Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel primo decennio del XX secolo giunge a compimento negli Stati Uniti un processo di razionalizzazione dell’organizzazione industriale iniziato nell’ultimo quarto dell’Ottocento. La ricerca di soluzioni organizzative più adeguate ai mutati processi di produzione trova nella fabbrica fordista la risposta più avanzata, destinata a tradursi in un vero e proprio paradigma almeno fino agli anni Settanta del Novecento. La fabbrica fordista, o più genericamente il fordismo, non solo definiscono un sistema di organizzazione industriale, ma rimandano alle caratteristiche strutturali del modello statunitense di accumulazione capitalistica, riassumibili nella produzione di massa, nel gigantismo industriale, nelle economie di scala e nell’espansione tendenzialmente illimitata dei consumi.
Origini
Un nuovo sistema di organizzazione della fabbrica viene concepito e realizzato dall’industriale statunitense Henry Ford negli anni Dieci del XX secolo. Fondatore della Ford Motors Company (1903), Ford perfeziona, grazie all’introduzione della catena di montaggio (assembly line) nello stabilimento di Highland Park a Detroit, quell’organizzazione scientifica del lavoro che trova in Frederick Winslow Taylor il primo teorico sistematico. Operaio e poi caposquadra nelle acciaierie Midvale in Pennsylvania, negli anni Ottanta dell’Ottocento, Taylor mette a frutto la sua decennale esperienza sul campo per elaborare rigorosi principi di organizzazione del lavoro finalizzati a eliminare qualsiasi margine di autonomia delle maestranze nella gestione dei tempi di produzione.
La fabbrica ottocentesca, così come emersa in seguito all’accentramento della produzione avvenuto durante la prima industrializzazione, si caratterizza per il grado ancora primitivo di meccanizzazione e per la configurazione ancora parzialmente artigianale del lavoro. Il sistema elaborato da Taylor prevede la scomposizione del processo produttivo in fasi elementari, la misurazione dei tempi e dei costi di ogni operazione, e la conseguente messa a punto di un sistema di pagamento a cottimo allo stesso tempo premiante e punitivo: in tal modo egli risolve il decennale conflitto tra l’aspirazione alla direzione del processo lavorativo da parte degli industriali e l’autonomia gestionale delle cosiddette aristocrazie operaie, forza-lavoro esperta, che in virtù del suo know how gode di ampi margini di governo dei processi e dei tempi di produzione. Se il sistema tayloristico si fonda tuttavia sull’elemento imprescindibile del controllo gerarchico, il fordismo lo supera con il controllo automatico sui tempi di produzione risultante dalla meccanizzazione e dalla subordinazione totale della forza-lavoro ai ritmi della catena di montaggio: nella formula move the metal si compendia l’intera concezione della fabbrica. Nella fabbrica fordista l’operaio è trasformato in operaio-massa, e la semplificazione delle operazioni rende adatti al lavoro di fabbrica, secondo la cinica iperbole utilizzata dallo stesso Ford, “scimpanzé ammaestrati”.
Il secondo aspetto innovativo della filosofia imprenditoriale di Ford è la scelta di produrre beni economici per il consumo di massa. L’automobile è ancora un gingillo di lusso per ristrette élite quando Ford intraprende nel 1909 la fabbricazione della prima macchina utilitaria (il modello T) che dà inizio alla motorizzazione di massa negli Stati Uniti. Sul piano delle relazioni industriali egli adotta una politica salariale generosa che è strumento tanto rivoluzionario per la mentalità imprenditoriale dell’epoca quanto doppiamente strategico. Da un lato gli alti salari risultano funzionali alla formazione di un ceto popolare di consumatori in costante espansione, che consente all’impresa la realizzazione di economie di scala. Dall’altro essi sono concepiti, insieme con un avanzato sistema di welfare aziendale, per scongiurare il germe della conflittualità intrinseco all’organizzazione rigida e al carattere usurante del lavoro di fabbrica, e porre così una barriera persuasiva all’influenza dei sindacati sulla forza-lavoro.
La caratterizzazione fortemente antisindacale delle relazioni industriali nell’originario modello fordista è tuttavia ben presto superata: negli USA la crisi del Ventinove impone un vigoroso freno all’espansione dei consumi e la soluzione di Franklin Delano Roosevelt alla stagnazione del mercato è la messa a punto di un sistema di politiche di sostegno alla domanda e di redistribuzione del reddito che chiamano in causa i sindacati come interlocutore privilegiato. Gli anni Trenta costituiscono così il laboratorio di quel compromesso keynesiano che definirà il quadro generale di riferimento dell’affermazione del fordismo come paradigma dominante nel secondo dopoguerra.
Il fordismo in Europa
Il fordismo diventa una filosofia della crescita illimitata destinata a caratterizzare la morfologia del capitalismo del XX secolo: la fabbrica diviene centro e sintesi di assetti socioeconomici complessivi, metafora del trionfo della produzione e dei consumi. Già Antonio Gramsci negli anni Trenta coglie la portata rivoluzionaria di una trasformazione tale da trascendere ampiamente i confini della fabbrica; nel fordismo e nell’americanismo egli vede l’assurgere della fabbrica medesima a principio ordinatore dell’organizzazione sociale, sintesi di una società razionalizzata e disciplinata e di un’economia sempre meno “liberale” e sempre più “programmatica”.
Gramsci coglie però anche la diversità del contesto europeo rispetto agli Stati Uniti. La ricezione del paradigma taylorista e fordista in Europa è infatti lenta, mediata dalla radicale diversità dei contesti e delle condizioni economiche nel periodo tra le due guerre. Se l’interesse per i metodi scientifici di organizzazione del lavoro solletica buona parte dell’imprenditoria europea fin dagli inizi del secolo, e il taylorismo trova degli interpreti originali – tra i più importanti figura Henry Fayol – è soltanto con l’esplosione della prima guerra mondiale e l’improvvisa domanda di massicce quantità di beni in serie che la grande industria europea si vede costretta a muovere concretamente dei passi in direzione della razionalizzazione organizzativa; in condizioni tuttavia di scarsità di materiali e soprattutto di manodopera dell’american system si tende ad adottare una versione riduttiva che ne esalta le finalità di eliminazione degli sprechi e di risparmio sui costi del lavoro.
Circola in Europa una versione autoctona del taylorismo che risponde al nome dell’ingegnere Charles Bedaux, consistente in un’alquanto rigida e autoritaria applicazione dei metodi di misurazione del lavoro (cronotecnica), volta ad abbatterne i costi ma scevra degli aspetti progressivi del sistema fordista. Nel periodo tra le due guerre l’american system si afferma in tutta Europa, Unione Sovietica compresa, e nel 1930 l’organizzazione scientifica del lavoro è una acquisizione consolidata. Tuttavia il fordismo come sistema trova ancora nelle condizioni ristrette della domanda il limite strutturale alla sua piena realizzazione. In Italia la compressione dei consumi interni è, oltre che frutto della congiuntura interbellica, obiettivo consapevole della politica economica del fascismo; gli esperimenti di avanguardia di organizzazione del lavoro realizzati dalla FIAT di Giovanni Agnelli, con la realizzazione del Lingotto (1922) secondo i crismi della fabbrica fordista, si scontrano così con l’asfittica domanda interna e le stagnanti condizioni generali dell’economia.
È soltanto nel secondo dopoguerra che l’importazione del modello americano trova in Europa le condizioni per il successo. Il piano di aiuti economici per la ricostruzione, comunemente noto come piano Marshall, diviene il veicolo principe dell’americanizzazione europea: l’ECA (Economic Cooperation Administration) intraprende direttamente una campagna sulla produttività, evangelizzando gli europei ai metodi di produzione d’oltreoceano; l’erogazione degli aiuti seleziona le aziende che danno maggiori garanzie in termini di efficienza e produttività, ovvero quelle che hanno già adottato l’american system. La ripresa postbellica crea le condizioni macroeconomiche per l’espansione della domanda e il trionfo dell’ortodossia keynesiana delinea il quadro istituzionale e politico-economico ideale per la conciliazione armoniosa di interessi tradizionalmente conflittuali nel capitalismo liberale ottocentesco: quelli delle imprese all’espansione della domanda e alla pace sociale, quelli dei sindacati all’ottenimento di alti salari e alla partecipazione alle decisioni strategiche, quelli dei governi alla crescita e alla stabilità sociale e politica.
La crisi del fordismo
Negli anni Settanta, il sistema delineatosi nel secondo dopoguerra inizia a vacillare di fronte ai primi segnali di un nuovo mutamento epocale degli assetti economici globali; la crisi petrolifera destituisce di fondamento la filosofia della crescita illimitata, i rivolgimenti sociali minano le basi di consenso della società dell’opulenza, il mercato dei beni e della manodopera iniziano a dare segni di saturazione, nuove economie si affacciano aggressivamente nell’alveo dei Paesi industrializzati.
Di fronte alla crisi, la fabbrica fordista rivela i suoi radicali difetti: la rigidità della organizzazione della produzione vede il sistema industriale impreparato ad affrontare le nuove condizioni della domanda, sempre più fluttuante, sempre meno di massa, e sempre più differenziata; le scorte di magazzino; il fallimento delle politiche keynesiane e il trionfo dell’ideologia liberista eliminano il quadro macroeconomico di riferimento in cui il fordismo è maturato. I nuovi modelli di organizzazione perseguono l’obiettivo della flessibilità della produzione rispetto alle fluttuazioni del mercato, della leggerezza organizzativa, della responsabilizzazione della manodopera, della diversificazione della produzione. Superata la filosofia dell’one best way tayloristica (vi è un solo modo, scientifico, di produrre un bene), la galassia dei nuovi modelli di riferimento, tra i quali sembra prevalere quello giapponese del toyotismo, compone un presente complesso che va sotto il nome di postfordismo, e che sembra tuttavia lontano dall’acquisire nuovi paradigmi di uguale forza normativa.