Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La grottesca è un genere ornamentale introdotto nella pittura italiana alla fine del Quattrocento in seguito al recupero di testimonianze di arte romana antica, prima tra tutte la decorazione della Domus Aurea. Condotta a piena maturazione dalla bottega di Raffaello nei primi due decenni del Cinquecento, si impone come modello decorativo sia in Italia che in Europa. Vive la sua ultima intensa stagione nel Settecento, dopo la scoperta della pittura pompeiana.
Premessa
I primi esempi di decorazione a grottesca compaiono nell’arte italiana negli anni Ottanta del Quattrocento, all’indomani della scoperta della Domus Aurea. Sepolti e dimenticati da secoli, gli ambienti di quella che era stata la grandiosa reggia di Nerone offrono agli artisti del Rinascimento un repertorio quasi intatto di motivi ornamentali di grande fantasia e libertà inventiva, dipinti con una tecnica veloce e con colori di stupefacente vivacità.
L’immediata affermazione della grottesca in questo particolare momento della storia dell’arte italiana è una delle testimonianze più evidenti dell’interesse per la riscoperta dell’arte antica, che accomuna fin dall’inizio del secolo tutti i maggiori centri artistici d’Italia. Per chi voglia studiare l’antichità, Roma diviene meta irrinunciabile per porre le basi di un linguaggio moderno.
Fin dai primi anni del Quattrocento, elementi ornamentali dell’arte classica fanno la loro comparsa soprattutto nella scultura, desunti da sarcofagi, rilievi e fregi. Uno dei motivi di maggior successo è la candelabra, ispirata al candelabrum romano, costituita da un asse verticale attorno al quale si sviluppano elementi vegetali, figurine umane e mostruose, insegne militari, secondo una rilettura fantastica del modello antico. E proprio attraverso il motivo già conosciuto e sperimentato della candelabra che gli artisti di fine Quattrocento interpretano la grottesca antica.
La scoperta della Domus Aurea
Verso la fine del secolo a Roma si assiste a un’accelerazione nelle ricerche antiquarie: si scavano tombe e ville antiche, e si guarda con rinnovato interesse a reperti a lungo trascurati, come gli stucchi del Colosseo.
Il sito della Domus Aurea, costruita tra il 64 e il 68 d.C. sul Colle Oppio, è interrato già all’inizio del II secolo e usato come fondazione per le monumentali terme di Traiano. I visitatori, penetrando nel fianco della collina, hanno dunque l’impressione di scendere in una grotta: di qui il nome di grottesca attribuito alla pittura che appare ai loro occhi. Per ammirare questa meraviglia affrontano una discesa avventurosa, calandosi in cunicoli e rimanendo intere giornate in ambienti bui e malsani, attrezzati come escursionisti. Eloquente una testimonianza in versi scritta da un anonimo "Prospettivo milanese depictore" attorno al 1500: "Andian per terra con nostre ventresche / con pane con presutto poma e vino / per esser più bizzarri alle grottesche".
Il clima romantico e pionieristico di queste discese induce la maggioranza dei visitatori a lasciare la propria firma graffita sulle volte delle sale. In questo periodo infatti, negli ambienti ancora interrati l’unico elemento visibile sono le volte, le cui decorazioni – oggi quasi del tutto illeggibili – ci sono note da disegni e incisioni che i molti artisti-visitatori ne traggono sin dai primi anni Ottanta del XVI secolo.
Le volte, designate a seconda del colore o dell’elemento dominante della decorazione, come Dorata, Gialla, Nera, degli Stucchi, delle Civette, presentano una suddivisione in scomparti geometrici incorniciati in stucco, entro cui appaiono figurine mostruose o ibride, e piccole scene mitologiche.
Come attestano alcuni fogli, sin dalla fine del Quattrocento si conosceva anche il lungo criptoportico della reggia che univa il Celio al Palatino. Qui le decorazioni a volute vegetali interrotte da piccoli paesaggi e le architetture stilizzate dipinte in prospettiva segnano il momento più alto della cosiddetta pittura "compendiaria", ottenuta cioè con rapide pennellate a macchia, con un effetto impressionista.
La prima generazione di artisti
Tra i primi artisti che visitano la Domus Aurea ci sono i pittori toscani e umbri, chiamati a Roma da papaSisto IV per decorare le pareti della Cappella Sistina: Botticelli, Piero di Cosimo, Perugino, Pinturicchio, Cosimo Rosselli, Signorelli, Ghirlandaio. Proprio da un taccuino di disegni di Ghirlandaio deriva la copia nota come Codex Excurialensis (conservato all’Escorial di Madrid), in cui si trovano riprodotti con precisione archeologica alcuni ambienti della dimora neroniana.
Tornato a Firenze, in un particolare dell’affresco con la Nascita della Vergine nel coro di Santa Maria Novella (1488-1490) Ghirlandaio ripropone i motivi ornamentali copiati sul taccuino romano. Le sue grottesche sono sottili e stilizzate, ma si distaccano dal modello antico in quanto monocrome.
Per ciò che riguarda il Pinturicchio, si può seguire l’influenza delle grottesche della Domus Aurea lungo tutto l’arco della sua carriera dopo la commissione Sistina. L’ornato a grottesche è presente negli affreschi della cappella Bufalini all’Aracoeli a Roma (1483-1485), del Belvedere Vaticano (1487), del palazzo Della Rovere (1490), delle due cappelle in Santa Maria del Popolo (quella di San Girolamo, 1488, e quella Basso Della Rovere, 1495), delle sale dell’appartamento Borgia in Vaticano (1492-1494), della libreria Piccolomini nel duomo di Siena (1501-1506) e infine nel palazzo Petrucci (1509).
Il pittore umbro rinvigorisce lo stilema della candelabra monocroma dipinta a imitazione del marmo scolpito con l’introduzione di motivi desunti dalla Domus Aurea. Abbandonando la grisaille per il colore, Pinturicchio fa entrare a pieno titolo nella pittura il modello di ornato all’antica che fino a quel momento era stato appannaggio quasi esclusivo della scultura. Pinturicchio apprende dalla Domus Aurea anche una nuova concezione della divisione delle volte: il soffitto proveniente da palazzo Petrucci a Siena (oggi a New York, Museum of Modern Art) è una riproposizione quasi integrale della Volta Dorata. La grottesca di Filippino Lippi non rinuncia al chiaroscuro né alla candelabra, ma la pennellata sfrangiata dell’artista toscano evoca il tocco di quella neroniana. Le scene affrescate della cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva a Roma (1488-1493) e della cappella Strozzi in Santa Maria Novella a Firenze sono scandite da motivi antropomorfi, vegetali e animali, liberamente accostati in forma di grottesca. Per Filippino Lippi le grottesche, grazie al loro linguaggio non narrativo e al significato oscuro, divengono il luogo in cui inserire elementi eruditi e allusivi, come i cartigli con complicate iscrizioni simboliche.
Il lato più allucinato e mostruoso della grottesca è sviluppato da Luca Signorelli nella cappella di San Brizio del Duomo di Orvieto (1500-1504). Le superfici decorate a grottesca brulicano di esseri in febbrile metamorfosi: simboleggiano, secondo alcuni studiosi, l’umanità che espia in Purgatorio.
Pietro Perugino, invece, nella volta del Collegio del Cambio a Perugia (1499-1500) sceglie una grottesca "colta", i cui elementi sono desunti, oltre che dalla decorazione della Domus Aurea, da un repertorio di antichità (vasi, sarcofagi, monete, medaglie) che l’artista accosta con un compiacimento e un’accuratezza piuttosto distanti dall’immediatezza del modello.
All’indomani di queste primissime testimonianze, entra in scena una generazione di artisti più giovani, educati sia sulle grottesche antiche che sulle interpretazioni dei loro predecessori. Tra questi giovani si formano dei veri e propri specialisti di grottesche, che cominciano a dotare il genere di una sua autonomia e a diffonderlo anche con mezzi diversi dalla pittura.
Un ruolo fondamentale è rivestito dal bolognese Amico Aspertini (1474-1552), accanito studioso delle antichità di Roma (dai rilievi alle pitture della Domus Aurea), come testimoniano le fonti e i suoi taccuini di disegni. Già dal 1506, nell’oratorio di Santa Cecilia a Bologna, Aspertini trasferisce all’interno della raffigurazione affrescata un brano di architettura derivato da una lunetta della sala trentasei della Domus Aurea.
Più tardi, nei pilastri della cappella di Sant’Agostino nella chiesa di San Frediano a Lucca (1508), Aspertini anima la candelabra en grisaille, ampiamente impiegata dagli artisti della generazione precedente, conferendole una funzione narrativa.
Dell’altro bolognese coetaneo di Aspertini, Jacopo Ripanda, sappiamo meno: di lui rimane un taccuino di schizzi, dal quale traspare la preoccupazione di fedeltà archeologica ai modelli di cui Vasari fornisce una vivace descrizione.
È impossibile soffermarsi sulla diffusione delle grottesche in questo periodo in tutta Italia: basti citare i casi di Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma in territorio senese e di Alessandro Araldi a Parma. Con l’opera di Andrea di Cosimo Feltrini a Firenze la grottesca graffita a monocromo prende possesso delle facciate dei palazzi; mentre alcuni incisori a bulino originari dell’Italia settentrionale (Giovanni Antonio da Brescia, Nicoletto da Modena) divulgano sin dai primi anni del Cinquecento un repertorio di grottesche a stampa che viene presto mutuato dai ceramisti senesi, faentini e umbri.
Raffaello e la sua bottega
Nei primi due decenni del Cinquecento Roma vive una stagione di eccezionale interesse per la valorizzazione e lo studio dell’antichità, soprattutto sotto i pontefici Giulio II della Rovere (1503-1513) e Leone XMedici (1513-1521). Quest’ultimo trova in Raffaello l’interprete ideale del suo progetto di far rivivere una nuova Roma sul modello di quella antica, e crea su misura per lui la carica di sovrintendente alle antichità (1514). Stimolati dalle commissioni prestigiose e dal contatto con l’ambiente colto che gravita attorno al papa, Raffaello e i suoi collaboratori acquisiscono una conoscenza così solida delle fonti letterarie e artistiche della classicità da riuscire a ricreare l’antico senza dover ricorrere a un’imitazione passiva.
Questo nuovo atteggiamento determina la svolta nel modo di dipingere a grottesca, che all’interno dell’atelier di Raffaello matura soprattutto per opera di Giovanni da Udine. Fin dall’inizio della sua collaborazione con il maestro, Giovanni si specializza nell’ambito della decorazione, prediligendo dapprima il filone naturalistico (festoni di fiori e frutta, animali, brani di paesaggio e natura morta), particolarmente congeniale alle sue origini venete. Ma la discesa nella Domus Aurea per Giovanni è una rivelazione. Vasari racconta come "andando Giovanni con Raffaello [...], restarono l’uno e l’altro stupefatti della freschezza, bellezza e bontà di quell’opere, parendo loro gran cosa ch’elle si fussero sì lungo tempo conservate [...]. Queste grottesche (che grottesche furono dette dell’essere state entro alle grotte ritrovate) [...] entrarono di maniera nella mente e nel cuore di Giovanni, che datosi a questo studio, non si contentò d’una sola volta o due disegnarle e ritrarle". Giovanni da Udine intende liberare la grottesca dal ruolo di contorno della narrazione pittorica, per ricreare la suggestione degli ambienti antichi interamente rivestiti di ornamenti liberi e fantastici.
Già la Stufetta (ovvero la stanza da bagno) dell’appartamento del cardinal Bibbiena in Vaticano (1516), pur non presentando grottesche vere e proprie, appare come un ambiente antico ricreato sulla base di fonti letterarie, selezionate dal cardinale committente. I lavori di decorazione dell’appartamento del Bibbiena continuano tre anni dopo con la Loggetta, in cui è evidente la felicità del connubio tra l’architettura della loggia, luminosa e aperta sul giardino, e le grottesche, decoro libero e profano d’ispirazione vegetale.
In questo piccolo ambiente si scoprono molti indizi di un’attenta lettura della Domus Aurea: la volta è ripresa da quella del criptoportico, le lunette delle finestre da quelle della Volta Gialla, sulle pareti compaiono le esili architetture a trompe l’oeil, elemento tipico della pittura imperiale romana.
Alla scelta intelligente e alla riproposizione fedele dei suoi prototipi, Giovanni da Udine aggiunge la propria sensibilità naturalistica, arricchendo la composizione con figurine di animali ritratti con inesauribile fantasia e aderenza al vero.
Impresa ben più impegnativa per Raffaello e i suoi è la decorazione delle Logge Vaticane, ovvero il corpo di fabbrica progettato da Bramante come raccordo funzionale ed estetico tra i vari ambienti della residenza papale, risalenti a epoche differenti e dunque disomogenei.
Alla morte di Bramante, Raffaello prende il suo posto come responsabile dell’architettura e della decorazione. Tra il 1517 e il 1519 cominciano i lavori di decorazione del secondo piano del loggiato, aperto sul giardino e sulla città, luogo ideale di riposo e contemplazione. Il progetto della decorazione delle Logge – come conferma Vasari – si deve a Raffaello, ma l’esecuzione è in gran parte affidata al talento dei pittori della sua bottega: Giulio Romano, Perin del Vaga, Polidoro da Caravaggio, Gianfrancesco Penni, Tommaso Vincidor e naturalmente Giovanni da Udine, cui viene assegnata la parte ornamentale.
Raffaello sceglie di affrescare le volte delle tredici campate con scene bibliche (la cosiddetta "Bibbia di Raffaello"), e di decorare in stucco e a grottesche cornici, sottarchi e pilastri. Nelle lunette e nelle edicole della parete interna, infine, si dipingono con colori smaglianti festoni vegetali e paesaggi fantastici. La decorazione a grottesche, pur limitata allo spazio marginale dei pilastri, non segna una regressione alla tradizione quattrocentesca: Giovanni infatti non si sottomette al modulo della candelabra, ma crea una struttura di steli esilissimi e volute d’acanto, in cui i vari elementi restano sospesi in equilibrio instabile, dando l’impressione di una mutevolezza continua. Lo spazio di creatività di Giovanni si estende anche ai sottarchi, in cui si trovano deliziose scenette d’invenzione o derivate da modelli antichi, lavorate in stucco a bassissimo rilievo, secondo la formula originale di età romana che – stando al Vasari – lo stesso Giovanni da Udine ha da poco riscoperto. Questi stucchi ci sono giunti in buono stato di conservazione, a differenza delle grottescheaffrescate, deteriorate da secoli di esposizione alle intemperie. Fortunatamente la diffusione dei motivi decorativi delle Logge nelle incisioni ci consentono di apprezzare anche i particolari irrimediabilmente cancellati.
Nell’impresa delle Logge, sapientemente coordinata da Raffaello, Giovanni da Udine porta la grottesca rinascimentale alla piena maturità, dimostrando di possedere completamente il modello antico e allo stesso tempo superandolo e rendendolo pienamente moderno. Se da un lato Giovanni adotta lo stile compendiario delle "grotte" e rimane fedele ai modelli iconografici della pittura antica, è autonomo nella scelta di dar vita alle grottesche: dipinge fiori, frutta e animali colti "sull’istante" con una freschezza e un’aderenza al naturale che non sono del prototipo.
Alla morte del maestro nel 1520, Giovanni da Udine e Giulio Romano dirigono i lavori di decorazione di Villa Madama, residenza suburbana che il papa Leone X e suo nipote, il cardinale Giulio de’ Medici, si erano fatti costruire sul monte Mario.
L’intento di Raffaello e dei suoi committenti è quello di ricreare una dimora "all’antica", ideale per i momenti di otium, sulla base delle descrizioni di fonti letterarie latine (Plinio, Vitruvio) e di testimonianze archeologiche (Villa Adriana di Tivoli). Questa coltissima operazione di revival viene però condotta con criteri di funzionalità in linea con le più avanzate soluzioni architettoniche di quegli anni.
Anche a Villa Madama si ripropone l’elemento della loggia come diaframma tra architettura e natura, particolarmente indicato per una residenza di campagna. Fino al 1525 Giovanni da Udine lavora alla decorazione della loggia, per la quale lo stesso cardinale de’ Medici suggerisce un soggetto profano e poco impegnativo. Le pareti e le volte sono coperte da una trama di grottesche e di stucchi elegantissimi; l’accordo cromatico di rosso, blu e bianco rende l’illusione di trovarsi davvero all’interno di uno degli ambienti delle "grotte" romane. Il virtuosismo di Giovanni raggiunge i massimi vertici nei bassissimi rilievi a stucco delle esedre e del vestibolo.
La grottesca dopo la morte di Raffaello
In seguito al sacco di Roma del 1527, artisti come Parmigianino, Rosso Fiorentino e i pittori della cerchia di Raffaello si disperdono, "esportando" in diversi centri italiani ed europei le novità romane, anche in fatto di decorazione. L’opera di Rosso Fiorentino e Primaticcio, chiamati dal re Francesco I di Francia a decorare la Galleria di Ulisse a Fontainebleau (dal 1540), dà l’avvio alla fortuna francese della grottesca, che si estende dalla pittura all’incisione, all’arazzeria e alla ceramica.
In Italia è soprattutto Perin del Vaga, prima a Genova (palazzo Doria, 1528) e poi di nuovo a Roma (dagli anni Trenta fino alla decorazione di Castel Sant’Angelo nel 1545), a garantire diffusione e longevità a un tipo di grottesca agile ed elegante, di facile riproduzione. Nei decenni successivi gli artisti variano sul modello di Perin del Vaga (a sua volta "figlio" del modello raffaellesco), attribuendo spesso significati ermetici e simbolici alle grottesche. È significativo che un artista-antiquario come Pirro Ligorio, parlando della grottesca nel suo trattato enciclopedico di architettura, paragoni la sua funzione a quella del geroglifico. Tra i più originali interpreti della grottesca nell’età del manierismo vanno citati Francesco Salviati, i fratelli Zuccari in palazzo Farnese a Caprarola(1560-1569), GiorgioVasari e il suo collaboratore Marco Marchetti da Faenza in Palazzo Vecchio a Firenze (anni Cinquanta e Sessanta).
Il dibattito teorico sulla grottesca nasce verso la metà del secolo, quando si intensificano gli interventi a favore e a sfavore di questo genere di decorazione, in seguito alle prime censure scaturite dalla Controriforma. Da una parte ci sono posizioni favorevoli di artisti come Francisco de Hollanda (1538), Sebastiano Serlio (1540), Vasari (1550).
Nei loro scritti si ribadisce la dignità della grottesca in quanto imitazione di un genere antico e banco di prova della fantasia e della felicità inventiva degli artisti. Dall’altra vi sono trattatisti come Giovanni Andrea Gilio ed ecclesiastici influenti come il cardinale Gabriele Paleotti che si rifanno all’autorità di testi antichi per condannare la non verosimiglianza della grottesca. Già Orazio nell’ Epistola ai Pisoni, nota come Ars poetica, aveva espresso un giudizio negativo sulle forme ibride nell’arte, e Vitruvio nel De architectura aveva aspramente criticato la "nuova moda" di decorare gli interni con soggetti inverosimili. Gli argomenti del cardinale Paleotti (Discorsointorno le immagini sacre e profane, 1582) sottolineano in aggiunta l’aspetto pagano della grottesca, legato alle tenebre e a riti sconosciuti, la deformità e la licenziosità degli accostamenti di forme ibride e mostruose; ma soprattutto l’oscurità del loro messaggio che mal si concilia con le nuove esigenze di un’arte chiara e didascalica. L’irrigidirsi delle posizioni all’indomani del concilio di Trento determinano la diminuzione e lo scadimento qualitativo della decorazione a grottesche che riprenderà vigore e originalità solo negli ultimi decenni del Settecento, in seguito alla riscoperta della pittura murale di Ercolano e di Pompei.