Quello che è accaduto a partire dalla seconda metà del 2015 ha alterato in modo inatteso e sorprendente l’immagine della Germania. Ma non soltanto l’immagine. Dal settembre 2015 i tedeschi si concentrano sul loro problema dei migranti/rifugiati, che investe pesantemente la responsabilità del governo, specificatamente della cancelliera Angela Merkel. Per lei è la prova più difficile. Ma la stampa tedesca è scettica. I giornali conservatori sono puntigliosamente ostili. Zeit on line parla apertamente dell’inizio della fine della cancelliera. Ma Angela Merkel insiste con straordinaria determinazione nella sua posizione, sfidando implicitamente lo scetticismo dei suoi stessi ministri più importanti.
The Economist prende le sue parti definendola senz’altro The indispensable European.
In effetti la posta in gioco non riguarda soltanto un serio problema interno ma i suoi contraccolpi sull’intera Europa. Il gesto di aprire le frontiere ai rifugiati dalla Siria, provocando la disperata corsa di centinaia di migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini, voleva essere un esempio e un implicito invito agli europei a mutare atteggiamento verso il fenomeno della migrazione in generale. La Germania merkeliana, che si considera ‘nazione di riferimento’, non vuole esserlo soltanto con il rigore nelle questioni economiche e monetarie, ma anche sul piano umanitario e dei diritti umani. Anzi, più esattamente, ritiene di avere una visione globale preveggente e realistica circa il futuro del Vecchio Continente. La Germania, se è egemone, deve essere tale non soltanto a livello economico-finanziario ma anche in quello etico-civile. Deve agire come ‘potenza civile’, anche se non è più di moda usare questo termine.
Ma la risposta degli europei è (stata) fredda e confusa. Ostili le nazioni del centro Europa, elusive le altre. La cancelliera, colta di sorpresa, ha dovuto correre ad Ankara a chiedere aiuto ad Erdogan, un personaggio politico tutt’altro che esemplare per quanto concerne il rispetto dei diritti civili e umani. E ora il presidente turco, dopo un grande successo elettorale personale, si trova in mano uno strumento di ricatto per ridiscutere l’entrata della Turchia nell’Eu.
La questione dei profughi rischia di far saltare il precario equilibrio che ha consentito all’Eu di sopravvivere faticosamente durante le varie fasi della crisi economico-finanziaria degli scorsi anni, che non è affatto passata.
Che ne è allora della tanto discussa ‘egemonia’ tedesca che si sarebbe affermata proprio nel corso della crisi? E’ stato ancora l’Economist (nel 2013) a coniare la fortunata formula della ‘Germania, egemone riluttante’ che ha segnato un salto di qualità interpretativa. Infatti mentre censurava le resistenze tedesche ad assumersi responsabilità più esplicite di guida, ne supponeva implicitamente la possibilità e la capacità di farlo. Non a caso pubblicisti e politologi tedeschi avevano colto l’occasione per invitare la loro classe politica a passare dalla ‘riluttanza’ alla ‘responsabilità’ egemonica. ‘Noi egemoni’ - scriveva con orgoglio un noto politologo sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung poche settimane prima dei due episodi che lo avrebbero contraddetto: il dramma dei migranti e lo scandalo/ truffa della Volkswagen che avrebbe inferto un colpo gravissimo al prestigio internazionale della industria automobilistica tedesca, con una caduta di immagine dalle conseguenze incalcolabili.
In realtà il concetto di ‘egemonia riluttante’ va articolato meglio. Si riferisce alla potenza geo-economica della Germania che diventa condizionamento oggettivo per gli altri membri della eurozona sulla base di regole sottoscritte, ritenute non più trattabili. Una egemonia determinata da una situazione di fatto che esonera, per così dire, il governo tedesco dall’assumere esplicitamente la responsabilità di una leadership più assertiva, più attiva, eventualmente anche più solidale. Questo atteggiamento ‘riluttante’ non nasce da deficit di cultura economica (come alcuni amano pensare) bensì dalla non-volontà di affrontare rischi politici di grande portata.
Un esempio significativo - in un contesto diverso - è offerto dalla mediazione della crisi russo-ucraina. E’ noto con quanto impegno la Germania si sia spesa per una composizione del conflitto all’interno del ‘Formato Normandia’. I risultati ottenuti negli accordi di Minsk sono considerati positivi. Infatti riducono, pur senza azzerare, le violenze sui due fronti nel Donbass e hanno ottenuto accordi economici ed energetici a vantaggio di tutti i partecipanti. Ma non è stato raggiunto alcun risultato sui nodi politici originari della questione: l’annessione della Crimea alla Russia è di fatto irreversibile, la qualità della autonomia delle regioni ribelli/secessioniste è incerta, la contrarietà russa all’entrata dell’Ucraina nella Nato è ferma. Sono mantenute le sanzioni contro la Russia, ma non sono affatto una risposta ‘forte’ al comportamento di Putin che non a caso contestualmente assicura ai tedeschi la continuità dei rifornimenti energetici di cui hanno assolutamente bisogno.
La Germania, che nella sua azione mediatrice ha contato sul suo prestigio di potenza economica, mostra qui il suo limite politico invalicabile. Si trova spiazzata dall’ attivismo putiniano che, congelata la crisi russo-ucraina, ha aperto un fronte militare anti-Is in Siria alzando i termini del confronto con l’Occidente. La Germania, potenza geo-economica che voleva essere la grande mediatrice, pur schierandosi con la linea occidentale, mantiene un profilo basso. Si sente politicamente vulnerabile.