La domesticazione delle piante e l'agricoltura: mondo islamico
di Maria Domenica Ferrari
La terra, nonostante lo sviluppo delle città e del commercio internazionale, era la fonte principale di ricchezza nel mondo islamico. La vasta produzione di testi arabi di agronomia non è ancora stata sufficientemente studiata e le informazioni che gli autori arabi forniscono sui metodi di lavoro dei campi, a parte i canali e i meccanismi di irrigazione, sono piuttosto scarse. Tuttavia, mettendo insieme ciò che si ricava dalle varie fonti, si può affermare che gli Arabi non apportarono particolari innovazioni alle tecniche agrarie: a essi si deve soprattutto la diffusione di colture e di tecniche da una regione all'altra e lo sviluppo di coltivazioni già esistenti. Mentre la storia dell'agricoltura europea è ricca di grandi cambiamenti e di miglioramenti tecnologici, vi sono prove assai scarse di innovazioni nell'agricoltura islamica per tutto il Medioevo. Peraltro, il problema della siccità aveva fatto sì che fin dall'antichità fossero in uso diversi tipi di macchine per sollevare l'acqua, come il bilanciere e la noria, e che esistesse una rete di canali molto curata. Le condizioni climatiche dividono le regioni occupate dagli Arabi in due distinte categorie: nella prima l'estensione e la distribuzione della caduta delle piogge permettono vari raccolti annuali, mentre nella seconda le scarse piogge invernali consentono la crescita di piante erbacee e bulbose, che costituiscono i pascoli dei terreni stepposi. Nell'ambito climatico mediterraneo sono individuabili tre zone agricole. La prima, diffusa nelle regioni costiere (Siria, Libano, Palestina, Tunisia, Algeria e Marocco), è caratterizzata da un inverno mite e dalla caduta di 500-1000 mm di pioggia: tali condizioni rendono possibile la coltivazione non irrigua dei cereali, delle Leguminose, dell'ulivo, del cotone e la coltivazione irrigua di diverse piante annuali e perenni con vari raccolti annui, come il limone, il melograno, il nespolo, gli ortaggi, le piante aromatiche e ornamentali. Nella seconda zona, che comprende gli altipiani, le colline e le pianure della Siria, la pianura della Mesopotamia inferiore e l'Africa settentrionale, la caduta della pioggia varia tra i 250 e i 500 mm e il sistema dominante è l'aridocoltura: sono coltivati soprattutto orzo, sorgo, lenticchia, cece, veccia, sesamo, ulivo, vite, fico, nocciolo, pistacchio. L'irrigazione è indispensabile per la maggior parte delle piante da frutto, di quelle ornamentali, degli ortaggi, dell'erba medica e del cotone. Infine vi è la regione desertica, scarsamente piovosa, con una temperatura media di 21°C, nella quale solo con l'uso di sistemi di irrigazione si possono coltivare piante, ortaggi, cotone, riso, canna da zucchero. Già nel Medioevo gli Arabi coltivavano la maggior parte delle piante attualmente note nel mondo islamico e furono loro a introdurre il limone e l'arancio dall'India al Vicino Oriente e poi fino alla regione di Siviglia. Dall'Andalusia e dalla Sicilia si diffusero in tutto il bacino del Mediterraneo le coltivazioni del cotone, della canna da zucchero, del pesco, dell'albicocco, del riso, del carrubo, delle melanzane; il nome europeo di molte di queste piante deriva infatti dall'arabo. La giurisprudenza musulmana divideva la terra in cinque categorie: arḍ mamlūka (sulla quale esisteva un diritto di proprietà), arḍ amiriyya (di proprietà dello Stato, che ne poteva concedere lo sfruttamento a privati), arḍ mawqūfa (oggetto di donazioni religiose), arḍ matrūka (a disposizione delle corporazioni) e arḍ mawāt (incolta, chiamata terra libera, situata lontano dalle zone abitate). La forma più diffusa di rapporto tra proprietario terriero e manodopera contadina era la muzār'a, cioè il contratto di mezzadria elementare: il proprietario metteva a disposizione la terra, oltre a sementi, animali e attrezzi, almeno in parte, mentre il mezzadro contribuiva con il suo lavoro. Il prodotto veniva diviso in proporzioni variabili a seconda della produttività del suolo e dell'apporto delle due parti contraenti; il contratto aveva la durata di alcuni anni e poteva essere rinnovato. L'agricoltura in Persia era considerata il fondamento della prosperità del Paese e fin dall'inizio ci fu una dicotomia tra gli agricoltori e i pastori. Lo sviluppo dell'agricoltura, considerata sia nell'Avesta sia nei testi di epoca islamica indispensabile alla stabilità dello Stato, era strettamente connesso con l'irrigazione, la sicurezza e la tassazione. Varie furono le cause della sua decadenza, oltre alle avverse condizioni climatiche e alle guerre: i frequenti terremoti, il deterioramento del suolo dovuto alla progressiva salinizzazione e al cattivo drenaggio, specialmente nel Khuzistan, nel Sistan e al centro dell'altopiano, l'erosione del vento, soprattutto nell'Azerbaigian, l'abuso del pascolo delle capre e la distruzione delle foreste. Eccetto che per le coste piovose del Mar Caspio, la carenza di pioggia era il fattore limitante dell'agricoltura persiana: vaste aree nell'Azerbaigian, nel Kurdistan e nel Fars erano pascoli di montagna, nel Kurdistan e nel Luristan esistevano foreste, mentre il Sistan, scarsamente piovoso, era coltivato solo in minima parte. I principali prodotti della Persia erano l'orzo e il grano, il riso, soprattutto nella zona del Mar Caspio e vicino a Isfahan, l'ulivo, introdotto nei primi secoli dell'Islam. Sotto il regno di Khusraw I (531-579) fu importata dall'India la coltivazione della canna da zucchero, di cui il Khuzistan divenne il principale fornitore per tutto l'Oriente musulmano. Il prodotto più famoso della Persia era la seta, ma anche il cotone era molto coltivato. Anche gli alberi da frutto erano rinomati: i datteri nel Sud e sulle coste del Golfo Persico, i limoni nella zona del Mar Caspio, nel Khuzistan e nel Fars. In epoca islamica le relazioni tra proprietari e contadini erano normalmente regolate dal contratto di mezzadria. L'unità agricola era il ǧuft, cioè l'area che poteva essere coltivata annualmente con un paio di buoi; il ǧuft medio variava tra i 60 e i 20 acri, ma era molto più piccolo nelle zone in cui la coltivazione era praticata con la vanga. Molto diffusa era anche la pratica del maggese. Nell'impero ottomano l'agricoltura era caratterizzata dalla diffusione del sistema dei tīmār, cioè di terre concesse in usufrutto ai sudditi che avevano reso servigi al sultano. Il concessionario aveva diritto a tutti i profitti derivanti dal bene e in cambio contribuiva al mantenimento dell'esercito ottomano e al rifornimento di truppe di cavalleria. La terra era concessa in contratto d'affitto ai contadini in parcelle chiamate čift; la parcella non poteva essere divisa, né il contadino poteva lasciarla se non pagando una tassa. Se la terra non era coltivata per tre anni, il "timarioto" poteva concederla a un altro, ma la destinazione d'uso non poteva essere cambiata. Lo Stato determinava la quantità di semente da utilizzare; solo i vigneti e gli orti vicino alle città erano esentati da questa regola. La parcella era divisa in due o in tre parti, di cui la principale era lasciata incolta per uno o due anni. Le difficoltà di comunicazione ostacolavano il commercio dei prodotti, che erano generalmente consumati nel luogo di produzione. I cereali erano distribuiti su larga scala solo vicino alle coste o nelle città situate lungo le grandi strade militari. La partecipazione attiva dello Stato nel controllo della terra era esemplare nella coltura del riso, uno degli alimenti base dell'esercito. Il controllo avveniva mediante un fiduciario incaricato dell'amministrazione e dell'organizzazione delle risaie, che era esentato dal pagamento di alcune tasse; la quantità della semente e l'estensione della risaia erano determinate dallo Stato, che al momento della raccolta prelevava la metà o i due terzi del prodotto. Il grande problema dell'impero ottomano era la scarsità di manodopera: per questo motivo il contadino era legato alla terra. All'inizio del XVII secolo le condizioni di vita si fecero più dure e molti contadini fuggirono dalle campagne con effetti disastrosi per l'agricoltura: in molti distretti infatti i dignitari locali e i giannizzeri trasformarono i terreni coltivati in pascoli per le loro greggi.
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di Vincenzo Strika
Fatta eccezione per l'India, l'Arabia meridionale e le regioni limitrofe, che risentono in diversa misura del sistema dei monsoni, il resto del mondo musulmano ha un clima più arido, con precipitazioni più rare, come l'Iraq e l'Iran centro-meridionali. Più abbondanti sono invece le piogge lungo la fascia mediterranea, mentre altre aree, come ad esempio la Siria e l'Iran settentrionale, hanno precipitazioni alquanto irregolari: anni di siccità si alternano ad altri con piogge talvolta disastrose. Ogni regione del mondo islamico ha dovuto dunque sottostare ai condizionamenti locali che il più delle volte hanno perpetuato i sistemi precedenti, ai quali tuttavia i musulmani hanno portato molti miglioramenti. L'unità del mondo islamico, politicamente più teorica che pratica, ha comunque favorito gli spostamenti: così in India talune macchine idrauliche sembrano essere state introdotte in epoca islamica, mentre la Spagna vide apparire i qanāt, un ingegnoso sistema che utilizzava le falde acquifere e incanalava le acque verso le zone coltivabili, di origine urartea e diffusi attraverso la Persia. Nel diritto musulmano l'acqua dei fiumi è di tutti, ma le deviazioni non debbono danneggiare i diritti altrui, clausola che diventa ancora più importante nella deviazione dei piccoli corsi d'acqua, soggetti a una minuziosa casistica. L'acqua d'altra parte era così importante che il suo possesso era talvolta separato da quello del terreno da irrigare. Un ruolo particolare è stato svolto dai maggiori fiumi, che sin dall'antichità hanno creato le premesse per grandi formazioni statali. In Egitto e in Mesopotamia furono realizzati sistemi avanzati e costosi di canalizzazione sotto il controllo statale. In Egitto da tempi immemorabili l'irrigazione dei terreni coltivabili era determinata dalle alluvioni del Nilo, che rendevano fertili i terreni e determinavano quindi la stagione della semina. Tale situazione proseguì senza grandi varianti nel periodo islamico: se l'acqua ricopriva più giorni la terra, al suo ritiro avveniva la semina e fino al raccolto non era necessaria altra irrigazione. Per aumentare la superficie coltivabile era tuttavia necessario costruire canali e dighe che, essendo imprevedibile l'estensione dell'alluvione, richiedevano continue opere di restauro e di manutenzione. Le grandi dighe e i canali erano opera del governo o dei suoi feudatari, le canalizzazioni minori dipendevano dalle amministrazioni locali. L'irrigazione era talmente importante che sin dall'epoca fatimide, con il califfo al-Muizz nel 973, la crescita del Nilo era mantenuta segreta fino al livello di 16 ḏirā ῾ (in Egitto 10 m ca.), poiché se inferiore sarebbe stata minore la superficie coltivabile, con conseguente rischio di disordini. Si comprende quindi come in Egitto sia stato elaborato un sistema di controllo che veniva esercitato con grande cura, come dimostra la documentazione relativa ai periodi ayyubide e mamelucco. L'opera più importante sia sul piano tecnico che artistico è il famoso Nilometro dell'isola di Roda al Cairo, che oltre alle funzioni di misurazione ha anche un notevole valore artistico. Il Nilometro fu costruito e ricostruito in varie fasi, dapprima nel 715 d.C., poi al tempo del califfo abbaside al- Mutawakkil nell'861, come ci ricorda un'iscrizione, e infine nell'872 da Ahmad ibn Tulun, che gli diede la forma definitiva. Riceveva l'acqua dal Nilo mediante tre tunnel situati a diversa altezza: quello superiore è racchiuso da un'elegante cornice sormontata da un arco a sesto acuto, tra i primi esempi del genere nell'arte islamica, con eleganti iscrizioni cufiche che completano la decorazione. La misurazione del livello dell'acqua avveniva mediante una lunga colonna al centro del pozzo, mentre scale laterali permettevano di scendere fino in fondo per il controllo e la manutenzione. Ad Ahmad ibn Tulun risale anche l'acquedotto di al-Basatin, in cui è evidente l'influenza romana. In Mesopotamia il regime delle acque portate dal Tigri e dall'Eufrate è più irregolare di quello del Nilo; l'irrigazione era comunque facilitata dal fatto che l'Eufrate scorre a un livello superiore a quello del Tigri: è stato quindi più facile collegare i due fiumi con un sistema di canali, la cui manutenzione e controllo erano a carico dello Stato. Nella fase più fiorente del periodo abbaside (IX-X sec.) il Paese era attraversato da una fitta rete di canali, andata distrutta con l'invasione mongola nel XIII secolo. Mediante tale rete il flusso idrico era rigidamente ripartito tra gli utenti, che potevano far confluire l'acqua sui loro terreni in determinate ore. In Persia i fiumi non hanno l'importanza che rivestono nella vicina Mesopotamia, specialmente quelli che attraversano la parte centrale del Paese. Ciononostante, essi sono stati largamente utilizzati per l'irrigazione, in particolare nei tratti superiori, dando vita a numerosi qanāt. Opere idrauliche di grande mole si trovano nel Khuzistan, dove in epoca sasanide con l'apporto di maestranze romane (prigionieri catturati in seguito alla vittoria di Shapur I su Valeriano nel 260 d.C.) fu costruita a Shushtar una diga lunga 530 m munita di aperture di scarico in caso di piena. Ad Ahwaz esisteva una diga lunga 1 km, della quale restano le rovine, che distribuiva acqua nei campi mediante tre canali. Adud ad-Daula, l'emiro buwayhide, costruì il famoso Band-i Amir riutilizzando i sistemi precedenti, che probabilmente risalivano agli Achemenidi. La diga era particolarmente robusta, in pietre collegate con malta, il tutto rinforzato con grappe di ferro; le canalizzazioni si estendevano nell'area circostante e servivano un centinaio di villaggi. L'importante regione del Sistan era irrigata con le acque del fiume Hilmand, che nasce nell'attuale Afghanistan; vari sbarramenti, in buona parte andati distrutti all'epoca di Tamerlano, trattenevano l'acqua che veniva poi incanalata nei campi. Anche le acque del Murghib erano trattenute e deviate con un ingegnoso sistema di canali e sbarramenti che irrigavano il Khorasan, la prospera regione sulla quale, come altrove, si abbatté nel XIII secolo l'ondata dei Mongoli. Successivamente gli Ilkhanidi diedero invece nuovo impulso all'irrigazione, sviluppando tecniche e utilizzando nuovi materiali da costruzione. Fu infatti perfezionato un tipo di materiale costituito da pietra mescolata a malta mista a cenere di una pianta del deserto che assicurava l'impermeabilizzazione. Tale materiale si trova impiegato nella diga di Kivar, non lontano da Qumm, costruita appunto all'epoca degli Ilkhanidi. Dalla Persia si diffusero i qanāt, mentre una serie di chiuse consentiva di distribuire l'acqua ai canali costruiti nei vari livelli e altre aperture permettevano il controllo e la manutenzione. Il sistema si diffuse in altre regioni del mondo islamico, laddove le condizioni lo permettevano. Nell'Occidente islamico, che dal 711 al 1492 includeva la Spagna, i musulmani restaurarono, ma più spesso svilupparono, quanto costruito in epoca romana, introducendo tuttavia innovazioni dall'Oriente, come i qanāt, adattandole alle disponibilità e alle esperienze locali.
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