Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lo Stato moderno è la nuova forma di organizzazione politica interna e internazionale che caratterizza il sistema dei rapporti in Europa tra il XV e il XVII secolo. La sua origine è nella crisi degli ordinamenti medievali e nel distacco della sovranità da vecchie basi popolari e territoriali. La fase intermedia è costituita dalla progressiva centralizzazione del potere nel XVI secolo; la fase matura inizia con l’età dell’assolutismo nella seconda metà del XVII secolo.
Quasi tutti gli Stati europei, nel corso del XVI secolo, dai più piccoli Stati regionali italiani ai più grandi come l’Impero spagnolo che si estende oltre l’oceano, mostrano caratteri simili: una tendenziale concentrazione del potere; la divisione tra la titolarità (sovrano) e l’esercizio del potere (amministrazione); la tendenza all’unificazione del territorio e la delimitazione dei suoi confini; la protezione del territorio all’interno e all’esterno da parte del sovrano; una unificazione legislativa, giudiziaria, fiscale. Il principio fondamentale che distingue lo Stato moderno dalle forme politiche medievali è l’unicità della funzione sovrana: essa deve conquistarsi piena autonomia, deve essere indivisa, deve poter contare su una sua forza e su una base di legittimità indipendente. Appare evidente che questo principio ha costituito una posta in gioco, un obiettivo di non facile realizzazione, che configura lo Stato moderno non come un sistema definito una volta per tutte, ma come un faticoso e, in alcuni casi, sanguinoso e violento processo, come succede in tutte le fasi di passaggio da vecchi a nuovi equilibri politici. Le variabili sono molteplici e proprio la qualità e il grado diverso della loro combinazione a ragione hanno fatto parlare di vie differenti allo Stato moderno. Le principali variabili sono rappresentate dal rapporto tra l’organizzazione politica e la società; dalla guerra e dalle relazioni internazionali; dai conflitti e dalle contese politico-religiose; dalla minore o maggiore omogeneità etnica e geografica del territorio.
Altri sono, invece, i fattori che qualificano il tasso di “modernità” di uno Stato e insieme indicano le vie differenti allo Stato moderno nell’Europa del Cinquecento: il principio della legittimazione dinastica, il sistema di governo del territorio, l’equilibrio costituzionale tra monarchia centralizzata e Parlamento, la capacità della monarchia di trasformare i ceti privilegiati da potenze antagoniste della sovranità a poteri a essa sottomessi e cointeressati alle sue sorti.
Luigi XI di Francia, Enrico VII ed Enrico VIII d’Inghilterra, i Re cattolici di Spagna sono i grandi sovrani che hanno un ruolo di primo piano nell’affermazione dello Stato moderno. La forza della dinastia è un potentissimo fattore di legittimazione del potere.
L’unità morale sia degli Stati nazionali come la Francia e l’Inghilterra, sia di realtà politiche sovranazionali come l’Impero spagnolo di Carlo V e di Filippo II, risiede proprio nella sovranità monarchica e nel ruolo carismatico dei re. La controprova sta nel fatto che, dove sono assenti o deboli il potere sovrano e la dinastia, è debole lo Stato moderno. Per esempio in Danimarca manca il diritto costante di successione; qui il modello imperante è quello della monarchia feudale elettiva, il cui centro di potere è costituito dalla Dieta dei nobili e del clero e solo nel 1665 si stabilisce la monarchia ereditaria. Un ulteriore esempio si ha in Polonia, dove lo Stato moderno è opera della dinastia degli Jagelloni. Esaurita questa dinastia nel 1572, con la monarchia elettiva e la ripresa di potere dell’aristocrazia il centro statale si indebolisce.
Per quanto riguarda il sistema di governo del territorio, una delle caratteristiche dello Stato moderno è la distinzione tra il titolare del potere, il sovrano, e colui che lo esercita, il funzionario. Certo anche questa distinzione, nel corso del XVI secolo, è ancora lontana dall’apparire nettamente definita. Il potere regale ha ancora alcune caratteristiche feudali: il re è il capo di una gerarchia di vassalli, conserva l’idea di un legame personale e contrattuale con i sudditi. Nell’idea di contratto c’è il rapporto bilaterale per cui il suddito garantisce obbedienza e fedeltà al suo re in cambio del riconoscimento di privilegi, consuetudini, sistemi di rappresentanze autonome (parlamenti, assemblee di Stati ecc.). Così anche il funzionario, colui che esercita il potere, non è ancora il burocrate dei nostri giorni: il rapporto di ufficio non è di natura impersonale; non esistono ufficiali a tempo pieno; c’è confusione tra le competenze dei diversi uffici; i “servitori del re” sono ancora legati da un vincolo personale con il sovrano e non sono assunti attraverso regolari concorsi pubblici. I confini tra pubblico e privato sono piuttosto confusi.
Tuttavia, pur con questi limiti, alcuni Stati, come la Francia e la Spagna in particolare, nel corso del Cinquecento riescono a creare un sistema di governo del territorio fondato su una relativa specializzazione delle funzioni, sulla creazione di un corpo scelto di funzionari e di consiglieri del re. Nel modello di Stato inglese, assai particolare nell’Europa del Cinquecento, il sistema politico si fonda su un delicato equilibrio tra le esigenze della monarchia centralizzata e una vasta confederazione di interessi. La struttura e le funzioni del Parlamento inglese si differenziano dagli istituti simili presenti in altri Paesi europei. Due Camere, quella dei Lords, ereditaria, e quella dei Comuni, elettiva, rappresentano componenti diverse della società inglese: la prima, la grande nobiltà; la seconda, la piccola nobiltà terriera (gentry), ceti non nobili e coltivatori diretti (yeomen). La funzione legislativa è riconosciuta al Parlamento. Il riferimento dei parlamentari è a una legge comune (Common Law), un corpo di regole giuridiche basato su un antico fondo consuetudinario e indipendente dallo stesso sovrano. Altra particolarità del sistema politico inglese è l’autogoverno delle contee, affidato a titolo gratuito agli sceriffi nobili e ai giudici di pace, quasi sempre non nobili ma legati agli interessi locali del territorio. Così, in assenza di un diritto amministrativo codificato, il governo della periferia è affidato all’equilibrio dei poteri fra le diverse componenti sociali del Paese.
Se nel Medioevo la nobiltà è una potenza semisovrana, spesso antagonista della monarchia, il processo di formazione dello Stato moderno è caratterizzato dalla variabile capacità dei sovrani di imporsi come unica fonte del potere politico, di farsi riconoscere come tale, di acquisire progressivamente il monopolio della forza legittima, attraverso una rivoluzione di nobiltà e aristocrazia a poteri egemoni dell’economia e della società. Questa capacità variabile può essere verificata nelle due vie opposte della Francia e della Polonia. In Francia a metà del XVII secolo avviene una più compiuta centralizzazione del potere monarchico come conseguenza dei conflitti politico-religiosi, della dialettica tra nobiltà e monarchia che vede l’affermazione dei gruppi legati alla macchina amministrativa dello Stato fedele alla corona. In Polonia, invece, la monarchia elettiva insieme alla prerogativa nobiliare del liberum veto che in qualsiasi momento può opporsi alle decisioni del sovrano, danno vita a uno Stato debole, destinato continuamente a cadere nell’anarchia e nella frantumazione territoriale. Tra la via francese e la via polacca si sviluppano le diverse direzioni dello Stato moderno in Europa.
Si possono ora comprendere anche quali siano i fattori di arretratezza che frenano lo sviluppo dello Stato moderno nel corso del Cinquecento: l’assenza di legittimazione dinastica e la conservazione della potenza semisovrana della nobiltà.
Il Cinquecento ha conosciuto altri due modelli di Stato: l’autocrazia e il dispotismo. Il primo è rappresentato dalla centralizzazione statale russa, il secondo dall’Impero ottomano. Si tratta di modelli, cioè di approssimazioni alla realtà storica che spesso non rendono la sua complessità.
Ivan III (1440-1505, sovrano dal 1464), l’artefice dell’unità della Russia, liberata dai mongoli della dinastia dell’Orda d’oro, riesce a sottomettere i boiari, i principi autonomi appartenenti alla nobiltà russa dominatori di un territorio enorme. Due gli strumenti: l’unificazione religiosa (cristianesimo ortodosso) e una concezione del potere che nega l’esistenza di leggi al di sopra del sovrano. Ma la potenza dell’aristocrazia continua a esprimersi attraverso il suo organismo rappresentativo, la Duma. Così Ivan IV il Terribile (1530-1584, sovrano dal 1547), per contrastare e ridimensionare la potenza dei boiari, forma una forza militare autonoma attraverso la creazione di una nobiltà di servizio a cui concede in diritto ereditario la terra espropriata all’antica nobiltà.
Il XVI secolo rappresenta, inoltre, il secolo del maggiore sviluppo e in seguito della crisi della potenza ottomana. A metà Cinquecento, con Solimano I (1495-1566, sovrano dal 1495), l’Impero ottomano è il più potente impero del mondo: le sue linee espansive investono i Balcani, l’Europa orientale, l’Africa settentrionale, l’intero Mediterraneo. Tutta la struttura imperiale funziona in ragione dell’espansione territoriale, che viene bloccata a Lepanto (1571) dalla Lega Santa. Lo Stato turco è caratterizzato dalla forma dispotica, cioè dall’assenza di vincoli giuridici e di qualsiasi legame di natura contrattuale con i sudditi, dal potere della corona di vita o di morte su di essi; dalle fonti di ricchezza del Paese considerate possedimenti personali del sultano e dalla conseguente assenza della proprietà privata della terra; dall’apparato statale reclutato tra gli schiavi di origine cristiana; da una carente unificazione del territorio e dall’assenza di centralizzazione legislativa, giudiziaria, fiscale.