La guerra del Peloponneso
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella primavera del 431 a.C., con l’attacco tebano a Platea – tipico esempio di piccola comunità presa nella tenaglia delle lotte tra grandi potenze – inizia la guerra tra Sparta e Atene, conosciuta dai posteri come guerra del Peloponneso. Quasi tutto il mondo greco, volente o nolente, vi prende parte, come alleato dell’una o dell’altra: il conflitto diverrà il più lungo – ben 27 anni – e il più sanguinoso che la Grecia abbia mai sperimentato, come il grande storico che ce l’ha raccontata, Tucidide, afferma di aver compreso fin dall’inizio delle ostilità. E, contrariamente alle attese, sarà Sparta, con i suoi alleati, a vincere.
Essere responsabili dello scoppio di una guerra non è un fardello facile da accettare. Non lo era neppure nell’antica Grecia, dove pure l’atteggiamento nei confronti dei conflitti era, quanto meno, più fatalista: non foss’altro perché, di solito, prima della guerra c’è una condizione di pace, la rottura della quale è un atto che non lascia indifferenti gli dèi. È per questo che gli Spartani – scrupolosi nei rapporti con gli dèi fino alla superstizione – si sentono in colpa e attribuiscono le disgrazie dei primi anni di guerra all’alleanza con i Tebani, che nella primavera del 431 a.C., avevano rotto una tregua faticosamente concordata attaccando proditoriamente Platea.
Gli altri Greci davano per scontato, invece, che a far scoppiare la guerra fossero stati da una parte i Corinzi, dall’altra parte gli Ateniesi. I primi – principali alleati degli Spartani – non avevano buoni rapporti con Atene e negli ultimi anni erano stati messi a durissima prova dalle reazioni che la città imperiale intratteneva con l’isola di Corcira e con Potidea entrambe originariamente colonie corinzie.
Gli stessi Ateniesi, poi, non erano certo innocenti: il decreto del 432 a.C. emanato nei confronti di Megara – l’alleata spartana più vicina geograficamente all’Attica – proibiva ai suoi abitanti di commerciare nei porti facenti parte della Lega ateniese (cioè quasi tutti) e veniva visto dall’opinione pubblica come un segno della volontà di Atene di fare la guerra, dal momento che le motivazioni per cui era stato emanato erano lontane dall’essere convincenti.
Alla fine, nulla è stato trovato di meglio della distinzione operata da Tucidide (I 23 4-6), che 2500 anni prima di Braudel esplicita la differenza tra cause evenemenziali e cause di lunga durata, individuando in queste ultime il motivo per cui nessuna forza al mondo avrebbe potuto evitare – prima o poi – il grande conflitto tra le due grandi potenze della Grecia: “A iniziarla [la guerra] furono entrambi, Spartani e Ateniesi, dopo aver dichiarato decaduta la pace trentennale [446 a.C.] che era stata stipulata dopo la presa dell’Eubea. Quanto alle ragioni per cui denunciarono quella pace, ho premesso al racconto le cause e i dissensi, perché nessuno un domani debba ricercare per quali ragioni si sia prodotta in Grecia una guerra così immane. Ma la motivazione più profonda, sebbene anche la più inconfessata, io credo fosse un’altra: la crescita della potenza ateniese e il timore che ormai incuteva agli Spartani resero inevitabile il conflitto” (trad. Luciano Canfora).
La guerra mostra da subito caratteristiche che la rendono profondamente diversa da quelle fino a quel momento combattute sul suolo greco: il coinvolgimento di tutto il mondo ellenico, i teatri di guerra numerosi, la passione ideologica derivata dalla contrapposizione non solo tra due sistemi politici, ma tra due modi di vita, rendono il conflitto non soltanto grandioso – una vera e propria “guerra mondiale” –, ma anche eccezionalmente violento e difficile da controllare, non essendo, in generale, le élite dirigenti delle poleis abituate a tutto questo.
Ovvio che, per questo aspetto, sono gli Ateniesi a essere favoriti, assuefatti come sono a gestire relazioni un po’ in tutto il Mediterraneo. Pericle, con la consueta lucidità, e anche perché la guerra non lo coglie certo di sorpresa, elabora una strategia ineccepibile dal punto di vista militare, ma della quale egli stesso sottovaluta i costi psicologici, che rischieranno di vanificarla. Lo statista ateniese parte da tre considerazioni, due positive e una negativa: le prime due nascono dalla constatazione della enorme superiorità delle risorse finanziarie di Atene (sembra che ben 9 mila talenti, una somma impressionante, fossero stati accumulati come riserva alla vigilia della guerra) e dell’altrettanto evidente superiorità bellica sul mare, grazie a una flotta di grandi dimensioni, perfettamente organizzata e con equipaggi assai più allenati ed efficienti, un insieme che la flotta corinzia, l’unica degna di questo nome che possiedano i nemici, non è in grado neppure di disturbare episodicamente.
La nota negativa è costituita dalla riconosciuta e ineluttabile superiorità dell’esercito spartano e degli alleati sulla terra: una battaglia campale non avrebbe avuto un esito positivo e avrebbe rischiato di mettere a repentaglio la sicurezza della città. Sulla base di queste riflessioni, Pericle decide che gli Ateniesi non avrebbero dovuto rispondere alle provocazioni spartane sulla terra: il controllo del mare avrebbe garantito comunque gli approvvigionamenti alla città, mentre le risorse finanziarie avrebbero permesso di armare continuamente la flotta per effettuare azioni di disturbo fin nel cuore del territorio nemico, nel Peloponneso. Così, quando il re Archidamo (è da lui che prendono il nome di “guerra archidamica” i primi 10 anni della guerra, visti a volte, dai contemporanei, come un conflitto a sé stante), penetrando dalla Megaride, invade in forze l’Attica, aspettandosi una reazione da parte ateniese, non accade nulla. Una concezione arcaica della guerra, cui gli Spartani erano fedeli, prevede in effetti che i contadini di una polis, nel vedere i propri campi calpestati da un esercito nemico, gli vadano incontro per costringerlo a ritirarsi. Gli Ateniesi, invece, si ritirano tutti dentro le mura, che si estendono dalla città al Pireo, rendendo sicuro uno spazio molto vasto, ma non così vasto da garantire una sistemazione dignitosa per migliaia e migliaia di persone che da secoli erano abituate a vivere nei villaggi di campagna di cui era costellata l’Attica.
Ed ecco dunque i costi psicologici: da una parte, essere costretti all’inazione vedendo i propri campi devastati; dall’altra, vivere per mesi e mesi (le invasioni avrebbero avuto una durata variabile, ma certo in molti casi è impossibile ritornare a vivere come prima, anche dopo la partenza del nemico) in condizioni estremamente precarie.
In questa situazione, appena al secondo anno di guerra, ad Atene scoppia una violenta epidemia, che nel corso dei successivi due-tre anni porterà alla morte non meno di un terzo dell’intera popolazione della città tra cui, nel corso del 429 a.C., lo stesso Pericle. Non siamo riusciti a chiarire la natura della malattia (una forma di tifo?), ma non è difficile ritenere che il suo insorgere fosse dovuto in larga misura alle condizioni igieniche e materiali terribili in cui gran parte degli Ateniesi erano costretti a vivere.
La reazione degli Ateniesi a queste contingenze è però eccellente: la maestria dello stratego Formione conferma la superiorità sul mare contro i Corinzi; la ribellione di Mitilene, centro principale della grande isola di Lesbo, viene punita con eccezionale durezza; e, soprattutto, l’intraprendenza dello stratego Demostene consente, in un raid sulle coste della Messenia di catturare nell’isoletta di Sfacteria (425 a.C.) 300 spartani, tra cui ben 120 “preziosissimi” spartiati. Poco dopo (424 a.C.) lo stratego Nicia occupa l’isola di Citera, prospiciente le coste della stessa Laconia.
Gli Spartani, terrorizzati, si affrettano a fare proposte di pace, che la nuova leadership ateniese, guidata dal “popolano” Cleone, rifiuta sdegnosamente. Ma, nello stesso 424 a.C., gli Ateniesi subiscono una disfatta presso Delio nella prima battaglia di terra contro i Tebani, fallendo un ingegnoso quanto rischioso progetto di Demostene di penetrare in Grecia centrale. Negli stessi anni lo spartano Brasida riesce a portare il teatro principale della guerra in Grecia settentrionale, sottraendo numerose poleis della Lega di Delo al controllo ateniese. Nel 422 a.C. sia Brasida sia Cleone, accorso per rimediare alle difficoltà ateniesi in quella zona, muoiono sotto le mura di Anfipoli, una delle principali poleis della Grecia settentrionale. La stanchezza, la constatazione che nessuna delle due grandi potenze riesce a prevalere, le enormi spese sostenute (Atene sta quasi esaurendo le sue enormi riserve, nonostante non abbia trascurato di “tosare” quanto più possibile gli alleati-sudditi) fanno rialzare la testa ai fautori della pace in entrambe le città.
Nel 421 a.C., nonostante l’opposizione degli alleati di Sparta, si giunge così alla stipulazione di una pace cinquantennale (chiamata pace di Nicia, dal nome del principale interlocutore ateniese, molto cauto nei confronti della guerra) che certifica la sostanziale conferma dello status quo precedente alla guerra: un risultato che, tutto sommato, può essere considerato un successo per Atene, che mantiene intatto il suo impero.
Gli anni che si aprono con la pace di Nicia sono segnati dalla debordante personalità e dalle geniali, rischiose, contraddittorie iniziative di Alcibiade, ultimo esponente della più raffinata aristocrazia ateniese, allievo di Socrate, lontano parente dello stesso Pericle: straordinario, forse unico esempio di personaggio dalle doti eccezionali, difficilmente confinabili negli spazi tutto sommato angusti della polis antica, sia pure di una polis come Atene.
Alcibiade inizia raccogliendo i consensi di quanti non erano soddisfatti della pace (che stava stretta a un uomo dalle sue smisurate ambizioni) e coglie nella possibilità di colpire Sparta nello stesso Peloponneso l’occasione per riprendere le ostilità. Si fa così promotore di un’alleanza con Argo – la più grande città del Peloponneso, dopo la stessa Sparta, rimasta fino ad allora neutrale, in forza di un trattato di pace trentennale con la rivale laconica, appena scaduto –, con la polis arcade di Mantinea e con la regione dell’Elide (nel cui territorio si trova Olimpia). L’idea non è cattiva, ma alla prova delle armi Sparta mostra nuovamente la sua invincibilità, riuscendo vincitrice in una battaglia campale quale non se ne vedeva da lungo tempo, combattuta presso Mantinea (418 a.C.), nella quale il contingente ateniese, non particolarmente nutrito, non dà grande prova di sé.
Il secondo fronte aperto da Alcibiade è ancora più importante, perché comporta un grandioso allargamento del teatro di guerra. Egli è il principale promotore di una spedizione in Sicilia (415-413 a.C.): infatti, approfittando della richiesta di aiuto proveniente da Segesta, minacciata dalla vicina Selinunte, appoggiata da Siracusa, di gran lunga il più grande centro dell’isola. La razionalità del progetto si basa su alcune considerazioni: sul piano difensivo, Siracusa, città dorica, colonia corinzia, “naturale” alleata del fronte spartano, costituisce una potenziale minaccia nel prosieguo della guerra, quando abbia effettivamente deciso di schierarsi. Sul piano offensivo, la Sicilia e l’Occidente costituiscono un promettente, quanto vago obiettivo di espansione dell’imperialismo ateniese; un progetto, del resto, che non è del tutto nuovo, poiché nel corso della guerra archidamica numerose spedizioni ateniesi hanno saggiato il terreno, intervenendo più o meno decisamente nelle complesse faccende siciliane.
La spedizione parte nella primavera del 415 a.C. ed è composta da ben 136 navi da guerra, al comando, oltre che dello stesso Alcibiade, di Nicia (inizialmente contrario all’avventura) e Lamaco, tra gli strateghi più esperti a disposizione di Atene. Il clima è di grande entusiasmo e fiducia, ma viene avvelenato da un oscuro episodio – la mutilazione dei falli dei pilastri raffiguranti il dio Ermes, che si trovano in gran numero sparsi in città – che getta un’ombra sulla spedizione stessa, anche perché le voci che si rincorrono per la città addossano la colpa dell’atto sacrilego allo stesso Alcibiade e ai suoi compagni di gozzoviglie. La flotta parte ugualmente, ma al suo arrivo in Sicilia, a Catania, la nave di stato Salaminia giunge in tutta fretta, incaricata di arrestare Alcibiade per sottoporlo a processo ad Atene. La reazione dell’accusato non è difficile a prevedersi: Alcibiade fugge e lo ritroviamo, di lì a poco, a Sparta, intento a dare consigli (eccellenti) ai suoi ex nemici.
La storia militare dell’avventura ateniese sotto le mura di Siracusa si può riassumere in poche righe: guidata da un comandante incerto, superstizioso e intimamente convinto di stare facendo qualcosa di sbagliato (Nicia), l’armata perde molte occasioni di completare il muro di controvallazione che avrebbe segnato, probabilmente, la resa della città siciliana, non sfrutta la superiorità della flotta, non ricava alcun vantaggio dall’arrivo di una ulteriore spedizione di soccorso al comando di Demostene; i Siracusani, invece, dopo un primo periodo di difficoltà, che induce alcuni dei principali comandanti a proporre addirittura la resa, riceve grande aiuto dall’arrivo di Gilippo, ottimo generale inviato da Sparta (era uno dei consigli forniti da Alcibiade), che riorganizza le forze e, due anni dopo, circa un mese dopo l’eclisse lunare del 27 agosto 413 a.C., fa a pezzi l’esercito ateniese sparso lungo il fiume Assinaro, in un goffo e tragico tentativo di fuga per via di terra, quando la via di mare è ormai controllata dalla flotta siracusana.
Molti morti, altrettanti ridotti in schiavitù o costretti a marcire nelle famigerate Latomie siracusane; pochi ateniesi riescono a ritornare in patria, a raccontare ai propri concittadini uno dei più grandi disastri della storia della città. Difficile per noi dare un giudizio: Alcibiade avrebbe potuto cambiare il corso militare degli eventi? Con uno dei migliori conoscitori contemporanei di Tucidide – il grande narratore della spedizione – diremo volentieri che “forse una più efficace conduzione tattica avrebbe sfruttato meglio le debolezze siracusane; tuttavia, mentre era facile prevedere quali conseguenze avrebbe avuto una sconfitta totale per il prosieguo della guerra in Grecia e nell’Egeo, è invece difficile immaginare come, nel caso di un’improbabile vittoria, il rudimentale sistema imperiale che Atene aveva sperimentato con successo nel ridotto spazio dell’Egeo avrebbe potuto essere trapiantato in un orizzonte assai più vasto e difficile da tenere sotto controllo sia per la distanza che per la ricchezza di risorse” (trad. Ugo Fantasia).
A seguito del disastro ateniese in Sicilia, la guerra riprende in grande stile.
A guidare la strategia spartana è ormai Alcibiade; le direttive lungo le quali impostare le azioni sono due, ed entrambe recano ad Atene enormi danni: sul continente, l’occupazione permanente del forte di Decelea, a pochi chilometri da Atene, procura molti più problemi delle invasioni stagionali che avevano caratterizzato la prima parte della guerra; sul mare, l’allestimento di una flotta ha come scopo primario quello di indurre alla ribellione le città della Lega di Delo, un obiettivo che gli Spartani non avevano mai perseguito con convinzione. Per l’allestimento della flotta, i buoni uffici di Alcibiade procurano l’alleanza con il Gran Re di Persia, che, attraverso i suoi satrapi Tissaferne e Farnabazo, fornisce a più riprese l’indispensabile aiuto finanziario. Sarà questo, in effetti, l’elemento che determinerà l’esito finale della guerra: l’intervento persiano permetterà ai nemici di Atene di colmare quel gap finanziario, che fin dall’inizio della guerra costituiva il dato più favorevole ad Atene.
La reazione di Atene a questi avvenimenti, che si affollano tra il 413 e il 411 a.C., è vigorosa. La città supera brillantemente anche il tentativo di colpo di stato del 411 a.C., con il ritorno alla piena democrazia nel giro di nemmeno un anno, e dimostra come la sua superiorità sul mare non sia cosa da poter essere contestata solamente con il denaro (si ricordino le battaglie di Cinossema, Abido e Cizico, tra il 411 e il 410 a.C., tutte favorevoli ad Atene, anche se nessuna decisiva).
Intanto, Alcibiade manovra per riavvicinarsi alla città e preparare il suo ritorno.
Il suo tentativo di convincere i Persiani a cambiare alleato, appoggiando Atene invece di Sparta, fallisce; non così il suo tentativo di accreditarsi come il principale fautore del ritorno alla democrazia dopo il colpo di stato, di cui, con ogni probabilità, era stato uno degli ispiratori. I suoi consigli consentono comunque ad Atene di recuperare tutte le posizioni nell’Egeo. Dopo vari mesi in cui non accade nulla di particolarmente significativo dal punto di vista militare, nell’estate del 408 a.C. Alcibiade fa il suo trionfale ritorno ad Atene, accolto da una folla strabocchevole in delirio: pochi giorni dopo, viene nominato dall’assemblea stratego con pieni poteri per la conduzione della guerra, un caso più unico che raro nella storia dell’Atene democratica.
L’entrata in scena, da parte spartana, di un generale di grande personalità e ambizione come Lisandro, è destinata però a cambiare di nuovo il corso della guerra. Lisandro stabilisce un’intesa molto stretta con Ciro il Giovane, figlio del Gran Re Dario e molto più affidabile degli ondivaghi satrapi con cui Sparta ha avuto a che fare fino a quel momento. Riesce ad avere la meglio sulla flotta ateniese a Nozio (407 a.C.), colta di sorpresa in un momento nel quale Alcibiade l’ha colpevolmente lasciata in mano al suo sottoposto Antioco, e questo episodio, di per sé marginale, segna però la fine dell’amore della volubile assemblea ateniese per Alcibiade. Pochi mesi dopo, nell’estate del 406, una flotta di 150 navi, armata con la forza della disperazione da Atene – la città era logorata oltre misura sul piano finanziario e anche per quel che riguarda gli uomini a disposizione (per fornire i rematori, si ricorre in proporzioni massicce agli schiavi) – ha nettamente la meglio sulla flotta peloponnesiaca guidata da Callicratida, presso le isole Arginuse (406 a.C.), non lontano da Lesbo.
Quem deus vult perdere, prius dementat: gli Ateniesi, invece di gioire, mettono in stato di accusa gli strateghi vittoriosi, accusati di non aver provveduto al recupero dei cadaveri dispersi in mare a causa di un’improvvisa tempesta. In un clima isterico, con procedure palesemente illegali, ben sei strateghi (quelli che hanno osato tornare in patria) sono condannati a morte e giustiziati.
L’anno seguente la flotta ateniese è colta di sorpresa da Lisandro mentre gli equipaggi cercano di procurarsi del cibo nei dintorni, sulla spiaggia di Egospotami, a circa 20 km dalla città di Sesto. Le navi vengono distrutte e ateniesi, presi prigionieri, vengono uccisi senza pietà.
È proprio la fine, questa volta. Nessuna nave si oppone più a Lisandro nel suo cammino verso Atene, ormai priva di uomini o risorse per armarne delle nuove. Dopo pochi mesi di assedio, la città si arrende per fame e accetta le condizioni della resa: abbattimento delle mura, perdita della flotta e dei possedimenti fuori dell’Attica, ingresso nell’alleanza spartana, senza più alcuna autonomia politica. Siamo nella primavera del 404 a.C.: “Lisandro entrò al Pireo, gli esuli tornarono e le mura furono demolite al suono delle flautiste, in mezzo a un grande entusiasmo, perché erano in molti a pensare che quel giorno segnava l’inizio della libertà per la Grecia”. Così commenta Senofonte, ateniese, ma profondamente ostile alla democrazia: non aveva ragione, perché il dominio spartano non sarebbe stato migliore; gli odi politici, in Grecia, erano davvero feroci.