La cultura figurativa nell’età costantiniana
Il gusto e i valori di una nuova epoca
Come in molti altri ambiti della storia politica e culturale di Roma, anche per quanto riguarda l’arte figurativa l’età costantiniana rappresenta un momento fondamentale, di transizione e al tempo stesso di ridefinizione. Lo sguardo retrospettivo che, pur nella varietà delle soluzioni formali, caratterizza molte manifestazioni artistiche di quest’epoca (rubricate tradizionalmente sotto la definizione di ‘classicismo costantiniano’) appare in netta controtendenza rispetto all’arte del precedente periodo tetrarchico, che con il suo forte sperimentalismo aveva raggiunto un punto di non ritorno nella ricerca di nuove possibilità espressive, mediante un deciso allontanamento dalla tradizione del naturalismo ellenistico. Non tutte le innovazioni di quel periodo vengono però abbandonate: molte soluzioni dimostratesi efficaci, soprattutto sotto l’aspetto della vitalità e della potenza drammatica che contraddistinguono i migliori risultati dell’espressionismo tetrarchico, sono mantenute e ulteriormente raffinate; la cultura figurativa costantiniana, nel ribadire l’adesione ai canoni ellenistici, ne offre quindi una declinazione nuova, adatta alle mutate esigenze dell’Impero romano-cristiano.
Rispetto ad altri periodi della storia dell’arte romana, l’epoca in esame si caratterizza per la perdita pressoché totale delle decorazioni dei grandi monumenti pubblici, con l’eccezione del fregio piccolo dell’arco di Costantino. Poiché sia a tale monumento sia ai ritratti imperiali sono dedicati appositi saggi in questo volume, il presente contributo sarà incentrato sulla produzione artistica privata, che esprime l’identità culturale, le aspettative, il sistema di valori dei ceti dirigenti dell’Impero. Le opere qui riunite appartengono a un periodo di circa un cinquantennio, dal 310 al 360: le forme artistiche costantiniane proseguono infatti senza decisivi cambiamenti durante il regno dei successori, e solo dagli anni Sessanta del IV secolo si cominciano a notare i segni di un mutamento di gusto. La durata eccezionale dello stile costantiniano va messa in relazione con il lungo periodo di stabilità politica che caratterizza quest’epoca (era dai tempi di Ottaviano Augusto che un imperatore non rimaneva al potere per oltre trent’anni): ciò permise il sedimentarsi di una cultura figurativa condivisa, fondata su un sistema di valori ordinato e stabile, destinata a influenzare a lungo la produzione artistica.
Il presente saggio passa in rassegna alcune tra le più importanti testimonianze artistiche di questo periodo, dividendole in due gruppi: una prima sezione è dedicata al ruolo delle immagini nel contesto domestico, sia nella decorazione di domus e ville, sia negli oggetti usati per la vita quotidiana e per le occasioni ufficiali; la seconda parte si occupa invece del contesto funerario, in cui le scelte figurative si fanno interpreti di nuove istanze spirituali.
Il contesto domestico è quello che meglio permette di delineare i modi di vita, le aspettative, l’immaginario delle classi dirigenti dell’Impero. La decorazione di domus e ville costituisce infatti un elemento essenziale per esprimere la cultura, la ricchezza, la posizione sociale dei padroni di casa e dei loro ospiti: gli ambienti ornati con queste immagini rappresentano non solo i luoghi in cui si svolge la vita quotidiana dell’élite, ma anche lo sfondo dei più importanti eventi sociali, dal ricevimento degli ospiti ai banchetti, agli incontri a fini politici, economici, culturali. Gli stessi eventi costituiscono le occasioni in cui sono usati o esposti gli oggetti d’arte suntuaria, che non a caso presentano spesso iconografie analoghe a quelle consuete nella decorazione domestica.
La conoscenza dei contesti domestici si basa in gran parte su mosaici pavimentali, dal momento che la decorazione delle pareti è andata quasi ovunque perduta; alcune testimonianze sono state però restituite dal sottosuolo di Roma, in particolare dalla zona tra l’Esquilino, il Celio e il Laterano, la più importante area residenziale dell’Urbe tardoantica. Per quanto frammentarie e mal conservate, queste pitture danno un’idea delle decorazioni dei palazzi urbani, dominate dal gusto per figure monumentali, grandi al naturale o più, che si stagliano su sfondi uniformi privi di ambientazione architettonica o paesaggistica: una tendenza che, come vedremo, caratterizza in larga misura anche i mosaici pavimentali di quest’epoca. Una domus parzialmente scavata in via dell’Amba Aradam, a ovest del Laterano, presenta un ampio corridoio finestrato dalla sontuosa decorazione: sopra uno zoccolo marmoreo, a oltre due metri di altezza, si svolgeva un corteo di personaggi, probabilmente divinità, aperto da una coppia di cavalli marini1. Le pitture, purtroppo molto danneggiate, si caratterizzano per notevole qualità formale, con una grande attenzione alle volumetrie e all’organicità delle figure, ottenuta tramite l’uso attento del chiaroscuro. L’interpretazione dell’edificio come residenza dell’imperatrice Fausta, moglie di Costantino, è stata abbandonata, ma la ricerca di monumentalità nella decorazione è senz’altro da ricondurre a una committenza d’alto livello, probabilmente di qualche grande famiglia senatoria; un confronto iconografico e stilistico assai calzante, forse addirittura pertinente al medesimo contesto, è rappresentato dall’immagine di divinità in trono, nota come ‘dea Barberini’, rinvenuta nella stessa zona già nel Seicento2.
Alla pittura aulica della capitale si può accostare un documento di eccezionale importanza: un soffitto dipinto rinvenuto a Treviri nell’area del palazzo imperiale, pertinente forse al palazzo stesso, forse a una dimora privata nelle immediate vicinanze, proprietà di qualche personaggio legato alla corte3. Lo spazio del soffitto è diviso in cassettoni quadrati entro i quali, su un uniforme sfondo blu, si muovono amorini danzanti, alternati a immagini di filosofi e a figure femminili ideali in atto di guardarsi allo specchio o di adornarsi con preziosi gioielli. Tutto rimanda alla raffinatezza della vita nella domus, all’esaltazione della bellezza femminile, della gioia di vivere, dell’otium intellettuale, permettendo di attribuire la decorazione a una stanza di uso privato; lo stile è analogo a quello degli affreschi delle grandi domus urbane, di un classicismo misurato e monumentale, fatto di forme nitide, armoniose e mai taglienti.
Non tutta la pittura di questo periodo si può ricondurre a un ambiente così altolocato: il triclinio di una domus più modesta, scoperta nel Settecento sotto l’ospedale di S. Giovanni in Laterano, era ornato con immagini di giovani servitori, vestiti con tuniche e mantelli decorati, che accorrono recando cibo e bevande, prolungando sulla parete i banchetti che avevano luogo nella sala4. La qualità di queste pitture non è paragonabile a quella delle precedenti: le figure superstiti, due dapiferi e un coppiere, sono realizzate senza attenzione alla volumetria e alla profondità spaziale; le vesti nascondono l’anatomia dei corpi, i volti sono privi di espressione. La resa più cursoria riflette probabilmente una committenza di più basso livello economico e culturale. Simili per stile e per tipo di committenza sono le pitture della cosiddetta ‘aula dell’orante’ sotto la chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo. Il vano presenta nella parte alta delle pareti e nella volta riquadri con scene bucoliche, maschere teatrali, animali fantastici, oltre a immagini di filosofi e alla figura femminile di orante che dà nome alla sala; lo zoccolo è invece decorato con campiture geometriche a edicole che imitano i colori e le screziature del porfido, dell’alabastro, del giallo antico, riproponendo in versione economica le lussuose incrostazioni marmoree diffuse nelle residenze più ricche5.
Un esempio straordinario di questa tecnica è offerto dalla cosiddetta basilica di Giunio Basso, in realtà aula di rappresentanza della domus di quel senatore, sull’Esquilino. L’edificio, costruito nel secondo quarto del IV secolo, venne distrutto nel Seicento e ci è noto da disegni rinascimentali; aveva le pareti completamente rivestite di incrostazioni marmoree, di cui restano quattro pannelli6. Uno di essi imita un tessuto prezioso, ornato di motivi egittizzanti. Il drappo, scostandosi, scopre un quadro mitologico che si immagina collocato alle sue spalle: si tratta del ratto di Ila, afferrato da due ninfe che lo trascinano nella fonte; sulla destra una terza ninfa, o forse meglio una personificazione della fonte stessa, assiste alla scena. L’iconografia è prettamente ellenistica: l’enfasi drammatica è ottenuta grazie ai movimenti larghi delle figure, sottolineati dai mantelli gonfiati dallo spostamento d’aria, e soprattutto mediante la posizione del corpo di Ila, con il braccio alzato e un ginocchio piegato a terra nel più classico schema di pathos; lo stile tardoantico è invece responsabile per l’accentuazione espressionistica dei volti, dai grandi occhi sgranati. La stessa carica drammatica si riscontra nei due pannelli venatori con tigri che azzannano vitelli (una scena tipica dei giochi dell’anfiteatro), in particolare negli occhi spalancati dei due animali e nella tensione esasperata dei movimenti del bovino morente. L’ultimo pannello conservato raffigura con ogni probabilità il committente dell’edificio mentre inaugura i giochi circensi in occasione del suo consolato, nell’anno 331: il protagonista, avvolto in una sfavillante toga picta dai riflessi iridescenti, sfila su un carro rivestito d’avorio, tirato da cavalli bianchi e ornato di figure a rilievo; lo accompagnano quattro cavalieri vestiti con i colori delle fazioni del circo. La funzione dell’edificio come aula di rappresentanza spiega la scelta, accanto ai temi consueti dell’ostentazione di ricchezza e della celebrazione della cultura classica, anche di soggetti più ‘ufficiali’, legati all’autorappresentazione del console Giunio Basso e al ricordo dei giochi da lui offerti. Se il tema mitologico del ratto di Ila era ancora declinato secondo i gusti ellenistici, lo stile del pannello con la pompa circensis è invece pienamente tardoantico, privo di movimento e impostato secondo un principio di assoluta centralità: la composizione converge sul volto del protagonista, che si mostra come in un’epifania, e sui suoi enormi occhi fissi. Ma al di là delle differenze vi sono, nei quattro pannelli, tratti stilistici uniformi, soprattutto per quanto riguarda l’espressività dei volti e dei movimenti, che sembrano andare in direzione contraria all’estetica classicheggiante della pittura parietale: anche tenendo conto della particolare natura del materiale e della sua difficoltà tecnica (che impedisce di ottenere una fluidità di linee paragonabile a quella degli affreschi), predomina in queste scene il gusto drammatico tipico dell’arte tetrarchica, che ricercava l’espressività e la carica patetica mediante la deformazione delle proporzioni e il superamento del naturalismo. Questo gusto, per quanto depurato dai suoi eccessi, prosegue infatti in epoca costantiniana: domina, ad esempio, nei mosaici di Piazza Armerina.
La principale fonte relativa alla decorazione domestica di questo periodo sono i pavimenti a mosaico, diffusi in tutto l’Impero con una sostanziale identità di temi. Il contesto più noto è la villa del Casale di Piazza Armerina, in Sicilia, i cui pavimenti si conservano pressoché intatti. Anche se non si può stabilire con certezza l’identità dei proprietari, l’impegno economico e i temi scelti autorizzano a pensare che i committenti appartenessero a una tra le più influenti famiglie senatorie dell’epoca, che in Sicilia possedevano vaste tenute agricole7.
I tradizionali soggetti mitologici continuano a essere molto apprezzati. A Piazza Armerina ne troviamo vari, a cui possiamo attribuire diversi significati: tra i più noti è il pannello con Ulisse che fa ubriacare Polifemo, che orna l’anticamera di una suite di stanze interpretata come appartamento della domina8. Il tema mitologico ha qui sia un significato culturale, con il riferimento a una celebre vicenda letteraria (tra l’altro di ambientazione siciliana), sia un valore di ammaestramento morale: l’esempio negativo del Ciclope invita per contrasto l’osservatore alla moderazione, mettendolo in guardia contro gli eccessi e la conseguente perdita di autocontrollo, in particolare nel contesto del banchetto. Più impressionanti sono i mosaici del grande triclinio9, dove la raffigurazione delle imprese belliche di Ercole e di Dioniso appare finalizzata alla glorificazione dell’ordine cosmico, di cui le divinità si fanno garanti, e di riflesso anche dell’ordine romano, in rapporto al quale il padrone di casa e i suoi ospiti rivestivano ruoli di primo piano e in cui dovevano riconoscersi. I nemici che minacciavano di sovvertire l’ordine voluto dagli dei giacciono a terra sconfitti ai piedi degli osservatori: questi ultimi si trovano quindi al posto dei vincitori, e ammirano i corpi possenti dei giganti e di altre creature mostruose, raffigurati in dimensioni maggiori del vero; le immagini, cariche di pathos e di drammaticità, usano l’exemplum mitologico per celebrare la potenza di Roma e dei suoi rappresentanti, in un’esaltazione del potere e della violenza fisica appena addolcita dalle allusioni amorose che ornano le soglie delle tre esedre.
In genere, possiamo affermare che la scelta di tematiche mitologiche contribuisce a definire l’identità culturale degli osservatori: è il caso, per esempio, delle immagini di Pegaso e delle Muse, che godono di una certa fortuna come allegorie della poesia10. Più raramente le vicende mitiche sono raccontate in modo più complesso: a Neapoli, nell’Africa Proconsolare (l’odierna Nabeul, sulla costa della Tunisia), la cosiddetta casa delle Ninfe ha restituito una serie di mosaici, che accostano immagini del mito di Pegaso a scene della guerra troiana, in uno stile improntato a un monumentale classicismo11. In casi del tutto eccezionali si intuisce invece un programma figurativo più elaborato, cui si può attribuire un significato filosofico-religioso: un contesto di particolare interesse è la cosiddetta casa di Aion a Pafo, sull’isola di Cipro, il cui triclinio ha restituito un mosaico di straordinaria qualità e complessità iconografica, che riunisce immagini di famose sfide mitiche (tra Apollo e Marsia per l’abilità musicale, tra Cassiopea e le Nereidi per la bellezza) accostate a episodi della storia di Dioniso e agli amori di Zeus e Leda12. La scelta di soggetti rari e versioni alternative del mito ha fatto pensare all’esistenza, al di là dello sfoggio di cultura ellenica dei committenti, di un autentico programma di ispirazione neoplatonica, che però non è stato finora decodificato in modo soddisfacente; il mosaico è in ogni caso un documento di prim’ordine della cultura figurativa dell’Oriente nell’età costantiniana avanzata, caratterizzata da un raffinato classicismo, di misurate proporzioni, ravvivato da un’intensa ricerca di effetti coloristici.
Il repertorio mitologico, però, non agisce solo come fattore di identità culturale, ma continua anche a fornire modelli di identificazione e di comportamento per i ceti dirigenti: è il caso di Achille, uno dei personaggi più amati in quest’epoca, di cui è messa in rilievo la severa formazione guerriera e umana, grazie alla quale il figlio di Peleo sarà in grado di compiere imprese immortali13. Soprattutto l’educazione presso Chirone e l’epifania eroica tra le fanciulle di Sciro sono tra i soggetti più apprezzati nella decorazione domestica: un mosaico rinvenuto a Tipasa, in Mauritania, riunisce proprio queste due scene, insieme a una rappresentazione assai frammentaria, probabilmente di un episodio della guerra troiana14. Le stesse iconografie si trovano in oggetti d’arte suntuaria, che testimoniano la diffusione nel IV secolo di un ciclo di scene del mito di Achille, che illustrano tutta la vicenda dell’eroe con particolare enfasi sull’infanzia e l’educazione. Significativamente, queste tematiche si propagano dai livelli più alti della società fino al ceto medio, ansioso di adottare modelli di comportamento analoghi a quelli dell’élite. Il mito di Achille è usato infatti per decorare oggetti di grande lusso: ad esempio il piatto d’argento del tesoro di Kaiseraugst, da riferire probabilmente a un donativo elargito dall’imperatore Costante, uno dei figli di Costantino, a qualche grande ufficiale dell’esercito in occasione dei decennali15; o la cosiddetta Tensa Capitolina, carrozza di rappresentanza di un senatore della metà del IV secolo16. Ma le stesse immagini si diffondono anche su manufatti di minor pregio, ad esempio una serie di vassoi in terracotta decorata a stampo, di produzione africana, particolarmente in voga nella seconda metà del IV secolo come imitazioni a buon mercato delle lussuose argenterie dei ceti più abbienti17: questa diffusione dimostra il perdurare del mito classico come modello di identificazione anche nell’inoltrato Impero cristiano, nonché il suo valore come elemento di coesione della società, al di là delle differenze di ceto e di ricchezza.
I personaggi del mito non sono solo i protagonisti di storie famose, proposti come modelli da seguire: se da un lato la loro presenza nella decorazione domestica esprime l’adesione a un patrimonio culturale condiviso, dall’altro fa anche riferimento al benessere e alla prosperità che caratterizzano la vita dei frequentatori di questi spazi. Le figure del mito possono essere infatti portatrici di messaggi e valori in quanto tali, indipendentemente dalle vicende di cui sono protagonisti. L’uso del repertorio mitologico in senso non narrativo, diffuso già in precedenza nell’arte romana, prosegue nel periodo costantiniano; molto comuni sono le scene acquatiche, popolate di Nereidi, eroti, tritoni e mostri marini: questo tema è particolarmente amato per la decorazione delle stanze termali, come il frigidario ottagonale della villa di Piazza Armerina18. L’effetto delle raffigurazioni all’interno di questi ambienti era ulteriormente enfatizzato dalla presenza di piscine, che creavano giochi di luminosità e trasparenza; l’acqua, reale e rappresentata, è allegoria di vita e di prosperità, di benessere fisico ed economico, mentre i corpi nudi delle Nereidi (discinte ma accuratamente pettinate e ingioiellate) espongono agli occhi degli osservatori la propria bellezza e la propria carica erotica, proponendosi al tempo stesso come modelli di comportamento femminile. Il messaggio è reso ancor più esplicito dai mosaici delle absidiole laterali, raffiguranti scene di spogliatoio, e da quelli nell’ingresso al complesso termale, con la padrona di casa che si reca al bagno, accompagnata da due giovani servi e due ancelle19. La giustapposizione dei temi realistici e mitologici ha un duplice effetto: da un lato la ripresa di episodi della quotidianità permette ai proprietari e ai loro ospiti di riconoscersi in un modello comune di vita agiata e di raffinatezza; dall’altro i pannelli mitologici invitano gli osservatori a spogliarsi delle preoccupazioni mondane per entrare nel favoloso mondo del mito, abbandonandosi alle gioie dell’amore e della bellezza. Tale abbandono è facilitato dall’assenza di un vero centro della composizione, che viene riproposta con caratteristiche simili in ciascuno degli otto settori del pavimento, creando una sorta di movimento circolare. Il caso di Piazza Armerina non è isolato: in tutto l’Impero gli impianti termali sono luoghi privilegiati per la celebrazione del benessere e dell’abbondanza. La sala principale delle terme E di Antiochia presenta un’elaborata decorazione pavimentale, realizzata intorno alla metà del IV secolo20: coppie di tritoni e Nereidi si dispongono in diversi pannelli intorno a una scena allegorica, il cui significato è reso inequivocabile dalle iscrizioni che accompagnano i personaggi. Al centro domina la personificazione della Terra, circondata da un corteggio di putti rappresentanti i frutti e i prodotti del raccolto; alle due estremità del riquadro si trovano la personificazione della terra coltivata e una figura femminile con berretto frigio, identificabile come l’Egitto, antonomasia della fertilità del suolo. Questi mosaici trasmettono un messaggio allo stesso tempo pubblico e privato: celebrano l’otium e la vita agiata dei frequentatori di questi ambienti, ma al tempo stesso esaltano l’opera ordinatrice e civilizzatrice di Roma e del suo principe, che assicurando il mantenimento della pace garantisce l’abbondanza dei raccolti, la prosperità dei commerci, il benessere materiale e spirituale dei cittadini.
Un altro ambito del mito usato per esaltare il benessere e la gioia di vivere è quello dionisiaco, che ha come luogo privilegiato il banchetto: questo è infatti il momento in cui si gustano i frutti della terra e in cui, complice il vino, ci si può abbandonare al rilassamento e alla spensieratezza. L’immaginario dionisiaco predomina quindi nelle suppellettili da mensa; si citano qui solo due esempi di livello eccezionale. Il primo è costituito dalle argenterie del tesoro di Mildenhall, datate poco dopo la metà del IV secolo: il pezzo più sontuoso è un grande piatto, che accosta proprio le due tematiche del mare e del vino21. Intorno al tondo centrale, occupato da una maschera di Oceano, si dispongono due fasce concentriche: quella interna, bordata da una cornice di conchiglie, mostra un corteo di Nereidi che cavalcano mostri marini; la fascia esterna è invece popolata di personaggi del corteggio dionisiaco: Sileno offre una coppa di vino a Dioniso, mentre intorno si vedono satiri e menadi danzanti, Pan con il suo flauto ed Ercole ubriaco sorretto da due satiretti. Lo stile raffinato, con figure eleganti dalle proporzioni allungate e dai movimenti flessuosi, segue fedelmente modelli ellenistici, riproposti con qualche ingenuità iconografica ma con una straordinaria qualità formale. Probabilmente precedente di qualche decennio è una coppa in vetro che narra la punizione di Licurgo, il re di Tracia che aveva osato sfidare Dioniso attaccandone i seguaci e distruggendo le viti a colpi di accetta22. La scena si dispiega intorno alla figura centrale di Licurgo che tenta di assalire la menade Ambrosia: quest’ultima, stesa a terra, alza un braccio per proteggersi, mentre il re è immobilizzato dai tralci di vite che iniziano a stritolarlo; nel frattempo, agli ordini di Dioniso, si scagliano contro di lui Pan, un satiro e una pantera. Lo stile netto e tagliente, non privo di alcune durezze nei movimenti delle figure, ottiene un effetto di grande drammaticità e potenza espressiva; al risultato contribuisce anche la particolarità del materiale, che arricchisce l’interpretazione con un raffinato gioco allusivo: come nelle sale termali la presenza reale dell’acqua aggiungeva vitalità e movimento ai mosaici a soggetto marino, così la coppa traslucida, se guardata in trasparenza durante il banchetto, assumeva un color rosso sangue che conferiva ulteriore pathos alla terribile fine dell’oppositore del dio.
La caccia è senz’altro tra i soggetti più amati dall’arte di questo periodo, nella duplice declinazione di passatempo aristocratico e riferimento al mondo degli spettacoli. Nella villa di Piazza Armerina sono presenti ambedue le tematiche: il mosaico della ‘piccola caccia’, che orna uno degli ambienti aperti sul peristilio, raffigura un episodio di vita aristocratica caratteristico del soggiorno in villa23. Sono rappresentati diversi momenti di una battuta di caccia: la cattura di vari animali, un sacrificio a Diana e un banchetto all’aperto. Soprattutto quest’ultima scena, che occupa il centro della composizione, dà un’idea della vita agiata dei committenti: dopo aver legato i cavalli agli alberi e aver riposto le reti, i cacciatori si adagiano su cuscini variopinti, all’ombra di una tenda, e si preparano a consumare un piatto di selvaggina, mentre due giovani coppieri servono il vino. In questo caso la medesima immagine veicola sia il riferimento alla vita reale che il desiderio di evasione: nel raffigurare una delle attività predilette degli aristocratici in villa, il mosaico trasforma idealmente lo spazio chiuso della stanza in un ambiente bucolico in cui dominano svago e spensieratezza. Il tema si ritrova nelle suppellettili da mensa, che venivano effettivamente usate anche nei banchetti all’aperto. Un piatto d’argento del tesoro di Seuso, databile intorno alla metà del IV secolo, presenta al centro, delimitato dalla fascia con l’iscrizione (che testimonia il nome del proprietario e la sua fede cristiana), un tondo decorato a niello dall’iconografia del tutto analoga a quella del mosaico di Piazza Armerina24.
Nei mosaici della villa siciliana il tema venatorio è riproposto, in forma più elaborata e monumentale, nel ‘corridoio della grande caccia’, esteso per quasi 70 metri sul lato del peristilio opposto all’entrata, che fa da accesso monumentale ai principali ambienti di rappresentanza25. Il pavimento del corridoio raffigura la caccia ad animali esotici a opera di reparti militari: le belve sono catturate e caricate su navi, a bordo delle quali raggiungeranno Roma per essere ammirate nei giochi dell’anfiteatro. L’enfasi sulla cattura degli animali, piuttosto che sulla loro esibizione nei giochi, andrà riferita a un particolare interesse del committente, che doveva essere un personaggio coinvolto nelle fasi preparatorie degli spettacoli, la cui organizzazione spettava ai maggiori esponenti dell’ordine senatorio. Alle estremità dell’ambulacro, due absidi sono occupate da personificazioni rispettivamente della Mauritania e dell’India: l’inserimento della scena entro un quadro geografico ecumenico, compreso tra i due limiti estremi del mondo conosciuto, contribuisce a celebrare la grandezza di Roma, luogo in cui, secondo il topos diffuso in età imperiale, converge tutto ciò che di straordinario il mondo intero produce. A questa concezione si ricollega il gusto catalogico del mosaico, concepito anche come un repertorio degli animali più esotici e curiosi, compresi quelli fantastici; lo stesso gusto si trova anche in altri ambienti della villa, ad esempio il peristilio, la cui decorazione a protomi ferine ha quasi la funzione di introdurre il visitatore ai temi trattati nel mosaico della ‘grande caccia’. Altre due sale sono decorate con cataloghi di questo tipo, rispettivamente di animali terrestri e marini, disposti intorno a figure mitologiche: le belve terrestri vengono ammansite dalla lira di Orfeo, mentre i mostri marini accompagnano il viaggio di Arione trasportato dal delfino attraverso il mar Ionio (altro mito locale, come quello di Polifemo ricordato all’inizio)26.
Lo spettacolo più amato in quest’epoca, anche più delle venationes, sono tuttavia le corse di carri nel circo. Questo tema è raffigurato in diversi mosaici domestici, e anche in questo caso l’esempio più straordinario viene da Piazza Armerina: l’atrio a forcipe che dà accesso al complesso termale della villa è pavimentato con la raffigurazione di una corsa di quadrighe nel Circo Massimo di Roma, reso chiaramente riconoscibile grazie alla precisione dei riferimenti topografici, dai monumenti che ornano la spina ai templi situati dietro i cancelli di partenza27. Come per la cattura di fiere nella ‘grande caccia’, anche in questo caso il riferimento alla capitale e ai sontuosi giochi che vi si svolgevano è spiegabile con una committenza senatoria: i proprietari della villa celebrano il proprio coinvolgimento nell’organizzazione dei grandiosi spettacoli di Roma, che permettono loro di competere in ricchezza e liberalità con i colleghi per ottenere il favore del popolo e dell’imperatore.
A un livello di committenza meno altolocato, le grandi scene di caccia e di corsa nel circo incarnano un modello di comportamento valido anche per le élite provinciali: le battute di caccia aristocratiche celebrano la virtus e il coraggio dei partecipanti, le raffigurazioni di spettacoli ne ricordano la liberalità e l’attività evergetica. Grazie a tale significato condiviso, questi temi sono diffusi capillarmente in tutto l’Impero: uno degli esempi di più alta qualità viene da una villa nelle vicinanze di Antiochia28: intorno a una piccola piscina ottagonale si dispongono quattro scene di caccia, inquadrate da un’elaborata cornice a girali d’acanto da cui spuntano geni alati femminili con gli attributi delle quattro stagioni; i pannelli venatori accostano la caccia mitologica al cinghiale calidonio alla raffigurazione di cacce aristocratiche in costume contemporaneo (che includono, come nel caso di Piazza Armerina, una scena di sacrificio a Diana), enfatizzando ancora una volta il valore esemplare dei personaggi mitici come modelli d’identificazione per i membri dell’élite. Il pavimento è completato da un pannello geometrico, in cui sono inseriti medaglioni con personaggi del corteggio di Dioniso; le due parti del mosaico sono raccordate da una fascia esterna con scenette pastorali e bucoliche, alcune delle quali interpretate da amorini, alternate a figure di animali e personificazioni di virtù astratte. Questo pavimento costituisce un’ottima illustrazione dell’immaginario dell’élite provinciale in età costantiniana: le scene di caccia e le personificazioni delle virtù celebrano le qualità aristocratiche dei committenti, mentre le figure delle quattro stagioni, i personaggi del corteggio dionisiaco, le scene di genere fanno riferimento all’abbondanza dei prodotti della terra e al contesto gioioso del banchetto. Dal punto di vista stilistico, il mosaico ha caratteri di eccezionalità rispetto alla produzione contemporanea, anche del più alto livello di qualità e committenza come Piazza Armerina: il bilanciamento della composizione e la cura nella resa delle figure esprimono un’adesione ancora piena e consapevole ai canoni del naturalismo ellenistico, che si manifesta in particolare nella coerenza delle ambientazioni paesaggistiche entro cui si muovono i personaggi.
Il valore esemplare delle immagini mitologiche non è limitato all’universo maschile: anche le matrone trovano nel mito i modelli di riferimento, indipendentemente dalla fede religiosa. L’esempio più famoso è fornito dal cofanetto nuziale del tesoro dell’Esquilino, un nucleo d’argenterie appartenenti a una ricca famiglia romana, sotterrate forse nel 410 per l’imminente arrivo dei Visigoti29. Realizzato, come attesta l’iscrizione, per una giovane cristiana in occasione delle nozze, il cofanetto reca sul coperchio i ritratti dei due sposi Secondo e Proiecta, entro un clipeo retto da amorini. La decorazione a sbalzo mette direttamente in parallelo il tema mitologico della toeletta di Venere, accompagnata da Nereidi e mostri marini, con una scena analoga tratta dalla vita quotidiana della matrona: la giovane sposa e la dea della bellezza sono raffigurate nel medesimo gesto di acconciarsi i capelli mentre si guardano allo specchio. Viene istituito così fra le due figure femminili un parallelismo e un ideale rapporto di emulazione, che si trasforma in un augurio per le nozze: nella casa dello sposo, Proiecta sarà il corrispettivo di Venere, di cui condivide la bellezza e la raffinatezza; la vita della domina con le sue ancelle si svolgerà in un clima di rilassata spensieratezza, come quello del corteggio delle Nereidi. La tematica femminile è completata, sul retro del cofanetto, da un’immagine della donna in atto di recarsi al bagno accompagnata da servi e ancelle, analoga a quella presente nel vestibolo delle terme di Piazza Armerina.
Nel contesto funerario si assiste a un fenomeno opposto a quanto riscontrato in ambito domestico: se in quest’ultimo predomina la continuità tematica rispetto alle epoche precedenti, nell’arte funeraria avviene invece un’autentica esplosione di nuovi soggetti, in particolare cristiani. La principale fonte di informazioni in questo campo è costituita da sarcofagi, a cui vanno aggiunte alcune testimonianze di pittura catacombale e di decorazione musiva.
Un documento eccezionale, per la particolarità del materiale e per il livello di committenza, è costituito dai due sarcofagi imperiali in porfido oggi ai Musei Vaticani, scampati alla distruzione grazie alla continuità della venerazione degli abitanti di Roma per la famiglia di Costantino30. Il primo proviene dal mausoleo di Tor Pignattara sulla via Labicana, luogo di sepoltura della madre dell’imperatore, Elena31. Il sarcofago è decorato su tutti e quattro i lati con tematiche belliche: cavalieri romani travolgono barbari caduti, inermi in atto di implorare clemenza o già fatti prigionieri, con le mani legate dietro la schiena; il coperchio è ornato invece con amorini che reggono ghirlande. Come è stato spesso osservato, il tema militare si addice poco alla tomba di un’imperatrice: è probabile, in effetti, che il sarcofago fosse stato preparato in origine per Costantino stesso, quando ancora l’imperatore progettava di essere sepolto a Roma; esso andrà datato quindi entro il 324, anno di fondazione della nuova capitale sul Bosforo. Il secondo sarcofago proviene invece dal mausoleo di Costantina, figlia dell’imperatore, sulla via Nomentana32. Anche qui la decorazione occupa tutti e quattro i lati con un fregio a grandi girali di tralci di vite, popolato di animali e amorini vendemmiatori e arricchito con scene di trasporto e spremitura dei grappoli; il coperchio è ornato di protomi maschili e femminili, tra cui pendono ghirlande. Parti di due sarcofagi identici a questo, sicuramente prodotti dalla medesima bottega, sono stati rinvenuti in diversi contesti: un frammento proveniente da Costantinopoli è senz’altro da attribuire a un’altra tomba imperiale, forse di Costantino stesso (ciò permette di fissare la datazione dei tre pezzi dopo il 324)33; un coperchio intero è stato invece rinvenuto ad Alessandria, probabile luogo di produzione di questi sarcofagi: qui, infatti, già dal periodo tetrarchico esistevano scultori specializzati nella lavorazione del porfido per commissioni imperiali34. Lo stile delle raffigurazioni rispecchia il gusto dell’epoca: le figure umane e gli ornamenti vegetali si stagliano isolati su fondo neutro, come nella maggior parte dei mosaici e degli affreschi contemporanei; la ripetizione modulare dei medesimi schemi individua un ritmo paratattico che conferisce alla composizione un movimento solenne e cadenzato.
Gli stessi temi ritornano anche nei mosaici che ornano la volta dell’ambulacro del mausoleo, i soli conservati (benché restaurati nell’Ottocento) nell’edificio: i mosaici della cupola, con storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, furono infatti distrutti nel XVII secolo per far posto a una più moderna decorazione ad affresco35. L’apparato decorativo si intensifica man mano che dall’ingresso si procede verso la nicchia del sarcofago: le semplici campiture geometriche con motivi a croci o a stelle si arricchiscono di elementi vegetali, fiori e frutti, animali marini e terrestri, uccelli di varie specie, figure di amorini e di psiche; le zone più vicine al sarcofago presentano scene di vendemmia (anche qui sono raffigurati il trasporto e la spremitura dei grappoli) e allusioni al tema del banchetto all’aperto, con tappeti formati da rami di alberi da frutto e sempreverdi, popolati di uccelli, su cui sono sparsi preziosi vasi d’argento. Il tema della vite e della vendemmia, ribadito sia nella decorazione del mausoleo che in quella del sarcofago, è tra i più amati nell’arte romana, sia nel contesto domestico che in quello funerario. Nel nostro caso, le immagini trasmettono un duplice messaggio: da un lato, in senso più laico, celebrano la vita agiata degli aristocratici, facendo riferimento all’abbondanza dei frutti della terra e alle occasioni gioiose in cui essi venivano consumati; da un punto di vista religioso, invece, il significato simbolico di questo repertorio passa senza soluzione di continuità dal richiamo dionisiaco a quello salvifico cristiano, sulla scorta dell’identificazione tra Cristo e la vite proposta da Gv 15,1-8.
Nel repertorio funerario continuano a essere apprezzati i soggetti tradizionali diffusi nel secolo precedente: il III secolo aveva visto il declino delle tematiche mitologiche, che avevano lasciato spazio a soggetti di maggior efficacia allegorica, espressioni più dirette delle qualità e dei valori da celebrare36. Anche in ambito funerario è importante l’affermazione dell’identità culturale dei committenti. Un sarcofago conservato a Porto Torres, in Sardegna37, presenta al centro la figura seduta di Apollo, vestito di una clamide, in atto di suonare la lira; intorno a lui si dispongono in piedi le nove Muse, ciascuna con gli attributi del proprio genere letterario. Alle due estremità della raffigurazione, circondati e protetti dal consesso delle dee, si trovano i committenti, identificabili dalla presenza nei ritratti; entrambi vestiti alla greca, praticano le rispettive attività intellettuali: lui, avvolto nel mantello da filosofo, tiene nella sinistra un rotolo e leva la mano destra in atteggiamento oratorio; lei suona la lira, vestita come le donne della mitologia, con un chitone cinto sotto i seni e la spallina sensualmente abbassata. Conformemente alla scelta del soggetto, le iconografie utilizzate sono ancora nel solco della tradizione ellenistica; lo stile invece è pienamente tardoantico, nella scarsa attenzione alla costruzione spaziale dei corpi, nella scomposizione dei panneggi, nei volti paffuti dai grandi occhi fissi e spalancati.
Un altro soggetto presente in quest’ambito sono le allegorie di benessere e prosperità, che celebrano insieme la ricchezza dei committenti e le conquiste civili della pax Romana. In genere questo messaggio viene ottenuto, come nei mosaici, tramite riferimenti all’abbondanza dei frutti della terra: un sarcofago al Museo Nazionale Romano38 presenta sulla fronte otto figure di geni, con diversi attributi legati ai vari periodi dell’anno, accompagnati da amorini; al centro Dioniso, ubriaco, si appoggia languidamente a un satiro. Il coperchio è occupato da una teoria di amorini: due di essi reggono il tendaggio che fa da fondale al ritratto della defunta, altri due la tavola con l’iscrizione; sulla destra, altri amorini legano e trasportano fasci di spighe appena mietute. La presenza di un’immagine di Dioniso in questo contesto non è di per sé sufficiente a ipotizzare un messaggio religioso: il dio, raffigurato ubriaco nella sua qualità di nume tutelare del vino, è interpretabile semplicemente come un’ulteriore allegoria della prosperità e dell’abbondanza dei prodotti della terra. Talvolta invece si può individuare un contesto filosofico-religioso più elaborato: è il caso di un sarcofago conservato a Dumbarton Oaks, preparato per una coppia di coniugi39. Anche qui troviamo le personificazioni delle stagioni, rappresentate da quattro geni alati, che recano come attributi i rispettivi prodotti agricoli; al centro è una scena di ambito dionisiaco, con putti che vendemmiano, sormontata dai ritratti dei defunti, lasciati sbozzati. I ritratti sono inseriti entro un tondo, secondo una soluzione molto diffusa in quest’epoca; qui, però, la cornice del tondo è trasformata in un elemento iconografico pregnante, il cerchio dello zodiaco. Questo elemento consente di proiettare l’immaginario del sarcofago in una dimensione cosmica e universale, che va al di là della semplice celebrazione di ricchezza e benessere. Un’ulteriore conferma del significato religioso della raffigurazione è fornita da un particolare dell’abbigliamento della defunta: il suo mantello, infatti, è gonfiato dal vento dietro la testa, come sotto l’impulso di un forte movimento, secondo un’iconografia diffusa nelle scene di apoteosi. La profondità di contenuti corrisponde a una committenza di rango molto elevato: il defunto è infatti raffigurato con la toga contabulata dei senatori e tiene in mano lo scettro corto, insegna dei magistrati. Dal punto di vista stilistico, se il sarcofago al Museo Nazionale Romano rientra nel livello medio della produzione di questo periodo (per la scarsa attenzione alle proporzioni e alla plasticità dei corpi, unita alla scomposizione dei panneggi in lunghi solchi di trapano), quello di Dumbarton Oaks si caratterizza invece per una grande cura formale: in particolare le figure delle stagioni spiccano per coerenza spaziale, proporzioni slanciate ed eleganti, attenzione alla resa dei dettagli e raffinatezza nel trattamento delle superfici.
È abbastanza raro, tuttavia, che si possa riconoscere nei soggetti tradizionali una così forte connotazione in senso religioso: tant’è vero che queste tematiche sono apprezzate anche da committenti di fede cristiana. Un esempio è offerto da un sarcofago oggi nella cripta della cattedrale di Osimo, nelle Marche, riutilizzato per i corpi dei santi Fiorenzo e Sisinio40. La fronte è occupata da una grande scena di caccia: il defunto, riconoscibile dal ritratto, occupa il centro della composizione e cavalca verso destra, spingendo due cervi nella rete; a sinistra i suoi compagni cacciano due cinghiali. La caccia va intesa come rappresentazione della virtus del defunto e come affermazione identitaria della sua adesione ai valori aristocratici, in perfetta continuità con l’élite pagana del secolo precedente. La nuova spiritualità irrompe però nelle scene cristiane raffigurate sul coperchio. A destra, entro un comune sfondo acquatico, due scene dell’Antico Testamento mostrano la salvezza che Dio concede agli uomini dopo averli messi alla prova: Noè riceve dalla colomba il ramo d’ulivo, segno della conclusione del diluvio, mentre Giona viene gettato in acqua dai marinai e rigettato sulla spiaggia sano e salvo dal mostro marino. Nella metà sinistra, la potenza del nuovo Dio si manifesta al mondo: vediamo i Magi rendere omaggio al Bambino, mentre accanto Pietro fa sgorgare miracolosamente l’acqua per battezzare i propri carcerieri. Nel sarcofago di Osimo si può dunque riconoscere un vero e proprio programma, che, se da un lato mette in scena il coraggio e il valore come virtù tipiche dell’aristocratico romano, dall’altro esprime anche la fede in un Dio che si manifesta attraverso le sue opere, guidando i fedeli alla salvezza attraverso prove e difficoltà. Al di là della differenza tra cassa e coperchio, che riflette la diversa importanza dei due campi figurati, si riscontra nell’insieme del sarcofago una grande coerenza stilistica: sia nella scena di caccia che nelle raffigurazioni cristiane, la distorsione espressionistica delle pose e delle proporzioni conferisce alle scene un forte senso di movimento, unito a una certa immediatezza e drammaticità; il trattamento delle superfici raggiunge effetti di grande preziosità, distinguendo le diverse qualità tattili dei tessuti, dei corpi umani e animali, degli elementi paesaggistici.
In epoca costantiniana, con la fine delle persecuzioni, si assiste a una vera esplosione di sarcofagi a soggetto cristiano; si costituiscono in questo periodo botteghe specializzate, che lavorano spesso usando i medesimi modelli. Da ciò deriva la sostanziale uniformità di questa classe di materiali, differenziabili tipologicamente per la diversa organizzazione del campo figurato (su uno o due registri, a fregio unico o divisi in riquadri), ma accomunati dalla riproposizione di un numero limitato di temi: scene dell’Antico e del Nuovo Testamento si susseguono l’una all’altra in serrato affollamento, come a voler inserire nello spazio a disposizione il maggior numero possibile di riferimenti alla storia sacra; la quantità di episodi raccontati è un modo di accumulare argomentazioni per confermare il messaggio della salvezza. I soggetti più amati sono i miracoli di Cristo, che ne mettono in evidenza l’aspetto salvifico, e la storia di Pietro, che ricorda il tempo delle persecuzioni e il valore della testimonianza dei martiri per l’affermazione della nuova fede41. Un esempio è il sarcofago di Sabino e della moglie al Museo Pio Cristiano42. Al centro è rappresentata un’orante, dietro la quale spuntano due teste maschili, forse di apostoli; la maggior parte della fronte è occupata da raffigurazioni dei miracoli di Cristo (da sinistra a destra le nozze di Cana, la guarigione del cieco nato, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la resurrezione di Lazzaro), accostati a due episodi della vita di Pietro: la cattura dell’apostolo e il battesimo dei suoi carcerieri. Il coperchio invece abbandona i temi cristiani in favore di un soggetto neutro, la caccia: è raffigurato il ritorno dei cacciatori, che trasportano un cinghiale preso nella rete, mentre due loro compagni (ai lati del ritratto della defunta) tengono altrettante lepri per le zampe posteriori. Si ritrova quindi la commistione tra soggetti cristiani e temi religiosamente neutri notata nel sarcofago di Osimo, ma questa volta sono le scene cristiane a occupare lo spazio più importante; è possibile che il prevalere dell’aspetto spirituale rispetto all’autorappresentazione aristocratica derivi dalla maggiore religiosità dei committenti, oppure dal fatto che questo sarcofago era progettato per una sepoltura femminile, come dimostra il ritratto sul coperchio.
Lo stile di questi primi sarcofagi risente ancora delle esperienze tetrarchiche, con un rilievo tagliente attento più all’efficacia espressiva che al naturalismo delle proporzioni e alla coerenza dei panneggi. A partire dalla tarda età costantiniana, con la conversione al cristianesimo di una parte importante dell’aristocrazia senatoria, cominciano a diffondersi sarcofagi di maggiore impegno economico e di concezione artistica più ambiziosa. Dal punto di vista tipologico, caratteristica di questi materiali è la divisione della fronte del sarcofago in due registri sovrapposti, che consente di moltiplicare il numero delle scene ottenendo, incluso il coperchio, tre fasce narrative; in posizione centrale torna invece in primo piano l’autorappresentazione aristocratica, con i ritratti dei defunti inseriti entro un tondo: una soluzione attestata anche nella contemporanea produzione pagana, come il sarcofago di Dumbarton Oaks esaminato poco fa. Un pezzo di eccezionale qualità è il cosiddetto sarcofago dei due fratelli al Museo Pio Cristiano43, che deve il nome alla particolarità dei ritratti dei defunti, due personaggi maschili tra loro assai somiglianti; in origine era però prevista la presenza di due coniugi: il busto del personaggio di sinistra è infatti chiaramente femminile, con il mantello drappeggiato su entrambe le spalle e il seno ben riconoscibile. I due uomini sono rappresentati come intellettuali: non indossano la toga, ma un abito greco con tunica e mantello; uno tiene in mano un rotolo, l’altro ha la destra levata in atteggiamento oratorio. Anche i tratti fisionomici corrispondono alla tipologia del filosofo: entrambi sono barbuti e stempiati, e rivolgono lo sguardo verso l’alto, come a cercare ispirazione nel contatto con il divino. L’espressività dei ritratti è ulteriormente enfatizzata dalla decorazione del tondo nel quale sono inseriti, realizzato in forma di conchiglia, sulle cui scanalature risaltano le teste dei personaggi. Anche la scelta delle storie raffigurate riflette un programma meditato, articolato in tre gruppi di scene. Nella parte centrale, intorno ai ritratti, si dispongono episodi dell’Antico Testamento: il sacrificio di Isacco, la consegna della Legge a Mosè, Daniele nella fossa dei leoni: tutte scene in cui Dio interviene ad assicurare la salvezza ai suoi fedeli e al suo popolo. Il secondo gruppo è quello delle storie della vita di Cristo, che includono, oltre ai miracoli (la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la guarigione del cieco nato, la resurrezione di Lazzaro), anche due scene della Passione: Pilato che si lava le mani e Cristo che predice il rinnegamento da parte di Pietro. Quest’ultima scena permette il collegamento con il terzo gruppo, quello dedicato all’apostolo, completato dalla cattura e dal miracolo dell’acqua. La disposizione intrecciata delle scene permette di stabilire paralleli tra le vicende dei diversi personaggi, dimostrando così l’unitarietà della storia della salvezza e il suo disegno coerente, dall’Antico Testamento fino al trionfo del cristianesimo a Roma. L’attenzione alle iconografie è confermata dalla presenza di versioni particolari o poco note, soprattutto nelle storie di Pietro: ad esempio la scena della cattura, di solito priva di caratterizzazioni di contesto, è ambientata in un paesaggio bucolico mentre l’apostolo è intento nella lettura; inoltre, nell’episodio del miracolo dell’acqua, alla figura di Pietro è affiancata quella di Mosè, esplicitando il parallelo con il prodigio analogo compiuto dal patriarca in Es 17,1-7. Lo stile del sarcofago è improntato a un classicismo misurato e solenne, con una grande attenzione alla plasticità delle figure e al loro inserimento in un quadro spaziale coerente; l’espressività delle scene è garantita dai dettagli dei volti e dai gesti con cui i personaggi interagiscono. Il classicismo si spinge fino alla citazione antiquaria nella figura di Pilato, vestito all’antica con corazza e paludamentum, con le gambe nude e una corona d’alloro.
Intorno alla metà del IV secolo il messaggio cristiano raggiunge i vertici dell’aristocrazia della capitale. Il praefectus urbi Giunio Basso (figlio del console che aveva fatto decorare con sontuose incrostazioni marmoree l’aula di rappresentanza della sua domus) è sepolto nel 359 accanto alla tomba di Pietro, in un lussuoso sarcofago che si trova tuttora nella basilica vaticana44. La principale novità di questo pezzo è l’introduzione di una suddivisione chiara delle singole scene, incastonate in una struttura architettonica a due piani, con colonnine, timpani e trabeazioni cesellati con notevole raffinatezza; si tratta di una soluzione compositiva fino ad allora ignota alla produzione funeraria sia pagana che cristiana, ma frequente nella decorazione domestica (ad esempio nella cosiddetta aula dell’orante, sotto la chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo) e soprattutto nelle arti suntuarie, come dimostrano le lamine sbalzate della cosiddetta Tensa Capitolina. Il sarcofago di Giunio Basso si caratterizza per la coerenza del programma iconografico. Al centro della fronte sono le scene più importanti: nel registro inferiore l’entrata di Cristo in Gerusalemme; in quello superiore Cristo come re dell’universo, seduto in trono sopra la personificazione del Cielo e affiancato da due apostoli in piedi. Queste iconografie riprendono modelli dell’arte ufficiale, rispettivamente le scene di adventus e le immagini di magistrati nell’esercizio delle loro funzioni, applicando alla figura di Cristo modalità rappresentative diffuse in ambito profano, ben note ai committenti del sarcofago. Intorno a queste scene ‘ufficiali’ si dipana il racconto della storia della salvezza, incentrato sul tema della testimonianza che Dio richiede ai suoi fedeli. Ci sono alcuni personaggi dell’Antico Testamento di cui Dio mette alla prova la fede, con esiti più o meno positivi: Adamo ed Eva cedono alla tentazione del serpente, mentre Giobbe, coperto di piaghe purulente, resiste alla moglie che lo istiga a bestemmiare; Abramo persevera nella fede, dimostrandosi disposto a sacrificare a Dio il suo stesso figlio, così come la fede salva Daniele nella fossa dei leoni. Agli esempi veterotestamentari sono accostate le prove che Dio richiede al suo stesso Figlio e ai suoi discepoli: due edicole sono occupate dalla complessa scena di Cristo dinanzi a Pilato, cui si aggiungono la cattura di Pietro e il martirio di Paolo. Nei campi figurativi secondari troviamo le consuete immagini di amorini vendemmianti, simboli di felicità e prosperità di ascendenza dionisiaca pur in un ambito cristiano: essi occupano, sempre su due registri, i lati brevi del sarcofago e compaiono anche sulle quattro colonnine centrali della fronte, la cui esuberanza decorativa mette in risalto le scene rappresentative da esse inquadrate. Il coperchio, molto frammentario, proponeva invece episodi di vita aristocratica: ai lati dell’iscrizione in distici elegiaci si riconoscono, a sinistra, tracce di due togati, una figura femminile e un personaggio caratterizzato come filosofo; a destra una coppia di coniugi a banchetto.
Un altro contesto privilegiato per comprendere lo sviluppo di una cultura figurativa cristiana è la pittura funeraria; in quest’ambito il periodo costantiniano ha lasciato infatti testimonianze importanti, che consentono di farsi un’idea abbastanza precisa delle tendenze iconografiche e stilistiche dell’epoca. Il repertorio delle catacombe dei primi decenni del IV secolo (ad esempio quelle dei Ss. Marcellino e Pietro, sulla via Labicana45, o di via Anapo, lungo la Salaria46) ripropone tematiche analoghe a quelle dei sarcofagi: l’accento è posto sulla salvezza ottenuta grazie alla fede, un concetto espresso sia dalle storie dell’Antico Testamento (Noè nell’arca, il sacrificio di Isacco, le vicende di Giona o Daniele), sia mediante l’immagine di Cristo operatore di miracoli. Le tematiche vetero e neotestamentarie sono spesso intrecciate tra loro e accompagnate a soggetti non narrativi, come il Buon Pastore o figure di oranti: la coerenza dell’insieme è comunque garantita dal comune significato salvifico. Un esempio è il nicchione 14 della catacomba di via Anapo, che mescola tutti questi soggetti in una successione di scene realizzate con grande semplicità, a volte decisamente ingenue. Di ogni episodio è rappresentato il solo protagonista, isolato su uno sfondo bianco privo di ogni ambientazione spaziale; accanto a lui, come attributi, si trovano gli oggetti che permettono la manifestazione della potenza salvifica di Dio: le ceste di pani da moltiplicare o la tomba di Lazzaro, la coppia di leoni che circondano Daniele, la roccia da cui Mosè fa sgorgare l’acqua. La resa delle figure è impressionistica, affidata a pochi tratti che tuttavia riescono a delineare la scena con grande immediatezza ed efficacia espressiva.
Il documento più importante della pittura funeraria del IV secolo è senz’altro l’ipogeo di via Dino Compagni, al secondo miglio della via Latina47. Si tratta di un nucleo funerario privato, di una dozzina di camere sepolcrali, notevole sia per la tipologia monumentale degli ambienti (ispirata all’architettura dei mausolei sopra terra) sia per l’impegno decorativo, che coinvolge quasi tutte le superfici delle pareti e delle volte. L’ipogeo fu scavato in momenti successivi, in un arco cronologico compreso fra la tarda età costantiniana e la fine del IV secolo. La sua principale caratteristica è la mescolanza di soggetti cristiani (vetero e neotestamentari) con temi neutri ma a volte anche schiettamente pagani, come nel cubicolo N decorato con le imprese di Ercole: ciò ha fatto pensare che l’ipogeo fosse destinato a una famiglia di fede mista, con membri sia cristiani che pagani, oppure che i singoli cubicoli fossero usati da diversi nuclei familiari o sodalità funerarie, ognuno dei quali avrebbe decorato il proprio spazio con i temi che preferiva. Fra le pitture databili entro i decenni centrali del secolo vi sono quelle dei cubicoli B e C con storie dell’Antico Testamento, che costituiscono un unicum nell’arte del periodo, per ragioni iconografiche e stilistiche. La decorazione del cubicolo B si articola in riquadri privi di un ordine apparente, molti dei quali propongono episodi biblici estremamente rari, di cui spesso forniscono la prima attestazione conosciuta: l’ira del sommo sacerdote Pincas, che trafigge con la lancia un ebreo e una madianita sorpresi a letto insieme (Nm 25,6-9); oppure l’episodio di Raab che aiuta le spie israelite a fuggire da Gerico (Gs 2,1-21); o la fuga di Assalonne, che aveva tentato di sottrarre il regno al padre Davide, finita bruscamente quando i suoi lunghi capelli si impigliano ai rami di un albero (2 Sam 18,9-15). Dal punto di vista stilistico queste scene si differenziano dalla maggior parte delle pitture delle catacombe, che di norma (in accordo con la tendenza generale dell’arte di questo periodo) presentano solo i personaggi principali, isolati su uno sfondo neutro privo di ambientazione; al contrario, gli affreschi del cubicolo B si caratterizzano per l’attenzione alla coerenza spaziale delle singole scene: le figure sono inserite entro ambientazioni naturalistiche realizzate con pochi tratti essenziali ma assai efficaci, che interpretano il gusto ellenistico per l’ambientazione paesaggistica secondo la maniera impressionista tipica della pittura murale romana. Possiamo citare la scena di Mosè salvato dalle acque, ambientata in un folto canneto in riva al Nilo; o quella dell’ascensione di Elia, in cui la valle del Giordano è resa come un paesaggio bucolico popolato di greggi e pastori. Ancor più straordinari sono gli affreschi del cubicolo C, che lascia da parte la moltitudine di immagini tipica dell’arte paleocristiana (nella pittura delle catacombe come nei sarcofagi), sostituendola con una concezione decisamente più monumentale. Lo spazio è dominato infatti da due grandi scene tratte dal libro dell’Esodo: la prima, di discussa interpretazione, è da intendere probabilmente come il recupero del corpo di Giuseppe da parte degli Israeliti prima di lasciare l’Egitto; la seconda raffigura invece il passaggio del Mar Rosso; le scene si estendono rispettivamente su due e tre pareti contigue, di cui occupano l’intera altezza, e si caratterizzano per l’impianto grandioso e drammatico, affollato di personaggi. L’ipogeo di via Dino Compagni è quindi un contesto eccezionale nel panorama della pittura paleocristiana, con una concezione compositiva più complessa rispetto alla norma, basata su modelli di tradizione ellenistica e confrontabile forse con la perduta decorazione pittorica degli edifici di culto. Questa caratteristica, unita alla monumentalità dell’architettura, si può spiegare con una committenza di livello medio-alto, che poteva utilizzare per le proprie sepolture un ipogeo privato anziché le comuni catacombe.
Un ultimo contesto interessante per la pittura funeraria di quest’epoca è l’ipogeo di Trebio Giusto, un piccolo mausoleo privato, a pianta quadrata e coperto da volta a crociera, situato anch’esso al secondo miglio della via Latina, nelle vicinanze del precedente48. Grazie all’iscrizione che accompagna il ritratto del defunto, nella lunetta dell’arcosolio, sappiamo che la tomba fu fatta scavare dai genitori per il giovane Trebio Giusto, morto prematuramente a soli ventuno anni. Il defunto compare per ben tre volte negli affreschi della parete di fondo: in alto è raffigurato seduto su uno scranno e affiancato dai genitori, che stendono innanzi a lui una tovaglia coperta di oggetti in metallo (soprattutto gioielli e vasellame), forse identificabili come offerte funebri; nella lunetta dell’arcosolio è rappresentato come uomo di cultura, circondato di libri e strumenti per scrivere; nello zoccolo, infine, è raffigurato come dominus, in atto di impartire ordini ai servi che portano ceste colme di prodotti agricoli. Le pareti laterali fanno riferimento invece alla costruzione di un edificio. In quella di destra un personaggio barbuto, identico al padre del defunto raffigurato nella parete di fondo, discorre con un personaggio in tunica bianca, identificato dall’iscrizione come il magister Generoso; quest’ultimo compare anche sulla parete opposta, in piedi su un’impalcatura, mentre insieme ai suoi operai innalza un muro in mattoni: l’ambientazione bucolica delle due scene permette di identificare l’edificio in costruzione come una villa suburbana. A differenza di quanto accade nelle catacombe, gli affreschi di questo ipogeo non ci dicono nulla sulla fede della famiglia di Trebio Giusto o su eventuali speranze che essi riponevano nella salvezza eterna: le pitture della parete di fondo ci trasportano piuttosto in una cerchia familiare ristretta, in cui si coltiva la memoria del figlio scomparso, celebrandone l’attitudine al comando e alla cultura; le pareti laterali ci informano invece sulla passione architettonica del padre, fiero di essersi costruito una villa, espressione di ricchezza e di cultura, progettata da un architetto evidentemente abbastanza noto, se si è voluto ricordarne il nome. Queste pitture si ricollegano dunque al filone autorappresentativo, dominante nell’arte funeraria romana prima della diffusione dei soggetti cristiani; le tematiche sono legate alla vita terrena del defunto e della sua famiglia: l’orgoglio per i risultati sociali ed economici raggiunti si unisce a un’atmosfera di affettuoso ricordo per il figlio perduto e per le sue potenzialità, annientate da un destino avverso. Come accade di norma in questo genere di raffigurazioni, lo stile è semplice ed estremamente efficace anche se non di altissima qualità; colpiscono in particolare la caratterizzazione dei ritratti di Trebio Giusto e del padre e la vivacità delle scene di lavoro e di vita quotidiana, eredi della tradizione ‘popolare’ dell’arte funeraria romana.
Al termine di questa panoramica si può riflettere sul ruolo del periodo costantiniano entro il quadro più ampio dell’arte romana. Come detto all’inizio, l’epoca in esame vede la definizione di un nuovo linguaggio artistico, in cui i due binari paralleli dell’espressionismo e del classicismo dialogano costantemente, pur restando sempre chiaramente individuabili: queste due maniere, che proseguono nei decenni successivi, costituiscono in ultima analisi l’eredità figurativa che l’epoca romana lascia al Medioevo occidentale e orientale. Questi due stili guardano entrambi all’arte del passato, da un lato attraverso la prosecuzione (notevolmente addolcita) delle tendenze espressionistiche tetrarchiche, dall’altro mediante lo sguardo retrospettivo che caratterizza il classicismo aulico, rivolto in particolare verso l’arte dell’epoca antonina, l’età d’oro dell’Impero, punto di riferimento ideologico e stilistico per la cultura del IV secolo. Dove invece si esprime maggiormente la novità dell’arte costantiniana è nella scelta delle iconografie, e in particolare nell’introduzione di una cesura tra i due contesti principali d’impiego delle immagini, la casa e la tomba. Fino a quel momento le stesse immagini caratterizzavano il contesto domestico e quello funerario: le decorazioni delle tombe non si differenziavano da quelle delle case, anzi ne perpetuavano l’immaginario, con un continuo riferimento alla vita felice che i defunti avevano vissuto in questo mondo. Con l’epoca costantiniana la situazione cambia radicalmente. Nei contesti domestici la scelta dei soggetti si mantiene perfettamente in linea con la tradizione precedente: i temi prediletti sono la celebrazione della ricchezza e della cultura, le virtù dell’aristocratico e del cittadino, le gioie di una vita felice e spensierata. Le tematiche nuove, in particolare quelle legate alla religione cristiana, sono invece praticamente inesistenti: si pensi alle argenterie dei tesori dell’Esquilino e di Seuso, i cui proprietari erano certamente cristiani, ma che non si differenziano in alcun modo dalla contemporanea produzione pagana. Nell’arte funeraria, al contrario, i soggetti cristiani diventano in questo periodo preponderanti: per la prima volta nell’arte romana l’immaginario delle tombe cerca nuove vie rispetto a quello dispiegato nelle case, come risposta ai nuovi messaggi che i committenti sentono l’esigenza di esprimere. L’arte funeraria racconta ora storie di salvezza, più spesso individuale ma a volte anche collettiva: le immagini esprimono tutta la speranza che i defunti e i loro cari riponevano nella vita ultraterrena garantita dalla nuova fede. È notevole la differenza qualitativa tra queste neonate immagini di salvezza, spesso ingenue e quasi popolaresche, e la raffinatezza delle decorazioni domestiche, elaborate nel solco di una tradizione secolare; e purtroppo la perdita pressoché totale delle decorazioni degli edifici di culto monumentali non ci consente di seguire da vicino le diverse fasi di assimilazione della cultura artistica tradizionale all’interno dell’arte cristiana. È proprio nel periodo di Costantino, tuttavia, che devono essere stati elaborati i primi esperimenti, per noi inattingibili, di quella feconda interazione tra cultura figurativa tradizionale e nuove esigenze iconografiche che porterà, in epoca teodosiana e poi nel corso del V secolo, alla nuova stagione creativa dell’Impero cristiano.
1 H. Mielsch, Zur stadtrömischen Malerei des 4. Jahrhunderts n. Chr., in Mitteilungen des Deutschen archäologischen Instituts. Römische Abteilung, 85 (1978), pp. 151-207, in partic. 175-178; P. Liverani, Le proprietà private nell’area lateranense fino all’età di Costantino, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité, 100 (1988), pp. 891-915, in partic. 908-914; H. Mielsch, Römische Wandmalerei, Darmstadt 2001, pp. 131-132; M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico e le nuove immagini, 312-468, Milano 2006 (La pittura medievale a Roma, 312-1431. Corpus, 1), pp. 234-239, cat. n. 30.
2 M. Cagiano de Azevedo, La dea Barberini, in Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte, n.s., 3 (1954), pp. 108-146; H. Mielsch, Zur stadtrömischen Malerei, cit., pp. 178-179; Romana pictura. La pittura romana dalle origini all’età bizantina (catal.), a cura di A. Donati, Milano 1998, pp. 291-292, cat. n. 66; Aurea Roma: dalla città pagana alla città cristiana (catal.), a cura di S. Ensoli, E. La Rocca, Roma 2000, pp. 428-429, cat. n. 5; H. Mielsch, Römische Wandmalerei, cit., p. 132; M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico, cit., pp. 240-242, cat. n. 31; Costantino il Grande. La civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente (catal.), a cura di A. Donati, G. Gentili, Cinisello Balsamo 2005, pp. 303-304, cat. n. 157.
3 I. Lavin, The Ceiling Frescoes in Trier and Illusionism in Constantinian Painting, in Dumbarton Oaks Papers, 21 (1967), pp. 97-113; H. Mielsch, Römische Wandmalerei, cit., pp. 129-131; H. Brandenburg, Zur Deutung der Deckenbilder aus der Trierer Domgrabung, in Boreas, 8 (1985), pp. 143-189; E. Simon, Die konstantinischen Deckengemälde in Trier, Mainz 1986 (Trierer Beiträge zur Altertumskunde, 3); M.E. Rose, The Trier Ceiling: Power and Status on Display in Late Antiquity, in Greece & Rome, 53 (2006), pp. 92-109; E. Simon, Das Programm der frühkonstantinischen Decke in Trier, Ruhpolding 2007.
4 H. Mielsch, Zur stadtrömischen Malerei, cit., pp. 167-168; Romana pictura, cit., p. 292, cat. nn. 67-69; Aurea Roma, cit., pp. 454-455, cat. nn. 43-45; H. Mielsch, Römische Wandmalerei, cit., pp. 173-174; M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico, cit., pp. 243-246, cat. n. 32; Costantino il Grande, cit., pp. 304-305, cat. n. 158.
5 H. Mielsch, Zur stadtrömischen Malerei, cit., pp. 158-164; B. Brenk, Microstoria sotto la Chiesa dei SS. Giovanni e Paolo: la cristianizzazione di una casa privata, in Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte, s. III, 18 (1995), pp. 169-206; Aurea Roma cit., pp. 156-158; H. Mielsch, Römische Wandmalerei cit., pp. 127-128; M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico, cit., pp. 224-227, cat. n. 28.
6 M. Cagiano de Azevedo, La datazione delle tarsie della basilica di Giunio Basso, in Atti della Pontificia accademia romana di archeologia. Rendiconti, s. III, 40 (1967-68), pp. 151-170; G. Becatti, La Basilica di Giunio Basso sull’Esquilino, in Id., Edificio con opus sectile fuori Porta Marina, Roma 1969 (Scavi di Ostia, 6), pp. 179-215; Aurea Roma, cit., pp. 137-139 e 534-536, cat. nn. 174-178; M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico, cit., pp. 247-252, cat. n. 33; Costantino il Grande, cit., pp. 265-266, cat. n. 93.
7 S. Settis, Per l’interpretazione di Piazza Armerina, in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité, 87 (1975), pp. 873-994; K.M.D. Dunbabin, The Mosaics of Roman North Africa. Studies in Iconography and Patronage, Oxford 1978, pp. 196-212; A. Carandini, A. Ricci, M. de Vos, Filosofiana. La villa di Piazza Armerina. Immagine di un aristocratico romano al tempo di Costantino, Palermo 1982; S. Muth, Überflutet von Bildern. Die Ikonophilie im spätantiken Haus, in Lebenswelten. Bilder und Räume in der römischen Stadt der Kaiserzeit, Symposium am 24. und 25. Januar 2002 zum Abschluß des von der Gerda Henkel Stiftung geforderten Forschungsprogramms «Stadtkultur in der römischen Kaiserzeit», hrsg. von R. Neudecker, P. Zanker, Wiesbaden 2005 (Palilia, 16), pp. 223-242; E. Morvillez, Mise en scène des choix culturels et du statut social des élites d’Occident dans leur domus et villae (IIe-IVe siècles), in La «crise» de l’Empire romain de Marc Aurèle à Constantin. Mutations, continuités, ruptures, éd. par M.-H. Quet, Paris 2006, pp. 591-634, in partic. 606-616.
8 A. Carandini, A. Ricci, M. de Vos, Filosofiana, cit., pp. 238-239; J. Lancha, Mosaïque et culture dans l’Occident romain (Ier-IVe s.), Roma 1997 (Bibliotheca archaeologica, 20), p. 265, cat. n. 112.
9 S. Settis, Per l’interpretazione, cit., pp. 965-982; A. Carandini, A. Ricci, M. de Vos, Filosofiana cit., pp. 311-325; S. Sande, Dionysiac Motifs in the Triconchos Mosaics of Piazza Armerina, in Acta ad archaeologiam et artium historiam pertinentia. Series altera in 8°, 7 (1989), pp. 23-53; R. Amedick, Herakles im Speisesaale, in Mitteilungen des Deutschen archäologischen Instituts. Römische Abteilung, 101 (1994), pp. 103-119; A. Coralini, L’Hercules Victor di Piazza Armerina. Una proposta di lettura, in Atti del IV Colloquio dell’Associazione italiana per lo studio e la conservazione del mosaico (Palermo 9-13 dicembre 1996), a cura di R.M. Carra Bonacasa, F. Guidobaldi, Ravenna 1997, pp. 299-324; S. Muth, Überflutet von Bildern, cit., pp. 235-239.
10 Raffigurazioni della toeletta di Pegaso sono state rinvenute in due ville della Spagna Tarraconense (presso le odierne Arroniz e Almenara de Adaja); nel primo caso, il motivo è accompagnato da immagini delle Muse: J. Lancha, Mosaïque et culture, cit., pp. 178-184, cat. nn. 87-88.
11 J.-P. Darmon, Nymfarum domus: les pavements de la maison des nymphes à Néapolis (Nabeul, Tunisie) et leur lecture, Leiden 1980 (Études préliminaires aux religions orientales dans l’empire romain, 75); M.-H. Quet, De l’iconographie à l’iconologie: approche méthodologique. La symbolique du décor des pavements de la «Maison des Nymphes» de Nabeul, in Révue archéologique, 1 (1984), pp. 79-104; Id., Pégase et la mariée. De l’importance et de la signification de la figure de Pégase dans les mosaïques de la Maison des Nymphes de Nabeul, in Le trasformazioni della cultura nella tarda antichità, Atti del convegno (Catania 27 settembre-2 ottobre 1982), a cura di M. Mazza, C. Giuffrida, Roma 1985, pp. 861-931; J. Lancha, Mosaïque et culture, cit., pp. 36-42, cat. nn. 2-7.
12 W.A. Daszewski, Dionysos der Erlöser. Griechische Mythen im spätantiken Zypern, Mainz 1985 (Trierer Beiträge zur Altertumskunde, 2); Id., Cassiopeia in Paphos – A Levantine Going West, in Acts of the International Archaeological Symposium “Cyprus between the Orient and the Occident” (Nicosia 8-14 September 1985), ed. by V. Karageorghis, Nicosia 1986, pp. 454-470; J. Balty, Iconographie et réaction païenne, in Mélanges Pierre Lévêque, 1: Religion, éd. par M.-M. Mactoux, E. Geny, Paris 1988 (Annales Littéraires de l’Université de Besançon, 367; Centre de Recherches d’Histoire Ancienne, 79), pp. 17-32 [= Id., Mosaïques antiques du Proche-Orient: chronologie, iconographie, interprétation, Paris 1995 (Annales Littéraires de l’Université de Besançon, 511; Centre de Recherches d’Histoire Ancienne, 140), pp. 275-289]; G.W. Bowersock, Hellenism in Late Antiquity, Cambridge 1990, in partic. pp. 49-52; M.E. Olszewski, L’allégorie, les mystères dionisiaques et la mosaïque de la maison d’Aiôn de Nea Paphos à Chypre, in Bulletin de l’Association internationale pour l’étude de la mosaïque antique, 13 (1990-1991), pp. 444-463; M.-H. Quet, La mosaïque dite d’Aiôn et les Chronoi d’Antioche. Une invite à réfléchir aux notions de temps et d’éternité dans la pars Graeca de l’Empire des Sévères à Constantin, in La «crise» de l’Empire, cit., pp. 511-590, in partic. 518-523.
13 L. Guerrini, Infanzia di Achille e sua educazione presso Chirone, in Studi Miscellanei, 1 (1958-1959), pp. 43-53; W. Raeck, Modernisierte Mythen: Zum Umgang der Spätantike mit klassischen Bildthemen, Stuttgart 1992, pp. 122-138; F. Ghedini, Achille a Sciro nella tradizione musiva tardo antica: iconografia e iconologia, in Atti del IV colloquio dell’Associazione italiana per lo studio e la conservazione del mosaico, cit., pp. 687-704; Id., Achille “eroe ambiguo” nella produzione musiva tardo antica, in Antiquité Tardive, 5 (1997), pp. 239-264; Id., Achille nel repertorio musivo tardo antico fra tradizione e innovazione, in La mosaïque gréco-romaine VIII. Actes du VIIIème colloque international pour l’étude de la mosaïque antique et médiévale (Lausanne 6-11 October 1997), éd. par D. Paunier, C. Schmidt, Lausanne 2001, II, pp. 58-73; Al. Cameron, Young Achilles in the Roman World, in The Journal of Roman Studies, 99 (2009), pp. 1-22.
14 J. Lancha, Mosaïque et culture dans l’Occident romain, cit., pp. 89-91, cat. n. 44.
15 M.A. Manacorda, La paideia di Achille, Roma 1971 (Nuova biblioteca di cultura, 102); V. von Gonzenbach, Achillesplatte, in Der spätrömische Silberschatz von Kaiseraugst, hrsg. von H.A. Cahn e A. Kaufmann-Heinimann, Derendingen 1984 (Basler Beiträge zur Urund Frühgeschichte, 9), pp. 225-307; L. Pirzio Biroli Stefanelli, L’argento dei Romani: vasellame da tavola e d’apparato, Roma 1991 (Il metallo: mito e fortuna nel mondo antico, 2), pp. 295-296, cat. n. 163; M.A. Guggisberg, Kaiseraugst und die Silberschätze der Spätantike, in Der spätrömische Silberschatz von Kaiseraugst. Die neuen Funde: Silber im Spannungsfeld von Geschichte, Politik und Gesellschaft der Spätantike, hrsg. von M.A. Guggisberg, Augst 2003 (Forschungen in Augst, 34), pp. 247-284, in partic. 263-266; J. Szidat, Der Silberschatz von Kaiseraugst: Gedanken zu seiner Entstehung, seinem Besitzer und seiner Funktion, ivi, pp. 225-246; R.E. Leader-Newby, Silver and Society in Late Antiquity, Aldershot 2004, pp. 125-130.
16 F. Staehlin, Die Thensa Capitolina, in Mitteilungen des Deutschen archäologischen Instituts. Römische Abteilung, 21 (1906), pp. 332-386; F. Ghedini, Il carro dei Musei Capitolini: epos e mito nella società tardo antica, Roma 2009 (Antenor. Quaderni, 13).
17 J.W. Salomonson, Late-Roman Earthenware with Relief Decoration Found in Northern-Africa and Egypt, in Oudheidkundige mededelingen van het Rijksmuseum van Oudheden te Leiden, 43 (1962), pp. 53-95, in partic. 74-81; Id., Spätrömische rote Tonware mit Reliefverzierung aus nordafrikanischen Werkstätten: entwicklungsgeschichtliche Untersuchungen zur reliefgeschmückten Terra Sigillata Chiara “C”, in Bulletin Antieke Beschaving, 44 (1969), pp. 4-109, in partic. pp. 8-10; J.W. Hayes, Late Roman Pottery, London 1972, 83-91; J. Garbsch, Spätantike Keramik aus Nordafrika in der Prähistorische Staatssammlung: ein spätantike Achilles-Zyklus, in Bayerische Vorgeschichtsblätter, 45 (1980), pp. 155-160; Aurea Roma, cit., pp. 484-485, cat. n. 104.
18 A. Carandini, A. Ricci, M. de Vos, Filosofiana, cit., pp. 343-359; S. Muth, Überflutet von Bildern, cit., in partic. 239-240.
19 A. Carandini, A. Ricci, M. de Vos, Filosofiana, cit., pp. 331-335; G.L. Grassigli, Belle come dee. L’immagine della donna nella domus tardoantica, in L’image antique et son interprétation, éd. par F.-H. Massa-Pairault, Rome 2006 (Collection de l’École française de Rome, 371), pp. 301-339, in partic. 305-315.
20 D. Levi, Antioch Mosaic Pavements, Princeton 1947, pp. 260-277; Antioch Mosaics. A Corpus, ed. by F. Cimok, İstanbul 2000, pp. 222-225.
21 K.S. Painter, The Mildenhall Treasure. Roman Silver from East Anglia, London 1977; J.M.C. Toynbee, K.S. Painter, Silver Picture Plates from Late Antiquity: AD 300 to 700, in Archaeologia, 108 (1986), pp. 15-65; L. Pirzio Biroli Stefanelli, L’argento dei Romani, cit., p. 288, cat. nn. 144-146; Aurea Roma, cit., pp. 622-625, cat. n. 327; R.E. Leader-Newby, Silver and Society, cit., pp. 141-145.
22 Vetri dei Cesari (catal.), a cura di D.B. Harden, Milano 1988, pp. 245-249, cat. n. 139; G. Scott, A Study of the Lycurgus Cup, in Journal of Glass Studies, 37 (1995), pp. 51-64.
23 S. Settis, Per l’interpretazione, cit., pp. 930-931; A. Carandini, A. Ricci, M. de Vos, Filosofiana, cit., pp. 175-188; F. Ghedini, Iconografie urbane e maestranze africane nel mosaico della Piccola Caccia di Piazza Armerina, in Mitteilungen des Deutschen archäologischen Instituts. Römische Abteilung, 98 (1991), pp. 323-335.
24 M. Mundell Mango, A. Bennett, The Sevso Treasure, Part One, Ann Arbor 1994 (Journal of Roman Archaeology. Supplementary Series, 12.1), pp. 55-97, cat. n. 1.
25 S. Settis, Per l’interpretazione, cit., pp. 944-956; A. Carandini, A. Ricci, M. de Vos, Filosofiana, cit., pp. 194-230; H. Mielsch, Realität und Imagination im ‘Großen Jagdmosaik’ von Piazza Armerina, in Festschrift für Nikolaus Himmelmann. Beiträge zur Ikonographie und Hermeneutik, hrsg. von H.U. Cain, H. Gabelmann, D. Salzmann, Mainz 1989 (Beihefte der Bonner Jahrbücher, 47), pp. 459-466; S. Muth, Bildkomposition und Raumstruktur. Zum Mosaik der ‘Großen Jagd’ von Piazza Armerina in seinem raumfunktionalen Kontext, in Mitteilungen des Deutschen archäologischen Instituts. Römische Abteilung, 106 (1999), pp. 189-212; Id., Überflutet von Bildern, cit., pp. 230-235.
26 S. Settis, Per l’interpretazione, cit., in partic. pp. 926-937; A. Carandini, A. Ricci, M. de Vos, Filosofiana, cit., pp. 258-270.
27 S. Settis, Per l’interpretazione, cit., pp. 956-961; A. Carandini, A. Ricci, M. de Vos, Filosofiana, cit., pp. 335-343; J.H. Humphrey, Roman Circuses. Arenas for Chariot Racing, London 1986, pp. 223-233.
28 D. Levi, Antioch Mosaic Pavements, cit., pp. 226-257; Antioch Mosaics. A Corpus, cit., pp. 201-221.
29 K.J. Shelton, The Esquiline Treasure, London 1981, in partic. pp. 71-75, cat. n. 1; L. Pirzio Biroli Stefanelli, L’argento dei Romani, cit., pp. 302-303, cat. n. 180; Aurea Roma, cit., pp. 493-495, cat. n. 115; G.L. Grassigli, Belle come dee, cit., pp. 315-319; F. Ghedini, Il carro dei Musei Capitolini, cit., pp. 117-131.
30 D. Bielefeld, Die stadtrömischen Erotensarkophage, 2. Weinlese- und Ernteszenen, Berlin 1997 (Die antiken Sarkophagreliefs, 5.2.2), pp. 67-73; G. Koch, Frühchristliche Sarkophage, München 2000, pp. 584-590.
31 Repertorium der christlich-antiken Sarkophagen, I, Rom und Ostia, hrsg. von F.W. Deichmann, Wiesbaden 1967, pp. 105-108, cat. n. 173; G. Koch, Frühchristliche Sarkophage, cit., p. 586.
32 Repertorium der christlich-antiken Sarkophagen, I, cit., pp. 108-110, cat. n. 174; D. Bielefeld, Die stadtrömischen Erotensarkophage, 2, cit., pp. 134-135, cat. n. 192; G. Koch, Frühchristliche Sarkophage, cit., pp. 586-587.
33 D. Bielefeld, Die stadtrömischen Erotensarkophage, 2, cit., p. 105, cat. n. 33; G. Koch, Frühchristliche Sarkophage, cit., p. 587.
34 D. Bielefeld, Die stadtrömischen Erotensarkophage, 2, cit., p. 99, cat. n. 2.
35 H. Stern, Les mosaïques de l’église de Sainte-Constance à Rome, in Dumbarton Oaks Papers, 12 (1958), pp. 159-218; G. Matthiae, Mosaici medioevali delle chiese di Roma, Roma 1967, pp. 8-35; A.A. Amadio, I mosaici di S. Costanza: disegni, incisioni e documenti dal XV al XIX secolo, Roma 1986 (Xenia. Quaderni, 17); D.J. Stanley, Santa Costanza: History, Archaeology, Function, Patronage and Dating, in Arte medievale, n.s., 3 (2004), 1, pp. 119-140; M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico, cit., pp. 53-86, cat. n. 1.
36 P. Zanker, B.C. Ewald, Mit Mythen Leben. Die Bilderwelt der römischen Sarkophage, München 2004, in partic. pp. 246-266.
37 M. Wegner, Die Musensarkophage, Berlin 1966 (Die antiken Sarkophagreliefs, 5.3), pp. 39-40, cat. n. 80; L. Paduano Faedo, I sarcofagi romani con muse, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, 2.12.2, Berlin-New York 1981, pp. 65-155, in partic. p. 94.
38 F. Matz, Die dionysischen Sarkophage, Berlin 1968-1975 (Die antiken sarkophagreliefs, 4), p. 448, cat. n. 256; P. Kranz, Jahreszeiten-Sarkophage. Entwicklung und Ikonographie des Motivs der vier Jahreszeiten auf kaiserzeitlichen Sarkophagen und Sarkophagdeckeln, Berlin 1984 (Die antiken Sarkophagreliefs, 5.4), pp. 220-221, cat. n. 133; D. Bielefeld, Die stadtrömischen Erotensarkophage, 2, cit., p. 120, cat. n. 119; Costantino il Grande, cit., pp. 238-239, cat. n. 58.
39 P. Kranz, Jahreszeiten-Sarkophage, cit., pp. 193-194, cat. n. 34; D. Bielefeld, Die stadtrömischen Erotensarkophage, 2, cit., p. 142, cat. n. 226; P. Zanker, B.C. Ewald, Mit Mythen Leben, cit., pp. 256-258.
40 B. Andreae, Die Sarkophage mit Darstellungen aus dem Menschenleben, 2. Die römischen Jagdsarkophage (Die antiken Sarkophagreliefs, 1.2), Berlin 1980, pp. 121-124 e 153-154, cat. n. 59; J. Dresken-Weiland, Repertorium der christlich-antiken Sarkophagen, II. Italien mit einem Nachtrag Rom und Ostia, Dalmatien, Museen der Welt, Mainz 1998, pp. 70-71, cat. n. 185.
41 T. Klauser, Frühchristliche Sarkophage in Bild und Wort, Olten 1966 (Antike Kunst. Beihefte, 3); H. Kaiser-Minn, Die Entwicklung der frühchristlichen Sarkophagplastik bis zum Ende des 4. Jahrhunderts, in Spätantike und frühes Christentum (catal.), hrsg. von D. Stutzinger, Frankfurt am Main 1983, pp. 318-338; G. Koch, Frühchristliche Sarkophage, cit., pp. 202-216; P. Zanker, B.C. Ewald, Mit Mythen Leben, cit., pp. 263-266; M. Sapelli, La produzione di sarcofagi in età costantiniana (312-313 - circa 340), in Costantino il Grande, cit., pp. 166-173.
42 Repertorium der christlich-antiken Sarkophagen, I, cit., pp. 6-7, cat. n. 6; H. Kaiser-Minn, Die Entwicklung der frühchristlichen Sarkophagplastik, cit., pp. 322-323; G. Koch, Frühchristliche Sarkophage, cit., pp. 250-253.
43 T. Klauser, Frühchristliche Sarkophage in Bild und Wort, cit., pp. 30-31 e 62-64, cat. n. 10; Repertorium der christlich-antiken Sarkophagen, pp. 43-45, cat. n. 45; H. Kaiser-Minn, Die Entwicklung der frühchristlichen Sarkophagplastik, cit., pp. 325-326; G. Koch, Frühchristliche Sarkophage, cit., p. 283.
44 Repertorium der christlich-antiken Sarkophagen, I, cit., pp. 279-283, cat. n. 680; N. Himmelmann, Die Reliefs am Deckel des Junius-Bassus-Sarkophags, in Id., Typologische Untersuchungen an römischen Sarkophagreliefs des 3. und 4. Jahrhunderts n. Chr., Mainz 1973, pp. 13-28; R. Amedick, Die Sarkophage mit Darstellungen aus dem Menschenleben, 4. Vita privata (Die antiken Sarkophagreliefs, 1.4), Berlin 1991, p. 170, cat. n. 300; D. Bielefeld, Die stadtrömischen Erotensarkophage, II, cit., p. 140, cat. n. 217; Aurea Roma, cit., pp. 605-606, cat. n. 307; G. Koch, Frühchristliche Sarkophage, cit., pp. 284-285.
45 J.G. Deckers, H.R. Seeliger, G. Mietke, Die Katakombe ‘Santi Marcellino e Pietro’. Repertorium der Malereien, Città del Vaticano-Münster 1987 (Roma sotterranea cristiana, 6); N. Zimmermann, Werkstattgruppen römischer Katakombenmalerei, Münster 2002 (Jahrbuch für Antike und Christentum. Ergänzungsband, 35), pp. 163-241; M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico, cit., pp. 136-142, cat. n. 11.
46 J.G. Deckers, G. Mietke, A. Weiland, Die Katakombe ‘Anonima di Via Anapo’. Repertorium der Malereien, Città del Vaticano 1991 (Roma sotterranea cristiana, 9); N. Zimmermann, Werkstattgruppen, cit., pp. 49-59; M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico, cit., pp. 143-148, cat. n. 12.
47 A. Ferrua, Le pitture della nuova catacomba di via Latina, Città del Vaticano 1960 (Monumenti di antichità cristiana, s. II, 8); L. Kötzsche-Breitenbruch, Die neue Katakombe an der Via Latina in Rom. Untersuchungen zur Ikonographie der alttestamentlichen Wandmalereien, Münster 1976 (Jahrbuch für Antike und Christentum. Ergänzungsband, 4); W. Tronzo, The Via Latina Catacomb. Imitation and Discontinuity in Fourth-Century Roman Painting, University Park-London 1986 (Monographs on the Fine Arts, 38); A. Ferrua, Catacombe sconosciute. Una pinacoteca del IV secolo sotto la via Latina, Firenze 1990; N. Zimmermann, Werkstattgruppen, cit., pp. 61-125; F. Bisconti, Il restauro dell’ipogeo di Via Dino Compagni: nuove idee per la lettura del programma decorativo del cubicolo ‘A’, Città del Vaticano 2003 (Scavi e restauri, 4); LTUR: Suburbium, a cura di A. La Regina, Roma 2000-2008, III, pp. 151-152, s.v. Latina via (B. Mazzei); M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico, cit., pp. 131-135, cat. n. 10, e pp. 149-153, cat. n. 13.
48 L’Ipogeo di Trebio Giusto sulla via Latina: scavi e restauri, a cura di R. Rea, Città del Vaticano 2004 (Scavi e restauri, V); M. Andaloro, L’orizzonte tardoantico, cit., pp. 259-263, cat. n. 35.