Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Cinquecento la cucina italiana è il modello di riferimento per le corti europee per la spettacolarità nella confezione dei piatti e nelle modalità di servizio. Ne è conferma lo sviluppo di una manualistica, a base di ricette e menù, per pranzi e feste. Resta ovunque importante il ruolo delle spezie e in particolare dello zucchero. Accanto alla tavola ricca, è attestata un’alimentazione modesta, ma con prodotti di qualità, e un’offerta di vini estremamente diversificata.
Il modello italiano
La cucina, nell’Europa del Cinquecento, è anzitutto quella dei signori, principi e papi, e dei grandi mercanti. Su di essa possediamo numerosissime testimonianze e un discreto numero di ricettari. L’Italia ha un ruolo di primo piano, per il traffico di spezie con l’Oriente e di vini nel bacino mediterraneo, e per le sue manifatture che forniscono –con vetri, argenti e sete – gli addobbi e gli arredi della tavola. Fra le derrate esotiche, un posto fondamentale ha lo zucchero di canna, la cui profusione in ogni parte del banchetto è segno di ricchezza e di liberalità. Il suo uso si estende a quasi tutti i lavori di pasta: gnocchi, tortelletti e tagliatelli. Al modello delle corti italiane guardano quelle del Nord, da Parigi a Londra. Fra tutti i libri di ricette il più conosciuto è il De honesta voluptate et valetudine di Bartolomeo Platina che nel Quattrocento aveva fatto tesoro degli insegnamenti del maggior cuoco papale, mastro Martino, aggiungendovi un’analisi dietetica di derrate e piatti: lo ritroviamo in compilazioni eterogenee sia in Francia con il titolo Platine en françois (1509), sia in Germania, Von allem Speisen und Gerichten. Durch den hochgelehrten und erfahrenen Platinam, Babst Pii des II Hoffmeyster, pubblicato a Strasburgo nel 1530.
La festa
Il banchetto di corte è il volto più conosciuto della cucina rinascimentale italiana. Le testimonianze, le relazioni, i cerimoniali, i menù, raccolti o suggeriti da maestri di palazzo e intendenti, e persino affreschi e quadri, ci fanno testimoni di un’arte di preparare e servire le vivande. Il banchetto è diviso in servizi, da quattro a sette e più, ognuno con almeno dodici piatti diversi, simultaneamente disposti sopra la tavola; il primo con insalate, salumi, torte, e gli ultimi con pasticci, caci, frutta, fresca e candita, e un finale di ciambellette e cotognate, sono freddi e vengono denominati “di credenza”, mentre i servizi “di cucina”, caldi, occupano la parte centrale con maccheroni, frittate, carni (o pesci) in varie guise, alternati a gelatine e biancomangiare, e culminano con i fritti di pesce o gli arrosti di carne. Il servizio dei vini – apprezzati sono malvasie, trebbiani e moscatelli –viene effettuato alla richiesta di ogni commensale. Gli intermezzi, fra un servizio e il successivo, sono allietati da musiche, coreografie o improvvisazioni comiche. La presentazione dipende dall’impegno e dall’importanza dell’occasione, e va dall’uniforme in velluto degli scalchi alle sete profuse sul tavolo, con creazioni, da parte dei cucinieri, di statue di zucchero in ogni foggia.
I ricettari
A scrivere libri e trattati non sono gli esecutori materiali del banchetto, ma coloro che presiedono al servizio e al taglio delle carni, i trincianti, o coloro che dirigono le cucine e la gestione della mensa, gli scalchi. L’eredità quattrocentesca è molto forte e l’Opera nova chiamata Epulario del 1517 ripropone il trattato di Mastro Martino. A Ferrara Cristoforo Messisbugo redige Banchetti e composizioni di vivande con menù e ricette, canone e testimonianza della corte estense, pubblicato dopo la sua morte nel 1549. Suo erede sarà Giovan Battista Rossetti con uno Scalco, sempre edito a Ferrara nel 1584: repertorio di menù per grandi e piccole occasioni e di piatti classificati in base al loro ingrediente principale. Ma il più grande autore del Cinquecento lega il suo magistero alla corte romana, la più prestigiosa e cosmopolita. Con il titolo di cuoco segreto di papa Pio V, Bartolomeo Scappi sigla la sua Opera, nel 1570, destinata a fissare il codice italiano, registrando le ricette dei maggiori Stati, e a definire, nelle sue sfumature, i differenti stili del banchetto. Servizi d’apparato o curiali, piatti rituali, comandati dal calendario o dalle stagioni, e vivande per convalescenti, tutte le modalità nutritive sono previste e risolte. L’Opera ispira i cuochi stranieri, da Max Rumpolt, con il suo Ein neues Kochbuch (1581), a Luis Granado, il cui Libro del arte de cozina (1599) recepisce e traduce molte ricette.
Un mercato internazionale
Nei ricettari di corte non viaggiano solo le spezie: formaggi e salacche vengono menzionati con zone di provenienza spesso assai distanti dal luogo di consumo. I vini sono oggetto di una conoscenza e di un commercio che fa affluire nelle cantine dei palazzi botti di Paesi lontani. Essi sono destinati alla degustazione e a usi culinari, servendo i bianchi alle gelatine e i francesi alle salse. Mosto, agro di vino e aceto hanno un ruolo essenziale per condire e per conservare. Precursore della trattazione enologica è Sante Lancerio che indirizza a Paolo III, attento degustatore, una lettera sui vini, in particolare italiani, con osservazioni su provenienza, trasporto e caratteri sensoriali. L’opera più importante è quella di Andrea Bacci, medico e filosofo che redige e pubblica a Roma nel 1597 la De naturali vinorum historia. Si tratta di un compendio enciclopedico in cui si ritrovano descritti i vini non solo dell’Italia, della Spagna, della Francia e della valle del Reno, ma quelli provenienti da contrade lontane, dall’Ungheria al Portogallo.
Le cucine locali
Il vino è un prodotto sia esportato che consumato in loco, ed è indicativo di un regime alimentare che attinge le proprie derrate ora vicino ora lontano. Fuori delle corti, il mangiar quotidiano si avvale delle risorse immediatamente prodotte, e tanto meno abbienti sono le persone da nutrire, tanto più prossime sono queste risorse: il maiale allevato in casa, i cereali e gli ortaggi del campo. Una catalogazione dei prodotti locali figura nei trattati citati. Bartolomeo Scappi dà istruzioni precise per accertare la bontà dell’olio di oliva e per conoscere “ogni sorte di salami”. Un compendio di tutte le “specialità” è costituito dal Commentario delle più notabili & mostruose cose d’Italia, & altri luoghi... con un breve catalogo degli inventori delle cose che si mangiano e beveno di Ortensio Lando (1553). Opera giocosa di un letterato che dileggia il gusto antiquario, la mania di trovare degli inventori antichi o leggendari anche in cucina, testimonia le ricchezze ghiotte d’Italia.
Nel suo itinerario da sud a nord, ogni città e ogni contrada offrono vivande qualificate: “Che ti dirò della magnifica città di Ferrara, unica maestra del far salami e di confettare erbe, frutti e radici?”. E via dicendo con salsicce modenesi, cotognate di Reggio e gnocchi con l’aglio piacentini. Le grandi città sono illustrate o da un prodotto (i caci marzolini di Firenze) o dalla presenza di un grande emporio commerciale, primo fra tutti quello di Venezia con le sue malvasie di Candia e i pesci della Schiavonia. L’inventario di Ortensio Lando può essere esteso, con l’aiuto dei libri e delle relazioni di viaggio a tutta l’Europa dotata di strade. Il filosofo francese Michel de Montaigne, originario della regione di Bordeaux, in un viaggio da Parigi a Roma, passando per la Svizzera, illustra la diversità dei pani, dei vini e delle acque, e soprattutto costumi locali e abitudini nutritive. Un’altra Italia, più povera e più sobria delle sue corti e della stessa Francia, emerge dalle sue note.