La guerra in Grecia
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il testo fondante della cultura greca, l’Iliade, si occupa di guerra. I Greci, in effetti, combattono molto, per mare, per terra, tra di loro, contro i barbari; se non amano la guerra, la considerano come il cattivo tempo: non piace a nessuno, ma nessuno pensa di liberarsene. Anche perché la guerra è parte di un mondo violento, precario, in cui spesso è la legge del più forte a prevalere. Non senza fantasia, sul modo di combattere degli opliti, i fanti armati pesantemente della tradizione greca, è stato costruito un modello di guerra leale, aperta, “onesta”, che nel mondo occidentale è stata via via contrapposta ai nemici di turno, che combattevano e combattono con altri mezzi.
I Greci ritengono la guerra una componente inevitabile della vita e il terreno migliore per misurare le virtù del cittadino; la praticano in continuazione e una parte importante della loro autostima è incentrata sulla convinzione di essere i migliori guerrieri tra i popoli conosciuti, in grado di sconfiggere i barbari da cui sono contornati.
Le radici di tali convinzioni sono in Omero e nei combattimenti sotto le mura di Troia dell’Iliade, base imprescindibile del percorso formativo di ogni greco; non dobbiamo poi dimenticare, agli inizi dell’epoca classica, le guerre persiane, formidabile strumento di rafforzamento della sicurezza in se stessi. Ma se per noi è ovvio avvicinare gli Spartani alla pratica bellica, rendersi conto di come l’Atene periclea sia stata una delle comunità più guerrafondaie della storia umana, dedita quasi ogni anno a sostenere – e provocare – guerre in ogni angolo del Mediterraneo, imponendo il suo dominio con un cinismo condiviso da ogni settore della cittadinanza, contrasta l’idea che i Greci stessi hanno saputo trasmettere. Gli Ateniesi non si sono limitati a vincere a Maratona (490 a.C.), altra tappa del percorso obbligato dell’immaginario occidentale, per poi dedicarsi a diffondere le arti e la cultura nel mondo: si può ritrovare un senso di continuità e una prospettiva unificante fra le conquiste della loro cultura e le conquiste militari.
Uno dei segreti del rapporto dei Greci e, in particolare, degli Ateniesi, che ci illudiamo di conoscere meglio, con la guerra è che quest’ultima non interrompe, di solito, il normale andamento della vita quotidiana di gran parte della popolazione; è quindi possibile, per esempio, andare a teatro e divertirsi mentre si è in guerra. Ciò non rende meno orribili tanti eventi bellici, ma certo rende la guerra in sé meno terrificante.
“Non solo tra gli uomini, come è ben noto, ma, per quanto se ne sa, anche tra gli dèi, un necessario e naturale impulso spinge a dominare su colui che puoi sopraffare. Questa legge non l’abbiamo stabilita noi, né siamo stati noi i primi a valercene: l’abbiamo ricevuta che già c’era e a nostra volta la consegneremo a chi verrà dopo, e avrà valore eterno”.
Terribili quanto celebri queste parole che Tucidide (V 105) attribuisce agli ambasciatori ateniesi che cercano inutilmente di convincere gli abitanti di Melo alla resa, nel 416 a.C. Non sosterremo che la legge di natura che vi viene esplicitata sia sempre stata riconosciuta come tale, e non abbia subito contestazioni, ma certo evoca comportamenti comuni, non solo in guerra, ma nella stessa vita quotidiana: può sembrare una notazione banale, ma è pur vero che una società che ammette come naturale e non soggetto a discussione che migliaia e migliaia di persone vivano accanto ai liberi in condizione di schiavitù, è comunque una società predisposta alla violenza e alla sopraffazione.
Si potrebbe andare oltre, ricordando come la violenza sia spesso un mezzo per imporre la propria volontà o, nel migliore dei casi, per far valere i propri diritti, in comunità statali che non detengono il monopolio dei mezzi di coercizione (sono cioè prive di un esercito fisso e di forze di polizia deputate a mantenere l’ordine) e che quindi non sono in grado, come si suol dire, di imporre la legge.
Il quadro complessivo, insomma, è tale che, a livello internazionale, la guerra non può essere sentita, nel mondo greco, come estranea al comune modo di pensare, stante anche un’incidenza tutto sommato modesta dei fattori, in primo luogo la diplomazia, che soprattutto a partire dall’età moderna si frappongono tra la minaccia della guerra e lo scoppio di quest’ultima.
Il soldato greco per eccellenza dell’epoca arcaica e classica è l’oplita: un fante dotato di un ingente armamento difensivo (elmo, corazza, scudo, schinieri e altri accessori), e di più modeste armi offensive, consistenti di solito in una lancia di circa due metri di lunghezza e in una corta spada. Nulla di tutto questo è veramente nuovo, se non forse lo scudo, il must tecnologico della panoplia: di legno, ma a volte con rinforzi in bronzo, circolare (diametro di circa 90 cm), convesso, è dotato al suo interno di una fascia e di una maniglia che consentono una presa sicura con il braccio e la mano sinistra.
L’idea, non priva di qualche fondamento, che un tale soldato mostri la sua potenza solo in formazione serrata, – un singolo oplita, in effetti, appare molto statico e vulnerabile – ha fatto sì che i moderni abbiano immaginato l’oplita esclusivamente all’interno di una falange coesa, costituita da uomini armati tutti in modo più o meno identico, in cui lo spazio tra i soldati è ridotto al minimo, in modo che con il proprio scudo l’oplita possa proteggere, almeno in parte, anche il compagno alla sua sinistra.
In realtà, quella che abbiamo sommariamente descritto è un’astrazione: forse solo l’esercito spartano può avvicinarsi a un simile modello, grazie ai pazienti allenamenti, e, soprattutto, alle armi fornite dallo stato, che, come le tuniche rosse, a rigor di logica garantiscono una certa omogeneità. Nelle altre poleis ognuno va alla guerra come può: i più ricchi, almeno in età arcaica, giungono a cavallo per poi scendere e combattere a piedi; sono loro, ovviamente, a potersi permettere panoplie complete, magari di splendida fattura, mentre molti tra i loro concittadini non dispongono di gran parte dell’armatura: in particolare, intuiamo dalla documentazione archeologica che un numero relativamente basso di combattenti indossa la pesante corazza. Senza contare che far agire di concerto migliaia di uomini richiede un adeguato addestramento, nonché una gerarchia militare ben oliata: tutti requisiti che gli eserciti greci, composti da dilettanti privi di allenamenti specifici, dalla disciplina precaria, non posseggono.
Ma se un esercito oplitico deve essere lontano da quanto ci immaginiamo, ancor più distante dal modello teorico è la sua dimensione sociale e politica. Gli armati alla buona, con pietre, giavellotti o fionde (psiloi dicevano i Greci) non sono esclusi dai combattimenti, e spesso, anzi, lottano insieme agli opliti, in un insieme caotico e flessibile. Tutto ciò avviene perché nessuno ha l’autorità – né l’interesse – di tracciare una rigida linea tra chi è oplita (vale a dire chi ha il surplus economico che gli permetta di procurarsi un’armatura completa) e chi invece non lo è.
Se il concetto di oplita è caro ai teorici antichi come Aristotele, il suo inveramento nella società della polis è assai meno puntuale e visibile; il punto debole della costruzione teorica è che un concetto così importante dal punto di vista ideologico, alla cui base vi è l’ideale del giusto mezzo fra i troppo ricchi e la plebaglia priva di ogni mezzo, ha come fondamento una distinzione economica alla fin fine assai labile: chiunque, o quasi, può in qualche modo procurarsi qualcosa di simile ad una armatura, mentre ogni precisa distinzione economica basata sul censo è sostanzialmente al di fuori delle possibilità organizzative di gran parte delle poleis.
Eppure, come ben sappiamo, le ideologie sono spesso assai potenti. L’oplita, identificato sostanzialmente nel proprietario terriero né ricco né povero, incarnazione di valori sani quali libertà, indipendenza, lealtà, onestà, ha attraversato i secoli, assumendo le caratteristiche dell’uomo occidentale (o, meglio, nordamericano), disposto a tutto pur di difendere la sua proprietà privata e la sua libertà. E, come per magia, dagli assolati campi della Grecia alla seconda guerra mondiale, ai deserti dell’Iraq, è sempre un dispiegarsi della western way of war, un modo di combattere leale, privo di sotterfugi, che si oppone a chi combatte servendosi dell’inganno, di stratagemmi, della guerriglia e, oggi, dei subdoli mezzi del terrorismo.
La western way of war è un’ideologia. Il fatto che sia singolarmente priva di agganci con la realtà non toglie che rappresenti un acuto tentativo di collegare con un filo – visibile solo a costo di enormi semplificazioni – le esperienze storiche più diverse, accomunate sotto il generico e per certi versi misterioso aggettivo “occidentale”.
Sulla base della loro esperienza, i Greci distinguono tre tipi di guerra, in una classificazione semplice, basata sul nemico che si deve affrontare.
In primo luogo, la guerra può svolgersi all’interno della comunità della polis: è la stasis (noi la chiameremmo guerra civile), sentita come la più distruttiva e terribile fra tutte. Tucidide (III 82-83) ci ha lasciato una incisiva descrizione dei cambiamenti che essa induce nel comportamento delle persone, riferendola a quanto si è verificato a Corcira nei primi anni della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.): “E molte calamità dolorose afflissero le città a causa delle guerre civili, cose che avvengono e avverranno sempre finché la natura degli uomini sarà la stessa […]. E (nel corso delle guerre civili) gli uomini cambiarono il significato abituale delle parole: l’audacia irragionevole fu ritenuta coraggio pieno di fedeltà verso i compagni politici, l’esitazione prudente divenne viltà, la moderazione il manto che copriva la codardia, mentre l’ardore folle fu aggiunto alle caratteristiche virili […]. A causa delle staseis si affermò nel mondo greco ogni forma di perversità: la semplicità, che consiste soprattutto nella nobiltà d’animo, fu derisa fino a sparire, mentre lo schierarsi gli uni contro gli altri con animo diffidente prevalse di gran lunga [...]. Quelli che erano di ingegno mediocre per lo più avevano la meglio: per paura delle proprie deficienze e dell’intelligenza degli avversari, temendo di essere vinti nei dibattiti e di esporsi per primi a un attacco, passavano audacemente all’azione [...]”.
Esperienza devastante, ma certo non innaturale, vista la costanza con la quale si presenta nella storia greca, la stasis (paragonata dal grande Jacob Burckhardt alle guerre di religione moderne, poiché è la politica la vera religione dei Greci) dimostra la labilità del concetto di patriottismo presso i Greci: fedeltà è spesso, se non sempre, fedeltà alla propria fazione, e non a un concetto più vasto, ed astratto, di patria. La guerra “normale” è invece quella tra comunità greche, la seconda di questa breve classificazione. Nell’età arcaica i conflitti nascono per dispute di confine, o per l’accesso a una sorgente; nel corso del tempo si fanno più complessi, fino alla “guerra mondiale” dei Greci che è la guerra del Peloponneso. I Greci non hanno mai ambìto a sentirsi nazione e il panellenismo, a lungo, non è stato un’ideologia forte. Anche le due imprese in cui la grecità si è unita contro un nemico straniero non sono servite a mutare la situazione: la guerra archetipica, quella di Troia, è infatti, nella narrazione omerica, un conflitto sorprendente, nel quale le divisioni all’interno dello schieramento greco sono messe in evidenza molto più dell’alterità del nemico, che in effetti così “altro” non è: i Troiani sono infatti visti come contigui ai Greci, con i quali condividono usi e costumi, nonché il modo di fare la guerra, sostanzialmente identico. Anche le guerre persiane che inaugurano l’età classica non contribuiscono, se non in parte, a sviluppare il sentimento di un’unità greca: non foss’altro perché le comunità che fanno parte della lega ellenica sono una minoranza, e molte di più sono quelle che preferiscono collaborare con gli invasori o che si tengono prudentemente in disparte.
Terzo tipo di guerra: quella contro i barbari. È nel corso del IV secolo a.C., sicuramente anche per la stanchezza che 70 anni ininterrotti (431-362 a.C.) di guerra tra Greci ha ingenerato, che cresce e si diffonde, attraverso pensatori come Isocrate (grande opinion-maker, difficile dire quanto realmente influente, peraltro), l’idea che i Greci debbano abbandonare le lotte tra di loro, per unire le forze nella lotta contro i barbari, identificati ormai da tempo con i Persiani. Come è ben noto, sarà in qualche misura Alessandro a realizzare questo programma (che non comporta certo nessuna apertura a un qualsivoglia pacifismo, ma solo, per così dire, un diverso obiettivo che i conflitti, ritenuti evidentemente inevitabili, si devono prefigurare), dopo che altri candidati all’impresa hanno fallito.
A questa tripartizione elementare – guerra interna, guerra tra Greci, guerra contro il barbaro – è sottesa una verità molto semplice: la guerra ha tanto meno bisogno di giustificazioni, quanto più è diretta contro comunità lontane, geograficamente e culturalmente, nei confronti delle quali è possibile esercitare il diritto di conquista senza particolari dilemmi etici.
Una maledizione grava sugli studi di polemologia greca: i momenti più spettacolari, più decisivi, quelli su cui si accentra l’attenzione di tutti, tanto da far conoscere anche ai più distratti studenti il nome di Maratona o di Cheronea, sono anche i momenti in un certo senso meno conosciuti. Stiamo, ovviamente, parlando delle battaglie campali che decidevano spesso delle guerre, i momenti terribili che ciascun combattente avrebbe ricordato tutta la vita, se avesse avuto la fortuna di sopravvivere.
È in effetti estremamente difficile capire come si svolga una battaglia. Di resoconti da parte di testimoni ne restano pochissimi (la prima descrizione degna di questo nome è del 418 a.C. per i secoli precedenti non esiste nulla di simile) e del resto, come Fabrizio Del Dongo nella Chartreuse ci insegna, rievocando la sua esperienza a Waterloo, non è detto che i protagonisti stessi, i combattenti, riescano a capire qualcosa di quello che sta succedendo. Le fonti antiche sono in effetti assai avare di notizie; non restano che le supposizioni degli studiosi moderni, lontani dall’aver raggiunto un sufficiente accordo.
Eppure, a un primo sguardo, la ricostruzione non dovrebbe sembrare troppo difficile. Nessuna strategia, nessuna tecnologia: due schiere di fanti armati si fronteggiano in una pianura; a un certo punto, si mettono in marcia puntando contro il nemico. La distanza, inizialmente un chilometro, o anche di più, si riduce inesorabilmente; è essenziale, lo dicono tutti, mantenere la coesione dello schieramento: canti accompagnati dal suono del flauto servono allo scopo, oltre a non far sentire il terrore che ognuno sente montare dentro di sé. Negli ultimi 100, 200 metri è difficile resistere alla tentazione di mettersi a correre urlando, un attimo prima dello scontro con il nemico: solo gli Spartani, sembra, in virtù del loro straordinario allenamento, in primo luogo mentale, resistevano alla tentazione e mantenevano perfettamente l’ordine di schieramento, camminando in modo cadenzato fino all’ultimo momento.
Chi sottolinea la coesione della falange immagina, per spiegare come avvenisse il cozzo tra le due schiere (l’othismos), una situazione simile a quella delle mischie di rugby, in cui le file (il numero tradizionale di file di cui è composta una falange è tradizionalmente di otto, ma esistono numerose varianti) che stanno dietro spingono con tutta la loro forza quelli che stanno davanti, sostituendoli quando cadono, per cercare di realizzare, in pochi minuti di parossistico sforzo, uno sfondamento delle linee nemiche, che spesso si rivela decisivo, specie dal punto di vista psicologico. In realtà, non è ben chiaro se questo modello sia valido: è possibile proporne almeno un altro più fluido, in cui la falange presenta ampi spazi vuoti nello schieramento, in cui gli scontri singoli tra i combattenti hanno sicuramente un’importanza molto maggiore e in cui il risultato dello scontro viene deciso da una serie di duelli lungo un arco di tempo maggiore di quello prevedibile per il primo modello, necessariamente assai rapido.
Il fronte è, in qualunque battaglia, lungo almeno svariate centinaia di metri. È ovviamente possibile che un esercito abbia la meglio – per esempio – sulla destra (il lato nobile, sul quale sono di solito schierate le forze migliori), ma non al centro o sul lato opposto. Mentre nel caso di uno sfondamento immediato e molto visibile la battaglia può risolversi in poco tempo, addirittura in pochi minuti, con la fuga degli sconfitti, nel caso di reciproci sfondamenti in punti diversi lo scontro tende a trasformarsi in una mischia spaventosa, lunga alcune ore e, soprattutto, poco chiara.
La polvere, la stanchezza, le urla, gli elmi che disturbano la visuale, sono tutti elementi che concorrono a non far capire l’andamento della battaglia; è già tanto se si riesce a distinguere gli amici dai nemici, ma non sempre neppure questo è possibile. In tali condizioni, sono spesso elementi psicologici imponderabili a decidere dell’esito finale: la morte del comandante, la sensazione che i compagni stiano per cedere possono portare al collasso di uno degli schieramenti, con la conseguente fuga e l’abbandono del terreno dello scontro al nemico, segnale inequivocabile di resa.
Già poche ore dopo, tutto questo sarà solo materia per i ricordi dei combattenti. “Un Saio si fa bello col mio scudo, che ho dovuto abbandonare. Che m’importa, non sono forse riuscito a salvarmi? Perché mi devo preoccupare dello scudo? Al diavolo! Me ne procurerò un altro altrettanto bello” (fr. 5 West), dice Archiloco, non ancora schiavo del politically correct che impone di non abbandonare mai – in nessun caso – lo scudo, per non essere tacciato di vigliaccheria ed essere emarginato dalla propria comunità (e ad Atene, eventualmente, essere accusato e processato per un preciso reato). Più facilmente, il ricordo sarà abbellito da atti di eroismo, da rodomontate di ogni genere, che nessuno potrà controllare; anche, volendo, da apparizioni di dèi e miracoli di altro genere. Nulla su cui costruire un’attendibile narrazione storica, purtroppo.
La guerra – qualsiasi guerra – è il luogo dell’anomia. I fattori che si incrociano a determinare gli esiti delle battaglie sono troppi perché possano essere controllati con successo.
Almeno a partire dall’età moderna, si cerca quanto meno di regolare con grande rigidità il comportamento dei propri soldati, attraverso un sistema di regole durissime, fatte osservare attraverso una precisa catena gerarchica di ufficiali. Per quanto riguarda il nemico, prima delle relativamente recenti codifiche internazionali (Convenzioni di Ginevra, 1949, peraltro anch’esse largamente disattese), ci si attendeva solo che esso concordasse nell’accettare una serie di norme più o meno vaghe, tendenti a evitare comportamenti particolarmente efferati o contrari al sentire comune. Tali norme avevano di solito una matrice religiosa e la loro regolamentazione cadeva sotto la giurisdizione divina.
Nulla di diverso osserviamo per il mondo greco. Qui troviamo una serie di norme religiose, relative in particolare al trattamento dei morti in battaglia, che devono essere restituiti e comunque onorati (con un’attenzione ben maggiore che non per i feriti o anche per i prigionieri), e a pratiche rivolte a ottenere il benestare delle divinità prima e a ringraziarle dopo il buon esito di uno scontro. Nessuna norma specifica implica un determinato comportamento durante lo scontro: è quindi un’illusione cercare di ricostruire un modo di combattere altamente formalizzato, con poco da invidiare alle giostre medievali, che i Greci avrebbero praticato nel corso dell’età arcaica e almeno per parte dell’età classica. Eppure tale illusione – un gioco di specchi in cui ciascuno guarda al passato per ritrovare questa guerra tra gentlemen, poiché nessuno, in effetti, la vede operante ai suoi tempi – è già antica. Il passo forse più bello è di Demostene, della metà del IV secolo a.C. circa: “Io invece ritengo che, se in tutti i campi, per così dire, c’è stato un grande sviluppo e le cose di ora non rassomigliano affatto a quelle passate, il maggiore cambiamento, il maggiore incremento c’è stato in campo militare. In primo luogo, si dice che allora gli Spartani e tutti gli altri, solo d’estate, per quattro o cinque mesi, invadevano e devastavano il territorio con opliti e milizie cittadine, dopo di che se ne tornavano nuovamente in patria; erano così all’antica, o meglio, così civili, che non facevano ricorso per nessun motivo alla corruzione, ma la guerra era palese e leale. Ora invece voi vedete che i traditori hanno rovinato quasi tutto, e nulla si risolve con una battaglia in campo aperto”. In poche righe, ecco elencate molte delle regole del codice etico dell’oplitismo: guerra stagionale, “aperta” (come oggi la caccia!) solo per pochi mesi, quelli estivi; impiego esclusivo di cittadini di rango oplitico; divieto di inseguire il nemico e di attaccarne il centro cittadino, vale a dire rifiuto di proseguire la guerra oltre il momento della battaglia; infine, rifiuto di ogni forma di guerra che non contempli l’uso diretto e immediato della forza: e quindi condanna di imboscate, inganni, attacchi a sorpresa, stratagemmi, corruzione. Nessuna fonte antica ha mai descritto meglio la guerra/gioco, il sogno di una guerra pulita. Il problema è che la guerra non è pulita, e l’espressione è un ossimoro; e infatti c’è sempre qualcuno che rovina il gioco. Nel caso di Demostene, lo scopo è appunto quello di indicare in Filippo il “cattivo” di turno.
Il codice etico della guerra oplitica è un tipico caso di “invenzione della tradizione”. Nessuno, con ogni probabilità, lo ha mai seguito. Alcune norme, certo, sono effettivamente tenute in considerazione, ma nascono da necessità pratiche, non certo dal rispetto di regole: per esempio, il fatto che i soldati, nella stragrande maggioranza, siano per lo più agricoltori, rende impossibile fare la guerra lungo tutti i mesi dell’anno, così come la pesante armatura oplitica rende non tanto vietato quanto impossibile l’inseguimento del nemico dopo la rotta, un nemico che, innanzitutto, per salvarsi la vita, si è liberato di tutto quanto può per correre più veloce. Poche altre nascono da forti interdetti religiosi e sono sempre onorate, guerra o non guerra: in primo luogo, lo abbiamo già visto, il rispetto per i morti.
Un altro aspetto, non toccato da Demostene se non in modo criptico (la guerra “palese e leale”), comporta un rifiuto di qualsiasi arma in grado di uccidere da lontano, in primo luogo dell’arco. La ragione è evidente: con l’arco non si vede chi è più forte fisicamente, non si vede neppure da dove arriva il pericolo: si tratta quindi di un’arma subdola, non degna di un uomo coraggioso e leale. Ci sono notizie, tramandate da autori tardi, sulla proibizione di armi da lancio in guerre dell’età arcaica: il loro grado di attendibilità è assai dubbio. Sappiamo anche che per lungo tempo gli arcieri sono presenti in quasi ogni esercito delle poleis, spesso confusi o a stretto contatto con gli opliti. Dopo le guerre persiane, combattute e vinte contro un popolo che ritiene l’arco l’arma per eccellenza, è facile radicalizzare il contrasto opliti/arcieri, facendone quasi uno scontro di civiltà. Ma non è stato sempre così, né in realtà è così neppure nei secoli successivi. Gli arcieri sono sempre più o meno presenti sui campi di battaglia greci: la condanna del loro modo di combattere rimane un’ideologia polverosa, poco più di una bizzarria antiquaria.
L’importanza del mare per la cultura greca non ha bisogno di essere sottolineata. Ben presto i Greci si rendono conto di quanto il controllo dell’Egeo sia decisivo per acquisire potenza militare. Le fonti antiche hanno tramandato elenchi di talassocrazie, vale a dire di chi, lungo i secoli della storia greca, ha esercitato tale dominio sul mare: il primo è Minosse, il mitico re di Cnosso; la polis che ha sviluppato in modo più clamoroso tale supremazia, tanto da creare un impero, è Atene, nel corso del V secolo a.C.
Proprio il caso di Atene – la celebre battaglia di Salamina (480 a.C.) durante le guerre persiane e i numerosi scontri navali degli ultimi anni della guerra del Peloponneso, – ci impedisce probabilmente di riflettere su come, in realtà, la guerra navale sia sempre stata considerata inferiore, subordinata a quella terrestre, e di come gran parte delle poleis greche l’abbia vista come qualcosa di aggiuntivo, di marginale, quando non l’abbia totalmente ignorata. Ci sono almeno tre ordini di spiegazioni che ci aiutano a comprendere questa scala di valori.
In primo luogo, i Greci – in larghissima misura – non sono marinai, e guardano al mare quanto meno con sospetto. Intere zone (la Grecia settentrionale e centrale, con Tebe e la Beozia) non vi hanno sostanzialmente nulla a che fare e lo stesso si può dire di importantissime poleis del Peloponneso, come Sparta e Argo. Quando qualcuna di queste, come appunto Sparta durante la guerra del Peloponneso o la stessa Tebe nel periodo della sua breve egemonia, creano una flotta, lo fa obtorto collo, aiutata finanziariamente da altri (ricordiamo l’intervento persiano in aiuto di Sparta). A parte Atene e Corinto, città almeno parzialmente marinare – ma non certo del tutto, nel senso che pochissimi tra i suoi abitanti sono effettivamente marinai –, restano le isole. Per centinaia di queste ultime – le eccezioni sono poche: Rodi, Samo, Chio, Lesbo – vale invece la seconda riflessione: il costo delle flotte. Mentre la guerra terrestre è una guerra “economica” per la polis, e a costo comunque non elevatissimo per i singoli cittadini, la guerra per mare richiede una grande disponibilità di denaro, al servizio di un’organizzazione complessa: procurarsi il legname, spesso in terre lontane, costruire le navi, predisporre gli arsenali, provvedere alla manutenzione e alla riparazione degli scafi, armare ciascuna trireme, la maggiore delle navi da guerra, con non meno di 200 uomini; ebbene, la stragrande maggioranza delle poleis non si può permettere un tale apparato.
Rimane il terzo motivo, spesso sottolineato dagli studiosi moderni, anche se è forse il più dubbio: la guerra per mare richiede – come abbiamo visto – l’impiego di un grande numero di uomini. Una flotta di 50 navi (un ordine di grandezza non certo eccezionale) richiede circa 10 mila uomini di equipaggio, molto più di quanti opliti possa schierare la stragrande maggioranza delle poleis. Ciò rende necessario ricorrere a tutti gli uomini disponibili, dando una possibilità alle classi meno abbienti di assumere un ruolo come rematori. Da qui l’identificazione della guerra navale come “democratica”, che innesta pericolose aspettative nei poveri. Va inoltre tenuto presente che per manovrare sul mare c’è bisogno di competenze specifiche e non facili da acquisire. Ancora una volta, non è una guerra “naturale”, in cui si possa far rifulgere il valore, inteso come coraggio e forza. Da qui la condanna degli aristocratici, dei ben nati, per tale forma di combattimento.
In effetti, combattere per mare è una faccenda tremendamente complessa. Gli Ateniesi sono molto avanti rispetto agli altri Greci e sono stati i primi a capire che è possibile elaborare specifiche strategie per risolvere le battaglie navali, non considerando semplicemente le navi come un luogo un po’ particolare su cui far combattere i soldati (un atteggiamento che i Romani non superarono mai del tutto).
La descrizione di Tucidide (II 83-84) di un piccolo scontro navale nel 430 a.C., all’inizio della guerra del Peloponneso, è emblematico: l’ammiraglio ateniese Formione mostra tutto il know-how ormai accumulato dalla sua città, mentre i Corinzi – pur uomini di mare – “erano equipaggiati più alla maniera di navi da trasporto”.
La narrazione dell’assedio di Troia si colloca ai primordi della storia greca; un assedio lunghissimo (una pietra di paragone piuttosto comoda: Pericle, conquistata Samo dopo “soli” nove mesi, si vanta del confronto!), risolto con un inganno (cavalli di legno non se ne useranno più, ma altri stratagemmi sì, e di ogni genere), non comporta però assalti alle fortificazioni, come sarebbe lento aspettarsi, bensì solo una serie pressoché infinita di scontri sotto le mura, a cui i Troiani non impegnati nel combattimento assistono comodamente, come si assiste a uno spettacolo teatrale.
Le piccole poleis che si sviluppano a partire dalle Dark Ages non hanno i mezzi per intraprendere imprese così complesse: per tutta l’età arcaica, di assedi si sente parlare solo ascoltando gli aedi che recitano l’Iliade; del resto, gran parte delle poleis non possiede neppure mura degne di questo nome. Come accade spesso, le scelte dettate dalla necessità vengono mascherate dall’ideologia: “non sono le mura, ma gli uomini il baluardo della città”, ripetono i poeti; non a caso Sparta, la più fedele all’ideologia tradizionale, si doterà di mura per ultima, quando ormai non c’è quasi più nulla da difendere; inoltre – l’abbiamo già visto – il codice oplitico traduce prontamente la situazione introducendo un’interdizione nei confronti delle conquiste delle poleis nemiche.
Tutto cambia nel corso del V secolo a.C.: la Grecia ha per la prima volta una città egemone dotata di enormi mezzi. Forte di questa superiorità, Atene intraprende, per ridurre alla ragione gli alleati riottosi, una serie di assedi, condotti però solo in minima parte con il metodo dell’assalto alle mura.
La scelta cade prevalentemente sulla cosiddetta strategia di blocco, che consiste nel costruire un muro di controvallazione intorno alla cinta difensiva della città da ridurre alla ragione, dotarlo di sentinelle e aspettare la resa degli abitanti per fame. Schematizzando: gli assalti sono molto costosi in termini di vite umane, il blocco comporta costi economici esorbitanti e un’organizzazione logistica che solo Atene può permettere, non senza sacrifici: si pensi, per dare almeno qualche cifra, che l’assedio di Potidea, uno degli episodi destinati a scatenare la guerra del Peloponneso, si conclude con la resa della città dopo due anni con una spesa complessiva di oltre 2000 talenti (una somma enorme, pari a circa 12 milioni di giornate lavorative di un salariato!).
Nel IV secolo a.C., e ancor più durante l’età ellenistica, si assiste a uno spettacolare sviluppo della poliorcetica d’assalto, grazie al progressivo, anche se contrastato, contributo di scienza, tecnologia e necessità militari.
La volontà di Dionisio I di dotarsi di un apparato militare di eccezionale livello, nei primissimi anni del IV secolo a.C., costituisce una tappa fondamentale di questo sviluppo: è allora che viene introdotta nel mondo greco la catapulta, regina dei mechanemata d’assedio. Filippo e, soprattutto, Alessandro, fanno fare dei passi da gigante alla poliorcetica: l’assedio di Tiro (332 a.C.) rimane uno dei più spettacolari del mondo antico, superato forse solamente, più di un secolo dopo, dalle invenzioni (in funzione difensiva, questa volta), di Archimede a Siracusa. Torri altissime, catapulte sempre più potenti, tecnici, ingegneri al seguito degli eserciti diventano parte dell’organizzazione militare: da una parte l’invenzione della catapulta è percepita come eccezionale, un vero spartiacque, anche dai contemporanei (si narra che, quando la catapulta apparve per la prima volta nel Peloponneso, il futuro re spartano Archidamo avrebbe esclamato: “Per Eracle, la virtù dell’uomo è ormai morta!”), che introduce un elemento di spettacolarità nel mondo della guerra, capace di destare una profondissima impressione in una realtà che per secoli non ha conosciuto alcun reale sviluppo. Dall’altra è problematico definire il livello di efficacia di tutto questo apparato tecnologico: i mechanemata si rompono facilmente e spesso i nemici trovano appropriate contromisure.
Si ha l’impressione, in effetti, che i difensori abbiano quasi in ogni epoca conservato un certo vantaggio sugli attaccanti. Alla fine, si torna sempre al cavallo con il quale tutto è iniziato: senza uno stratagemma o, semplicemente, senza il tradimento di uno dei difensori, le porte delle città sono destinate a rimanere, gran parte delle volte, chiuse.
L’agricoltura, secondo una visione diffusa nel mondo greco, prepara e dispone il corpo alla guerra; ancor di più la caccia, che si può definire come una vera e propria simulazione della guerra.
Nelle Olimpiadi, momento centrale della vita sociale dei Greci, non mancano prove sportive che richiamano esplicitamente situazioni belliche. Non parliamo della politica: non solo gran parte degli uomini politici greci sono anche comandanti militari, ma esiste di solito una corrispondenza tra regime politico e forze militari. Gli storici parlano solo di guerra, o quasi; diventare uomo significa superare l’apprendistato militare; una volta raggiunta la condizione adulta, si resta a disposizione della comunità per trent’anni, per rivestire il ruolo di soldato. Potremmo andare avanti a lungo per dimostrare l’invadenza del modello guerriero nella società greca.
La guerra è insomma una presenza costante nella vita dell’uomo greco. Le conseguenze sono svariate, e importanti. In primo luogo, è possibile registrare nei Greci una forte resistenza a riflettere sul fenomeno bellico in sé; secondariamente, l’identificazione dell’uomo con il combattente – e le virtù dell’uno e dell’altro – fa sì che si privilegi a lungo la naturalezza del combattere: in altre parole, non si può insegnare la guerra, patrimonio dell’uomo kaloskagathos in quanto tale. Un retaggio omerico, questo, che spiega – almeno in qualche misura – la pochezza della letteratura militare specialistica nel mondo antico; né, in generale, sono visti con favore i professionisti della guerra, i mercenari.
Intendiamoci: nessuno, tra i Greci, sosterrebbe che la pace non sia desiderabile. Chiunque preferisce goderne i dolci frutti e il cittadino/soldato ha reazioni molto più normali di quelle che tanta letteratura gli attribuisce: ha paura di andare a combattere, si infuria e va fuori di testa leggendo il suo nome tra i richiamati (è Aristofane a raccontarcelo), si ubriaca senza ritegno per cercare di darsi il coraggio che non ha e non può avere. E se per caso è ansioso di andare a combattere, è solo perché non ha ancora conosciuto gli orrori della guerra.
Ma nessuno si è mai espresso contro la guerra in quanto tale; nessuno ne ha mai negato il valore educativo, la liceità, la sua appartenenza con tutti i diritti al mondo dell’uomo. Alla fine, è questa la vera differenza con il nostro tempo: noi esorcizziamo la guerra, la temiamo, la isoliamo, la condanniamo, e lasciamo che se ne occupino dei professionisti, facendo finta che lo facciano per portare la pace. I Greci la accoglievano come ingombrante compagna di viaggio, la accettavano, ne avevano paura come si ha paura di una divinità potente e capricciosa, ma non la odiavano, perché di rendevano conto di quando essa facesse inestricabilmente parte della vita umana.