Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La distruzione degli ebrei d’Europa ha generato riflessioni sulla rappresentabilità dell’orrore, che hanno preso corpo in interdizioni, affermazioni, imbarazzi, afasie. Alcuni artisti sono stati capaci di cogliere l’essenza di questa catastrofe fin dalla prima ora, prima dei tempi d’enfasi inaugurati dagli anni Novanta, attraversando questo tema con sensibilità e sapienza poetica. Anche l’architettura si è confrontata con il tema della memoria della Shoah, in particolare nella realizzazione di memoriali e contenitori museali: il caso di Berlino è emblematico, dallo Jüdisches Museum di Daniel Libeskind al recente Denkmal für die ermordeten Juden Europas di Peter Eisenman.
L’irrapresentabile
“Dopo Auschwitz” è divenuta l’espressione per rendere la dimensione postcatastrofica in molti campi del pensiero e della creazione: nel 1945 la rivelazione dell’ottimizzazione industriale dello sterminio in Auschwitz unita alla riproducibilità della distruzione atomica di Hiroshima, bomba atomica e Nagasaki segnano una cesura, una catastrofe, nel senso etimologico del termine.
In ambito estetico, la distruzione degli ebrei d’Europa ha riproposto in modo traslato e terribile la questione della rappresentazione di qualcosa di difficilmente descrivibile: l’affermazione di Adorno sull’essenza barbarica della poesia dopo Auschwitz è stata letta come una nuova interdizione mosaica, come se l’oggetto partecipasse dell’indicibilità, prerogativa del divino. Ma l’esigenza di dare rappresentazione per esprimere dolore e per mantenere memoria dell’evento ha prevalso. Lo stesso Adorno corregge successivamente il proprio pensiero affermando che “il dolore incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò è forse falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia”.
L’eco delle prime parole di Adorno è rimasto tuttavia più forte della sua meditata deroga: il desiderio di assolutezza dell’interdizione sembra creare una sorta di tabù, che non permette di sollevare giudizi estetici a causa del solco sacro tracciato attorno al tema e insieme vede il proliferare di tentativi di rappresentazione. Per questo motivo, molti esiti inefficaci e inadeguati vengono protetti da uno statuto di “arte della memoria”, diffusa soprattutto dalla fine degli anni Ottanta.
Fra le molte rappresentazioni della Shoah ve ne sono solo alcune che sono state capaci di cogliere l’essenza di questa catastrofe, realizzate da artisti che hanno attraversato questo tema con sensibilità e sapienza poetica: figure sia della generazione che ha vissuto l’evento, come Joseph Beuys e Fabio Mauri, che di quella nata nel dopoguerra carico di silenzi e urgenze di futuro, come Anselm Kiefer e Christian Boltanski.
Joseph Beuys – artista il cui gesto è sempre intriso di elementi simbolici, mistici, politici – realizza già nel 1956 Auschwitz Vitrine (1956-1964): una teca da museo naturale allestita con fotografie di linee ferroviarie, immagini di baracche di legno – quelle di Birkenau –, schizzi di corpi femminili emaciati, blocchi di sego, un fornello elettrico, cumuli di materiali organici come capelli/fili d’erba e salsicce; un crocifisso senza croce adagiato su un piatto. Spoliazione di ogni cosa fino alla speranza, l’identità, la dignità, fino alla riduzione a mero materiale organico da sfruttare economicamente o smaltire come scoria: questo è ciò che viene raccolto nella teca, in una condizione fra la reliquia e l’oggetto di un esperimento scientifico. Ohne Titel (Plan des Konzentrationslager Birkenau), del 1963, è una stampa della pianta di Auschwitz II – Birkenau, che mostra la sua articolazione in blocchi, le file ordinate di baracche, le rotaie che tagliano il campo. Con tempera bruna Beuys ha tracciato croci, che in altre opere della stessa serie (1941-1963) vengono sottolineate dall’espressione doppelt gekreuzt, “doppiamente crocifisso”. Con precisione poetica l’artista documenta la perfezione organizzativa della struttura di Auschwitz, elemento finale di un processo di ottimizzazione dello sterminio, realizzato dapprima con metodi “artigianali” come le fucilazioni e le fosse comuni, poi “migliorato” e accelerato nell’ala del sistema concentrazionario a esso preposta, ovvero nei Vernichtungslager, i campi di sterminio. Auschwitz è una città industriale pianificata nei minimi dettagli, fatta di moduli urbani estensibili all’infinito. Una città industriale che produce annientamento. Beuys non toccherà mai più esplicitamente il tema della Shoah, intimamente legato a quello della “questione della colpa” tedesca, che invece lo coinvolge direttamente, essendo egli stato pilota della Luftwaffe durante la guerra.
Nel 1971 Fabio Mauri realizza la performance Ebrea nella Galleria Barozzi di Venezia. L’artista allestisce una sorta di salotto, con una poltrona, alcune suppellettili, oggetti quotidiani come pattini a rotelle. In questo ambiente entra una donna che si spoglia fino a rimanere nuda, poi si taglia i capelli e attacca le ciocche su uno specchio, componendo una stella di Davide. L’atmosfera rassicurante del contesto si incrina definitivamente, fino a rivelare l’orrore contenuto in tutti quegli oggetti esposti: ognuno è accompagnato da una targhetta che ne indica il materiale di composizione, ovvero la pelle, i capelli, i denti di una persona specifica, di cui si riportano nome, cognome e città di nascita. “In Ebrea l’operazione è fredda. E indelicatamente culturale – scrive Mauri –. Ricompio con pazienza, con le mie mani, l’esperienza del turpe. Ne esploro le possibilità mentali”. L’autore si comporta come se la realtà storica avesse avuto un altro finale, e insieme porta a riflettere sulle possibilità disumane messe in atto dall’uomo stesso. Nel 1993 Mauri ripropone Ebrea alla XLV Biennale di Venezia, in quell’occasione accompagnata dall’installazione Muro Occidentale o del Pianto, ovvero un muro di valigie vecchie, residui di spostamenti, fughe, transiti, esili. Mauri evoca così sia il muro occidentale del Tempio di Gerusalemme, sia il muro del mondo occidentale innalzato a Berlino, sia il cumulo di valigie di Auschwitz: sempre chi è costretto a espatriare porta con sé un bagaglio di “identità incenerite”. Il muro di Mauri è costruito con le provenienze dissimili degli esiliati, dei transfughi, dei migranti. Eppure si regge nella sua complessità.
L’artista francese Christian Boltanski appartiene invece alla generazione dei figli, di coloro che hanno vissuto la guerra e la Shoah nei racconti dei genitori. Alla fine degli anni Ottanta, in occasione della mostra Lessons of Darkness presso il Museum of Contemporary Art di Chicago, viene tracciata da critici americani la prima connessione esplicita fra la sua opera e lo sterminio ebraico. Ma l’oggetto del lavoro artistico di Boltanski è un senso di perdita più generale, profondo e diffuso: la fine dell’esistenza, certo, ma anche la progressiva scomparsa di parti di sé, quelle che ci si lascia alle spalle crescendo e trasformandosi. La Shoah è presente nei suoi lavori come la perdita più immensa del Novecento occidentale e come evento che ha colpito la sua famiglia, ma c’è il desiderio di andare oltre, toccare corde più profonde. Nei suoi lavori le fotografie sgranate e sfuocate di volti, gli abiti usati, gli effetti personali, si accumulano in “reliquiari” che evocano individui scomparsi: sono meditazioni sulla finitudine dell’esistenza.
Anche Anselm Kiefer appartiene a questa generazione e, come tedesco, ha fatto della questione dell’identità l’oggetto del proprio lavoro artistico. Nei suoi acquerelli, libri d’artista e immense tele materiche, Kiefer si cala nei panni di un tedesco medio della generazione precedente; vede e mostra le occupazioni di terre, le imprese militari, i miti nazisti. Per recuperare l’identità perduta sceglie di attraversare i miti fondanti della Germania, dalla vittoria di Arminio nella selva di Teutoburgo alle saghe wagneriane, dalla filosofia di Heidegger alle architetture di Speer: questo suo sollevare il velo di silenzio ha reso a lungo “imbarazzante” il suo lavoro agli occhi dei suoi connazionali, che hanno considerato le sue meditazioni critiche come mere celebrazioni. La Shoah diviene oggetto delle sue opere a partire dagli anni Settanta, quando inizia a lavorare attorno alla parola poetica di Paul Celan. In particolare, realizza una serie di opere su Margarethe e Sulamith, le due figure femminili di Todesfuge, “fuga della morte”. Margarethe è l’eroina di Goethe, i suoi capelli d’oro rappresentano la purezza della razza e le rigogliose messi, quei miti di Blut und Boden – “sangue e terra” – cari al nazionalsocialismo; Sulamith è l’amata del Cantico dei Cantici, le cui chiome brune si sono fatte cenere, divenendo simbolo dell’ebraismo che ora “giace” nell’aria. Nelle tele di Kiefer per combustione la paglia di Margarethe diviene la cenere di Sulamith, a mostrare come i due mondi – tedesco ed ebraico – fossero strettamente connessi.
A partire dagli anni Novanta Kiefer inizia ad approfondire temi alchemici e qabbalistici, usando materiali come il piombo, i semi, la sabbia, e lavorando ossessivamente su miti di trasformazione, racconti biblici, libri mistici. In lavori come Merkava (con riferimento alla dottrina cabalistica legata alla visione del carro di Ezechiele) o Sternenfall (“stelle cadenti”), Kiefer evoca gli scomparsi e il vuoto da essi lasciato attraverso numeri, stelle e un cielo cinereo. Le rovine del Reich ritornano spesso nel lavoro di Kiefer: quelle architetture megalomaniache sono gli imbarazzanti residui del regime, fatte in granito e mattoni per eternare il nazionalsocialismo con un materiale nobile, non con il polveroso calcestruzzo armato. Quel granito e quei mattoni che venivano estratti e lavorati all’interno del sistema concentrazionario da parte della manodopera schiava, gli Zwangarbeiter.
Memoriali effimeri, monumenti negativi
La dimensione monumentale del ricordo, quindi, sembra non essere adeguata alla memoria della Shoah. Anche per questo motivo, nel corso degli anni Ottanta si delinea, soprattutto in Germania, una tendenza alla deconcretizzazione delle forme memoriali: vengono eretti Gegen-Denkmal, ovvero “contro-monumenti” che sfidano le convenzioni di ieraticità e lunga durata, di solito peculiari dei monumenti. Il Gegen-Denkmal chiede un’interazione, suscita un coinvolgimento, svolge la sua provocatoria funzione e poi scompare. La colonna contro i fascismi innalzata nel 1986 da Jochen ed Esther Gerz in un sobborgo di Amburgo è un pilastro cavo di alluminio con appeso uno stilo appuntito, offerto ai passanti affinché incidano con scritte la superficie della colonna stessa. Man mano che i graffiti arrivavano a una certa altezza, la colonna sprofondava nel terreno, fino a scomparire completamente, nel 1993: ora resta solo un segno sul suolo, una targa e alcune fotografie.
Il progetto per l’Aschrott Brunnen di Kassel dell’artista tedesco Horst Hoheisel è un altro esempio di Gegen-Denkmal: la fontana, fatta erigere nel 1908 per volontà di un facoltoso imprenditore, Sigmund Aschrott, a causa delle sue origini ebraiche fu distrutta dai nazisti nel 1939. Rimase solo il basamento che, dopo la deportazione degli ebrei della città, fu rinominato la “tomba di Aschrott”. La memoria delle vicende della fontana si perse, al punto da pensare che fosse stata distrutta dai bombardamenti alleati. Nel 1984 è stata avanzata la proposta di restaurare la fontana e il progetto è stato affidato a Hoheisel che ne ha proposto una sorta di “forma negativa”: la fontana è stata ricostruita secondo i disegni originali, esposta per pochi giorni, poi capovolta e affondata nel terreno della piazza, trasformandosi in una specie di imbuto in cui sprofondano le acque. Sul fondo è possibile vedere un’immagine riflessa dell’intera forma della fontana.
Percorsi museografici
Dopo la caduta del Muro nel 1989, Berlino è diventata l’oggetto privilegiato dell’attenzione memoriale tedesca: sono state disseppellite le memorie del passato nazista, le prigioni e i luoghi dirigenziali; sono stati costruiti musei e memoriali. Topographie des Terrors è un vero e proprio scavo archeologico che, alla fine degli anni Settanta, i berlinesi dell’Ovest compiono spontaneamente nel luogo dove sorgeva il quartier generale della Gestapo, in quel momento a ridosso del Muro. Nel 1982 il parlamento approva la decisione di erigere un monumento in quell’area, ma nel 1989 ancora non si era concretizzato. Dopo la caduta del Muro viene inaugurata nell’area dello scavo un’esposizione che ripercorre la storia del luogo e delle persone che vi erano passate. Quello che doveva essere un evento temporaneo è rimasto invece a segnare il tessuto urbano come una ferita aperta. A poca distanza dalla Topographie è stato inaugurato nel 2001 lo Jüdisches Museum progettato da Daniel Libeskind. Prima di essere allestito con un’interessante, ma eccessivamente ricco percorso sulla storia degli ebrei tedeschi, l’edificio era visitabile vuoto e vi si potevano cogliere numerosi rimandi simbolici. L’edificio non ha un ingresso autonomo e per accedervi è necessario attraversare il palazzo barocco, sede del museo della città di Berlino, dove una scala conduce a una sezione ipogeica – la sensazione è quella di scendere sottoterra, non semplicemente a un piano inferiore –, da cui si dipartono tre assi sotterranei che conducono ai tre destini degli ebrei berlinesi: il giardino dell’esilio, l’Holocaust Turm, la scala del futuro. Salendo la scala e percorrendo le sale, quando erano ancora vuote, l’osservatore perdeva l’orientamento, la percezione dell’esterno, e insieme incontrava più chiaramente il “perno” dell’edificio: l’assenza resa presente dei tedeschi ebrei che non sono tornati, assenza che prende il corpo di stanze inaccessibili, visibili attraverso piccole finestre-fenditure. Tale nervatura strutturale si osserva chiaramente in pianta, in cui la linea retta del vuoto attraversa la linea spezzata che Libeskind ottiene distorcendo una stella di Davide. Il giardino dell’esilio è formato da 49 stele poste in quadrato (sette per sette, con evidenti rimandi simbolici alla cultura ebraica) su un piano inclinato, dove non solo l’orientamento, ma l’equilibrio viene messo in crisi. L’ Holocaust Turm, la torre che consiste in un semplice prisma cavo in calcestruzzo armato, è la meta del terzo percorso: una via di non ritorno che si apre su uno spazio vuoto e verticale, gelido d’inverno, caldissimo d’estate, la cui unica apertura è una piccola fenditura in alto, da cui entra la luce. La sensazione è quella di essere chiusi dentro a una canna fumaria. A un camino.
Il Memoriale berlinese
Nel maggio 2005 è stato inaugurato il Denkmal für die ermordeten Juden Europas, il memoriale allo sterminio degli ebrei d’Europa, realizzato, secondo il progetto dell’architetto americano Peter Eisenman, nell’ampia area accanto alla Porta di Brandeburgo, dove sorgevano i Giardini Ministeriali prima dei bombardamenti del 1945, divenuta poi la no-man’s-land accanto al Muro fino al 1989. Nel concorso internazionale bandito nel 1994 quest’area viene individuata come spazio per un monumento nazionale della Germania riunificata dedicato agli ebrei assassinati. Il concorso ha una vicenda complessa. Il primo progetto vincitore viene in seguito rifiutato – in quanto assimilava due momenti differenti della storia ebraica, la Shoah e il mitico suicidio “eroico” di Masada durante la seconda guerra giudaica contro i Romani – quindi un nuovo concorso, indetto nel 1997, viene vinto dal progetto di Peter Eisenman e Richard Serra, un architetto e un artista, che prevede una distesa ondulata di pilastri di cemento di altezze diverse, nel numero di 4000. Il disegno iniziale è stato poi rivisto più volte, ridimensionando il numero delle stele, affiancandovi un centro di ricerca. Queste versioni successive erano a firma del solo Eisenman, in quanto Serra aveva lasciato il progetto, attorno al quale si solleva un acceso dibattito, una vera “disputa attorno al memoriale” (denkmalstreit): il monumento appare in primo luogo accentrante, e quindi soggetto a divenire un elemento di “compensazione” di un’irrimediabile perdita; in secondo luogo gli viene contestato di essere troppo “ebraico”, e di lasciare fuori le altre vittime del nazismo e altri passaggi della storia (quali il Muro); anche l’aspetto formale non appariva sufficientemente originale (nel limitrofo Giardino dell’esilio, Libeskind usava la selva di stele come elemento di straniamento) e, infine, la campagna fondi è stata fatta con una scelta scioccante e discutibile. Tutto ciò ha bloccato a lungo la costruzione a rimanere un campo vuoto, circondato da una palizzata sulla quale scritte e manifesti esprimevano le voci del dibattito, trasformando le polemiche nel memoriale stesso.
In occasione del sessantesimo anniversario della fine della guerra, il Denkmal è stato inaugurato, immenso camposanto nel cuore di Berlino formato da 2711 stele e da uno spazio sotterraneo, Ort der Information, dove si possono vedere e conoscere immagini, dati, resoconti storici dello sterminio. In superficie il Denkmal, con il profilo basso delle stele attraversate da stretti camminamenti, permane come l’unico spazio di “vuoto”, silenzio e sospensione in una Berlino affollata (e forse snaturata) da nuove costruzioni.