La formula di Heer dell’era costantiniana (1949-1953)
Il cristianesimo in mezzo al tempo e all’eternità
Nella primavera del 1953 lo storico delle idee austriaco Friedrich Heer pubblica la propria terza opera maggiore, la Europäische Geistesgeschichte, un corposo saggio che ha l’intento di studiare la storia intellettuale del vecchio continente. Pur essendo un medievista di formazione però, Heer alle prime pagine di questo volume delimita cronologicamente la propria ricerca fra il Tardoantico e il secondo dopoguerra, o per usare i suoi precisi termini, «tra Costantino e Hitler»1. Sebbene questo richieda un considerevole ampliamento d’orizzonte, la categoria storiografica dell’era costantiniana entra in questo modo a far parte del suo lessico e si rende necessaria alla sua analisi per un motivo intrinseco. Sarà pertanto anzitutto necessario qui esaminare le grandi opere di saggistica – e successivamente anche un piccolo volume – precedenti il 1953, per comprendere perché Heer vada così al di là dei limiti cronologici della propria disciplina, facendo cominciare la sua storia con la nascita del cristianesimo, anzi, appunto proprio da Costantino.
Aufgang Europas – opera prima di Heer, se si escludono la tesi di dottorato (Reich und Gottesreich. Eine Studie zur politischen Religiosität des 12. Jahrhunderts del 1938) e un piccolo libretto di pubblicistica (Die Stunde der Christen del 1949) – ha per obiettivo di mostrare che il volto dell’Europa non può essere compreso, nelle sue dinamiche più intime, senza la conoscenza e lo studio del momento in cui essa sorse. Per lo storico delle idee, il punto d’avvio per comprendere l’Europa del presente (è sempre l’Europa contemporanea l’oggetto del suo interesse) è da individuare nei secoli XI e XII, quando l’irrompere di una pluralità di movimenti religiosi, intellettuali, politici ed economici ha messo in crisi il principio d’unione fra il terreno e l’ultraterreno che aveva costituito il nodo più intimo del Sacrum imperium2.
Il richiamo a Costantino è presente nel testo, sebbene indiretto: eppure già in tal modo se ne evidenzia tutta l’ambiguità. L’imperatore viene evocato infatti da un lato per il valore – ancor più che simbolico: magico e sacramentale – che assume il suo nome accanto a quelli di Davide e di Augusto, nell’esaltazione di Carlo Magno. L’imperatore ‘sacro’ incorpora nella propria grande costruzione politica quei pilastri della storia e anzi li rappresenta3, saldando così intimamente non soltanto storia sacra e storia profana, ma nondimeno già quest’ultima con l’escatologia cristiana. Dall’altro lato Costantino è anche – e già per Bernardo di Chiaravalle – l’anti-ideale di una Chiesa che ha perso di vista l’esempio di povertà dato da Gesù e dagli apostoli: Pietro non viene rappresentato adorno di seta, di pietre preziose, nell’incedere su un palafreno bianco, con sette servitori e una lunga corte al seguito; «in questo il papa è nella successione non di Pietro, ma dell’imperatore romano Costantino»4.
Aufgang Europas mette però a fuoco non tanto la figura di Costantino, quanto piuttosto quella di Carlo Magno. L’imperatore vi viene definito «patriarca dello Stato totalitario europeo» per le ripercussioni che avrebbe avuto sino al XX secolo (qui però in modo «brutalmente aperto») ad esempio nella repressione e nella persecuzione politica del dissenso e dell’incredulità, cioè «di tutti coloro che non vogliono mettersi al servizio religioso-politico dell’unica potenza». Negli anni a lui più vicini il pubblicista cattolico e antinazista rivede l’alleanza fra religione e Stato nel suo segno più tragico, in tutti quei movimenti cristiani che hanno potuto trovare la propria identità sotto le insegne di quell’altra croce, quella nazionalsocialista, in un connubio che «sembrò essersi persino realizzato negli Stati totalitari ‘cristiani’»5. Obiettivo della critica di Heer era quel Totalstaat e la sua genealogia più lontana, individuata nel Sacro romano impero: non è possibile entusiasmarsi per quest’ultimo e nel contempo biasimare la politica del Reich prussiano.
Questo volume, definito una «genealogia del totalitarismo»6, individua – come s’è anticipato – nel XII secolo una serie di istituzioni che rivendicano la propria autonomia dinanzi a quell’«esperimento carolingio». Il contesto nuovamente pluralistico che si era venuto così formando metteva radicalmente in discussione il nodo più centrale della trama intessuta da Carlo Magno: quello riguardante il controllo teologico-politico e il suo titolare. Riforma religiosa, spiritualismo, razionalismo, scolastica e università, borghesia comunale e nuova aristocrazia, cultura popolare, poesia ed epica in lingue volgari, erano stati tutti movimenti dello spirito (ossia ‘intellettuali’) che, provenendo dal basso, proprio nel XII secolo «ergono – di contro al Sacro Impero – i propri diritti»7. Heer, come alla conclusione di una parabola, sancisce dunque la fine di quell’ideale illusorio: «Non vi sono più ‘imperi sacri’. Da questa certezza i protagonisti della libertà europea traggono coraggio e fiducia in tutte le battaglie passate contro ogni dittatura di uno Stato totalitario. Una lezione del passato, una speranza per il futuro»8.
Solo tre anni più tardi, nel 1952, di Heer viene pubblicata la seconda opera maggiore: Die Tragödie des Heiligen Reiches9. In realtà, come il precedente, così anche questo ulteriore scritto in due tomi trae origine dagli studi compiuti immediatamente prima della Seconda guerra mondiale, quando Heer è divenuto membro ordinario dell’Institut für Österreichische Geschichtsforschung di Vienna; è per indicazione stessa del loro autore che le due opere vanno comprese come un tutto unitario10. Anche quest’opera ha in effetti lo scopo di studiare quello strato sociologico fondamentale che – fra la fondazione del Sacro romano impero e il tentativo di restaurazione degli Staufer – ha dato volto all’Europa, proprio per essere quei movimenti di riforma «in rapporto e in contrapposizione» con l’ideale imperiale. Anche qui Heer ribadisce quanto sia impossibile, senza capire questo snodo del Medioevo, comprendere il destino odierno dell’Europa e della Germania, proprio nell’essere l’una e l’altra testimoni di grandi fallimenti e di tragedie. Del resto, ammonisce lo studioso viennese, «questa dura verità si rifiuta, oggi come ieri, di dare ascolto alla vanità di coloro che mirano alla giustificazione del loro punto di vista»11.
Die Tragödie descrive il Sacro romano impero della casata degli Staufer appunto come un tentativo violento (non per questo meno votato al fallimento) di restaurazione contro quelle forze di rinnovamento che si erano originate dallo sgretolamento dell’impero carolingio. Heer analizza questo tentativo fin nei suoi più intimi meccanismi teologico-politici: la ricostituzione di un ideale di impero sacro avrebbe necessitato la conservazione dell’antica concezione della città di Dio, così come il ristabilimento dell’antica unione fra terreno e ultraterreno, e quindi della necessaria simbiosi che appunto ne sarebbe conseguita, fra il teologico e il politico.
Anche in questo volume, dunque, il nome di Costantino non entra direttamente nella trattazione. Esso è ancora una volta al massimo mostrato nel suo potenziale simbolico; ancora una volta ambivalente, ora ideale (il nome di Costantino figura tra gli epiteti imperiali in genere, e, in particolare, in merito al ripristino della pace), ora anti-ideale bizantino, come nei carmina dell’Arcipoeta operante alla corte vescovile di Rainaldo di Dassel, così parafrasato: «Cristo e Augusto (quest’ultimo visto nel Medioevo come simbolo di Cristo) unisce Federico nella sua persona. I malvagi re del ‘mondo’, il tiranno di Sicilia e il Costantino di Bisanzio devono cedergli il passo, rendergli onore»12. L’impresa della casata di Svevia era tuttavia destinata a fallire, non da ultimo sotto la spinta di nuove realtà politiche protonazionali, di fronte alla «coalizione del papato rinnovato con la borghesia, la spiritualità, l’umanità e il regno a occidente e al meridione». Se prima della Riforma gregoriana non esisteva nessuna opposizione di principio fra mondano e spirituale, ora, con la scissione delle due grandi sfere della vita, doveva entrare in crisi anche il modello della religiosità politica altomedievale13.
Ciò che ne scaturiva era la storia di una borghesia delle città, di movimenti economici, politici e spirituali di un’età nuova, non caratterizzata dalla restaurazione di un unico principio imperiale apportatore di salvezza, ma da una nuova società, animata da un grande pluralismo intellettuale: l’Umanesimo europeo14. Quest’opera di Friedrich Heer dunque, tanto quanto la precedente Aufgang Europas, va considerata tenendone presente il contesto. Entrambe rappresentano il tentativo di uno storico credente di dare risposta alla grande tragedia del suo tempo, della quale egli stesso, al di là dei resoconti talora aneddotici, è stato testimone: «Questo lavoro è stato scritto cum ira et studio: nella tribolazione di un’età che mette a disposizione di colui che lavora con intelletto libero e creativo rappresaglie e terrori d’ogni tipo»15.
Prima di dare alle stampe la sua terza ampia opera di storia intellettuale, Friedrich Heer ne anticipava qualche significativa idea nell’estate del 1951, durante le Hochschulwochen di Salisburgo dedicate al tema Il cristiano nella storia16. Alla presenza del proprio maestro Alois Dempf, e al tempo stesso in discussione con lui, Heer cercava di dare il proprio punto di vista, en catholique, sulla recente storia d’Europa. Ancora una volta il metodo è, nel contributo e nel libretto che se ne origina, assieme storiografico e teologico nel suo rifiuto di credere alla favola di una Europa cattolica che sarebbe stata in seguito decristianizzata con l’Umanesimo, l’Illuminismo, la Rivoluzione francese: un favola non bella, in quanto tratteggia a fosche tinte la modernità; non vera, per tutti gli elementi di continuità nella cultura fra il Medioevo e i secoli più recenti; una favola neppure devota, infine, nel negare anche alla storia più recente e ai segni più moderni il carattere di veicolo della Rivelazione17. Il rapporto fra cristianesimo e storia viene, al contrario, descritto come «un processo di entrata nel mondo e nei suoi ordini, e di uscita verso Cristo stesso, verso di lui nuovamente, davanti a lui, in mezzo al tempo e all’eternità»; era questa la chiave per respingere le semplificazioni sulla secolarizzazione dell’Europa, e per negare recisamente le tesi spengleriane di un «tramonto dell’Occidente»18.
La relazione tra cristianesimo e mondo viene qui descritta secondo il complesso modello di una (almeno) doppia dialettica: i due soggetti reagiscono e influiscono l’uno sull’altro tanto in una sfera alta, quella del potere, della rappresentazione, della cultura esteriore e dei fenomeni sociali, quanto in una sfera bassa, o meglio interiore: nella dimensione dell’anima. Inoltre, c’è un rapporto di influenza tra l’alto e il basso in entrambe le direzioni19. I mille anni di cristianità del sottotitolo sono quelli fra il IX e il XIX secolo, un’epoca in cui si lasciano scorgere i fondamenti dell’unità e dell’omogeneità del millennio europeo in strutture sociologiche (la famiglia nobile cristiana), economiche (il latifondo e la città borghese) e intellettuali (i monasteri, le scuole cattedrali, le università). Una volta di più Heer mostra dunque la centralità della figura di Carlo Magno, ma ora apre allo studio dell’epoca precedente: «la problematica dell’impero carolingio non si comprende senza la grande, prefigurativa eredità del Tardaontico e di Bisanzio»20.
Se a emblema della cultura del Tardoantico viene portato Agostino, per Bisanzio campeggia la figura di Costantino: qui aveva le proprie radici più profonde il nodo teologico-politico che avrebbe dato forma al millennio cristiano. Eusebio è descritto come il precursore e il capostipite di una genealogia di teologi di corte che, fino alla glorificazione del Re Sole fatta da Jacques Bénigne Bossuet, «non si stancheranno di documentare la legittimità per diritto divino dei loro sovrani»21. Così, dall’intronizzazione di Dio operata da Massimo di Tiro, Heer giunge all’immagine di Augusto come prototipo di Cristo, a quella della sua pax augusta come pace messianica. L’eco di Erik Peterson è qui molto chiaro; esso è però evidente soprattutto nella denuncia del movimento di trasmissione o di proiezione sulla figura del sovrano della devozione divina. In nome dell’imperatore celeste ora l’imperatore terreno esige per sé questo servizio politico-religioso obbligatorio:
Il monoteismo dunque come teologia politica del Regno di Dio – la politicizzazione della teologia fin nei suoi ultimi concetti e contenuti, e la sacralizzazione della politica –, questa è l’eredità di Costantino, e non solo per la significativa relazione con la cosiddetta donazione costantiniana. Comprendiamo così che la figura di Costantino sia diventata nel millennio successivo la grande cartina di tornasole dello spirito22.
Va peraltro osservato che Heer fa decisamente di Costantino il capofila di questa teologia politica medievale: «anzitutto le parti storiche di questo trattato [scil. Il monoteismo come problema politico] servirono allora da auspicato fondamento ad altre ricerche sul rovesciamento del periodo costantiniano, e vengono anche oggi spesso citate in studi promossi a tale riguardo»23. Per inciso, lo stesso Jacques Maritain ben conosceva Peterson e il suo saggio sul monoteismo (fin dal 1935); tuttavia, non era tanto nei termini della fine dell’era costantiniana, quanto sotto la parola chiave della necessità di un ideale storico-concreto di una nouvelle chrétienté, che il filosofo neotomista faceva passare la propria ferma e severa opposizione alla teologia del sacrum imperium24.
Contro siffatto ideale si era però combattuto fin dal basso Medioevo durante la lotta per le investiture, vi si sarebbero opposti i settatori del XII secolo, e successivamente i francescani spirituali e i fraticelli. Nella parte alta della dialettica di Heer, la conversione in blocchi, cosiddetta cristianizzazione dell’Europa, forzata e superficiale, lasciava dietro di sé masse di donne e uomini dimenticati nei loro bisogni, e ai quali la Chiesa era sempre apparsa come un’ideologia dei ceti dominanti, come l’espressione delle loro posizioni assicurate, in cielo, e anche nel mondo25. A mutare le dinamiche di questa dialettica superiore, nella ricostruzione dello storico viennese, è stato il Vangelo in lingua volgare: proprio l’uso del latino aveva infatti fino ad allora rappresentato un argine strutturale che aveva impedito alla parola di Dio di raggiungere gli strati più profondi della coscienza, di penetrare fino al centro dell’anima26.
Il primo, il maggiore degli interpreti di questa spinta dal basso è, a giudizio di Heer, Francesco d’Assisi: sarebbe stato lui a rendere possibile un incontro con Cristo nella vita di tutti i giorni, salvando così assieme l’Europa e la Chiesa. La scolastica avrebbe, tuttavia, successivamente rappresentato il maggiore e più caratteristico fenomeno dello spirito europeo, con l’affermazione della teologia come scienza negli Studia universitari; ma un ruolo importante, nonostante la separazione fra teologia colta e pietà popolare, ebbero anche Meister Eckhart e Nicola Cusano che, tra i primi, s’impegnò ad argomentare l’inautenticità della donazione di Costantino.
Tutti i grandi temi della storia intellettuale europea traggono le loro radici dalle dispute accademiche delle università; lo stesso fenomeno della secolarizzazione – anzi, particolarmente questo – deve essere compreso come sviluppo interno del cristianesimo, e a partire non dalla Riforma, dalla Rivoluzione francese o dall’Ottocento, ma proprio dalla Scolastica. Tale movimento chiama in causa quattro fattori: la disgregazione del monachesimo; la formazione di una curia romana burocratica e l’impossibilità di riformarla già al concilio di Basilea; lo sviluppo di Chiese nazionali, a partire dal XII secolo, non dalla Riforma; e infine le guerre di religione, nelle quali per la prima volta si era infranto il sentimento condiviso di un Dio padre. Ciò portava intrinsecamente anche allo scacco della «teologia costantiniana del Regno, fatta di un Dio-Re e un Imperatore»27:
che cos’è mai questo Re, che cos’è mai questa fede? e poiché l’esperienza di Dio padre è colpita in profondità: che Padre è mai questo, che figli sono mai questi, che fratelli sono mai questi – questi uomini che si chiamano tutti ‘cristiani’ e che nel nome di Cristo si ammazzano, bruciano città, devastano il paese, distruggono le chiese, uccidono donne e bambini?28
Un ulteriore tentativo di recuperare assieme la perduta unità celeste e di conserva quella terrena sarebbe stato quello di Luigi XIV, monarca celebrato dal proprio teologo di corte come Dio in terra, che tentò la restaurazione di un monoteismo politico-religioso, cui alla monarchia celeste corrispondeva, sulla terra, un re sole. La revoca dell’editto di Nantes, l’espulsione o lo sterminio degli ugonotti francesi ne era la coerente conseguenza29. Tuttavia, secondo Heer, «l’arco di Costantino veniva così evidentemente teso oltremisura»: la conseguenza ne sarebbe stato l’Illuminismo.
Quando Heer viene a trattare dell’enciclica di Gregorio XVI Mirari vos (1832), che aveva inteso giustificare la repressione politica nello Stato della Chiesa, alla figura dell’imperatore Costantino succede nuovamente quella di Carlo Magno. Si rivedono in questa congiuntura per un’ultima volta riuniti tutti i temi del mondo antico, e in conclusione ancora il riferimento esplicito alla consacrazione dell’anno 800, l’affermazione cioè dell’alleanza del papato con i prìncipi cattolici: «Nella conclusione di questo documento spaventoso del ‘grande ordine’ dei secoli VIII-XVIII segue la confessione solenne del patto stabile con i principi, facendo con ragione appello all’incoronazione di Carlo Magno»30.
Con l’osservazione della storia recente, dei pontefici della prima metà del Novecento, tuttavia, giunge netta la diagnosi di Heer: «La missione di Carlo Magno è finita; Cristo stesso riprende su di sé l’opera di conversione»31. Così nelle conclusioni del saggio, egli, pur negando che si possa parlare in senso proprio di un’Europa cristiana, ne mostra tre figure emblematiche in marcia verso l’avvenire, Francesco d’Assisi, Ignazio di Loyola e Teresa di Lisieux, pronte a condurre il cristianesimo «in mezzo al tempo e all’eternità»32.
L’imperatore Costantino, tuttavia, assume appieno il ruolo di figura chiave al principio di un’epoca, di un’era, solo nella Europäische Geistesgeschichte, terza opera maggiore di Heer. Fin dalla premessa si fa riferimento al Tardoantico, identificando nel 313 il punto stesso d’inizio della storia intellettuale europea, e con una formula perentoria: «L’‘Europa’ sarà qui intesa in senso stretto, come Europa occidentale post-greca, tra Costantino e Hitler»33.
Quest’opera, che intende dare corpo a una ricerca fra passato e presente, e fra vecchia e nuova Geistesgeschichte, è finalizzata a tracciare alcune linee di forza, a fissare alcuni punti determinanti per il destino dell’Europa. Uno degli assi di fondo dell’argomentazione di Heer è quello già anticipato da qualche mese con Das Experiment Europa: il complesso rapporto fra il piano mondano e il cristianesimo in una (almeno) doppia dialettica fra ‘alto’ e ‘basso’.
Il volume si apre con le «Paure dell’inizio», con la descrizione di una società nella quale non esisteva ancora alcuna precisa separazione fra cristiani e pagani, così come non vi era distinzione fra ‘pre’-cristiano e ‘post’-cristiano. Se nel suo significato più intimo la parola ‘tradizione’ designa la trasmissione, la consegna di una rivelazione segreta all’interno della comunità cultuale, Paolo – l’apostolo dei Gentili – aveva nelle proprie lettere agli Efesini e ai Colossesi traslato sulla liturgia cristiana il linguaggio degli antichi misteri, contribuendo in tal modo alla somiglianza dei gesti, dei rituali, degli usi e anche degli abusi34.
Nelle definizioni di Cristo come vero Orfeo, vero Logos, nelle similitudini con Odisseo/Ulisse, con Socrate e Platone, non si dava del cristianesimo alcuna unicità, alcuna peculiarità (Einzigartigkeit). Del resto non vi era ancora nessun nuovo popolo di Dio dinanzi a una divinità che veniva ornata dei nomi sacri e dei simboli cultuali, dei colori del potere (anche in questo caso il riferimento di Heer era a Peterson) e degli abiti stessi dell’imperatore ellenistico. Ancor più che dalle persecuzioni, il rischio per i cristiani proveniva dunque dalla possibilità di venire «divorati, riassorbiti» – e proprio per familiarità, per connaturalità – nel mondo pagano, tra i tanti culti esistenti nel Tardoantico35.
L’esperienza traumatica della possibilità di scomparire nell’ecumene greco-romana, per lo storico viennese, avrebbe avuto effetti di lunghissimo corso, anzitutto portando all’espulsione dal grembo della Chiesa delle proprie stesse divisioni (1 Cor 11,19), ‘eresie’ che trovavano il proprio brodo di coltura nell’entusiasmo popolare, nella gnosi dotta, nella filosofia a di scuola ellenistica. Nell’esclusione di vecchie e nuove deviazioni, si veniva generando l’auto-comprensione della stessa Grande Chiesa: un processo attraverso il quale tanti cristianesimi sarebbero maturati in un unico «complesso dialettico» Chiesa-eresia, che sarebbe durato secoli36.
Nel mondo della formazione tardoantica (heidnisch-christlichen Bildungswelt) non si lasciano comodamente distinguere le versioni cristiane e quelle non cristiane, o addirittura anticristiane, di platonismo, stoicismo, gnosticismo soprattutto, concezioni che avrebbero potuto condurre alla netta subordinazione della seconda persona della Trinità e alla svalutazione della seconda natura – in definitiva del ruolo di Gesú nella storia37. Heer definisce questa fase come una «unione precostantiniana, preteodosiana degli intellettuali cristiani con i loro fratelli pagani», entrata drammaticamente in crisi con l’irrompere della religione in politica – o meglio, di converso – della politica nella religione, «dal momento che il loro spirito non era ancora stato stregato dal godimento e dalle promesse della potenza»38.
Sullo sfondo di queste grandi correnti spirituali e intellettuali del Tardoantico, soprattutto origenismo e arianesimo – intesi come tentativi di dare una veste teologica al Vangelo, analogamente alla filosofia ellenistica, che aveva saputo integrare nelle divinità pagane la teologia cristiana39 – si stagliano anche gli atti politico-religiosi di Costantino. La sua iniziativa appare, in sintesi, come il tentativo di puntellare un Impero traballante con una dottrina giuridico-teologica in grado di subordinare a sé tutte le religioni presenti nella società romana: «Già Costantino pensa, nell’editto di tolleranza di Milano del 313, di riunire tutte le confessioni, quindi pagani, ebrei e cristiani, alla summa divinitas, alla divinità suprema, che siede sul trono del cielo (in sede caelesti)»40.
Proprio per questo motivo Heer non esita a definire logicamente errata la questione riguardante la sincerità della conversione di Costantino: l’iniziativa politica del 313, l’editto di tolleranza, era finalizzato a ricomprendere le divinità romane e il nuovo Dio, Cristo, tutti all’interno di un’unica sfera politico-religiosa, così come la teologia ellenistica aveva saputo integrare anche la teologia cristiana nella cosmologia pagana. Il primo esempio portato qui è quello del labarum, il monogramma cristologico (poi costantiniano): per l’imperatore fu possibile adottare il nuovo simbolo perché qualcosa di molto simile veniva applicato ad Apollo fin dal 310. Queste operazioni erano assolutamente comuni nella società tardoantica: «Questo procedimento è incomprensibile solo per i posteri, che non sanno più nulla della funzione degli antichi dei nella comunità politica degli uomini, per la loro salvezza, salute, pace e sicurezza, procurate dal potere della presenza, e per i quali si è così disciolto d’altra parte anche il Cristo in una ‘idea’»41.
Era del pari istituzionalmente necessario che l’imperatore avesse un posto da vescovo in concilio: per garantire a tutti i suoi sudditi salvezza, pace e diritto; e d’altra parte non pareva a Heer un semplice caso d’opportunismo quello per cui Ossio di Cordova, consigliere di Costantino al concilio di Nicea, dopo avere a lungo resistito all’arianesimo, aveva firmato una confessione di fede arianizzante sotto Costanzo II. È però Eusebio di Cesarea il vero «patriarca dei teologi politici»: la sua concezione monoteistica, incentrata su un dio, un imperatore, una terra, una fede (statale, politico-religiosa), secondo la quale «il Dio unico troneggia come il Gran Re nella sua dimora reale, nel suo palazzo celeste. Sulla terra lo rappresenta Costantino»42, mostrava un’ascendenza origeniana e ariana, del tutto greca, spinta fino alla celebrazione dell’imperatore come nuovo Mosè e Augusto43.
L’esito assolutamente formidabile fu che il potere politico si trovò da allora più profondamente radicato nel contesto della teologia ellenistica che nel monoteismo ebraico: «La formula sconvolgente: un dio – un imperatore – una terra – una fede (statale, politico-religiosa) si radica ancor più che nel monoteismo giudaico nella realtà politica e nel mondo spirituale dell’ecumene greco-ellenistica»44. Appare significativo, in questo senso, che Eusebio, seppur forzato a firmare la professione di fede antiariana di Nicea, abbia comunque omesso di menzionare nella propria Storia ecclesiastica il più grande evento dell’epoca, la condanna di Ario. La subordinazione di Cristo al Padre era tale da permettere di vedere il riflesso terreno del monoteismo nella monarchia, e nell’imperatore addirittura un ‘nuovo Cristo’.
Viceversa, la salvaguardia dell’assoluta peculiarità del Figlio di Dio nella storia di fronte alla concezione del Logos ariano – donde i conflitti di papa Liberio, di Lucifero di Cagliari, di Eusebio di Vercelli, di Ambrogio di Milano e di Ilario di Poitiers per la libertà della Chiesa, per la difesa della Trinità e delle due nature – sono per Heer il momento fondativo della Chiesa, e la dialettica che avrebbe dischiuso all’Occidente europeo il proprio futuro, separandolo dall’Oriente bizantino45.
L’arianesimo politico, tuttavia, con le sue campagne militari nell’area della Pannonia e dell’Illirico andava contemporaneamente prendendo piede lungo il corso del Danubio, da Vienna a Belgrado a Sofia, dando luogo al peculiare caso slavo e già germanico, cesarista e bizantinista, e che porterà infine allo scisma del 1054. Lucifero di Cagliari, con la sua intransigenza tutta derivata da una predicazione popolare in volgare latino, è per questo, per Heer, già un eroe della lotta in difesa del mistero della Trinità e delle due nature, contro il subordinazionismo di Ario e di Eusebio. Altrettanto indicativa è l’attenzione verso la storia mostrata da Ilario di Poitiers: «Per l’Oriente il Cristo storico non ha alcun valore probante, per l’Occidente esso diviene il fatto storico a prova dell’esistenza di Dio»46.
Nell’analisi di Heer questa dialettica tra Oriente e Occidente non risulta dirompente anzitutto per l’esistenza di quella dialettica fra ‘alto’ e ‘basso’ cui abbiamo già accennato:
Autorità e tradizione devono per più di un millennio tenere unite in una sorta di sutura le ferite aperte. Non sarebbe loro riuscito, se non vi fosse stato un grande mondo intermedio fra Atene e Gerusalemme, Bisanzio e Roma, formazione antica e cultura popolare, realtà pagana e realtà cristiana, ortodossia ed eresia, e persino islam e cristianesimo, un continente fra l’Oriente e l’Occidente, e il Mediterraneo47.
Era il mondo intermedio dei chiostri, che irromperà, qui come nelle opere precedenti, attraverso la riforma gregoriana; è su questo punto di snodo, nella secolarizzazione dell’antico dominio temporale, che «si fonda in definitiva il duale europeo» che pone l’uno di fronte all’altra Stato e Chiesa, così come il materiale e lo spirituale, creando un «campo di tensione» nel quale la rivendicazione della libertas ecclesiae sarà per il basso Medioevo modello per le libertà della nuova Europa. Libertà, tuttavia, che non cesseranno di essere anche costantemente minacciate, e fino ai giorni in cui Heer scrive. Ancora nel suo tempo, ancora nel secondo dopoguerra, egli vede i tentativi di ergere, ora su un fondamento ‘cattolico’, un nuovo nazionalismo, organizzato teologico-politicamente come dottrina e potere di salvezza. Ancora nel 1950, «con l’appello a Costantino, Carlo Magno, Donoso Cortés ecc. si proclama qui il dogma politico-religioso: una fede, un popolo, un Führer, una cultura, una sciabola»48.
Nelle opere di Heer successive alla Europäische Geistesgeschichte, l’occorrenza del nome di Costantino si trova nuovamente: spesso è assieme a Carlo Magno, esemplare nei tentativi ricorrenti di unificare l’Europa con una Chiesa imperiale e uno stile di sovranità ‘sacra’49, in un regime non esente da caratteristiche repressive, e anche per questo deprecato dalle minoranze eterodosse e da coloro che non hanno cessato di auspicare fedeltà al Vangelo e riforma della Chiesa50. In Gottes erste Liebe, il volume del 1967 sul rapporto bimillenario fra ebraismo e cristianesimo, lo storico ricorda ancora il ruolo chiave di Eusebio che «ha destituito il popolo ebraico dalla storia della salvezza. Con questo, il Regno di Dio è fra di noi nel presente, incarnato nell’imperatore in cielo e dall’imperatore in terra»51.
Non è tanto nelle ricorrenze di un nome, tuttavia, quanto nella coerenza di un discorso che si deve vedere l’occorrenza più importante. Costantino, nei testi di Heer, è con Eusebio (e Ario) l’iniziatore di un modello che darà forma al Medioevo. Subordinando il Figlio al Padre e facendo coincidere senza indugio la storia (imperiale) con la storia della salvezza era possibile dissolvere il potenziale critico dell’escatologia cristiana e fare di una religione messianica un docile strumento di governo.
Sebbene questo modello politico-teologico del Tardoantico, rivitalizzato nel Medioevo con Carlo Magno, fosse fallito, tramontato infine nel Duecento all’irrompere del pluralismo dei Comuni e dei saperi, esso si era tuttavia ripresentato sempre nuovamente, e da ultimo nel Novecento in tutta la sua brutalità totalitaria. Senza l’individuazione e lo studio di quel modello costantiniano e carolingio era l’Europa del presente (scriveva nei primi anni Cinquanta) a non poter essere compresa nelle sue dinamiche più intime e fondamentali. Il segno più evidente e più bruciante della tragedia dell’ideale costantiniano stava proprio nella facilità con cui quei totalitarismi avevano potuto associare a sé anche la croce cristiana.
Quest’aberrazione è stata possibile, nell’analisi dello storico viennese, a patto di separare, come aveva fatto la Geistesgeschichte della scuola di Dilthey, il ‘puro spirituale’ dal mondano. Il concetto stesso di Spirito aveva dunque finito per essere ‘confiscato’ al patrimonio della lingua tedesca e ricondotto integralmente sul piano tecnico-ufficiale – ma non per questo meno burocratico – delle discussioni confessionali, e il suo potenziale critico messo al sicuro da connessioni con la realtà terrena. In questo modello, la Chiesa si limitava, e si condannava al tempo stesso, a rappresentare una contemplazione devota dei misteri sul piano trascendente, tanto ieratica e disincarnata da lasciare dialetticamente spazio aperto alla negoziazione, sul piano dell’immanenza, con i poteri terreni, per la conservazione di vecchi privilegi o l’acquisto di nuovi, segni sì del suo trionfo, ma tutto mondano. Ciò conduceva, quindi, in seconda istanza, alla totale riduzione dello Spirito all’immanente, alla sua completa secolarizzazione. Adeguandosi a logiche mondane, il dualismo caratteristico del cristianesimo veniva così dissolto.
Per lo storico viennese, era invece la storia stessa a mostrare – attraverso i suoi maggiori movimenti intellettuali e i loro grandi protagonisti – la collaborazione fra genio e santità, l’intervento sul piano dell’intellettualità umana (pur nella disparità dei due piani e una volta fatti i necessari discernimenti) dello Spirito di Dio. Come egli ha scritto, la storia spirituale deve tornare a consistere nella «ricerca e la descrizione della cooperazione fra Spirito e spirito, fra la dimensione spirituale e quella dello spirito umano, immanente nel mondo»52. In questa prospettiva, pertanto, risulta impossibile isolare al di fuori della storia materiale quel radicalmente altrui che è lo Spirito, ma neppure è possibile, per la stessa ragione, presumere di identificare in un panegirico una storia ‘mondana’ con la storia della salvezza:
Lo spirito dell’Europa nel XX secolo (che comincia nel 1945) sarà tanto più significativo, per l’Europa e per l’unico mondo, quanto più i suoi rappresentanti saranno disposti a dare, a sacrificare, a servire, dopo essere stati disposti a ricevere – dall’‘alto’ e dal ‘basso’, dal passato, dal presente e dal futuro che è nell’aria e che proviene dallo Spirito, che soffia dove vuole.
Lo storico delle idee viennese, cattolico credente ma attento ai documenti, alieno alle controversie confessionali e senza preoccupazioni apologetiche, nel denunciare quel modello ideale come obsoleto e totalitario ha dunque dato alla sua scrittura un carattere non solo descrittivo, ma anche performativo, nell’ingiunzione della fine dell’era costantiniana. Nonostante il suo segno tragico novecentesco, Heer è stato, da intellettuale e da testimone, decisamente nella storia, e onestamente e criticamente all’interno dei suoi movimenti più materiali e concreti. Del resto, se la storia è il luogo della Rivelazione, fare storia onestamente e criticamente è già fare autentica teologia.
1 F. Heer, Europäische Geistesgeschichte, Stuttgart 1953, p. 6; la Premessa porta la data del 22 aprile. Heer (Vienna, 1916-1983) aveva allora già all’attivo, tuttavia, oltre alla tesi di dottorato Reich und Gottesreich. Eine Studie zur politischen Religiosität des 12. Jahrhunderts, Diss. Wien 1938 e al volumetto Die Stunde der Christen, Wien 1947, le monografie Aufgang Europas. Eine Studie zu den Zusammenhang zwischen politischer Religiosität, Frömmigkeitsstil und dem Werden Europas im 12. Jahrhundert, 2 voll., Wien-Zürich 1949; Gespräch der Feinde, Wien-Zürich 1949; Das Experiment Europa. Tausend Jahre Christenheit. Mit einem Vorwort von Werner Kaegi, Einsiedeln 1952; Die Tragödie des Heiligen Reiches, 2 voll., Stuttgart 1952-1953 e (sotto lo pseudonimo di Hermann Gohde) il romanzo Der achte Tag. Roman einer Weltstunde, Innsbruck-Wien 1950. Sulla biografia di Heer si veda E. Adunka, Friedrich Heer (1916-1983). Eine intellektuelle Biographie, Innsbruck-Wien 1995; sull’opera, anzitutto A. Gaisbauer, Friedrich Heer (1916-1983). Eine Bibliographie, Wien-Köln 1990 (edizione ampliata, Wien 2003), poi i più recenti W.F. Müller, Die Vision des Christlichen bei Friedrich Heer, Innsbruck-Wien 2002; Offener Humanismus zwischen den Fronten des Kalten Krieges, hrsg. von R. Faber, Würzburg 2005 e Die geistige Welt des Friedrich Heer, hrsg. von R. Faber, S.P. Scheichl, Wien-Köln-Weimar 2008.
2 F. Heer, Aufgang Europas, cit., p. 9.
3 Ivi, p. 95.
4 Ivi, p. 194; la citazione è da Bernard., consid. 4,3,6 (PL 182, c. 776A).
5 F. Heer, Aufgang Europas, cit., pp. 658 segg.
6 Cfr. E. Adunka, Friedrich Heer, cit., p. 426; il concetto era già stato utilizzato – ma in funzione polemica, come ‘psicosi da dopoguerra’ contro Heer e Heinrich Fichtenau – da T. Mayer, Das Hochmittelalter in neuer Schau, in Historische Zeitschrift 171 (1951), pp. 449-472. Fichtenau aveva pubblicato nello stesso 1949 il volume Das karolingische Imperium. Su questo aspetto della ricezione dell’opera di Heer si veda W.E.J. Weber, «Großartig» – «gänzlich entbehrlich». Friedrich Heer und die deutsche Geschichtswissenschaft, in Der geistige Welt, cit., pp. 215-233.
7 F. Heer, Aufgang Europas, cit., p. 657.
8 Ivi, p. 660.
9 F. Heer, Die Tragödie des Heiligen Reiches, Stuttgart 1952.
10 Ivi, p. 5: «Die durch die Zeitverhältnisse erzwungene Vierteilung dieser erstmals 1938, dann 1948 vorliegenden Studie, ihre Zerlegung in zwei Text- und zwei Kommentarbände (“Aufgang Europas” 1949, “Die Tragödie des Hl. Reiches” 1952), die Kürzung des nunmehr Vorgelegten um gut ein Drittel seines ursprünglichen Umfanges haben ihr Gesicht so sehr verändert, daß hier ein Wort gesagt werden muß über die Grundkonzeption dieser Studie».
11 Ivi, p. 6.
12 Ivi, p. 80.
13 Ivi, pp. 266 segg.
14 Ivi, p. 361.
15 F. Heer, Aufgang Europas, cit., p. 7.
16 F. Heer, Das Experiment Europa. Tausend Jahre Christenheit, Einsiedeln 1952 (con una prefazione di Werner Kaegi); cfr. A. Gaisbauer, Friedrich Heer, cit., pp. 53 e 55.
17 F. Heer, Das Experiment Europa, cit., p. 12: «Diese Legende ist letzten Endes nicht gottesfürchtig, weil sie schamhaft-schamlos so tut, als ob uns Gott in all den neueren Jahrhunderten verlassen hätte – und weil sich diese Mär nicht anstrengt, zu suchen und zu sehen, wie Gott sich in diesen Zeiten in alten und neuen Zeichen gegenwärtig erzeigt».
18 Ivi, p. 13.
19 Ivi, pp. 14 segg.
20 Ivi, p. 22.
21 Ivi, p. 23.
22 Ivi, p. 25; il riferimento è ovviamente al classico di E. Peterson, Der Monotheismus als politisches Problem. Ein Beitrag zur Geschichte der politischen Theologie im Imperium Romanum, Leipzig 1935 (München 19512).
23 B. Nichtweiß, Erik Peterson. Neue Sicht auf Leben und Werk, Freiburg-Basel-Wien 1994, p. 738 nota 141.
24 Cfr. J. Maritain, Humanisme intégral. Problèmes temporels et spirituels d’une nouvelle chrétienté, Paris 1936, p. 110: «De là, si l’on se place, pour spéculer, à un point de vue pratique et concret, sans tenir compte de la distinction des objets formels, on viendra très aisément à dire que les réalités politiques sont elles-mêmes de l’ordre divin et sacré. Tel est le sens que le théoriciens allemands contemporains du ‘Sacrum imperium’ donnent au mot politische Theologie. Ils se réfèrent ainsi à l’idée messianique et évangélique du Royaume de Dieu dont ils veulent trouver une réalisation dans le temps et dans l’histoire».
25 F. Heer, Das Experiment Europa, cit., p. 34.
26 Ivi, p. 35.
27 Ivi, p. 53.
28 Ivi, pp. 54-55.
29 Ivi, p. 65.
30 Ivi, p. 72.
31 Ivi, p. 74.
32 Ivi, p. 78.
33 F. Heer, Europäische Geistesgeschichte, cit., p. 6; per inciso, una delle opere che Heer maggiormente utilizza e cita a riguardo della storia protocristiana e tardoantica è la traduzione tedesca del primo volume della Storia del cristianesimo di E. Buonaiuti, Geschichte des Christentums, 2 voll., Bern 1948. Il secondo volume verrà pubblicato solo posteriormente, sempre grazie alla traduzione di Hans Markun, nel 1957.
34 F. Heer, Europäische Geistesgeschichte, cit., p. 10; lo studio di riferimento su questo aspetto era quello di O. Casel, Zur Kultsprache des heiligen Paulus, in Archiv für Liturgiewissenschaft, 1 (1950), pp. 1-64.
35 F. Heer, Europäische Geistesgeschichte, cit., pp. 10 segg.
36 Ivi, p. 12: «Sie [scil. die Christen] vermochten dergestalt nicht zu erkennen, wie ‘Kirche’ und ‘Häresien’ zusammengehören, wie der geheimnisvolle, vom Geist überschattete Wachstumsprozeß der Christenheit zu ihrem Selbstverständnis und ihrer Selbstbehauptung als ‘Kirche’ gebunden ist an das Entlassen von Häresien aus ihrem eigenen Schoße»; ma già più sopra: «‘Europa’: das sind zunächst Heere und geschlossene politische Gebilde und Organisationen; der ‘Osten’: das ist ein Sich-Begegnen, Zusammenströmen, Verschmelzen und Wiedertrennen religiöser Bewegungen, philosophische Ideen, politischer Erfahrungen und volkhafter Bedingtheiten vieler ‘Völker’, ‘Nationen’ und ‘Reiche’, aus denen sich im Prozeß des 2. bis 5. Jhdt. die Christentümer durchringen zu jenem Komplex, der als ‘Kirche’ und ‘Häresien’ das geistige Geschehen bis zum heutigen Tage bestimmen wird» (p. 9).
37 Ivi, p. 16.
38 Ivi, pp. 17 segg., in corsivo nel testo.
39 Ivi, pp. 19 segg., il corsivo è nel testo; Heer rimandava qui a H. Berkhof, Kirche und Kaiser. Eine Untersuchung der Entstehung der byzantinischen und der theokratischen Staatsauffassung im vierten Jahrundert, Zürich 1947 (p. 200: «Origenismus und Arianismus sind zum guten Teile als Versuche zu verstehen, dem Evangelium eine theologische Form zu geben») e a M. Werner, Die Entstehung des christlichen Dogmas problemgeschichtlich dargestellt, Bern-Leipzig 1941, pp. 271 segg. e 371 segg.
40 F. Heer, Europäische Geistesgeschichte, cit., p. 19; si confronti anche il passaggio immediatamente precedente: «Origenes und Arius versuchen den griechischen Geist, die Intelligentsia des hellenistischen Ostens mit dem Christentum zu versöhnen […]. Der Arianismus kann sich auf die Politik der Kaiser nach Konstantin stützen: das schwankende Reich braucht einen Einheitsglauben, der so weit Philosophie, allgemein gültige Geistlehre ist, daß er grundsätzlich von allen Konfessionen angenommen werden kann».
41 Heer – nel citare la propria recensione a W. Seston, La vision païenne de 310 et les origines du chrisme constantinien, in Annuaire de l’institut de philologie et d’histoire orientales et slaves, 4 (1936) (= Mélanges Fr. Cumont, Bruxelles 1936), pp. 373-395, pubblicata in Archiv für Liturgiewissenschaft 1 (1950), p. 311 – innestava qui una riflessione schiettamente storico-religiosa sul labarum: cfr. F. Heer, Europäische Geistesgeschichte, cit., p. 20.
42 Heer leggeva così, in questo seguendo (e citando) Erik Peterson, l’eusebiano Trìakontaétérikos, 1,1-6. Cfr. ora Eusèbe de Césarée, La théologie politique de l’Empire chrétien. Louanges de Constantin (Triakontaétérikos). Introduction, traduction originale et notes par Pierre Maraval, Paris 2001; Maraval, pur concedendo a J.-M. Sansterre che la tesi di un Eusebio ‘bizantinista’ «semble devoir être abandonnée» (p. 62), tuttavia conclude «qu’avec cet ouvrage et la Vie de Constantin il en a posé le fondements», e che la teologia politica di Eusebio avrebbe avuto «une longue postérité dans tout l’Occident chrétien» (pp. 65 segg.)
43 F. Heer, Europäische Geistesgeschichte, cit., p. 21; il riferimento era qui nuovamente a E. Peterson, Der Monotheismus als politische Problem, cit.
44 Ibidem.
45 Ibidem.
46 Ivi, p. 23, in corsivo nel testo.
47 Ivi, p. 30.
48 Ivi, p. 657. L’allusione era anzitutto rivolta all’allora recente volume di C. Schmitt, Donoso Cortés in gesamteuropäischer Interpretation. Vier Aufsätze, Köln 1950.
49 F. Heer, Die dritte Kraft. Der europäische Humanismus zwischen den Fronten des konfessionellen Zeitalters, Frankfurt a.M. 1959, p. 437.
50 F. Heer, Mittelalter, Zürich, 1961, p. 346.
51 F. Heer, Gottes erste Liebe. 2000 Jahre Judentum und Christentum. Genesis des österreichischen Katholiken Adolf Hitler, München-Esslingen 1967, p. 77.
52 F. Heer, Europäische Geistesgeschichte, cit., p. 5.