediche (graficamente distinte dai lemmi) che spaziano dall’alpeggio alla lavorazione del pane, dal lutto alle danze, dall’imposta fondiaria ai santi, fornendo ampie informazioni etnografiche e folcloristiche, geografiche e storiche, onomastiche e toponomastiche, faunistiche e botaniche.
A questo proposito può essere utile citare il Lessico dialettale della Svizzera Italiana (LSI) pubblicato a Bellinzona nel 2004: è un lavoro che affianca il già citato VDSI per offrire un’opera completa ma contenutisticamente più essenziale. Senza entrare nei particolari del progetto, preme sottolineare che il Lessico offre una descrizione linguistica del lemma tralasciando proprio le informazioni etnografiche e folcloriche che, al contrario, costituiscono il corpo centrale delle voci del Vocabolario. È in corso di preparazione una versione informatica sia per garantire il progressivo aggiornamento dell’opera sia per permettere la creazione di glossari riferiti a singole varietà e indici italiano-dialetto.
Il vocabolario dialettale del Novecento continua dunque a essere un repertorio grazie al quale è possibile tradurre il dialetto in italiano, ma diventa anche uno strumento per accrescere la conoscenza della cultura locale di cui la lingua è veicolo.
Un’opera di questo genere si rivolge a un pubblico più vasto e meno omogeneo rispetto al passato, infatti, da un lato, possono usufruirne gli specialisti, non solo linguisti, dall’altro, i semplici appassionati, dialettofoni o meno, per approfondire la conoscenza della comunità nei suoi vari aspetti. Le necessità scientifiche e divulgative promuovono una maggiore attenzione alla struttura interna dell’articolo, i cui elementi però mantengono sostanzialmente l’ordine degli articoli ottocenteschi. Sono nuovamente i redattori del VDSI a essere pionieri nella ricerca della massima chiarezza del sistema di trascrizione, in modo che soddisfi tutte le esigenze.
Gli ultimi decenni sono stati caratterizzati da un’ampia fioritura di vocabolari, lessici, glossari, raccolte dedicate ad aree dialettali di singole località; raramente però queste opere riescono a essere esaustive. Un vocabolario, per essere completo, necessiterebbe del lavoro di un gruppo di specialisti, ma la difficoltà è ben dimostrata dalle opere che da anni sono in via di realizzazione.
Un esempio di quanto appena detto è il già citato Dizionario del dialetto di Montagne di Trento di Grassi, opera redatta in oltre diciassette anni di lavoro con la collaborazione di un gruppo di informatori che si è confrontato su ogni singola entrata del dizionario. Fra gli innumerevoli pregi del Dizionario, teniamo a segnalare due caratteristiche che faranno emergere altrettanti aspetti perlopiù trascurati dalla lessicografia dialettale. Il primo è senza dubbio la registrazione dell’italiano regionale, inteso come risultato del contatto tra due sistemi linguistici in cui nella lingua vengono trasferite testualità proprie del dialetto: èsar endré, nel significato di «essere indietro», ha il suo corrispondente in italiano nel significato di «essere duro di comprendonio». Il verbo però in dialetto si usa anche nelle accezioni di «non essere ancora al punto giusto (in genere di cottura di un cibo)» ed «essere scarso» (detto per es. del sale), significati che si ritrovano nell’italiano regionale. Il Dizionario mette in evidenza, oltre all’uso in dialetto, anche l’uso in italiano regionale attraverso la marca region.
La seconda peculiarità riguarda il trattamento dei verbi sintagmatici, cioè i verbi costruiti in combinazione con un avverbio, in prevalenza, di luogo (per un approfondimento, cfr. I verbi sintagmatici, 2008). Il Dizionario registra i verbi sintagmatici sotto due angolature diverse: sotto la testa verbale riportata a lemma e sotto il lemma dell’avverbio o della locuzione preposizionale che accompagna il verbo. In questo modo è possibile reperire e confrontare le condizioni e la frequenza in cui sia un verbo sia un avverbio o una locuzione preposizionale concorrono alla formazione di una unità sintagmatica.
Concludiamo questa parte dedicata ai vocabolari dialettali con un cenno obbligato alla rete, poiché dai primi anni Duemila si è assistito a un aumento considerevole dei materiali dialettali a disposizione in rete (per una riflessione sulle motivazioni di questa crescita e una disamina più approfondita si rimanda a Telmon 2013). Qui basti accennare che purtroppo i moltissimi vocabolari reperibili mostrano, salvo pochissime eccezioni – fra le quali citiamo M.G. Balzano, Dizionario dialettale di Gallicchio. Con traduzione, modi di dire e pronuncia esatta, 2009 –, una sciatteria nella trascrizione, una approssimativa localizzazione, una definizione parziale e spesso insufficiente del significato. Talvolta non è possibile neppure ricondurre un vocabolario a un autore. Tuttavia, sicuramente la crescita esponenziale dei materiali dialettali in rete è una conferma del rinnovato interesse per i dialetti e rappresenta la novità principale nel panorama dialettologico degli ultimi anni.
Con l’atlante linguistico, insieme prodotto e strumento fondamentale della geografia linguistica, veniamo ad affrontare l’altro versante della lessicologia dialettale. Qualora su una carta geografica indicassimo, per un numero selezionato di località, le denominazioni dialettali di un certo concetto, otterremmo una carta linguistica; questo ‘numero selezionato di località’ equivarrebbe alla rete d’inchiesta dell’atlante, a sua volta costituito da un insieme di carte linguistiche, generalmente organizzate in nuclei tematici (‘la famiglia’, ‘il corpo umano’ ecc.).
Quella degli atlanti linguistici è una storia relativamente recente, che ha inizio negli ultimi decenni del 19° secolo. La geografia linguistica si sviluppa infatti in reazione alla concezione ottocentesca del linguaggio come organismo a sé stante, avulso dall’azione del parlante e dal contesto socioculturale; la dimensione spaziale, che fino allora aveva funto da sfondo all’evoluzione del linguaggio, diventa il terreno privilegiato per osservare le modalità di attuazione dei fenomeni linguistici e l’influsso reciproco tra varietà dialettali.
Seguendo una tradizione ormai consolidata, gli atlanti linguistici verranno suddivisi in atlanti nazionali, atlanti regionali e subregionali e atlanti sovranazionali, trattati separatamente ognuno in un diverso paragrafo; un ultimo paragrafo sarà infine dedicato agli atlanti che, per ragioni diverse, non si è ritenuto opportuno collocare all’interno delle altre tre categorie.
Gli albori della geografia linguistica vengono a coincidere con la produzione di opere che hanno l’obiettivo di schizzare il profilo dialettale di un’intera nazione; per questo motivo, gli atlanti linguistici nazionali (o sovraregionali) sono anche detti atlanti linguistici di prima generazione.
Di là dai prodromi tardo-ottocenteschi (pensiamo allo Sprachatlas von Nord-und Mitteldeutschland, 1881, di Georg Wenker), è solo con la realizzazione dell’Atlas linguistique de la France (ALF) di Jules Gilliéron ed Edmond Edmont (9 voll., 1902-1910) che possiamo parlare di atlante linguistico in senso moderno; redatto sulla base di inchieste dialettali condotte dallo stesso Edmont (a differenza delle inchieste per corrispondenza che ancora caratterizzavano l’opera di Wenker), l’ALF presenta un questionario di oltre 1900 domande, somministrate, di norma, a un informatore per ciascuno dei 639 punti d’indagine.
Due sono i progetti atlantistici che hanno avuto per oggetto il territorio italiano: il già citato Sprach-und Sachatlas Italiens und der Südschweiz (Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale, AIS) e l’Atlante linguistico italiano, ALI (8 voll. già editi, 1995-).
Concepito e realizzato da Karl Jaberg e Jacob Jud, l’AIS presenta tre importanti novità rispetto all’ALF: 1) l’attenzione al dato etnografico, ascrivibile al già citato indirizzo Wörter und Sachen, e la conseguente elaborazione di carte etnolinguistiche (mentre le carte dell’ALF erano linguistiche stricto sensu); 2) l’inclusione, nella rete d’inchiesta, dei grandi centri urbani (quando l’ALF si era limitato a indagare i centri minori); 3) l’impiego di una pluralità di raccoglitori (di contro al raccoglitore unico dell’ALF). L’AIS rivela già, in nuce, una sensibilità particolare nei confronti della variazione diastratica, che porta Jaberg e Jud a prevedere, nelle aree urbane più complesse, interviste a più informatori di classe sociale diversa.
Da queste innovazioni non potrà evidentemente prescindere l’ALI, che, rispetto all’AIS, amplierà non di poco la rete dei punti (1065 località vs. le 405 località dell’AIS) e il questionario (circa 7000 voci, sommando Parte generale e Parte speciale, vs. le 4000 voci del questionario ‘massimo’ dell’AIS). Il ‘secolo breve’ ha accompagnato e scandito le complesse vicende dell’ALI, che sono esemplari delle difficoltà a cui opere di tali dimensioni possono andare incontro. Progettato negli anni Venti del Novecento e diretto inizialmente da Matteo Bartoli, l’ALI avvia la raccolta dei dati nel 1926, proseguendola fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale; i rilievi effettuati sono a quell’altezza temporale 727, tutti condotti da Ugo Pellis. L’ALI segue dunque inizialmente il principio del raccoglitore unico, per poi affidarsi, con la ripresa delle inchieste nel dopoguerra (1952), a un collegio di raccoglitori, comprendente, tra gli altri e in momenti diversi, Corrado Grassi, Giovanni Tropea e Temistocle Franceschi. I dati dell’ALI, la cui raccolta viene finalmente portata a termine nel 1964, cominceranno però a essere pubblicati soltanto trent’anni più tardi, nel 1995, grazie all’intervento dell’attuale direttore dell’opera, Lorenzo Massobrio. Un ruolo centrale è stato svolto, nella fase di edizione dei materiali, dall’Istituto poligrafico e zecca dello Stato, che si è assunto anche l’onere dell’ideazione di nuove procedure di archiviazione elettronica dei dati.
Atlanti regionali e subregionali Gli atlanti regionali e subregionali, o atlanti di seconda generazione, «si propongono di precisare e di scandagliare in profondità aspetti della storia linguistica e della cultura specifica di una regione o subregione indicati solo a grandi linee nelle opere di taglio nazionale» (Cugno, Massobrio 2010, p. 205); essi completano dunque il grande affresco fornito dagli atlanti di prima generazione, grazie a una rete di inchieste a maglie più strette e a questionari meglio tarati sulle singole realtà regionali o subregionali.
L’Italia si trova, rispetto alle altre nazioni della Romània, in una posizione in qualche misura anomala: se la nostra penisola, da un lato, ha prodotto il primo atlante regionale romanzo (ci riferiamo all’Atlante linguistico etnografico italiano della Corsica, 1933-1942, di Gino Bottiglioni), dall’altro lato, ancora non si è dotata di un coordinamento generale delle imprese atlantistiche regionali, a differenza di quanto è avvenuto in Francia con il Nouvel atlas linguistique de la France par régions o in Romania con il Noul atlas lingvistic român pe regiuni. Ciò ha condotto a una situazione di grande fluidità nella progettazione dei singoli atlanti, che ha finito per ostacolare, o quantomeno per complicare, il raffronto tra dati di diversa provenienza, ma ha anche, nello stesso tempo, aperto la via a sperimentazioni che altrimenti non avrebbero avuto occasione di manifestarsi o realizzarsi.
Prima di addentrarci nella presentazione di alcune opere ritenute significative del panorama geolinguistico italiano, può essere utile fornire una ricognizione a volo d’uccello sui progetti atlantistici regionali o subregionali già pubblicati, in corso di pubblicazione o solo in parte pubblicati (nome preceduto in elenco da asterisco [*]), ovvero in fase più o meno avanzata di lavorazione o di progettazione (nome preceduto in elenco da doppio asterisco [**]); la lista sarà articolata per regioni amministrative, da Nord a Sud, a partire dal Nord-Ovest d’Italia:
1) Valle d’Aosta: **Atlas des patois valdôtains (APV), diretto da S. Favre, G. Raimondi;
2) Piemonte: *Atlante linguistico ed etnografico del Piemonte occidentale (ALEPO), diretto da S. Canobbio, T. Telmon (volumi già pubblicati: I. Il mondo vegetale, 1. Alberi e arbusti, 2. Erbacee, 3. Funghi e Licheni, 2004-2007; III. Il mondo animale, 1. Fauna, 2. Caccia e pesca, 2013);
3) Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia: Atlante linguistico del ladino dolomitico e dei dialetti limitrofi, di H. Goebl et al.: Prima parte (ALD-1),7 voll., 1998 (3 CD-ROM, 1999; 1 DVD, 2002); Seconda parte (ALD-2), 7 voll., 2012;
4) Friuli Venezia Giulia: Atlante storico-linguistico-etnografico del Friuli (ASLEF) di G.B. Pellegrini, 6 voll., 1972-1986;
5) Toscana: Atlante lessicale toscano (ALT) di G. Giacomelli et al., 2000 (CD-ROM);
6) Campania: **Atlante linguistico campano (ALCam), diretto da E. Radtke;
7) Basilicata: *Atlante linguistico della Basilicata (ALBa), coordinato da P. Del Puente, E. Giordano (volumi già pubblicati: 1.1, Nomi di parentela, 1.2, Parti del corpo, 2008; 2.1, Numeri (carte 1-33); 2.2, Scansione del tempo, 2011);
8) Calabria: **Atlante linguistico etnografico della Calabria (ALECal) di J. Trumper, M. Maddalon (sono disponibili due CD-ROM, a nome di Trumper, L. Romito e Maddalon, contenenti le inchieste dei punti di Montalto Uffugo e Aiello Calabro e pubblicati rispettivamente nel 2003 e nel 2004);
9) Puglia: *Atlante linguistico etnografico della Daunia (ALED), di A.M. Melillo (nel 1979 è stato pubblicato il primo e unico volume, dedicato al Corpo umano); **Nuovo atlante dei dialetti e dell’italiano per regioni (NADIR) – Salento, ideato da A.A. Sobrero, M.T. Romanello, I. Tempesta;
10) Sicilia: **Atlante linguistico della Sicilia (ALS), diretto da G. Ruffino (sono stati pubblicati, a cominciare dal 1989, numerosi volumi di impianto teorico-metodologico e di presentazione dei dati, perlopiù confluiti nella collana Materiali e ricerche);
11) Sardegna: Saggio di un atlante linguistico della Sardegna in base ai rilievi di Ugo Pellis (ALSar) di B.A. Terracini e T. Franceschi (2 voll., 1964).
Le opere sopra elencate sono evidentemente accomunate dalla pertinenza geografica, che è sempre regionale o subregionale (ALEPO, ALED, NADIR-Salento), o nel contempo subregionale, interregionale e internazionale (l’ALD, i cui punti d’inchiesta interessano porzioni, più o meno vaste, di quattro regioni italiane, oltreché parte del Canton Grigioni, Svizzera), ma sono abbastanza diversificate quanto a metodi di indagine e obiettivi; la categoria stessa di ‘atlante di seconda generazione’ può del resto assumere due significati solo in parte sovrapponibili: uno di carattere storico, che allude alla collocazione temporale di questi lavori, posteriori rispetto agli atlanti linguistici nazionali; e uno di carattere storico e metodologico insieme, che alla considerazione di ordine temporale aggiunge una valutazione di impronta teorico-metodologica. In questa accezione storico-metodologica, gli atlanti di seconda generazione si qualificano non soltanto come più recenti rispetto agli atlanti linguistici nazionali, ma anche e soprattutto come opere che poggiano su un nuovo modo di condurre e articolare la ricerca geolinguistica, grazie al supporto sempre più consistente della tecnologia informatica, come vedremo più avanti.
Tra i progetti summenzionati, l’ALSar e l’ASLEF si pongono ancora nella scia degli atlanti linguistici nazionali, dai quali ereditano impostazione generale e tecnica di escussione dei dati; l’etichetta di ‘seconda generazione’ è dunque da intendersi, nel caso dei due atlanti regionali, in senso strettamente cronologico.
Il significato cronologico-metodologico di ‘seconda generazione’ emerge invece in opere di concezione recenziore, elaborate mettendo a frutto il dibattito sulla geografia linguistica sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni (cfr. in particolare Atlanti regionali, 1989, Atlanti linguistici, 1992). Affronteremo in tre sottoparagrafi separati gli aspetti che meglio sembrano caratterizzare gli atlanti di seconda generazione (nel senso cronologico-metodologico che abbiamo appena visto), vale a dire l’orientamento sociolinguistico, l’attenzione agli aspetti etnografici e il contributo delle scienze informatiche.
All’interno degli atlanti di seconda generazione, l’apporto della sociolinguistica è venuto delineandosi in modo vieppiù nitido (cfr. Grassi 1999), anche se occorrerà distinguere, fin da subito, gli atlanti che hanno programmaticamente scelto di adottare un’impostazione sociolinguistica dagli atlanti che, pur presentando materiali raccolti senza finalità sociolinguistiche, consentono una lettura dei dati (anche) in chiave sociolinguistica.
Un modello per la prima tipologia sono state senza dubbio alcune imprese geolinguistiche latinoamericane, come l’Atlas lingüístico de México (ALMe, 6 voll., 1990-2001) di Juan Miguel Lope Blanch et al. e l’Atlas lingüístico y diatópico del Uruguay (ADDU, 2 voll., 2000) di Harald Thun et al., le cui idee di fondo hanno incominciato a circolare, presso la comunità scientifica, negli anni Ottanta del 20° sec.; giova ricordare che, mentre l’ALMe ha indagato sistematicamente, accanto alla dimensione diatopica (in qualche modo connaturata alla geografia linguistica), la variazione diastratica (correlata alla stratificazione sociale, con particolare riguardo alle variabili ‘sesso’ ed ‘età’) e la variazione diafasica (in relazione al grado di formalità dei registri), l’ADDU ha aggiunto al già complesso programma di inchiesta dell’ALMe tre ulteriori parametri, denominati diatopico-cinetico (legato alle differenze di comportamento linguistico dei gruppi che sono sul territorio più stabili, topostatici, o più mobili, topodinamici), dialinguale (che considera le dinamiche di competizione tra le due lingue dei colonizzatori, lo spagnolo e il portoghese) e diareferenziale (che concerne la riflessione metalinguistica sulla lingua, desumibile dai commenti degli informatori). Sebbene alleggerito dai parametri di variazione specifici del milieu latinoamericano, un approccio multidimensionale consimile si ritrova negli atlanti italoromanzi cosiddetti di repertorio, che mirano cioè a ricostruire l’intera gamma di codici, e i rapporti tra essi instauratisi, all’interno di una certa area; sono atlanti di repertorio il NADIR-Salento e l’ALCam. Da questi ultimi si differenzia, per la complessità del progetto, l’ALS, che manifesta due linee di ricerca parallele, una linguistico-etnografica, l’altra sociovariazionale, distinte negli obiettivi e nella metodologia d’inchiesta. Un’importante novità della sezione sociovariazionale dell’ALS è costituita dal fatto di aver assunto, quale unità base del campionamento, la famiglia, «intesa come sequenza di più generazioni e quindi come catena di rapporti, ma anche come catena temporale», nella struttura nonno-genitore-figlio (D’Agostino, Ruffino 2005, p. 89); anche l’individuazione dei punti della rete di inchiesta obbedisce a principi estranei alla ricerca geolinguistica classica, che tengono conto dei «rapporti tra dinamiche linguistiche e dinamiche territoriali, caratterizzata da una nuova qualità della eterogeneità e dall’emergere di nuove omogeneità» (p. 126).
Quella degli atlanti di repertorio è una prospettiva che supera di slancio i confini della variazione spaziale (o diatopica), riformando e radicibus il concetto stesso di atlante. Non è un caso che Grassi (2003, p. 16) si chieda se i nuovi atlanti facciano ancora parte di diritto della geografia linguistica o «se non sarà piuttosto necessario distinguere la geografia linguistica intesa ancora una volta in senso tradizionale da una “sociolinguistica geografica”», ovvero una sociolinguistica che si colloca in una dimensione spaziale; e non è un caso che uno dei volumi in cui si espongono i fondamenti teorici e metodologici della sezione sociovariazionale dell’ALS, contenga nel titolo un riferimento alla «sociolinguistica spaziale» (cfr. M. D’Agostino, A. Pennisi, Per una sociolinguistica spaziale. Modelli e rappresentazioni della variabilità linguistica nelle esperienze dell’ALS, 1995). Nella stessa direzione sembra puntare Foresti, quando osserva che un’opera come il NADIR (l’unico degli atlanti di repertorio che avesse, più di vent’anni or sono, una fisionomia già abbastanza definita) «non è neppure più programmaticamente un atlante – sarebbe di terza generazione – ma una banca dati», che mira alla «documentazione geolinguistica di tutto il repertorio del contatto verticale tra italiano e dialetto» (1991, p. 70).
Il problema del rapporto fra atlanti di repertorio e geolinguistica tradizionale resta ovviamente aperto; Radtke e Thun (1996, p. 23) suggeriscono al riguardo una posizione di compromesso, per la quale, se è vero che la geolinguistica tende sempre più a orientarsi verso le scienze della variazione, ciò non comporta che ne vengano messe in discussione le radici empiriche. Va d’altronde posto in evidenza che, almeno dai primi anni Duemila, l’entusiasmo nei confronti della sociolinguistica spaziale, e degli atlanti linguistici di repertorio, pare essersi un po’ smorzato, anche in ragione del fatto che assai raramente i dati raccolti sono riusciti a trovare la via della cartografazione; e un’opera priva di carte linguistiche, per quanto interessanti e stimolanti possano essere i materiali in essa contenuti, non può evidentemente ambire alla qualifica di atlante. A tal proposito, è significativo che Goebl, nell’Introductio all’ALD-2, rivendichi che l’impresa da lui diretta «si inserisce completamente nella tradizione della geografia linguistica (ovvero géographie linguistique) quale veniva praticata da Jules Gilliéron (per l’ALF) nonché da Karl Jaberg e Jakob Jud (per l’AIS)» e non ha «niente a che fare con l’idea dell’atlante repertorio, proposta da molti geolinguisti negli ultimi decenni, ma da nessuna parte realizzata con successo» (pp. VIII-IX). La posizione di Goebl che, soltanto dieci anni fa, sarebbe suonata impopolare, inopportuna o semplicemente retrograda, fotografa oggi in modo preciso e inequivocabile la crisi degli atlanti di repertorio.
Ci sono poi atlanti di una seconda tipologia: quelli che, come dicevamo, senza avere ambizioni dichiaratamente sociovariazionali, consentono una lettura sociolinguistica a posteriori dei dati. Due casi significativi in tal senso sono l’ALT e l’ALEPO: sebbene né l’uno né l’altro siano stati concepiti come ‘atlanti sociolinguistici’, le versioni informatizzate di entrambi prevedono una serie di filtri volti a selezionare i materiali in base a parametri anche sociolinguistici, come età, sesso e grado di istruzione (cfr., per l’ALT, il già menzionato CD interattivo e il data base in rete; per l’ALEPO, il CD interattivo allegato al volume Atlante linguistico ed etnografico del Piemonte occidentale-ALEPO. I – Il mondo vegetale. Indice dei tipi lessicali e altre modalità di consultazione, 2008). Materiali, quindi, originariamente raccolti senza finalità sociolinguistiche possono essere letti e organizzati ex post mediante alcuni parametri di interesse sociolinguistico.
Nel tracciare un rapido profilo degli atlanti nazionali, abbiamo ricordato l’importanza dell’indirizzo ‘Parole e cose’, che ha condotto, nell’AIS e nell’ALI, alla redazione di carte etnolinguistiche. L’attenzione verso oggetti e attrezzi non si esaurisce tuttavia nell’elaborazione di una carta corredata di disegni e immagini; un importante addendum alla conoscenza dell’uso di oggetti e attrezzi, e più in generale a ciò che sappiamo dell’universo culturale del parlante, consiste nella raccolta dei cosiddetti etnotesti, ovvero
quei testi orali che rappresentano un’espressione autonoma della cultura di una comunità linguistica: testi liberi (ricordi autobiografici, storie di vita, testimonianze di usi e di tradizioni, descrizioni di oggetti e di tecniche ergologiche [...]); ma anche testi fissati dalla tradizione (proverbi, indovinelli, preghiere, ecc.), o testi solo parzialmente formalizzati (leggende, storie, ecc.) (Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, a cura di G.L. Beccaria, 2004, p. 306).
La nozione, proposta in Francia alla fine degli anni Settanta del 20° sec. (ethnotexte), ha conosciuto una pronta applicazione in Italia, in primis all’interno del cantiere dell’ALEPO; l’interesse per gli etnotesti è venuto a coincidere con un diverso modo di concepire i questionari e le tecniche di escussione dei dati: non più domande soltanto puntuali (per es. «Come chiamate la zangola?») e interviste direttive (basate su una semplice richiesta di traduzione), ma anche domande aperte (per es. «Come producete il burro?») e interviste semidirettive (o conversazioni guidate, volte appunto alla raccolta di testi più complessi e articolati). Si tratta di un cambiamento di prospettiva nella metodologia di indagine che, probabilmente, non avrebbe attecchito in modo così fruttuoso se non si fosse accompagnato all’impiego, ormai imprescindibile, delle registrazioni su nastro, disco o altro strumento per fissare i contenuti delle interviste.
Si dirà che il problema sollevato nel paragrafo precedente relativamente alla cartografazione dei dati degli atlanti di repertorio si riaffaccia ora per gli etnotesti, non potendo materiali di estensione spesso ragguardevole essere rappresentati sulla carta. Un modo di aggirare questa restrizione, che dipende dai limiti fisici del supporto ‘carta’, può consistere nel far convogliare etnotesti e informazioni di altro genere in un volume di complemento alle tavole; è stata questa, per es., la scelta operata dall’ALEPO, che prevede la pubblicazione di un libro di «materiali scelti» sul quale il lettore troverà, accanto agli aspetti già oggetto di cartografazione, una serie di dati complementari (etnotesti, commenti dell’intervistato, note redazionali ecc.) altrimenti inaccessibili; la presenza di tali dati è segnalata in carta da una simbologia di accompagnamento, a rimarcare lo stretto legame esistente tra i due oggetti (tavola e volume).
Intorno al trattamento degli etnotesti, e ai modi per consentirne una piena fruizione da parte dell’utente, si sono avanzate negli ultimi anni diverse ipotesi e proposte. Dall’ALS, per es., è venuto il tentativo di sfruttare la documentazione multimediale come riscontro visivo-esplicativo del dato etnotestuale, abbinandola all’opportunità di creare dei collegamenti tra etnotesto e materiale iconografico (fotografie, disegni ecc.).
La vera sfida si giocherà, a ogni modo, sulle tecniche di indicizzazione dei materiali contenuti nell’etnotesto, che, suggerisce Baratto, andrebbe considerato non «come mero resoconto etnografico» bensì «come un testo a tutti gli effetti, e l’insieme degli etnotesti raccolti nelle inchieste come un corpus testuale»; nella stessa sede, Baratto auspica che possa realizzarsi «un punto di incontro tra la geografia linguistica e gli strumenti (e i metodi) della linguistica dei corpora» (2011, p. 70). Si aprirebbero così orizzonti inediti per la geolinguistica, e la possibilità di collaborazioni mai sperimentate fino a oggi, al di fuori del perimetro della dialettologia e della lessicografia più tradizionali.
È chiaro che, per avventurarsi verso nuove mete, la geografia linguistica non può più prescindere dal contributo delle scienze informatiche, le quali già da tempo innervano il tessuto degli atlanti di seconda generazione, come ha lasciato emergere il riferimento, nei precedenti paragrafi, a banche dati e CD interattivi. Sarebbe buona norma, quando si parla del rapporto tra geolinguistica e informatica, distinguere tra due tipi di atlante: gli atlanti che, concepiti a partire dagli anni Settanta del secolo scorso e sviluppatisi nei decenni successivi, hanno conosciuto una fase di informatizzazione in itinere (è il caso, di nuovo, dell’ALT e dell’ALEPO); e gli atlanti che sono stati progettati, sin dall’inizio, come prodotti informatici (è il caso dell’ALD e dell’ALS).
Ma, anche qualora si praticasse questa distinzione di merito, non cambierebbe la domanda di fondo, valida per l’una e l’altra tipologia di atlante: qual è il ruolo svolto dall’informatica in ambito geolinguistico? Ovvero: l’informatica ha davvero rivoluzionato il modo di concepire la variazione diatopica oppure, più modestamente, ha soltanto migliorato la conservazione e la fruibilità dei dati? Benché spesso l’avanzamento della disciplina sia stato confuso con l’avanzamento tecnologico, è qui importante sottolineare che i principi della geolinguistica sono rimasti sostanzialmente i medesimi, dagli albori ai giorni nostri; la tecnologia ha tuttavia svolto, rispetto alla geolinguistica, una funzione ben più che ancillare, consentendo la progettazione di database estremamente complessi, interrogabili secondo modalità che, anche soltanto trent’anni or sono, sarebbero parse inimmaginabili.
Un esempio interessante in tal senso è rappresentato dall’ALD, che mette a disposizione del lettore alcuni strumenti informatici notevolissimi, come la Sound-Datenbank, una banca dati acustica che permette un accesso rapido all’archivio sonoro dell’atlante, o come l’Index retrieval system, un potente motore di ricerca e di indicizzazione che è in grado, da un lato, di operare ricerche a ‘pieno testo’ dei dati dialettali, dall’altro, di produrre gli indici alfabetici progressivo e inverso di tutti i materiali linguistici archiviati. È particolarmente significativo, a nostro avviso, che questi due strumenti siano accessibili a partire dai siti web dell’atlante; ciò che evidenzia come ormai la rete sia da considerarsi, in molti casi, come un prolungamento, per non dire un completamento, dell’opera a stampa. Il web costituisce anche la sede ideale per rendere disponibili alla comunità opere che prima potevano essere consultate soltanto in biblioteche settoriali; alludiamo, per es., al programma NavigAIS, realizzato da Graziano Tisato presso il CNR di Padova, che offre all’utente l’opportunità di accedere off-line a una versione digitalizzata delle carte dell’AIS, uno dei due atlanti nazionali italiani di cui abbiamo parlato. E sempre in rete è nato un altro progetto di respiro sovraregionale, il VIVALDI (VIVaio Acustico delle Lingue e dei Dialetti d’Italia), elaborato da Roland Bauer e Dieter Kattenbusch, che si propone come un atlante linguistico acustico d’Italia, a cui si è affiancato, nel 2011, il progetto PALMI (Panorama Acustico delle Minoranze Linguistiche in Italia).
Abbiamo appena sfiorato il tema dell’indicizzazione dei dati geolinguistici; indicizzazione che può portare a risultati molto diversi, a seconda del focus di interesse. Ci limiteremo qui a discutere due approcci che hanno attraversato la storia della geolinguistica romanza, e che ora stanno trovando applicazione nelle imprese atlantistiche regionali e subregionali: l’indicizzazione come normalizzazione e l’indicizzazione come tipizzazione lessicale. L’indice delle forme prodotto dall’Index retrieval system dell’ALD contiene già una sorta di normalizzazione dei dati dialettali, nel senso che essi vengono restituiti nella grafia cosiddetta ALD-light, semplificata rispetto a quella usata nelle carte, denominata ALD-standard. Più in generale, la normalizzazione intende, attraverso una semplificazione della notazione fonetica attuata su una serie di corrispondenze precedentemente stabilite, ridurre la numerosità delle forme dialettali. È un lavoro che si fonda sul confronto sincronico tra forme, ed è stato pienamente attuato, in Italia, dall’ALT, che impiega due gradi di trascrizione normalizzata (cfr. Cuccurullo Montemagni, Paoli et al. 2006): da un lato, la traslitterazione in grafia italiana dell’attestazione dialettale (per cui, alle forme dialettali [abeto] e [aβeθo] è associata la medesima trascrizione ortografica abéto), dall’altro, la normalizzazione di primo livello (per cui, alle forme dialettali già traslitterate stiacciàta, scacciàha, schiacciàda verrà fatta corrispondere una forma sovraordinata di tipo schiacciàta).
Quanto all’indicizzazione come tipizzazione lessicale, essa prevede un’operazione di reductio ad unum guidata da criteri etimologici; nella fattispecie, tutte le forme dialettali coetimologiche presenti nell’archivio di un atlante saranno raggruppate sotto il tetto di un unico tipo lessicale, espresso generalmente da una lingua di cultura, a sua volta coetimologico delle forme tipizzande. Un approccio siffatto è alla base dell’Index zum AIS (Jaberg, Jud 1960), i criteri di tipizzazione del quale sono stati ripresi, in anni recenti, dall’ALEPO (cfr. Cerruti, Regis 2008, pp. 22-49). Per es., nell’indice dei tipi lessicali dell’ALEPO, le voci dialettali piemontesi e galloromanze [ajgo], [akwa], [eva], ecc. risultano ricondotte al lemma acqua, che evidentemente non è l’etimo di [ajgo], [akwa], [eva] ecc., ma la forma italiana che con [ajgo], [akwa], [eva] ecc. condivide l’etimologia (lat. ĂQUA(M)). La scelta dell’Index, poi seguita dall’ALEPO, è stata quindi quella di porre a lemma non la base etimologica delle forme dialettali, ma una parola a esse coetimologica, da rintracciarsi in una lingua di cultura moderna; naturale che la precedenza sia stata accordata, per ragioni culturali e sociolinguistiche, all’italiano, e soltanto nel caso in cui in italiano non fosse disponibile una parola coetimologica si è guardato a un’altra lingua di cultura moderna (cfr. le forme galloromanze [maløʤu], [maləʑu], [məldo], ecc. «larice», ricondotte al francese mélèze «id.» ‹radice gallica mel- + suffisso -ix, sul modello del latino larix, salix). Si è fatto ricorso a un tipo dialettale quando l’etimologia di un gruppo di forme non fosse nota o un tipo coetimologico non risultasse disponibile in nessuna lingua di cultura moderna (cfr. le forme [droza], [droʑa], [drʊza], ecc. «ontano verde», riunite sotto il lemma dialettale droza ‹base preromana *drausa). Il già citato CD interattivo dell’ALEPO, che gravita attorno al concetto di tipo lessicale, consente di creare delle carte personalizzate, a partire da uno o più tipi lessicali selezionati, con la possibilità di assegnare colori diversi a tipi lessicali differenti. Tanto la normalizzazione quanto la tipizzazione portano a risultanze di interesse semasiologico, di contro all’impostazione prevalentemente onomasiologica che ancora caratterizza la geografia linguistica contemporanea.
L’uso massiccio della tecnologia informatica ha poi spianato la strada alla lettura dei dati geolinguistici secondo i precetti della dialettometria,
una disciplina di stampo induttivo che tramite la sintesi quantitativa dei dati di atlanti linguistici tradizionali cerca di studiare e individuare regolarità – anzi leggi – spaziali nascoste nella massa dei dati dei rispettivi atlanti linguistici (Goebl 2011, p. 72).
Pensiamo in modo particolare al software Visual dialectoMetry, sviluppato in seno alla Scuola dialettometrica di Salisburgo, il quale dal 1999 permette di effettuare quasi tutte le operazioni che questo approccio richiede: dall’immissione dei dati ai calcoli di similarità e distanza, dalla produzione di schemi dendrografici alla realizzazione istantanea di tutte le visualizzazioni desiderate.
Sul côté delle migliorie di superficie ascrivibili all’informatica, occorrerà senz’altro menzionare l’accresciuta qualità cartografica, dovuta, in anni recenti, all’uso della tecnologia GIS (Geographic Information System; cfr. Lameli 2010, p. 587).
Agli atlanti sovranazionali, imprese assai rare nel panorama geolinguistico mondiale, non si applicano tendenzialmente etichette relative alla generazione di appartenenza, come invece d’abitudine avviene per gli atlanti nazionali e gli atlanti regionali/subregionali. La proposta di Mario Alinei di denominare «atlanti di terza generazione» gli atlanti dedicati a gruppi linguistici e «atlanti di quarta generazione» gli atlanti continentali (L’Atlas linguarum Europae: risultati, struttura, storia, prospettive, in Geolingüística. Trabajos europeos, ed. P. García Mouton, 1994, p. 21) ha avuto scarso seguito, perché confliggente con altri usi che si erano nel frattempo affermati, come l’impiego di «terza generazione» per indicare gli atlanti linguistici progettati, ab origine, come banche dati. Offriremo qui una succinta presentazione dei due atlanti sovranazionali che abbracciano, nella loro rete d’inchiesta, il territorio italiano.
Il primo è l’Atlas linguarum Europae (ALE), progettato alla fine degli anni Sessanta da A.A. Weijnen e Alinei, di cui sono stati pubblicati dal 1975 a oggi sette fascicoli, l’ultimo nel 2007; le carte di accompagnamento riguardano vari argomenti, dalla botanica alla fauna, dal corpo umano alla famiglia ecc. e sono di tipo sia geolessicale sia motivazionale. La griglia dell’atlante è costituita da 2631 località (densità massima: un punto d’inchiesta ogni 2000 km2) e si estende sull’intero continente europeo, dall’Atlantico agli Urali; 787 punti sono relativi al gruppo romanzo, di cui 77 in Italia.
Nato per gemmazione dall’ALE, su iniziativa di Gaston Tuaillon e Michel Contini, l’Atlas linguistique roman (ALiR) è un atlante di gruppo, concernente le lingue romanze, che poggia su una rete d’inchiesta che copre 1037 località; di queste, 170 sono situate in territorio italiano. Il piano dell’opera prevede la pubblicazione di 11 volumi; al 2014, ne sono stati editi 2 (1996-2009, in due tomi ciascuno), il primo di presentazione, il secondo dedicato alla piccola fauna selvatica.
Nella categoria, estremamente lasca, di ‘altri atlanti’ includiamo quei progetti che (a) si focalizzano su livelli specifici dell’analisi linguistica o (b) sono dedicati a settori peculiari del lessico. È infatti importante puntualizzare che gli atlanti citati nelle precedenti sezioni manifestano l’obiettivo comune di indagare i livelli dell’analisi linguistica nel loro insieme – anche se, va detto, con un penchant per il lessico e una certa riluttanza verso la sintassi – e tutti adottano un questionario di tipo enciclopedico (allo scopo di indagare ogni aspetto della vita di una comunità).
A puro titolo esemplificativo, inseriremo nel gruppo (a) l’Atlante fonetico pugliese e l’Atlante fonetico lucano di Michele Melillo, pubblicati entrambi nel 1955; l’Atlante sintattico dell’Italia (ASIt), diretto da Paola Benincà, in fase di elaborazione presso il Centro di dialettologia del CNR di Padova e in parte già consultabile in rete; l’Atlante sintattico della Calabria (ASiCa), progetto pluridimensionale ideato da Thomas Krefeld e Stephan Lüdke, i cui risultati sono accessibili sul web.
Tra gli atlanti del secondo gruppo nomineremo soltanto un’opera sovranazionale e un’opera nazionale, entrambe arenatesi ormai da molti anni; ci riferiamo all’Atlante linguistico del Mediterraneo (ALM) e all’Atlante linguistico dei laghi italiani (ALLI). L’idea di un ALM nasce addirittura nel 1937, su proposta di Mirko Deanović, ma l’impresa si sarebbe avviata soltanto alcuni decenni più tardi. Il questionario contiene 845 stimoli relativi alla terminologia tecnica marinara e all’ittionimia ed è stato somministrato in 165 località (di cui 42 in Italia); la documentazione raccolta è conservata a Venezia presso la Fondazione Cini. Al di là del Saggio dell’atlante linguistico mediterraneo (1971), contenente 25 carte, la pubblicazione dell’opera non è mai stata avviata.
Parimenti legato a un settore specifico del lessico e alla natura geografica e culturale dei luoghi indagati è l’ALLI, diretto da Giovanni Moretti e risalente ai primi anni Ottanta. Edite alcune prove di cartografazione (G. Moretti, Carte di prova dell’ALLI, 1992), le vicende l’ALLI non hanno conosciuto nuovi sviluppi, se si eccettuano alcuni contributi sparsi dei suoi collaboratori.
Mentre la vocabolaristica dialettale, negli ultimi decenni, ha spesso assunto un orientamento amatoriale (cfr. Telmon in Lessicografia dialettale, 2006, p. 26), ponendosi così all’attenzione di un pubblico sempre più vasto, l’atlante è rimasto un oggetto concepito da specialisti e destinato a una fruizione eminentemente settoriale. Ci sono senza dubbio, all’origine del carattere ancora elitario dell’atlante, ragioni di ordine economico e organizzativo: un progetto di atlante si protrae, in genere, per alcuni decenni e richiede l’impiego di ingenti risorse finanziarie e di una notevole forza lavoro, nella fase sia della ricerca di campo sia del trattamento redazionale dei dati. Difficilmente un’impresa di questo tipo può essere intrapresa da un singolo individuo, come invece di solito avviene nel caso dei vocabolari dialettali.
Quanto alla fruizione da parte soltanto di una cerchia ristretta di addetti ai lavori, l’atlante sconta un problema che affligge non di rado la ricerca umanistica, ovvero quello della mancata restituzione del prodotto della ricerca alla comunità, la quale è evidentemente protagonista, attrice di primo piano, tanto nel vocabolario quanto nell’atlante; ed è d’altronde più probabile che il vocabolario dialettale compilato da un lessicografo dilettante, del tutto digiuno dei fondamenti teorici della disciplina, abbia maggiore risonanza e diffusione locale rispetto a un vocabolario che, relativo alla stessa area, sia stato elaborato in ossequio ai principi della più rigorosa scientificità. Nei primi anni Duemila, a ogni modo, si è tentato di pubblicizzare, se non l’oggetto ‘atlante’, almeno i risultati della ricerca geolinguistica; ne dà testimonianza la meritoria collana, inaugurata nel 2010, L’ALS per la scuola e il territorio, «dichiaratamente rivolta al territorio, cioè alle comunità che variamente lo vivono, dentro alle quali la Scuola svolge (o dovrebbe svolgere) un ruolo essenziale» (Premessa a R. Sottile, M. Genchi, Lessico della cultura dialettale delle Madonie, 1° vol., L’alimentazione, 2010, p. 13).
Appare del resto chiaro che l’atlante potrebbe trasformarsi in uno strumento educativo importante, volto a introdurre gli studenti alla variazione linguistica, argomento spesso ancora negletto nei programmi scolastici (pur essendo previsto, sin dal 1979, nei programmi ministeriali). Anche i recenti sforzi di fornire l’accesso gratuito via web a molti contenuti geolinguistici (abbiamo menzionato gli strumenti di consultazione on-line dell’ALD, il programma NavigAIS, i progetti VIVALDI e PALMI, gli atlanti ASIS e ASiCa) puntano a far uscire gli atlanti dalle biblioteche e, in qualche modo, a diffonderne e a democratizzarne l’uso.
C’è stata, per lungo tempo, una tensione agonistica tra vocabolari dialettali e atlanti linguistici, e un’annosa querelle si è sviluppata intorno alle carenze e ai pregi degli uni e degli altri. Benché attribuisca agli atlanti una immagine macroscopica della realtà dialettale, di contro all’immagine microscopica offerta dai vocabolari, Rohlfs (1969, p. 28) spezza una lancia a favore della complementarietà dei due strumenti, della loro integrazione reciproca. Come ha osservato Ruffino (2009, pp. 477-79), una serie di fattori ha oggi contribuito ad avvicinare atlanti e vocabolari, più di quanto non fosse stato possibile in passato; tra i fattori citati da Ruffino a noi sembrano particolarmente importanti, sul versante atlantistico, la regionalità e l’informatica, sul versante lessicografico, la dimensione diatopica e la molteplicità di prospettive. Da un lato, il carattere regionale o subregionale degli atlanti di seconda generazione si è tradotto in una maggiore densità della rete d’inchiesta e in un ampliamento dei questionari; le nuove tecnologie hanno inoltre agevolato la produzione, a partire dagli archivi geolinguistici, di lessici per località o per argomento (settoriali, dunque). Dall’altro lato, i vocabolari sono andati soggetti a una «crescita indiscutibile della caratterizzazione diatopica» (p. 476), unita a un’attenzione prima sconosciuta verso altre dimensioni (diafasica, diastratica, etnografica), che nel frattempo erano già state lambite da alcuni degli atlanti di seconda generazione. L’insieme di queste valutazioni porta Ruffino «a teorizzare uno strumento costruito sulla base di archivi interrelati, uno strumento-atlante come archivio multifunzionale, in definitiva un vocabolario-atlante» (p. 479).
Ora, se è nuova l’idea di ricorrere ad archivi interrelati, appositamente concepiti per la creazione di uno strumento di ricerca a sé stante, la felice designazione di «vocabolario-atlante» non può certo essere considerata un dono del terzo millennio (è stato probabilmente C. Grassi, negli anni Settanta del 20° sec., a introdurre la formula «dizionario-atlante» in riferimento, appunto, al Dizionario-atlante delle parlate biellesi, poi rimasto inedito). Né mancano al vocabolario-atlante illustri antenati, che andranno rintracciati in quelli che, un tempo, erano noti come ‘vocabolari di area», ovvero ‘vocabolari di impianto geolinguistico’; abbiamo già ricordato il VDSI e il VS, e ci piace qui aggiungere, tra gli altri, il Vocabolario delle parlate liguri (4 voll., 1985-1992), a cura di G. Petracco et al., e il Dizionario del dialetto occitano della Val Germanasca (1997), a cura di T. Pons e A. Genre: vocabolari, insomma, che hanno coltivato o coltivano, in modo sistematico, la variazione diatopica all’interno dei loro lemmi, indicando con precisione in quale località un certo dato è stato raccolto, come se fossero degli atlanti linguistici.
Ma, di là dall’evidente e innegabile avvicinamento tra atlanti e dizionari, quale facies potrà assumere il vocabolario-atlante? Il rischio è, a nostro parere, che l’etichetta ‘vocabolario-atlante’ venga interpretata non come un composto di coordinazione (‘sia vocabolario sia atlante’) ma come un composto di subordinazione (‘un vocabolario che è anche atlante’), e che l’oggetto ‘vocabolario-atlante’ si concretizzi in un vocabolario ‘costruito’ sulla rete dei punti di un atlante. Se così fosse, assisteremmo a uno slittamento dalla prospettiva onomasiologica tipica degli atlanti linguistici, grazie alla quale vediamo rappresentati sulla carta tutti i significanti corrispondenti a un certo significato, alla prospettiva semasiologica caratteristica dei vocabolari, che ci dà la possibilità di sapere quali siano i significati associati a un certo significante; è addirittura scontato sottolineare che, invece, un vocabolario e atlante dovrebbe contemperare le due dimensioni, unendo onomasiologia e semasiologia.
Due possono essere le vie per evitare che le istanze della lessicografia vengano coltivate a detrimento delle esigenze della geolinguistica. Una via è quella indicata e praticata dall’équipe dell’ALS (cfr. Ruffino et al. 2009), che vuole il vocabolario-atlante organizzato in un lessico e in una o più carte di sintesi. Per quanto riguarda il lessico, ogni articolo, dopo la variante promossa a esponente, riporta le altre varianti in ordine alfabetico, con l’elenco dei punti nei quali ogni variante è stata raccolta, e le accezioni riscontrate; seguono dapprima la sezione dedicata ad alterati, derivati e polirematiche, poi la parte riservata agli etnotesti. Il lato geolinguistico, in chiave onomasiologica, viene recuperato mediante l’elaborazione di carte, che, nella forma a nostro avviso più riuscita, sono nel contempo lessicali ed etnografiche (di tipo simbolico). L’accento è posto sul vocabolario, ma l’anima atlantistica risulta salvaguardata.
La seconda via è quella intrapresa dall’ALEPO, anche se occorre da subito precisare che il prodotto finale non sarà un vocabolario-atlante, ma, piuttosto, un atlante tradizionale affiancato, sul versante lessicografico, da una serie di indici/repertori. Contestualmente all’uscita di ogni nuovo modulo, l’ALEPO propone su supporto elettronico (CD-ROM) la totalità delle carte e dei materiali appartenenti al modulo (mentre solo una selezione di carte e materiali è destinata alla stampa, rispettivamente, su tavole e volume), l’indice delle forme, l’indice dei tipi lessicali e il repertorio delle risposte per punto di inchiesta; è bene evidenziare che indici e repertori sono incrementabili, e comprendono non soltanto i dati relativi al modulo specifico ma anche quelli dei moduli precedenti. Più in dettaglio, l’indice delle forme propone l’insieme delle forme dialettali, mono- e poli-rematiche, contenute in archivio, nell’ordine alfabetico previsto dall’International phonetic association; per ogni forma a esponente si segnala il codice del punto d’inchiesta in cui essa è attestata, il codice della domanda che ha generato la risposta, il contesto in cui la forma compare. L’indice dei tipi lessicali, dal canto suo, riporta in ordine alfabetico i tipi lessicali individuati a partire dalle forme contenute in archivio. Sotto il lemma, rappresentato dal tipo lessicale, si forniscono le forme dialettali collegate, con l’esplicitazione della voce in cui esse occorrono; i «composti» (da intendersi sia come composti in senso stretto sia come polirematiche) sono elencati in un riquadro a parte, in coda all’articolo, anche in questo caso con l’indicazione delle forme collegate e delle voci in cui esse sono attestate. Da ultimo, il repertorio delle risposte per punto d’inchiesta comprende tutti i contenuti linguistici (risposte puntuali ed etnotesti) presenti in archivio, organizzati per località e, all’interno di ogni località, ordinati in base al numero di codice della domanda (dal più basso al più alto).
Risulta evidente che, se l’indice delle forme e l’indice dei tipi lessicali garantiscono una prospettiva onomasiologica sull’universo dei dati dialettali (in chiave formale nel primo caso, in chiave etimologica nel secondo), il repertorio delle risposte per punto d’inchiesta offre tanti repertori lessicali quante sono le 42 località di inchiesta dell’atlante, e può costituire il punto di partenza per l’elaborazione di un vocabolario dialettale.
Crediamo, in conclusione, che il vocabolario-atlante e l’atlante con indici/repertori siano lì a indicare che i tempi sono ormai maturi per una conciliazione, via informatica, fra metodi e obiettivi della lessicografia e della geografia linguistica: solo così, del resto, una lessicologia dialettale a tutto tondo potrà dirsi finalmente praticata.
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