La Grecia tra Oriente e Occidente: pratiche orientali nella musica greca antica
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nella musica greca antica l’esistenza di influssi orientali (mesopotamici, egiziani, siro-fenici, anatolici) è documentata a livello materiale (strumenti musicali), strutturale (sistemi di accordatura, harmoniai) e stilistico (paradigmi e pratiche), ed è analizzabile considerando sia il profilo ideologico delle rappresentazioni, relativo ai richiami letterari alla musica di tipo orientale, sia i fenomeni di concreto interscambio attestati da analogie significative, pratiche comuni e prestiti linguistici.
La letteratura della Grecia antica è piena di riferimenti alla musica dei non Greci, rappresentata con i medesimi stereotipi con i quali sono definite le stesse civiltà “barbariche”. Le qualificazioni di “effeminato”, “sfrenato” e “lascivo” sono applicate, a partire soprattutto dall’epoca delle guerre persiane, al paradigma musicale dell’Oriente straniero. Tali attributi, piuttosto che descrivere fenomeni e pratiche, manifestano il tentativo di marcare la distanza dal non greco, in risposta alle esigenze di definizione identitaria associabili a una specifica fase storica. Le narrazioni elleniche sulla musica orientale sono dunque condizionate, soprattutto nell’Atene classica, da elementi sovrastrutturali che risentono del difficile rapporto con lo straniero, rendendo oltremodo difficile l’individuazione degli apporti orientali nelle pratiche musicali dei Greci. Ne consegue che solo partendo dal riconoscimento di matrici ideologiche, e delle strategie politico-culturali cui obbediscono, è possibile distinguere e analizzare i dati reali relativi alla presenza di influssi stranieri. E solo l’individuazione di tali influssi può eventualmente contribuire a smascherare strategie di opposizione culturale capaci di stravolgere la realtà dei fatti.
Nelle fonti greche l’esistenza di apporti orientali è affermata sia a livello materiale (strumenti musicali) sia strutturale (generi, harmoniai) sia stilistico (repertori e pratiche), ma la sua veridicità storica non può essere provata soltanto sulla base di ciò che i Greci affermano. Possono aiutare le fonti archeologiche, le cui divergenze con il dato letterario rappresentano, il più delle volte, la spia di strategie di deformazione più o meno consapevoli. Da utilizzare è anche il dato linguistico, che ci informa dell’esistenza dei prestiti alloglotti nel vocabolario musicale dei Greci. Come pure, limitatamente a determinati aspetti, può essere utile il confronto con quella teoria musicale mesopotamica resa fruibile, da non molti decenni, grazie alla pubblicazione di alcuni testi in cuneiforme.
Presso i Greci, la provenienza etnica è uno dei criteri possibili di classificazione degli strumenti. La utilizza il tarantino Aristosseno, il cui elenco di strumenti barbari (ekphyla) comprende il phoinix, la pektis, la magadis, la sambyke, il trigonos, il klepsiambos, lo skindapsos, l’enneachordon, quasi tutti appartenenti alla famiglia delle arpe (dovrebbe fare eccezione solo lo skindapsos, se è corretta l’interpretazione degli studiosi che lo considerano un liuto).
Sulla base della nomenclatura straniera, Strabone conferma la provenienza asiatica di magadis e sambyke, e aggiunge la nablas (un’arpa fenicia), il barbitos (una particolare forma di lira), la cosiddetta kithara asiatica e gli auloi berecinzi o frigi. Posta in questi termini, e considerata nella prospettiva dei Greci, la questione degli apporti orientali nella definizione degli strumenti ellenici si risolve in poche battute, limitata com’è alle arpe e ai liuti, e al più ampliata a particolari tipologie di lira e di aulos. Ma le stesse fonti greche pongono la tematica in una prospettiva più ampia, quando oppongono la lira di Apollo, simbolo del razionale spirito ellenico, all’aulos frigio del satiro Marsia, emblema dell’irrazionalità dionisiaca e orientale. L’avversione nei confronti della musica auletica, maturata nei circoli aristocratici dell’Atene classica, si sostanzia nell’associazione con i Frigi, ritenuti responsabili dell’introduzione in Grecia dell’aulos (non solo delle sue varianti frigia o berecinzia).
Lo stesso termine aulos, come gran parte dei nomi greci di strumenti, sembrerebbe di origine straniera. Andando a esaminare la documentazione archeologica, la questione si complica ulteriormente, evidenziando lo scarto esistente tra dati materiali ed evidenze testuali. L’aulos, aerofono ad ancia provvisto di due canne, è attestato in area egea fin dal III millennio a.C. ed è rappresentato, probabilmente nella variante frigia, sul sarcofago minoico di Hagia Triada (XV sec. a.C. ca.). La sua presenza a Creta in piena età del Bronzo porterebbe a smentire l’origine frigia suggerita dai testi, dal momento che non esistono, a tutt’oggi, tracce documentate di Frigi anteriori al XII secolo a.C., per quanto non si possa escludere, agli albori dell’epoca arcaica (IX-VIII sec. a.C.), un ruolo di intermediazione dei popoli anatolici nella ridiffusione di antichi strumenti egei.
Per quanto riguarda la lira, lo strumento che più di tutti è assurto a simbolo della musica e della cultura greca, ne esistono in Grecia varie tipologie. La più diffusa, e anche la più maneggevole, è la cosiddetta chelys, col risuonatore ricavato da un guscio di tartaruga. Questo tipo di cassa non trova paralleli nelle più antiche civiltà orientali (Mesopotamia, Egitto, Anatolia), il che confermerebbe la caratterizzazione autoctona attribuita allo strumento. Quello che sorprende, invece, è la qualificazione orientale associata al barbitos, strumento in tutto simile alla chelys e ugualmente classificabile tra le lire “a guscio”, contraddistinto solo dalla maggiore lunghezza dei bracci e delle corde (e quindi dalla maggiore gravità del suono), o al più dalle ridotte dimensioni della cassa. L’impressione che se ne ricava è che l’associazione con l’Oriente, piuttosto che indicare la provenienza straniera del cordofono, sia indizio di quel processo di vilificazione che lo strumento subisce nell’ambiente conservatore dell’Atene classica e che si sostanzia nel collegamento con la sfera femminile e la licenziosità del komos.
Delle altre forme di lira, la solenne ed elaborata kithara condivide con le lire asiatiche numerosi dettagli, tra i quali l’uso di metalli e pietre preziose, la probabile presenza di decorazioni zoomorfiche e, soprattutto, la forma quadrangolare della cassa, la cui comparsa in Grecia segna, limitatamente alla elaborazione della forma-lira, la fine della separazione Oriente/Occidente, dovuta alla mancata assimilazione nell’Egeo prearcaico della base “squadrata” tipica delle regioni orientali. Antenata della kithara è infatti la phorminx, che a fronte di significative analogie con le lire mesopotamiche (bracci impreziositi da decorazioni zoomorfiche, sistema di accordatura per lo più eptatonico), presenta il tratto distintivo della cassa a mezzaluna. Non che manchino in Oriente esempi di casse arrotondate.
E tuttavia, laddove l’assimilazione egea di elementi orientali appare quasi ovvia nel contesto della koine mediterranea del II millennio a.C., è il ritardo nell’importazione dei risuonatori quadrangolari il dato da sottolineare, data la capillare diffusione degli stessi nelle regioni medio e vicino-orientali. Tale dato si affianca a quello, non meno significativo, della predilezione per i bracci simmetrici e di uguale lunghezza (laddove nelle regioni orientali predomina, come è noto, il tratto della asimmetria e della diseguaglianza), ed evidenzia i diversi tipi di reazione dell’area egea agli influssi orientali, che non sempre coincidono con l’assimilazione passiva, ma possono estendersi al rifiuto, alla selezione e al riadattamento.
A riprova di ciò si possono citare quei non pochi strumenti, come le arpe (iconograficamente documentate solo a partire dal V-IV secolo a.C., se si escludono le attestazioni cicladiche), i liuti e i timpani, che solo tardi entreranno a far parte dell’apparato organologico dei Greci, pur essendo adoperati da secoli sia in Oriente che in Egitto.
Il loro utilizzo limitato e marginale e la loro tarda importazione confermano la capacità egeo-ellenica di selezionare manufatti sonori e di adattarli a una realtà culturale ed estetica per molti aspetti diversa.
Analogamente alle lire elleniche di epoca classica, gli esemplari minoici di phorminx hanno quasi tutti sette corde. E sette sono le corde di molte lire asiatiche ed egiziane. Tale analogia va al di là del puro dato materiale, perché coinvolge il sistema di accordatura dello strumento, che corrisponde alla disposizione in scala delle altezze sonore utilizzate nella composizione delle melodie. E di un sistema “eptatonico” applicato alla lira parlano spesso le fonti elleniche, associandolo a un personaggio semileggendario di nome Terpandro, originario di Lesbo e vissuto intorno al VII secolo a.C. Il dato letterario, per una volta, coincide con quello materiale degli strumenti.
Questo sistema “terpandreo” è probabilmente diatonico, procede, cioè, per intervalli di tono e semitono, evitando quegli intervalli microtonali (quarti di tono, terzi di tono ecc.) che sono tipici delle sequenze cromatiche ed enarmoniche.
Grazie alla pubblicazione di alcuni testi in cuneiforme, e alle loro successive interpretazioni, da circa una cinquantina d’anni possediamo alcune informazioni, ancora incerte, su di un sistema teorico-musicale utilizzato senza variazioni in Mesopotamia e in Assiria, e probabilmente derivato dai Sumeri. Quasi certamente si tratta di un sistema di scale eptatoniche, a conferma che anche in Mesopotamia, come in Grecia, la formulazione teorica di successioni sonore è direttamente collegata al numero delle corde. Più incerta, anche se prevalente, è la loro interpretazione come scale diatoniche, che renderebbe ancora più cogente il parallelo con la sequenza eptatonica attribuita a Terpandro. Alcuni studiosi ne hanno dedotto, a partire da queste e da altre analogie, la diretta derivazione del sistema teorico elaborato dai trattatisti greci, basato su sette scale diatoniche organizzate secondo uno schema ciclico, dal sistema di scale mesopotamico, grazie anche alla intermediazione della serie eptatonica attribuita a Terpandro. Eppure, proprio l’eptatonia terpandrea è rappresentata dai Greci come tipicamente autoctona, e contrapposta alle più tarde innovazioni (che prevedono l’aumento del numero delle corde) qualificate come estranee allo stile musicale ellenico. È semmai la serie enarmonica, attribuita al frigio Olimpo e associata alla musica per aulos, a essere identificata come straniera (frigia), a conferma che non sempre ci si può fidare delle qualificazioni etniche attribuite dai Greci, e che queste, il più delle volte, sono dettate da motivazioni extramusicali.
Qualificate con termini etnici sono anche le cosiddette harmoniai, strutture cardine della prassi musicale greca che ugualmente hanno a che fare con i sistemi di accordatura. L’originario referente di harmonia, che nel lessico della musica definisce uno specifico schema di suoni e intervalli caratterizzato da un determinato carattere etico (e, forse, da un certo andamento ritmico), è individuabile, infatti, nel gesto pragmatico di accordatura dello strumento (da harmozo, unire insieme, accordare). Le qualificazioni etniche richiamano le caratteristiche peculiari di ciascuna harmonia, e rimandano, perlopiù, alle diverse regioni della Grecia (harmonia dorica, ionica o iastia, eolica), ma anche ai territori dell’Anatolia non greca (harmoniai frigia e lidia, nelle tre varianti mixolidia, sintonolidia e lidia “rilassata”). Da cosa si origini l’associazione con i popoli stranieri, ovvero quali caratteristiche specifiche siano identificative delle sonorità frigie e lidie, non è dato sapere. È possibile, tuttavia, verificare l’esistenza di significative analogie: nell’immaginario ellenico, la musica del popolo frigio è sistematicamente associata alla dimensione religiosa (soprattutto a quella dei riti orgiastici), mentre la Lidia è musicalmente collegata alle sonorità tipiche del simposio orientalizzante. E molli e adatte ai simposi sono definite in Platone le harmoniai ionica e lidia rilassata, mentre l’harmonia frigia o è associata al rituale orgiastico – Aristotele – o è considerata imitativa di uomini pacifici e dediti alla preghiera (Platone). Alla definizione etica di ciascuna harmonia non è quindi estranea la rappresentazione stereotipa delle singole compagini etniche, e la qualificazione negativa attribuita alle harmoniai iastia e lidia, che non si riscontra nelle fonti più antiche – Pindaro – ma solo in quelle successive alle guerre persiane, coincide col diffondersi di un atteggiamento ostile nei confronti dei costumi ionico-lidi, introdotti in Atene soprattutto con la costituzione della Lega delio-attica (478 a.C.).
Un’ulteriore indicazione dell’influenza negativa che, a parere dei Greci, la musica orientale avrebbe esercitato su quella ellenica viene dall’associazione, più volte sottolineata nelle fonti, tra “nuova musica” e Oriente. Con l’espressione “nuova musica” si è soliti indicare quel complesso di innovazioni, introdotto nella prassi musicale greca a partire dalla metà del V secolo a.C., caratterizzato soprattutto da una maggiore ricerca del virtuosismo vocale e strumentale, da un insistito e accentuato mimetismo e da un’estrema varietà di forme, modi e ritmi. Il suo legame con l’Oriente è più volte stigmatizzato dal commediografo Aristofane, noto difensore della semplicità e del rigore della musica tradizionale (cfr. Uccelli, 1372-1409; Rane, 1301-1322; Le donne alle Tesmoforie, 101-172).
Difficile stabilire quanto queste “accuse” di orientalismo corrispondano alla realtà dei fatti; forse non sarà un caso che due dei più noti esponenti della nuova corrente siano di origine greco-orientale – Timoteo è originario di Mileto, mentre Frinide proviene da Mitilene. Ma al di là della sua fondatezza, l’ironica denuncia dell’ispirazione orientalizzante richiama l’aristocratica avversione ai simposi ionico-lidi, e, in generale, quell’opposizione all’orientale tryphe che vede coinvolti numerosi intellettuali dell’Atene tardo-classica. E l’associazione degli esponenti del “nuovo stile” con alcuni poeti della tradizione arcaica edonistica e orientalizzante – come Anacreonte di Teo, additato quale modello comune dei due innovatori Agatone e Cinesia – può forse significare che da parte dei “nuovi musicisti” la scelta dei modelli da imitare si configura come alternativa a quella dei tradizionalisti, i quali, com’è noto, propongono il paradigma austero dei poeti dorici.
Ecco che, ancora una volta, l’associazione tra musica greca e Oriente si colora di sfumature ideologiche, collegate alla contrapposizione tra diverse concezioni dell’arte e della musica. La conseguenza è l’utilizzo strumentale del paradigma orientale, il cui apporto è ora minimizzato, in obbedienza a strategie di marginalizzazione dell’elemento straniero, ora, al contrario, accentuato o del tutto inventato, allo scopo di svalutare elementi e pratiche musicali che non corrispondono al paradigma prevalente.