La croce in Oriente
In questo contributo si tratterà della croce da Paolo ai Padri della Chiesa, fino alla fine dell’Iconoclastia: le origini e la diffusione del culto della vera croce in riferimento alla speculazione teologica e alla vicende storico-artistiche dell’Oriente cristiano e del suo principale centro di irradiazione, Costantinopoli.
Noi dobbiamo gloriarci nella Croce di Nostro Signore Gesù Cristo. In lui abbiamo la salvezza, la vita e la nostra resurrezione. Da lui fummo liberati e salvati1.
Il mirabile Introito della liturgia tridentina per la festa dell’Esaltazione della santa croce, passato intatto nel Novus Ordo Missae e sempre per la festa suddetta che ancora si celebra, su modello gerosolimitano, il 14 settembre, è tratto, con modifiche e integrazioni, dalla Lettera di san Paolo ai Galati2. Sembra presentare con brevi, precisi concetti tutta la teologia della croce, quale si è venuta configurando dalle fonti originarie e ‘rivelate’ del cristianesimo – Paolo appunto – sino in tempi recenti, senza mai scomparire dall’orizzonte, anzi assumendo nei secoli un ruolo sempre più centrale, fino all’apogeo delle devozioni, di origine medievale, ma altamente spettacolarizzate nell’età della Riforma cattolica e poi barocca – la Via Crucis, l’Adorazione della croce del Venerdì santo, la processione della croce (ad esempio quelle di san Filippo Neri nei vicoli della Roma tardo-cinquecentesca) e quant’altro – fino all’attuale, paradossale fenomeno di rimozione che è giunto al punto di bandire la croce stessa dagli ambienti destinati al culto e addirittura dagli altari, quasi che presso i moderni cristiani, così come presso i contemporanei di Paolo, la croce sia di nuovo uno «scandalo»3.
Se i Vangeli mantengono intorno alla croce un tono basso (e dal Vecchio Testamento dei LXX è assente addirittura il termine ‘croce’ del quale però si è visto l’antitipo nel termine ‘legno’4), non così Paolo, come si è visto, che ne fa uno degli elementi centrali della sua visione del percorso salvifico5 (e non così certuni Apocrifi6). La croce è altresì presente in tutta la letteratura cristiana antica, dalla seconda metà del II secolo fino alla fine dell’età patristica, che forse può essere fatta coincidere con il dibattito cristologico scaturito dalla crisi iconoclasta (che vede al centro l’opposizione tra immagine di Cristo e simbolo della croce) e con la conseguente soluzione di essa nell’843. Un recente studio di Teresa Piscitelli Carpino7 ripercorre la letteratura dei secoli II e III, evidenziando il ruolo di Ignazio di Antiochia (morto nel 107)8, dello Pseudo Barnaba (prima metà del II secolo)9, di Giustino (morto nel 165)10, della letteratura gnostica11, dell’omiletica pasquale di Melitone di Sardi (II secolo)12 e dello Pseudo Ippolito (probabilmente II secolo)13, di Ireneo di Lione (di origine asiatica, morto nel 202-203)14, di Clemente Alessandrino (morto dopo il 215)15, di Ippolito (morto nel 235)16, di Tertulliano (morto dopo il 220), di Cipriano vescovo di Cartagine (249-258)17, di Origene (morto nel 254)18. È però certamente a partire dal IV secolo che la croce assume un ruolo sempre più centrale non solo nella patristica in generale ma nell’omiletica in particolare, e ne dà ampia ragione con il suo elenco, seppur preliminare, di fonti che illustrano il tema della croce, Enrico Cattaneo19. L’autore osserva che tale fioritura è successiva all’affermarsi delle diverse tradizioni relative al tema dell’‘inventio della vera croce’, tradizioni che è opportuno evocare in questa sede, dato che è il convincimento di poter venerare, vedere, toccare, baciare, fisicamente sperimentare il contatto con la reliquia salvifica a produrre una così ricca messe di testi agiografici e teologici alla croce dedicati.
Di norma si fa risalire a sant’Ambrogio, vescovo di Milano (374-397), la più antica testimonianza sul ritrovamento della croce sul Golgota a opera di Elena. Questo brano, contenuto nel De obitu Theodosii, è fondamentale e sarà molto importante per la diffusione del culto della croce in Occidente; in realtà, non è però il vescovo milanese il primo a collocare in età costantiniana il ritrovamento del santo legno. Già nel 351, neanche quindici anni dopo la morte del grande imperatore, il vescovo di Gerusalemme Cirillo, in una lettera che conobbe ampia diffusione20, ricorda a Costanzo II che «al tempo di tuo padre, insignissimo e di pia memoria, fu ritrovato il legno salvifico della vivifica croce»21. E questo per introdurre alla descrizione di un prodigio avvenuto nei giorni della Pentecoste nel cielo di Gerusalemme, e cioè che «apparve una grandissima croce fatta di luce, che si estendeva dal cielo sopra il sacro Monte del Golgota, fino al santo monte degli Ulivi; vista non da una o due persone soltanto, bensì mostrata chiarissima alla moltitudine dell’intera città»22. L’apparizione in cielo della croce conferma l’importanza del ritrovamento avvenuto qualche tempo prima23; la croce e Gerusalemme in qualche modo finiscono per coincidere nell’immaginario cristiano da qui fin nei tempi a venire. Ma è nell’opera del nipote di Cirillo24, Gelasio vescovo di Cesarea (morto nel 395 circa), che si dovrebbe trovare la più antica menzione del ritrovamento da parte di Elena della croce, del titulus e dei chiodi con i quali si confezionano il morso e le briglie del cavallo dell’imperatore: si dovrebbe, perché l’opera di tale autore è perduta, ma ricostruibile a partire dalla menzione nella Bibliotheca di Fozio (820 circa-893) e, soprattutto, secondo Winkelmann, dai frammenti contenuti nella Storia Ecclesiastica di Rufino (345-410)25, continuatore ed esegeta di Eusebio di Cesarea – in particolare, in questo caso, il frammento 2026. Da questo passo apprendiamo anche che una parte della croce fu inviata a Costantino e un’altra fu conservata in loco in una teca d’argento27. Questa teca argentea entra poi a far parte della liturgia gerosolimitana, come ci attesta già nel 380 circa (ma la data è discussa) la pellegrina Egeria (anche il suo nome è discusso) che parla di un «loculus argenteus deauratus» dal quale la croce viene tolta per mano del vescovo e posata sulla mensa per essere offerta alla venerazione dei pellegrini il Venerdì santo, sotto il controllo attento dei diaconi che cercano di impedire il furto di suoi frammenti. Frammenti che peraltro già ai tempi di Cirillo, come egli stesso afferma in una sua Catechesi, si stavano diffondendo nella cristianità, soprattutto latina, e del cui eccezionale numero darà conto già nei primissimi anni del V secolo Paolino di Nola28.
Poco tempo dopo, sempre a Gerusalemme, sulla cima del Golgota che emergeva in superficie nell’atrio antistante alla rotonda dell’Anastasis, Teodosio II farà erigere una croce gemmata («de auro et gemmis ornata»), che tradizionalmente si ritiene il prototipo di quella portata in trionfo dalla Vittoria (Nike) sul verso delle monete auree battute da questo stesso sovrano, senza dubbio la prima apparizione di una vera e propria croce nella monetazione imperiale29. La data della croce del Golgota, la cui immagine può forse essere riconosciuta in quella che campeggia al centro del catino absidale della chiesa di S. Pudenziana a Roma30, la quale effettivamente domina uno scenario cittadino ove pare possibile riconoscere Gerusalemme, non è stata ancora determinata con esattezza, anche se Gianfranco Fiaccadori, in uno studio recente assai ben argomentato, propone il 416, data che può essere accettata con ragionevole certezza31. Tale data preciserebbe anche il completamento della decorazione della chiesa romana che sappiamo realizzato al tempo del papa Innocenzo I (401-417). Se la croce sul Golgota diventa subito un segno forte nell’orizzonte cittadino, assai meno nota è invece la croce eretta sul monte degli Ulivi (i due luoghi dell’apparizione del 351, si noti). Qui ci viene in aiuto solo la testimonianza di Girolamo (morto nel 419-420), che in punti diversi della sua sterminata produzione letteraria parla ad esempio di una «rutilantem montis Oliveti crucem» ma anche dice «de Oliveti monte quoque crucis fulgente vexillo plangere ruinos templi sui». La testimonianza di Girolamo non sembra dubitabile. Non è tuttavia possibile stabilire con esattezza dove la croce si trovasse – anche se il riferimento agli ebrei che piangono guardando le rovine del tempio fa pensare alla fronte rivolta verso la città – né è possibile stabilire quando sia stata ivi collocata: secondo Heid potrebbe essere stata posta lì dopo la morte di Giuliano (avvenuta nel 363), che aveva concesso agli ebrei di riedificare il tempio stesso, per celebrare il fatto che ciò non si era potuto realizzare32. In tal caso questa sarebbe stata la prima croce monumentale, luccicante, in città. In ogni caso le due croci dovettero sparire, se non con la presa della città da parte di Cosroe II nel 614 (ma tutte le leggende si appuntano sul trafugamento della reliquia della vera croce), certamente dopo la presa di potere degli arabi nel 638. Sparito l’oggetto, nasce il mito: è ancora la croce del Golgota a essere probabilmente evocata nel mosaico absidale della cappella dei Ss. Primo e Feliciano in S. Stefano Rotondo a Roma, commissionata dal papa gerosolimitano Teodoro I (642-643)33.
In conclusione, indipendentemente dalla verità o meno dell’inventio e delle circostanze in cui essa avvenne si può certamente affermare che almeno dalla metà del IV secolo (testimonianza di Cirillo) la croce diventa fondamentale per quel che riguarda il prestigio del contesto gerosolimitano; dalla fine del IV secolo essa è fisicamente centrale nelle liturgie del complesso del Santo Sepolcro come reliquia (testimonianza di Egeria); dagli inizi del V secolo la croce diventa il vero e proprio simbolo della città e come tale si espande nell’Impero grazie alla monetazione (croce sul Golgota di Teodosio II e croce sul monte degli Ulivi menzionata da Girolamo). Dopo la scomparsa dei monumenti è la reliquia della vera croce a sparire e ricomparire alternativamente nei secoli, seguendo le complesse vicissitudini della Città Santa, fino alla definitiva sparizione nel corso della battaglia di Hattin (1187) conclusa con la rovinosa sconfitta dei crociati a opera del Saladino, che si aprì così la via alla riconquista di Gerusalemme stessa.
Nell’arte bizantina post-iconoclasta è frequentissima l’immagine di Costantino ed Elena che sorreggono con una mano la croce posta al centro della scena; si trova certamente sui reliquiari della croce, le cosiddette stauroteche, ma anche, e spessissimo, nella pittura monumentale. Viene in questi esempi in qualche modo equiparato il contributo dei due santi (tali sono per le Chiese orientali, per quella latina è santa solo Elena), al ritrovamento e al culto della più preziosa reliquia della cristianità. Ma il loro contributo, alla luce delle fonti che narrano più o meno in dettaglio l’inventio della reliquia, appare in effetti assai diverso. Così come cauto sembra l’uso che l’imperatore fa del simbolo stesso della croce o di altri simboli che a essa, almeno nei primi secoli, fanno riferimento.
Costantino regna, e da Costantinopoli invia missive e ambasciatori in Terrasanta al fine di localizzare e poi monumentalizzare degnamente i luoghi che hanno visto la presenza di Cristo sulla terra: la sua grotta natale, gli spazi della sua passione, della sua morte e resurrezione. Nel far ciò è certamente coadiuvato dalla madre Elena, la quale, come la più augusta delle ambasciatrici, si reca di persona pellegrina in Terrasanta, promuovendo la ricerca di oggetti e luoghi sacri nonché la costruzione di edifici di culto che poi sarà il figlio a portare a termine.
Queste non sono leggende ma è quanto afferma in maniera chiara Eusebio di Cesarea, il biografo di Costantino, la cui attendibilità, seppur con tutte le tare che devono essere fatte a opere di carattere sostanzialmente agiografico, non è mai stata messa seriamente in discussione. Anzi, sono ormai ritenuti autentici anche tutti quegli autografi costantiniani, inseriti generosamente nell’opera eusebiana, intorno ai quali più si era appuntato il sospetto degli studiosi. Esclusa la Storia ecclesiastica, ragionevolmente terminata prima della morte di Crispo (326), che vi è citato in termini positivi, e il De laudibus Constantini, databile intorno ai tricennalia di Costantino (336), che menzionano solo di sfuggita i luoghi santi, è alla Vita di Costantino che si deve fare soprattutto riferimento34. È bene notare fin d’ora che in quest’opera capitale non si trova alcuna menzione esplicita della vera croce o del suo rinvenimento; questa è certamente un’arma forte nelle mani di quanti pongono l’inventio al di fuori della storia, se non nella leggenda tout court. Vi si traccia però il quadro storico fondamentale dei personaggi e degli eventi che poi saranno chiamati in causa per costruire quella storia o, appunto, quella leggenda, e certo non molti anni dopo la redazione eusebiana, che è probabilmente di poco posteriore alla morte dell’imperatore (337). I luoghi santi sono peraltro centrali nella narrazione di Eusebio, che dedica loro, in particolare al Santo Sepolcro, dettagliate descrizioni.
La lunga trattazione eusebiana35 scende piuttosto in dettaglio nelle intenzioni e nelle azioni dell’imperatore, che sentiamo parlare e vediamo agire in maniera straordinariamente diretta, come raramente o forse mai nella storiografia antica36. Costantino decide di magnificare il luogo della resurrezione su diretta ispirazione del Salvatore e a tal fine fa abbattere gli idoli pagani, fa trasportare le pietre e i legni contaminati il più lontano possibile, fa scavare in profondità e, ‘miracolosamente’, riscopre il «venerando e santissimo santuario [...] la grotta più santa tra tutti i luoghi santi». Si descrive poi il complesso sacro37, con una precisione e un’aderenza al vero che lasciano stupiti: certamente Eusebio conosceva bene il monumento. Ma Costantino si dedica ad abbellire altri luoghi santi e lo fa in memoria di sua madre. È qui che inizia l’ampia trattazione del viaggio di Elena in Palestina e in tutto l’Oriente, che dovrà lasciare una memoria indelebile nei contemporanei e poi nei trattatisti successivi al punto che tutto ciò che Eusebio attribuisce a Costantino nel tempo viene assegnato a sua madre, che diventa così la vera protagonista dell’evergetismo imperiale in Terrasanta in età costantiniana. Secondo Eusebio, comunque Elena fa costruire una chiesa sulla grotta di Betlemme e «maestosi edifici» sul monte degli Ulivi in ricordo dell’ascensione. Il figlio poi amplia e dota in maniera ricchissima queste due fondazioni. A quel che sembra, Eusebio non fa parola del rinvenimento della croce, anche se, in seguito, alcuni Padri interpretarono una frase che l’imperatore scrisse a Macario come una testimonianza del suo ritrovamento: «che il monumento della santissima passione di Cristo […] sia tornato a splendere al cospetto dei suoi servi […] è avvenimento che supera senz’altro qualsiasi possibile stupore»38. Indubbiamente la frase si presta a una simile interpretazione e può anche rientrare in quella sorta di espressioni – o descrizioni – pudiche impiegate talvolta da Eusebio per alludere alla croce, quali «il segno luminoso di una croce»39, che però nella successiva descrizione si rivela essere un chrismon (peraltro apparentemente realizzato in oro in tempi alquanto successivi) e non una vera e propria croce, e questo presumibilmente è il «segno salvifico»40, l’«emblema»41, il «trofeo»42, che garantisce al sovrano vittoria in battaglia, e a scarso prezzo di vite umane. Ma è nella descrizione di un soffitto del palazzo imperiale di Costantinopoli che troviamo una rappresentazione della croce che molto ricorda la terminologia utilizzata per il Santo Sepolcro: «al centro del soffitto […] fu inciso il simbolo della passione salvifica, risultante dall’accostamento di pietre preziose dei più diversi colori incastonate nell’oro massiccio»43. Dunque ben si comprende l’interpretazione patristica, anche se quando Eusebio ha voluto usare il vero e proprio termine ‘croce’ l’ha certamente usato – pur intendendo con esso forme che non sono propriamente ‘croci’– nel senso che nel tempo verrà poi consolidandosi e cioè delle due aste, verticale e orizzontale, incrociate a formare quattro angoli retti. La cautela del biografo non può d’altronde essere disgiunta da quella dell’imperatore medesimo che mai, nelle testimonianze a noi pervenute – monumentali, archeologiche, numismatiche o quant’altro – utilizzò il vero e proprio signum crucis, seguito in questo dai suoi immediati successori. Come si è visto, sarà Teodosio II, un secolo dopo, a iniziare la cristianizzazione della moneta, ma anche dell’architettura costantinopolitana (con cautela), fino ad allora improntata a una grandeur di marca imperiale romana, senza una particolare attenzione ai simboli cristiani.
Come che sia, solo quindici anni dopo la stesura della Vita Constantini (e cioè nel 351) Cirillo di Gerusalemme sa che la croce venne ritrovata al tempo di Costantino. È certamente possibile immaginare un’invenzione di sana pianta di questa tradizione e di questa reliquia, ma nulla nasce dal nulla ed è certamente plausibile pensare che, nel corso dei grandi sbancamenti e della fondazione del monumentale complesso del Santo Sepolcro, qualcosa si fosse realmente rinvenuto e che progressivamente – una volta usciti di scena i primi protagonisti della vicenda, Costantino, Elena, Macario ed Eusebio, che ancora non ne avevano evidentemente piena comprensione – sia stato riconosciuto come il vero lignum crucis e di necessità messo sempre più in relazione alla memoria dei primi protagonisti, in particolare Elena e Macario perché furono fisicamente presenti nei luoghi. Luoghi che peraltro l’imperatrice portò nel cuore e volle ricordare a Roma trasformando, secondo una tradizione già attestata nel VI secolo, un atrio del suo palazzo Sessoriano in una Hierusalem, che è, oggi, la chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, ricco scrigno di reliquie della Passione di Cristo44.
La vicenda appare ormai chiaramente delineata in Rufino/Gelasio, ove è Elena a recuperare la croce. L’imperatrice, anzi, va in Terrasanta divinis admonita visionibus, proprio a tal fine ed è inoltre lei stessa che distrugge gli idoli, fa sbancare il terreno ad locum coelesti sibi indicio designatum e recupera i tre legni e il titulus. Ma nel momento di riconoscere quale di questi tre è quello vero entra in scena Macario: si reca con l’imperatrice e una gran folla di fedeli presso una donna che giace morente, recita una preghiera a Dio per ottenere il miracolo, tocca la donna con le tre croci e l’ultima immediatamente cura la donna che torna alla vita. È interessante qui notare come, in pochi decenni, dal documento ufficiale imperiale romano di Costantino si sia passati a un clima miracolistico in cui le visioni divine, gli indizi forniti dal cielo, i prodigi e le guarigioni assumono un ruolo centrale nella trattazione. È altresì interessante notare come, se il ritrovamento avviene effettivamente da parte di Elena, il riconoscimento sia ispirato dal vescovo e il miracolo da lui ottenuto attraverso la sua preghiera, segno evidente del nuovo e più centrale ruolo svolto, o almeno ambìto, dai presuli nello scenario geopolitico del Tardoantico, o forse del fatto che questa tradizione dell’inventio nasce a Gerusalemme nella cerchia episcopale. Poi, per non oscurare troppo il ruolo dei sovrani, a Elena si attribuisce la costruzione dello splendido edificio sul luogo del ritrovamento; non si precisa di cosa si tratti o dove si trovi, ma si direbbe implicito riconoscervi il Santo Sepolcro, che così passa, nella tradizione, dalla committenza del figlio a quella della madre. Infine vengono trovati anche i chiodi, che vengono portati a Costantino, il quale li fa utilizzare per un morso di cavallo e per un elmo da portare in battaglia.
In buona sostanza è questa la versione che si consolida e giunge ad Ambrogio, il quale, per ragioni non chiarissime45, dedica alla questione dell’inventio della croce una parte considerevole dell’orazione funebre per Teodosio I (morto nel 395). Ma Ambrogio scrive in latino, e presumibilmente ne sa poco di greco, dunque un’analisi più dettagliata del suo importantissimo contributo alla storia e alla teologia della croce è meglio lasciarla allo studio sulla croce in ambito occidentale46, visto che difficilmente gli storici greci successivi che tramandano e consolidano la trattazione sull’inventio hanno conosciuto il De obitu Theodosii. D’altronde, la versione ambrosiana presenta non poche varianti rispetto alla tradizione greca, più omogenea.
Ci si volga dunque ora a Socrate47. Nella sua Storia ecclesiastica, databile al 439-440 circa, che continua quella di Eusebio, servendosi degli altri scritti di quest’ultimo ma anche di altri autori, Socrate compone un racconto dell’inventio che riprende quanto scritto in Rufino/Gelasio ma con l’inserimento anche di originali varianti, frutto probabilmente di tradizioni orali gerosolimitane e costantinopolitane. Elena, sollecitata in sogno, si reca a Gerusalemme; abbattuto l’idolo e ripuliti i luoghi, trova tre croci, il titulus e i chiodi; per identificare la vera croce, su consiglio di Macario, si accostano i legni a una donna in fin di vita e quello vero la fa guarire completamente. Allora Elena fa costruire la chiesa della Nuova Gerusalemme, pone una parte della croce in un cofano argenteo e ivi la deposita; il resto viene inviato a Costantinopoli e l’imperatore, come palladio della città, lo nasconde nella sua statua sulla colonna porfiretica (questa ancora esistente) al centro del Foro a cui ha dato il suo nome. Socrate afferma di aver scritto ciò «perché l’ha sentito dire e tutti gli abitanti di Costantinopoli dicono che è vero». A un secolo di distanza dalla sua erezione nel 330 circa la statua dell’imperatore nelle vesti di Helios è ormai definitivamente cristianizzata, anzi, in qualche modo è diventata una colossale stauroteca. Con i chiodi, infine, vengono realizzati un morso per cavallo e un elmo che Costantino porta in battaglia.
Per terminare questo excursus nella tradizione storica dell’inventio si prenda in considerazione Sozomeno48. La sua Storia ecclesiastica, databile alla metà degli anni Quaranta del V secolo, trae linfa da quella di Socrate, di poco precedente, ma, almeno in questo caso, se ne distacca ampiamente. Qui, intanto, Costantino decide di costruire un edificio sacro sul Golgota in ringraziamento per il buon esito del concilio di Nicea e Elena va in cerca della croce essendo molto devota alla causa dei cristiani49. La riscoperta del sacro luogo sarebbe avvenuta per opera di un ebreo che l’avrebbe identificato grazie ad alcuni documenti di famiglia avuti in eredità. Sozomeno però preferisce pensare che Dio stesso l’abbia rivelato attraverso segni e sogni50. Poco distante dal sepolcro, durante lo scavo, furono recuperate le tre croci e, a parte, il titulus. Poi la descrizione va più o meno in parallelo con le sue fonti: il vescovo Macario occupa la scena, recita la preghiera di fronte alla dama in fin vita e la tocca con le croci. Il miracolo avviene e la croce riconosciuta è riposta per gran parte in una custodia d’argento, che rimane a Gerusalemme, mentre un’altra parte viene mandata da Elena a Costantino insieme ai chiodi con cui l’imperatore forgia un elmo e il morso del cavallo. Sozomeno afferma:
E tutte queste cose noi le abbiamo raccontate come le abbiamo ricevute in trasmissione, apprese da uomini che le conoscevano con precisione e a cui accadde di apprenderle grazie a una tradizione trasmessa di padre in figlio, e da tutti quelli che hanno scritto queste stesse cose meglio che potevano e le hanno lasciate per i posteri51.
Da questo passo emerge che l’autorità della tradizione orale e la forza della parola scritta concorrono, per esplicita ammissione dell’autore, a formare questa trattazione dell’inventio che pure si distacca abbastanza da quella di Socrate. È grande il frammento che rimane a Gerusalemme, meno forte è la presenza di sogni e visioni, ancor più defilato è il ruolo di Elena, non si fa parola del nuovo palladio di Costantinopoli, e cioè la colonna del Foro di Costantino. Di Elena però si continua a parlare nel successivo capitolo, più o meno riprendendo alla lettera quanto scritto nella Vita Constantini di Eusebio per quel che riguarda la fondazione delle chiese della Natività e del monte degli Ulivi, fuso con quanto espresso da Socrate. Manca però la notizia della sua deposizione: d’altronde Eusebio parla di «città regina», che tutti hanno sempre inteso come Roma, mentre Socrate parla della «Nuova Roma», che non può non essere Costantinopoli. Già alla fine del IV secolo si era dunque ingenerata una nuova tradizione bicipite sempre riguardante Elena: era sepolta e venerata a Roma o a Costantinopoli? Ambedue rivendicheranno con forza tale primato, finché nel corso del Medioevo non si aggiungerà anche Venezia, dopo il sacco del 120452.
Il quadro così costruito attraverso le opere di Eusebio, Gelasio/Rufino, Egeria, Ambrogio, Socrate, Sozomeno non si modificherà più sostanzialmente lungo tutto il Medioevo, almeno fin quando la Legenda aurea di Iacopo di Varazze (XIII secolo) non vi ingloberà stabilmente anche il mito di Eraclio – sul quale si tornerà più avanti – che prima recupera la vera croce rubata dai persiani nel 614 e poi, dopo il 635, la trasporta definitivamente a Costantinopoli.
Il primo autore, dunque, a riportare una tradizione secondo la quale Elena aveva inviato a Costantino una parte della croce, non si comprende bene quanto grande, sembra essere stato Gelasio/Rufino: «ligni vero ipsius salutaris partem detulit filius»53. Ambrogio è invece testimone di una tradizione molto diversa, a quanto consta non seguita dagli autori successivi. Secondo il vescovo milanese, l’imperatrice «misit itaque filio suo Constantino diadema gemmis insignitum, quas pretioso ferro innexas crucis redemptionis divinae gemma connecteret»54, che è stato tradotto «mandò dunque a suo figlio Costantino il diadema tempestato di gemme, tenute insieme dalla gemma più preziosa della croce della divina redenzione, connessa al ferro»55. Sembrerebbe dunque che un piccolo frammento della croce fosse stato inserito nel diadema costruito a partire da uno dei chiodi, d’altronde, come ripete il santo, massima gloria è la «corona de cruce» (ma Ambrogio è anche l’unico a parlare di «diadema», mentre tutti gli altri autori parlano di elmo). Socrate è invece il solo ad affermare di aver saputo dagli abitanti del luogo che un frammento della croce fu inserito da Costantino all’interno della sua statua nel suo Foro – una notizia di notevole interesse che sarà riconsiderata più sotto. Sozomeno, di contro, si limita ad affermare che un frammento della croce fu inviato da Elena a Costantino – un frammento piccolo, però, dato che una «maxima quidem portio» rimane a Gerusalemme, custodita in una «argentea theca»56.
Come si vede, nella storiografia più antica non c’è dunque accordo sui dettagli della questione ma si concorda sul fatto che un frammento più o meno grande della croce raggiunse Costantino, o comunque Costantinopoli, poco dopo la sua scoperta. Se si ritiene che Eusebio non parli della vera croce perché non è ancora stata recuperata e si esclude anche che possa alludervi, nei termini più sopra esposti, allora questa è semplicemente una leggenda, tipicamente bizantina, che vuole, come è normale, far risalire a Costantino tutto ciò che è veramente importante e significativo, così come ogni monumento degno di particolare rispetto. È probabilmente così, ma va comunque notato quanto tale attribuzione sia precoce, risalendo essa a poco più di un decennio dopo la morte dell’imperatore, mentre normalmente tali miti costantiniani sembrano comparire e attestarsi molti secoli dopo. Come che sia, Cirillo di Gerusalemme sa che la croce fu ritrovata al tempo di Costantino, Ambrogio pensa che gli imperatori la portino sulla fronte inglobata in un diadema e Socrate sa che il frammento portato a Costantinopoli è stato inserito nella statua di Costantino nell’omonimo Foro.
In seguito, nella Vita di Pietro l’Iberico (georgiano, V secolo), si dice che un frammento della croce fu portato dal santo al palazzo e consegnato a Teodosio II57; secondo una notizia più tarda, Giustino II (565-578) avrebbe trasportato a Costantinopoli il frammento della croce che si trovava ad Apamea di Siria58; quanto rimane a Gerusalemme della vera croce fu trasferito a Costantinopoli da Eraclio nel 635. Secondo quanto poi raccontano i Patria Konstantinoupoleos – eterogenea e non sempre affidabile raccolta di testi più antichi, ma non anteriori al VI secolo, eseguita tra X e XI secolo – due gruppi scultorei rappresentanti Costantino ed Elena a fianco alla croce si trovavano uno nel Milion, monumento da cui si misuravano le strade che percorrevano l’Impero, e uno nel Foro di Costantino. I Patria ritengono trattarsi di monumenti di età costantiniana ma, visto che dell’inventio della croce da parte di Elena non si sente parlare, se tutto va bene, prima della seconda metà del IV secolo (Gelasio/Rufino), questo non sembra essere possibile. Considerando il rapido estinguersi del gusto per la grande statuaria a tutto tondo nel corso del V secolo, estinzione ormai compiuta nel VI secolo, si deve forse ritenere che tali gruppi, se mai sono esistiti, siano stati fatti eseguire da Arcadio (395-408) o addirittura da Teodosio II, che è poi il vero cristianizzatore dell’immagine della città di Costantinopoli. È vero altresì che l’immagine con la croce al centro affiancata da Costantino ed Elena inizia a diffondersi ampiamente a partire dal X secolo, e niente vieta che tali gruppi siano stati realizzati in quest’epoca, magari utilizzando statue imperiali più antiche. Infatti non c’è motivo di pensare che tali immagini avrebbero potuto essere state distrutte dagli iconoclasti, che veneravano la croce e incentivavano la raffigurazione degli imperatori, o che fossero state realizzate in altri media, letti poi dai patriografi, sempre inclini a un gusto antichizzante, come statue. Anzi, proprio in età iconoclasta si forma una curiosa leggenda secondo la quale Costantino avrebbe eretto in città tre croci, chiamate Gesù, Cristo e Vittoria, quest’ultima ribattezzata da Eraclio «invitta»59. D’altronde, sembra certo che la raccolta dei Patria fu realizzata, in prima stesura, proprio alla fine del X secolo.
Sebbene su questa misteriosa statuaria sembri opportuno mantenere una certa cautela, pure si deve ricordare che, in effetti, la croce era presente in città come immagine artistica fin dai tempi di Costantino. In ben due passaggi Eusebio lo ricorda, anche se sempre nei termini allusivi da lui di norma impiegati; in tutti e due i casi si tratterebbe di opere fatte eseguire dall’imperatore stesso nel contesto del palazzo imperiale, una però ben visibile, l’altra in un ambiente più interno.
Il quadro, collocato ben in alto davanti all’ingresso principale del palazzo imperiale, raffigurava il capo dell’imperatore sormontato dal segno salvifico, la belva nemica e ostile, che aveva perseguitato la Chiesa di Dio con l’empia tirannide, era invece riprodotta sul basso, in forma di drago [...] per mezzo di questo dipinto ad encausto, additava a tutti il drago mentre, sotto ai piedi suoi e dei suoi figli, veniva trafitto da un dardo nel mezzo del ventre e scaraventato nei gorghi profondi del mare60.
Si ritiene comunemente che quest’immagine si trovasse sulla lunetta sovrastante la porta principale del palazzo, quella che sarà poi nota come porta Chalke (di bronzo), che doveva affacciarsi, forse preceduta da propilei, sull’Augustaion, il foro rettangolare fatto costruire da Costantino nel punto di congiunzione tra la città greca di Bisanzio e la nuova Costantinopoli, forse nel luogo dell’antica agorà, foro dedicato alla gloria della dinastia dei secondi Flavi, le cui statue svettavano su una serie di colonne, tra cui è nota alle fonti (tarde) proprio quella dell’Augusta Elena. Nel drago si riconosce di solito Licinio, sconfitto da poco (324), ma potrebbe essere più banalmente il demonio, e nell’iconografia, si possono identificare temi trionfali ben noti all’epoca e testimoniati per gli anni del regno di Costantino dai conii monetari e nei mosaici teodericiani di S. Apollinare Nuovo a Ravenna – sebbene vadano datati tra la fine del V secolo e l’inizio del VI –, qui, peraltro, proprio come decorazione della lunetta che sormonta la porta principale della città nella celebre raffigurazione del palatium del re ostrogoto. La croce appare comunque segno che splende nel cielo e guida alla vittoria, alla sua luce l’imperatore sbaraglia i suoi nemici. E il messaggio, anche se i termini non sono certamente troppo espliciti, appare rivolto a un gran numero di persone.
Il secondo passo in cui Eusebio sembra fare riferimento all’iconografia costantiniana della croce è quello, sopra citato, in cui il vescovo di Cesarea menziona il simbolo cristiano inciso sul soffitto di una sala del palazzo imperiale:
Tanto grande era l’amore divino che aveva pervaso l’animo dell’imperatore, che nello stesso palazzo imperiale, nella sala che tra tutte era la più splendida, giusto nel mezzo di un grandissimo riquadro che si apre nel centro del soffitto a cassettoni tutto ricoperto d’oro, fu inciso il simbolo della passione salvifica, risultante dall’accostamento di pietre preziose dei più diversi colori incastonate nell’oro massiccio. A quanto sembra, questa immagine della croce fu eseguita per volontà dell’imperatore caro a Dio perché servisse da salvaguardia in difesa dell’impero61.
Qui invece ci troviamo negli interni del palazzo, anche se non è possibile stabilire con precisione la funzione di questo splendido ambiente, se sala d’udienza, del trono o, al limite, ambiente privato. Di certo, però, qui l’imperatore si rivolge a sé stesso e alla sua cerchia, ricorda il suo trionfo e rende grazie celebrando il «simbolo della passione salvifica» in oro e gemme. Nulla deve ricordare la modestia, l’austerità e l’umiltà delle origini. La croce, l’imperatore e il Cristo risplendono nell’oro, quasi illuminandosi a vicenda.
Ora, bisogna considerare il fatto che, almeno dall’inoltrata seconda metà del IV secolo, si era già formata una tradizione secondo cui uno o più frammenti della croce sarebbero stati inviati a Costantinopoli e ivi si trovassero. Non è però chiaro dove si trovassero, anche se nel corso dei secoli abbiamo documentazione relativa soprattutto alla colonna di Costantino, a Santa Sofia, al palazzo imperiale.
Gelasio/Rufino non dà indicazione sulla collocazione; è certamente da scartare l’idea di Ambrogio secondo cui un frammento di essa si troverebbe inserito nel diadema dell’imperatore: è sicuramente un’ulteriore immagine che il vescovo propone della sottomissione del potere civile a quello ecclesiastico. Più curiosa è la notizia, già ricordata, del collocamento del frammento della croce nella statua di Costantino nell’omonimo foro62.
La statua di Costantino nelle sembianze di Helios, in nudità eroica, con corona di raggi, il globo e la lancia nelle mani, è documentata da testimonianze grafiche e numismatiche. La statua cadde nel 1106 e fu rimpiazzata, durante il regno di Manuele I Comneno (1143-1180), da un coronamento in muratura e da una croce. Ma la colonna è ancora in piedi, con i suoi sette monumentali rocchi di porfido rosso (dei quali uno inglobato nel basamento turco settecentesco), raggiunge quasi trentacinque metri e con il suo posizionamento testimonia quello che doveva essere il centro del foro fatto costruire dall’imperatore, dove fu ufficialmente inaugurata la Nuova Roma. La croce posta sulla sommità da Manuele I testimonia l’ormai avvenuta completa cristianizzazione del monumento, e questo è per certi versi scontato, visto che ha luogo nel XII secolo, ma è indubbio che fin dalle origini l’immagine dell’imperatore come Helios dovette imbarazzare non poco la popolazione e le autorità cittadine, sempre più cristiane. Il rispetto per il fondatore fece però sì che la statua fosse conservata e restaurata fino alla sua naturale caduta, anche se una cristianizzazione fu probabilmente tentata molto presto, tanto che già Socrate, come si è visto, apprende da molti cittadini che un frammento della croce era stato inserito addirittura da Costantino stesso nella statua. Un globo sormontato dalla croce potrebbe essere stato posizionato nella mano imperiale dopo la caduta di quello originale nel 477, o addirittura nell’869, quando il globo venne sostituito una seconda volta. Probabilmente si può propendere per la prima data, vista la contiguità cronologica con la tradizione riportata in Socrate. Ma la testimonianza di quest’ultimo ha certamente grande valore in merito anche all’importanza che i bizantini attribuirono alla colonna porfiretica, principale attestazione del fondatore, intorno alla quale si addensò una grande quantità di più tarde leggende che la trasformarono in colossale reliquiario contenente le più disparate reliquie: la croce, certamente, ma anche i chiodi (con i quali addirittura sarebbe stata forgiata la corona raggiata) e il Palladio di Troia/Roma, l’ascia con cui Noè avrebbe costruito l’arca e altro ancora. È probabilmente questo addensarsi intorno alla colonna delle più disparate memorie, romane, pagane, ebraiche, cristiane, che porterà, forse in età iconoclasta (730-843), alla costruzione sulla piattaforma del monumento di un piccolo oratorio, di cui un’unica, ma attendibile fonte nota, il De Caerimoniis di Costantino VII Porfirogenito63 (912-959), dice essere dedicato a San Costantino. L’erezione di questa piccola chiesa fa dunque sì che tutte le cerimonie svolte dall’imperatore e dal patriarca presso la colonna appaiano in realtà svolte di fronte e dentro l’edificio sacro, mentre la colonna stessa resta in ombra, quasi fosse solo un carattere topografico significativo per far capire dove si trova san Costantino. Qui, comunque, i sovrani venerano «l’immagine della croce vivificatrice, baciano il Vangelo e la stessa preziosa croce»64: in quest’ultima si può probabilmente riconoscere una stauroteca. D’altronde una grande croce processionale era stata posizionata proprio di fronte alla colonna all’inizio della cerimonia. L’imperatore vi si reca tre volte l’anno: in occasione della festa della natività di Maria65, del lunedì di Pasqua66 e dell’Annunciazione67. La liturgia sembra svolgersi sempre nello stesso modo anche se il bacio della «preziosa croce» è esplicitamente citato solo per la prima solennità. L’edificio è menzionato anche nella descrizione di un trionfo sui saraceni, ma il cerimoniale è un po’ diverso, con l’imperatore che calca con il piede la testa dei vinti. Quest’edificio, che sembra svolgere un discreto ruolo nel corso del X secolo, purtroppo non è più menzionato in seguito né se ne sono recuperate testimonianze nel corso degli ancorché casuali scavi degli anni Venti e Trenta del Novecento; della sua esistenza non sembra però lecito dubitare.
Altro luogo di elezione per conservare frammenti della vera croce è sempre stata ritenuta la chiesa di Santa Sofia68. Pure, le testimonianze in merito sono contraddittorie e una tradizione relativa alla deposizione di frammenti della croce nella chiesa da parte di Costantino non è anteriore al VI secolo – e cioè non anteriore alla ricostruzione giustinianea del grandioso monumento (532-537) con il chiaro intento di rendere la nuova costruzione ancora più centrale nella prospettiva del sommo tempio della cristianità, così come è da pensare fosse concepita dall’imperatore che la ricostruisce e la fa decorare utilizzando soprattutto, e non a caso, l’immagine della croce in tutte le sue possibili varianti. Anche per il frammento portato da Eraclio si è in dubbio ma, almeno secondo il patriarca iconodulo Niceforo (806-815), questo potrebbe essere stato depositato in Santa Sofia. D’altronde, già il pellegrino Arculfo nel 670 circa l’aveva visto e venerato. Poi le testimonianze intorno alle stauroteche di Santa Sofia si infittiscono, di norma in relazione alla celebrazione del 14 settembre o come donativi del clero. Nel De Caerimoniis I 31, ad esempio, si può leggere la descrizione dei riti da «osservare per la festa e la processione dell’elevazione dei preziosi legni»69. L’imperatore, con solenne corteo, si reca a Santa Sofia dove si intrattiene brevemente a colloquio con il patriarca. Quest’ultimo poi si reca nel piccolo sekreton dove sono custoditi i preziosi legni e qui aspetta l’imperatore; al canto del Gloria in excelsis Deo anche l’imperatore raggiunge il sekreton e venera i preziosi legni. Poi tutti vanno nel grande sekreton, ricevono le candele e formano la processione che accompagna i preziosi legni in chiesa. Questi vengono deposti nel santuario (sembrerebbe all’altare del santo bema), e qui il sovrano li venera. Poi il patriarca li riporta sull’ambone e li ostende nelle quattro direzioni. Infine, li riporta nel santuario, dove l’imperatore, prima di andarsene, li venera nuovamente. Di questi non si fa più parola ed è da ritenersi che siano poi deposti privatamente nel piccolo sekreton da cui erano stati tratti all’inizio della liturgia.
In un altro brano, dedicato alla festa dell’Ortodossia, si legge che prima di entrare nel nartece di Santa Sofia, in un ambiente specifico l’imperatore venera la «preziosa croce» e il santo Evangelo, poi si avvia verso l’ingresso della chiesa70.
Nei secoli XIII e XIV si hanno poi anche testimonianze di stauroteche nei monasteri costantinopolitani dell’Evergete e del Pantokrator, che pure fu, a partire dalla sua fondazione nel 1118, uno scrigno di preziose reliquie a maggior gloria della famiglia dei Comneni, che lo fondano nella prospettiva di farne un mausoleo dinastico71.
Infine una leggenda agiografica, sopra menzionata, ricorda che un frammento della croce fu portato nel palazzo imperiale già all’epoca di Teodosio II. È però solo nel De Caerimoniis che si legge di reliquie della vera croce custodite nel palazzo e gestite in vario modo dagli imperatori che le venerano nel corso delle cerimonie, le portano in processione, ne traggono frammenti per inviarli come doni. Diversi passaggi di questo complesso e stratificato cerimoniale menzionano tali croci, anche se non è sempre chiaro se si tratti di semplici croci, ancorché preziose, o di vere e proprie stauroteche. Ad esempio, per avere un’idea di tali difficoltà, nell’ordine della processione che va dal palazzo a Santa Sofia72 si legge che gli imperatori si recano, a un certo momento, nella chiesa palatina della Santissima Theotokos da cui passano a quella della Trinità, poi visitano le reliquie e infine si spostano verso il battistero, dove si trovano «le tre grandi e belle croci», che vengono ornate con candele; non si fa parola di venerazione ed è quindi presumibile che si tratti solo di croci e non di frammenti della vera croce. Poi, invece, entrano in S. Stefano, dove è conservata la «grande, bella e preziosa croce di San Costantino», rendono grazie a Dio e la venerano: questa è certamente una stauroteca e l’associazione con Costantino deve renderla ancora più preziosa. Poi vanno al grande Concistoro, dove si trova un’altra «croce di San Costantino», ma sembra che qui non entrino; da qui si recano al triclinio dei Candidati dove il custode del tesoro della chiesa del Signore porge loro la «la croce del Signore» da baciare. Proseguendo, passano davanti a due magnifiche croci d’argento, davanti alle quali si inchinano tre volte. Usciti dal palazzo ed entrati in Santa Sofia, la «croce di San Costantino» è posta a destra nel santuario; gli imperatori entrano poi da quella parte nel santuario, dove si inchinano tre volte e incensano il «santo crocifisso d’oro», salutano il patriarca e si recano verso il metatorion; prima di entrarvi, nell’antistante oratorio baciano «la preziosa croce che porta i simboli delle sofferenze del nostro Signore e Dio», momento che sembra per certi versi l’apice dell’intera, interminabile processione sin qui descritta. Per tutto il resto della divina liturgia e poi del rientro, peraltro complicatissimo, nel palazzo, e fino al termine della cerimonia non vengono più menzionate croci di sorta. In ogni caso il ruolo della croce in questo cerimoniale è veramente straordinario e centrale, al di là dell’attuale possibilità di comprenderlo.
In altri casi, ovviamente, la stessa fonte è assai più concisa e chiara: per la domenica della terza settimana di Quaresima, «quando si venera il prezioso e vivificante legno della croce», si dice solo che la corte, giunta a palazzo di notte, si reca alla Theotokos del Faro dove venera i «preziosi legni», e quindi all’ippodromo per aspettare gli imperatori73.
A fronte di tutto ciò è ancor più singolare che negli inventari bizantini delle reliquie del palazzo, custodite nella maggior parte proprio nella chiesa della Theotokos del Faro, non si faccia menzione di vera croce, che pure gli occidentali di passaggio a Costantinopoli vedono, o conoscono, in quella sede, e più volte con cupidigia descrivono, fino al sacco del 1204, momento in cui le reliquie costantinopolitane prendono in massima parte la via dell’Occidente, come si evince in particolare dal racconto di Robert de Clari: tra queste, di particolare rilievo sono proprio le stauroteche, oggetti preziosi anche per materiali e fattura oltre che per il loro sacro contenuto. Di straordinaria importanza, nel 1241, è l’arrivo a Parigi, dal palazzo imperiale bizantino, delle principali reliquie cristologiche, ivi compresa ovviamente la croce, acquisite da Luigi IX, re di Francia (1226-1270), che fa della capitale francese una nuova Gerusalemme e una Costantinopoli, nonché un centro di diffusione delle reliquie stesse, soprattutto delle spine della Corona di spine ma anche dei frammenti della croce74.
Si tratta di testimonianze e di una storia certamente molto complesse ma, per concludere, si potrebbe dire che, comunque, da tempi molto precoci, addirittura immediatamente post costantiniani, almeno una parte della vera croce si riteneva presente e si venerava in vario modo a Costantinopoli e, a giudicare dalle molteplici menzioni del De Caerimoniis, svolgeva un ruolo importantissimo nella liturgia imperiale, si svolgesse essa nel palazzo, in Santa Sofia o in altri luoghi della città, e in particolare nella cappella di San Costantino presso la colonna di porfido.
Se molte leggende e tradizioni fanno riferimento all’età costantiniana per tutto ciò che riguarda la croce a Costantinopoli, è ben vero che molte tra queste sono nate non prima del VI secolo e poi tra la fine del VII e l’età iconoclasta. A suscitare nuovo interesse intorno alla vera croce fu certamente il suo trasporto in città, voluto da Eraclio nel 635 al fine di sottrarre la croce agli arabi che in quel momento stavano conquistando la Terrasanta; Gerusalemme, infatti, cade nel 638. L’imperatore teme che il mistico cimelio cada di nuovo vittima di razzie e saccheggi, così come era accaduto nel 614 dopo la conquista persiana. Certo quell’evento aveva dato ai bizantini l’occasione che cercavano da secoli per distruggere l’impero sasanide (e prima di loro i romani) senza che si potesse pensare che, tramontato quello, un altro ne sorgesse subito dopo, dotato di straordinaria vitalità e voglia di conquista, e che l’aver distrutto un fronte apriva senza ostacoli l’altro, e cioè proprio quello in direzione di Bisanzio. Il 21 marzo 630, quando avvenne la restituzione trionfale della vera croce al Santo Sepolcro di Gerusalemme, sembrò certamente un giorno grande e glorioso come da tempo non se ne registravano più in quei secoli, che per l’Impero d’Oriente iniziavano a diventare di ferro, e così viene vissuto nelle fonti che ce lo tramandano. D’altronde Eraclio era diventato imperatore nel 610 sotto i migliori auspici, debellando il tremendo tiranno Foca, e si era subito affermato come grande soldato e stratega, tanto che la tradizione bizantina lo ricorderà come uno dei più grandi eroi militari. I contemporanei si profondono in lodi che toccano vertici di esaltazione. In Niceforo, Strategio, Sebeo, Giorgio di Pisidia (nel suo In restitutionem sanctae crucis), nel Chronikon Paschale si possono leggere descrizioni e poemi celebrativi che mescolano come sempre storia e leggenda. Presentatosi Eraclio davanti alla Porta d’Oro con la reliquia della croce in un cofanetto sigillato, che il patriarca in pectore Modesto aveva appena dichiarato intatto e inviolato, una serie di prodigi gli impediscono l’accesso finché l’imperatore non smonta da cavallo, non si spoglia dei paramenti imperiali e non assume un atteggiamento di completa umiltà. Alla fine del percorso trionfale restituisce la croce all’Anastasis, primo imperatore cristiano dei romani a essersi personalmente recato a Gerusalemme75. E già con grande fervore mistico e trionfalismo insieme erano state accolte l’anno prima, nell’estate del 629, a Costantinopoli, la santa lancia e la santa spugna inviate dal persiano Niceta, figlio di Shahrbaraz, in segno di pace e alleanza. E così sarà nel 635 con il trasporto della vera croce a Costantinopoli perché gli arabi premono alle porte di Gerusalemme, che infine conquistano nel 638.
Il recupero della croce ha quindi assegnato a Eraclio quasi un’aura di santità, peraltro in uno scenario che deliberatamente unisce le sue gesta con quelle di Costantino e addirittura di Davide76, che non tramonterà nei secoli e sarà consacrata nella Legenda aurea, come si è accennato sopra, del frate domenicano, poi vescovo, Iacopo di Varazze, testo scritto intorno alla metà del XIII secolo e diffusissimo nel Medioevo, come testimoniato dalle circa mille copie manoscritte giunte sino a noi77. In questo ancor oggi celebre testo, che segue le festività del calendario liturgico, si tratta della croce due volte: per la festa dell’Invenzione78 e per quella dell’Esaltazione79. Nel primo caso sono riassunte ed elaborate le leggende relative al ritrovamento del legno, ma l’autore ritiene di utilizzare opere storiche, delle quali non manca di rilevare tutte le contraddizioni, pur cercando di costruire una vicenda credibile, ancorché piena di accadimenti portentosi. Nel secondo, invece, è Eraclio il protagonista assoluto. Cosroe, dopo aver rubato la croce, lascia il regno al figlio, si installa in un tempio con la croce alla sua destra e un gallo alla sua sinistra – una curiosa, invero, versione della Trinità – e si fa adorare come fosse Dio Padre. Allora Eraclio raccoglie un grande esercito e sul Danubio, in singolar tenzone, sconfigge il re persiano: «tutto il popolo di Cosroe si sottomise alla fede cristiana e ricevette il sacro battesimo»80. Eraclio poi raggiunge Cosroe nel suo tempio, gli propone la conversione e, al suo rifiuto, gli tronca il capo. Poi riporta la croce a Gerusalemme dove, come si è detto, non può entrare a cavallo e in paramenti imperiali ma a piedi, scalzo e con umili vesti per imitare Cristo il quale «quando passò per questa porta per andare alla passione non passò con pompa regia, ma su un modesto asinello, e lasciò con questo un esempio per tutti coloro che vogliono essere suoi seguaci»81, come annunciato da un angelo apparso sulla porta con una croce in mano. Restituita la croce al suo luogo d’origine, si rinnovano gli antichi prodigi: i ciechi vedono, i paralitici camminano, i morti risorgono, i demoni fuggono. L’imperatore restaura e arricchisce i sacri edifici, poi ritorna a Costantinopoli. Subito dopo si narra un’altra versione dei fatti relativi alla sconfitta dei persiani e al recupero della croce, con l’esercito romano che muove contro il Gran Re e lo sconfigge più volte arrivando fino a Ctesifonte. Ma l’imperatore è anche poeta e mistico, e così sigla la sua impresa:
O croce più brillante di tutte le stelle, venerata in tutto il mondo, amata da tutti gli uomini, più santa di ogni cosa, tu che sola sei stata degna di portare la dote del mondo, dolce legno, dolci chiodi, dolce punta e dolce lancia, tu che porti dolci pesi, salva la folla che qui è riunita per cantare le tue lodi, e porta il vessillo con la tua insegna82.
Sono queste immagini che ispireranno poi i molteplici artisti occidentali che nei secoli raffigureranno la leggenda della vera croce, a partire dal più celebre fra tutti, Piero della Francesca in San Francesco ad Arezzo83. Eraclio rimarrà, comunque, sempre indissolubilmente legato al trionfo e all’esaltazione della croce; delle sue eroiche virtù non si perderà mai memoria a Bisanzio, dove con Basilio II lo si riterrà il più grande degli imperatori militari84, e in Occidente, dove sarà protagonista di innumerevoli storie e tragedie, la più nota, forse, quella di Pierre Corneille85. E questo a onta del fatto che sotto il suo regno Bisanzio perde completamente il Sud e l’Est del suo territorio, conquistato dagli arabi, contro i quali l’ormai anziano e stanco imperatore poco o nulla può fare. Ma i miti, nella storia, sono ben più duraturi della realtà.
Nel mondo bizantino le cose però andranno diversamente e quasi mai testi quali la Legenda aurea o opere analoghe prodotte in lingua greca, pur esistenti, serviranno da base per cicli pittorici, se non in epoche assai tarde, tra i secoli XIII e XV. Per i secoli che precedono l’Iconoclastia, è noto, le testimonianze figurative dell’Oriente cristiano sono assai scarse. Ma non così quelle simboliche, e tra queste è proprio la croce a dominare86. D’altronde si conosce l’ammonimento di San Nilo del Sinai al prefetto Olimpiodoro, che gli chiedeva se fosse lecito decorare una chiesa che si stava costruendo con immagini figurative, storie vetero e neotestamentarie, immagini di fauna e di flora: sarebbe infantile distrarre l’occhio dei fedeli con tutte queste banalità; sarebbe invece segno di mente saggia posizionare una sola croce nel santuario, in particolare nella zona absidale, perché è attraverso la virtù della croce salvifica che l’umanità viene salvata […] anche nella navata, che è divisa in diverse campate, considero sufficiente che una venerabile croce sia posizionata in ciascuna di esse; tutto ciò che è inutile deve essere lasciato fuori87.
Sebbene questo ammonimento non fu mai inteso in maniera rigida, tranne che per l’età iconoclasta, certamente tracciava una via che in qualche modo è sempre stata seguita, pur senza necessariamente intenzioni polemiche nei riguardi delle figurazioni antropomorfe. Delle croci, o simboli equivalenti, che in età costantiniana decoravano l’ingresso e una delle sale del palazzo, nonché della croce gemmata tenuta in mano dalla Nike nella monetazione di Teodosio II, si è già detto. È d’altronde proprio all’inizio del V secolo che la croce inizia a diffondersi ampiamente nella scultura, nella pittura e nella scultura in funzione architettonica. Si può iniziare citando il raffinato, piccolo sarcofago detto di Sarigüzel, al Museo archeologico di Istanbul, del 400 circa, la cui fronte mostra uno staurogramma in una corona di lauro portata da due angeli e i cui lati minori presentano ciascuno una grande croce affiancata da due apostoli. Tale iconografia si diffonderà con una certa ampiezza, come testimoniato, in seguito, dalla patena argentea dell’Ermitage di San Pietroburgo, ove gli angeli si sostituiscono agli evangelisti, o dallo schienale della cosiddetta cattedra marmorea di san Marco, nella basilica di S. Marco a Venezia, ambedue del VI secolo.
Per passare alla scala monumentale, si veda la croce nel clipeo che orna l’apice del timpano del propileo d’accesso a Santa Sofia a Costantinopoli, nella ricostruzione teodosiana, consacrata nel 415, recuperato negli scavi degli anni 1935-1938, insieme a molti altri frammenti dello stesso complesso, anch’essi ornati con croci, ad esempio sulle colonne e sui capitelli d’imposta88. Certo, rispetto alla grandiosità dei pezzi marmorei, tali croci appaiono ancora di piccolo formato e relativamente poco visibili: ideologicamente però la croce, inequivocabilmente, costituisce il vertice della spettacolare decorazione di facciata. E ancor più centrale appare la croce nell’ambito della decorazione interna ed esterna del basamento della colonna di Arcadio, dedicatagli dal figlio Teodosio II nel 421. Questo si è conservato, mentre sono andati perduti i suoi rilievi scultorei che ci sono comunque noti grazie ad accurati disegni: qui la croce è il centro ideale verso cui converge l’intera decorazione, che celebra la concordia degli Augusti, Arcadio, appunto, e Onorio, che reggono l’orbe, dominato e illuminato dalla croce stessa, simbolo ormai di trionfo. Anche la volta della stanza interna presenta una croce all’interno di una elaborata decorazione89. Per la decorazione pittorica si hanno certamente meno testimonianze, ma la croce è molto presente, ad esempio, nella decorazione musiva dei sottarchi della chiesa dell’Acheiropoietos di Salonicco.
Questa tendenza, sottilmente ma evidentemente aniconica, si riscontra ampiamente nel VI secolo soprattutto nell’ambito della committenza giustinianea. L’imperatore sembra infatti essere stato alquanto propenso all’uso della croce piuttosto che delle immagini figurative per decorare le sue principali fondazioni, in particolare Santa Sofia a Costantinopoli, ricostruita negli anni 532-537. Prima che, nel IX secolo, anche in questa chiesa venissero inserite le immagini sacre, nei termini di potente affermazione dell’iconodulia trionfante, l’unica decorazione che si poteva vedere nell’edificio era sostanzialmente aniconica e, in particolar modo, giocata proprio sul simbolo della croce. Per quanto riguarda i mosaici, essa si conserva in buone condizioni, soprattutto al pianterreno: nelle volte delle navate laterali e del nartece si possono vedere croci di ogni genere, greche, latine, gemmate e quant’altro, e di ogni dimensione che ornano volte, lunette, pareti (ma anche le porte bronzee, ad esempio), assumendo un rilievo di volta in volta diverso; probabilmente grandi croci musive ornarono l’abside e il centro della cupola, come è possibile intuire dalle descrizioni delle fonti90. Anche la scultura marmorea in funzione architettonica manifesta, e amplia, la stessa tendenza. Già nel V secolo, come si è detto, si comincia a notare questa presenza, che letteralmente esplode nel VI. Pilastri, stipiti, soffitti di finestre, trabeazioni, pulvini, capitelli, ma soprattutto lastre, di recinzione presbiteriale o destinate ad altre funzioni, dove compaiono una, due, tre croci, e sono greche, latine, clipeate, monogrammatiche, con lemnischi, etc. Si veda proprio il caso di Santa Sofia in Costantinopoli91, che porta al sommo grado tale tendenza decorativa, ma anche altri complessi nei quali i materiali marmorei bizantini sono ancora ben conservati, ad esempio la recinzione della schola della chiesa di S. Clemente a Roma92.
Sono dunque sparite dalla Santa Sofia costantinopolitana le grandi croci che ornavano il centro della cupola e il catino absidale, così come è sparita la gran parte delle decorazioni absidali delle chiese dell’Oriente cristiano, travolte prima dall’iconoclastia e poi dalla diffusione dell’islam. Quello che resta, almeno per i secoli IV-VI parla piuttosto di iconografie complesse con un numero sempre crescente di personaggi raffigurati. Ciononostante una tendenza aniconica, con una grande enfasi proprio sulla croce, non dovette essere un fatto limitato o un desiderio espresso dallo stesso Giustiniano per la sua grande chiesa ma, almeno in alcune aree, fu uso comune in quei secoli. Forse non è solo un caso se varie testimonianze di tale tipo si sono conservate in edifici sacri di una medesima area, peraltro nell’estrema periferia est dell’espansione cristiana nel Mediterraneo, e cioè l’area siro-mesopotamica, oggi corrispondente alla Siria nordorientale e al Tur’Abdin, estrema provincia meridionale della Turchia asiatica ai confini con l’Iraq, ma in antico anch’esso di cultura siriaca. Certo, l’essere fuori da ogni rotta, anche turistica, l’essere sempre rimasti attivi alcuni dei monasteri che le contengono, la presenza di una popolazione in gran parte cristiana sono elementi che hanno giovato alla loro conservazione, anche se ha fatto sì che tali importantissimi monumenti siano rimasti praticamente sconosciuti anche alla gran parte degli studiosi, per non parlare del pubblico più vasto.
Per quel che riguarda la Siria, nell’abside di una cappella presso la cattedrale (oggi vi si riconosce preferibilmente la chiesa della Santa Croce), nella città morta di Resafa-Sergiupolis si possono ancora vedere i resti di un affresco raffigurante al centro una grande croce greca gemmata su cerchi concentrici di diversi colori; dalla croce si dipartono quattro raggi; gli spazi di risulta del catino sono ornati con ghirlande e girali d’acanto verdi. È stata proposta una datazione ai secoli VII-VIII93.
Per quel che riguarda il Tur’Abdin, nelle absidi delle due chiese di Mar Kyriakos ad Arnas e di Mar Azizael a Kefr Zeh sono scolpite a rilievo due grandi croci latine (forse del VI secolo). Assai più complessa è la decorazione a mosaico del bema della chiesa conventuale di Mar Samuel, Mar Simeon e Mar Gabriel nei pressi di Kartmin94. La datazione al 512 circa appare largamente accettata. Qui, l’ampia volta del bema è ricoperta da tessere d’oro su cui si imposta uno spettacolare gioco di tralci di vite, avvolti a girali, che partono da quattro anfore posizionate agli angoli delle quattro ricadute del padiglione. Al centro si trova un medaglione con una grande croce greca gemmata, da cui si dipartono quattro raggi, intorno sei stelle d’argento; analoghe croci di dimensioni minori, ma con lettere pendenti dai bracci e montate su tre gradini, si trovano nella nicchia absidale e sulla porta ovest. Decorazioni vegetali e aniconiche anche più ideologicamente complesse si trovano nelle lunette: quella meglio conservata mostra al centro un altare con sopra tre vasi sacri; l’altare è sormontato da un arioso ciborio. Gli spazi di risulta sono occupati da due alberi verdeggianti. La scelta non figurativa è dunque radicale e assoluta, e potrebbe ambientarsi bene nel clima culturale del cristianesimo monofisita del V-VI secolo, che vide espliciti pronunciamenti contro la raffigurazione in forma corporea degli ‘incorporei’. D’altronde, un certo monofisismo fu accolto dall’imperatrice Teodora, sposa di Giustiniano, che potrebbe aver importato anche nella capitale questo sospetto verso le immagini sacre: sarebbe interessante capire quale sia stata la decorazione (aniconica o meno) della chiesa costantinopolitana di S. Sergio (e Bacco), dedicata dai due sovrani negli anni Venti del VI secolo e ancor oggi esistente, seppur completamente priva della sua decorazione musiva95.
Per ritornare ad aree più periferiche, e forse per questo più ricche di testimonianze, ragionevolmente, di età preiconoclasta, si consideri brevemente la Cappadocia. Qui, nelle chiese rupestri, restano molte testimonianze di decorazione aniconica e fondata sulla croce, in passato attribuite senza dubbio all’epoca dell’iconoclastia. Si è certamente oggi più cauti in queste datazioni, dato che l’eccentricità e la marginalizzazione di queste testimonianze potrebbero anche costituire fenomeni di attardamento iconografico, visto anche che la croce, seppure un po’ accantonata dopo il IX secolo, non fu certamente mai proibita e neanche sconsigliata96. Allo stato attuale della ricerca potrebbero essere preiconoclasti i cicli di Aghios Vasileios a Elevra, della Kapılı Vadesi Kilisesi, della Davullu Kilisesi a Yaprakhisar e delle chiese di Gioacchino e Anna e la Haçlı Kilise nella valle di Kızıl Çukur97. Ma si vedano anche, nell’isola greca di Naxos, le chiese di Aghia Kiriaki e Aghios Artemios98. Oltre alle testimonianze dell’arte monumentale, la croce è molto presente nelle produzioni suntuarie dell’Oriente cristiano: manoscritti, argenterie, oreficerie, avori, stoffe e quant’altro99.
Prima di concludere è opportuno fare un breve excursus sulla croce nella monetazione100. Dopo la prima apparizione della croce in mano alla Nike nella monetazione di Teodosio II, essa viene mantenuta da Anastasio (491-518) e da Giustino I (518-527), il quale, però, tramutata la Nike in angelo gli pone nell’altra mano un globo, a sua volta sormontato dalla croce. Giustiniano I preferì il globo per la sua stessa immagine, sul recto; Giustino II (565-578), per un certo periodo, sostituì alla Nike/angelo la Tyche di Costantinopoli, con i medesimi attributi. Solo con Tiberio II Costantino (578-582) la croce compare come unico soggetto, braccia patenti e innalzata su quattro gradini, sempre, forse, a rievocare la croce sul Golgota o le croci monumentali di Costantinopoli, note però dalle più tarde fonti. Tale iconografia sarebbe rimasta invariata fino alla sostituzione, a opera di Giustiniano II (685-695; 704-711), della croce con il ritratto di Cristo, che fece così la sua prima apparizione sulle monete. D’altronde, il concilio in Trullo si veniva pronunciando in quegli anni (692) a favore delle immagini antropomorfe e contro l’uso dei simboli nelle raffigurazioni cristiane, in evidente controtendenza al fenomeno iconoclasta destinato a deflagrare meno di un quarantennio dopo, ma certamente sintomo di un dibattito intorno alle immagini sacre che si stava facendo sempre più acceso101. Curiosamente però, la croce, che in età iconoclasta divenne centrale nella decorazione delle chiese (oltre ai casi citati della periferia resta quello, sensazionale e non ancora del tutto indagato, del catino absidale della chiesa costantinopolitana di Santa Irene102, realizzato plausibilmente sotto Costantino V, 741-775, e al di là delle testimonianze leggibili o altrimenti verificabili, di croci iconoclaste rimosse per far posto a immagini figurative dopo l’843, quali quelle della stessa Santa Sofia di Costantinopoli, della Santa Sofia di Salonicco, della Dormizione di Nicea103), perse importanza nella monetazione scomparendo come soggetto singolo, ma rimase pur sempre presente sui globi e sulle corone degli imperatori, che sarebbero diventate, sia al recto sia al verso, il soggetto preferito nelle coniazioni, rimanendo tale fino alla fine dell’iconoclastia.
Finisce così l’epoca eroica, se si vuole, del simbolo della croce, iniziata in Occidente con la visione ai Saxa Rubra e in Oriente con l’inventio della vera croce nella Gerusalemme di metà IV secolo. Ovviamente la croce rimane e rimarrà presente, anche se con un valore meno centrale e pregnante nell’ambito della decorazione monumentale e delle opere d’arte suntuaria, lungo tutto il percorso dell’arte cristiana orientale e a tutt’oggi ovunque sia ancora data testimonianza al messaggio di Cristo.
1 «Nos autem gloriari oportet in Cruce Domini nostri Iesu Christi: in quo est salus, vita et resurrectio nostra; per quem salvati et liberati sumus». G. Lefebvre, Messale romano quotidiano, Genova-Torino 1963, pp. 1530-1533. Per il testo originale cfr. la traduzione italiana in La Bibbia, a cura di P. Vannetti, Casale Monferrato 19883, p. 2106. Base di ogni studio sulla croce rimane A. Frolow, La relique de la vraie croix. Recherches sur le développement d’un culte, Paris 1961, e Id., Les reliquiaires de la vraie croix, Paris 1965; di recente H.A. Klein, Byzanz, der westen und das “wahre” Kreuz, Wiesbaden 2004. Si veda anche C. Walter, The Iconography of Constantine the Great, Emperor and Saint, Leiden 2006.
2 Cfr. Gal 6,14.
3 1 Cor 1,23; Gal 5,11.
4 Termine destinato a grande fortuna come alternativa poetico-devozionale a croce: «Dulce lignum, dulces clavos, dulcia ferens pondera: quae sola fuisti digna sustinere Regem caelorum et Dominum» («O dolce legno, dolci chiodi che portaste un peso tanto dolce! Tu soltanto, o croce, fosti scelta a sostenere, il Signore, Re dei cieli»), Alleluia del Proprio della solennità dell’Esaltazione della Croce, in G. Lefebvre, Messale romano, cit., p. 1532. Si veda anche infra la preghiera di Eraclio nella Legenda aurea del XIII secolo.
5 A. Pitta, Lo “scandalo della croce” (Gal 5, 11). La centralità della croce nel pensiero paolino, in La croce. Iconografia e interpretazione (secoli I-inizio XVI), Atti del Convegno internazionale di studi (Napoli 6-11 dicembre 1999), a cura di B. Ulianich, U. Parente, Napoli 2007, I, pp. 97-117.
6 S.J. Voicu, La croce negli apocrifi, in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., I, pp. 119-126.
7 T. Piscitelli Carpino, La croce nell’esegesi patristica del II e III secolo, in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., I, pp. 129-152. Per un inquadramento recente di questi autori si veda M. Simonetti, E. Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, Bologna 20112.
8 A. Brent, Ignatius of Antioch. A Martyr Bishop and the Origin of Episcopacy, London-New York 2007.
9 M. Simonetti, E. Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, cit., pp. 40-41. Anche per la bibliografia aggiornata.
10 Ivi, pp. 87-91, 592.
11 Per una sintesi di questo complesso universo si veda ivi, pp. 59-68 e bibliografia a pp. 589-590
12 Si fa qui riferimento alla seguente edizione: Méliton de Sardes, Sur la Pâque, éd. par. O. Perler, Paris 1966. Anche Melitone usa sempre legno e non croce.
13 Si fa qui riferimento alla seguente edizione: Pseudo Ippolito, In sanctum Pascha, a cura di G. Visonà, Milano 1988. Anche qui è assente il termine croce.
14 Ireneo di Lione, Contro le eresie e altri scritti, a cura di E. Bellini, G. Maschio, Milano 1997; D. Wanke, Das Kreuz Christi bei Irenäus von Lyon, Berlin-New York 2000.
15 M. Simonetti, E. Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, cit., p. 596.
16 Ivi, p. 595.
17 Ibidem.
18 Ivi, pp. 596-597.
19 E. Cattaneo, L’encomio della croce nell’omiletica greca (IV-VIII sec.), in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., I, pp. 153-221, in partic. 216-218.
20 E. Bihain, L’épître de Cyrille de Jérusalem à Constance sur la vision de la croix (BHG3 413), in Hommage à Marius Canard, Byzantion, 43 (1973-1974), pp. 264-296. Si veda ora E. Yarnold, Cyrillos of Jerusalem, London 2000.
21 «ἐπὶ μὲν τοῦ μακαρίου καὶ ἀοιδίμου πατρός σου τὸ σωτήριου εὕρηται τοῦ ζωοποιοῦ σταυροῦ ξύλον (Alexandri monachi de venerandae ac vivificae crucis inventione, in PG 87/3, cc. 4015-4088, che riporta esplicitamente i passi di Cirillo di Gerusalemme, cfr. in partic. c. 4069, da cui è tratta la citazione).
22 «Παμμεγέστατος σταυρὸς ἐκ φωτὸς κατεσκευασμένος ἐν οὐρανῷ ὑπεράνω τοῦ ἁγίου Γολγοθᾶ καὶ μέχρι τοῦ ἁγίου ὄρους τῶν Ἐλαιῶν ἐκτεινόμενος ἐφαίνετο, οὐχ ἑνὶ καὶ δευτέρῳ μόνον φανεὶς, ἀλλὰ παντὶ τῷ τῆς πόλεως πλήθει φανερώτατα δειχθεὶς» (PG 87/3, c. 4069).
23 L’apparizione viene in seguito messa in relazione con la vittoria di Costanzo II su Magnenzio il 28 settembre 351 in ovvio rapporto con la visione di Costantino ai Saxa Rubra prima della vittoria di ponte Milvio su Massenzio. Anche Costanzo II avrebbe poi avuto una visione beneaugurante della croce.
24 T. Orlandi, Cirillo di Gerusalemme nella letteratura copta, in Vetera Christianorum, 9 (1972), pp. 93-100.
25 Si fa qui riferimento a PL 21, cc. 475-478.
26 F. Winkelmann, Charakter und Bedeutung der Kirchengeschichte des Gelasios von Kaisareia, in Byzantinische Forschungen, 1 (1966: Festschrift Dölger), pp. 346-385.
27 Rufin., hist.: «Ligni vero ipsius salutaris partem detulit filio, partem vero thecis argenteis conditam dereliquit in loco».
28 Si veda E. Cattaneo, L’encomio della croce, cit., pp. 155-156 nota 10.
29 Ma una croce sul Golgota doveva esistere già nel 380 circa, visto che la pellegrina Egeria la menziona a più riprese.
30 Si veda H. Brandenburg, Le prime chiese di Roma, Milano 2004, pp. 137-142, 331 (bibliografia): non è però chiaro da dove scaturisca l’attribuzione della croce gemmata del Golgota a Teodosio I (384-395).
31 G. Fiaccadori, ΠΡΟΣΟΨΙΣ non ΠΡΟΟΠΙΣ, Efeso, Gerusalemme, Aquileia (nota a IERH 495, 1s.), in La Parola del Passato, 58 (2003), pp. 182-249.
32 Si veda l’interessante contributo di S. Heid, La croce dorata sul monte degli Ulivi dal IV fino al VII secolo, in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., II, pp. 49-55; Id., Kreuz, Jerusalem, Kosmos: Aspekte frühchristliche Staurologie, Münster 2001.
33 G. Matthiae, Mosaici medioevali delle chiese di Roma, 2 voll., Roma 1967: I, pp. 181-190, con opinione contraria.
34 Si veda Eusebio di Cesarea, Sulla vita di Costantino, a cura di L. Tartaglia, Napoli 20012 e, di recente, Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, a cura di
35 Cfr. Eus. v.C. III 25-47.
36 Si veda in particolare la lettera a Macario (Eus. v.C. III 30-32).
37 Cfr. Eus., v.C. III 34-40.
38 Eus., v.C. III 30,1. Si veda ad esempio Andrea di Creta (morto nel 740) in E. Cattaneo, L’encomio, cit., pp. 154-155.
39 Eus., v.C. I 28.
40 Eus., v.C. II 7.
41 Eus., v.C. II 7.
42 Eus., v.C. II 2.
43 Eus., v.C. III 19.
44 Elena, Costantino o uno dei suoi figli. Il legame del Sessorio con Elena appare certo oltre ogni ragionevole dubbio, così come è certo che un atrio del palazzo venne trasformato in chiesa nel corso del IV secolo. Più difficile da dimostrare il diretto intervento dell’Augusta: cfr. S. de Blaauw, Jerusalem in Rome and the Cult of the Cross, in Pratum Romanum. Richard Krautheimer zum 100. Geburtstag, hrsg. von R.L. Colella, M.J. Gill, L.A. Jenkens et al., Wiesbaden 1997, pp. 55-73.
45 F.E. Consolino, Il significato della inventio Crucis nel De obitu Theodosii, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, 5 (1984), pp. 165-166.
46 Si vedano in questa stessa opera i contributi di B. Baert e M. della Valle, La croce in Occidente.
47 Socrate de Constantinople, Histoire Ecclésiastique. Livre I, éd. par G.C. Hansen, P. Perichon, P. Maraval, Paris 2004, cap. XVII, pp. 175-181.
48 Sozomène, Histoire ecclésiastique, Livres I-II, éd. par A.-J. Festugière, B. Grillet, G. Sabbah, Paris 1983, II 1-2, pp. 226-237.
49 Soz., h.e. II 1,2: «εὐλαβῶς δὲ περὶ τὸ δόγμα τῶν Χριστιανῶν διακειμένη».
50 Cfr. Soz., h.e. II 1,4: «διὰ σημείων καὶ ὀνειράτων».
51 Soz., h.e. II 11: «τάδε μὲν ἡμῖν, ὡς παρειλήφαμεν, ἱστόρηται ἀνδρῶν τε ἀκριβῶς ἐπισταμένων ἀκούσασιν, εἰς οὓς ἐκ διαδοχῆς πατέρων εἰς παῖδας τὸ μανθάνειν παρεγένετο, καὶ ὅσοι γε αὐτὰ δὴ ταῦτα συγγράψαντες, ὡς δυνάμεως εἶχον, τοῖς ἔπειτα καταλελοίπασιν».
52 M.J. Johnson, Where Were Constantius I and Helena Buried, in Latomus, 51 (1992), pp. 145-150. Ora anche Id., The Roman Imperial Mausoleum in Late Antiquity, Cambridge 2009, pp. 110-118. Il dubbio può forse essere oggi sciolto in favore di Roma.
53 Rufin., hist. frammento 20.
54 Sant’Ambrogio, Discorsi e lettere, I, Le orazioni funebri, a cura di G. Banterle, Milano-Roma, 1985, De obitu Theodosii - In morte di Teodosio, pp. 211-251, in partic. 241-249.
55 Ibidem.
56 Soz., h.e. II.
57 A. Frolow, La relique, cit., pp. 170-171.
58 Ivi, pp. 182-183.
59 Cfr. G. Dagron, Constantinople imaginaire. Études sur le recueil des “Patria”, Paris 1984, pp. 87-88. Più in generale H.A. Klein, Constantine, Helena, and the Cult of the True Cross in Constantinople, in Byzance et les reliques du Christ, éd. par J. Durand, B. Flusin, Paris 2004, pp. 31-59.
60 Eus., v.C. III 3,1 (p. 122, trad. it. L. Tartaglia, Napoli 20012).
61 Eus., v.C. III 49 (p. 148, trad. it. L. Tartaglia, Napoli 20012): a onor del vero il termine croce non è presente nell’originale greco. Cfr. Eusebio di Cesarea, Vita di Costantino, cit., III 49, pp. 304-305.
62 Per tutta questa problematica si veda ancora C. Mango, Constantinopolitana, in Jahrbuch des deutschen Archäologischen Instituts, 80 (1965), pp. 305-336; Id., Constantine’s Column, in Id., Studies on Constantinople, Aldershot 1993, III, pp. 1-6; Id., Constantine’s Porphyry Column and the Chapel of St. Constantine, in Δελτίον της Χριστιανικής Αρχαιολγικής Εταιρείας, 10 (1981), pp. 103-110: il primo e l’ultimo ripubblicati in Id., Studies, cit., II, IV. Un quadro aggiornato ma senza particolare originalità in S. Bassett, The Urban Image of Late Antique Constantinople, Cambridge 2004, pp. 192-204.
63 Tutti i riferimenti sono tratti da Constantin VII Porphirogénète, Le Livre des cérémonies, I, éd. par A. Vogt, Paris 20063, d’ora in poi De Caerimoniis.
64 De Caerimoniis I 1, pp. 20 segg.
65 Ibidem.
66 Cfr. De Caerimoniis I 10, pp. 67 segg.
67 Ma solo quando questa solennità cade la terza domenica di Quaresima. Cfr. De Caerimoniis I 39, pp. 154 segg.
68 Si veda A. Frolow, La reliquie, cit., pp. 73-74.
69 De Caerimoniis I 31, pp. 116-118.
70 Cfr. De Caerimoniis I 37, p. 146.
71 B.V. Pentcheva, Icone e potere: la Madre di Dio a Bisanzio, Milano 2010, pp. 221-250.
72 Cfr. De Caerimoniis I 1, pp. 3-17.
73 Cfr. De Caerimoniis I 38, p. 149.
74 Si veda A. Frolow, La reliquie, cit., pp. 105-106 e cfr. Le trésor de la Sainte Chapelle (catal.), Paris 2001.
75 Si veda W. Kaegi, Heraclius Emperor of Byzantium, Cambridge 2003, pp. 205-207, con citazione e disamina delle fonti principali.
76 S. Spain Alexander, Heraclius, Byzantine Imperial Ideology, and the David Plates, in Speculum, 52 (1977), pp. 217-237.
77 Iacopo da Varazze, Legenda aurea, a cura di A. e L. Vitale Brovarone, Torino 1993.
78 Ivi, pp. 380-390.
79 Ivi, pp. 750-756.
80 Ivi, p. 571.
81 Ibidem.
82 Ivi, p. 752.
83 Piero della Francesca. La Leggenda della Vera Croce in San Francesco ad Arezzo, a cura di A.M. Maetzke, C. Bertelli, Milano 2001.
84 P. Stephenson, The Legend of Basil the Bulgar-Slayer, Cambridge 2003.
85 P. Corneille, Héraclius empéreur de Byzance, in Oeuvres completes, éd. par G. Couton, 3 voll., Paris 1980-1987: II, pp. 351-430.
86 Si veda M. della Valle, s.v. Croce, area bizantina, in Enciclopedia dell’arte medievale, V, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1994, pp. 550-557.
87 C. Mango, The Art of the Byzantine Empire 312-1453, Englewood Cliffs (NJ) 1972, pp. 32-33.
88 E conservati nel Lapidario della stessa Santa Sofia: si veda E. Russo, Evidence from the Theodosian Saint Sophia, in The Sculptures of the Ayasofya Müzesi in Istanbul, ed. by C. Barsanti, A. Guiglia Guidobaldi, F. Guidobaldi, Istanbul 2010, pp. 19-34.
89 J.-P. Sodini, Images sculptées et propagande impériale du IVe au VIe siècle: recherches récentes sur les colonnes honorifiques et les reliefs politiques à Byzance, in Byzance et les images, Paris 1994, pp. 41-94.
90 M.L. Fobelli, Un tempio per Giustiniano, Roma 2005; cfr. anche Procopio di Cesarea, Santa Sofia di Costantinopoli. Un tempio di luce, a cura di P. Cesaretti, M.L. Fobelli, Milano 2011.
91 A. Guiglia Guidobaldi, C. Barsanti, Santa Sofia di Costantinopoli. L’arredo marmoreo della Grande Chiesa giustinianea, Città del Vaticano 2004.
92 F. Guidobaldi, C. Barsanti, A. Guiglia Guidobaldi, San Clemente. La scultura del VI secolo, Roma 1992.
93 C. Ihm, Die Programme der christlichen Apsismalerei vom vierten Jahrhundert bis zur Mitte des achten Jahrhunderts, Wiesbaden 1960, pp. 210-211.
94 E.J.W. Hawkins, M.C. Mundell, The Mosaics of the Monastery of Mār Samuel, Mār Simeon e Mār Gabriel near Kartmin, in Dumbarton Oaks Papers, 27 (1973), pp. 279-296. Per Kartmin si veda ora A. Palmer, The 1600-year History of the Monastery of Qartmin (Mor Gabriyel), in H. Hollerweger, Lebendiges Kulturerbe. Turabdin. Wo die Sprache Jesu gesprochen wird, Linz 19993, pp. 37-46; si veda anche E. Concina, Mosaici figurati preiconoclasti di soggetto religioso, in E. Concina, A. Flores David, M. Guidetti, Luce dell’invisibile. Itinerari del mosaico intorno al Mediterraneo orientale, Venezia 2011, pp. 111-126, in partic. 124-126, fig. 36. Per Arnas si veda H. Hollerweger, Turabdin, cit., p. 154.
95 Fortunatamente, non di quella scultorea, in buone condizioni e recentemente ben restaurata.
96 J. Lafontaine-Dosogne, Pour une problématique de la peinture d’église byzantine à l’époque iconoclaste, in Dumbarton Oaks Papers, 41 (1987), Studies on Art and Archeology in Honor of Ernst Kitzinger on his Seventy-fifth Birthday, pp. 321-337.
97 A favore N. Thierry, La Cappadoce de l’Antiquité au Moyen Âge, Turnhout 2002, pp. 135-142; più cauta C. Jolivet-Lévy, L’arte della Cappadocia, Milano 2001, pp. 34-47; in pratica lo escludono L. Brubaker, J. Haldon, Byzantium in the iconoclast Era (ca 680-850). The Sources. An Annotated Survey, Aldershot 2001, pp. 4-5.
98 Ivi, pp. 25-28, con cautela.
99 M. della Valle, Croce, area bizantina, cit., in partic. pp. 553-556
100 Di recente L. Travaini, La croce sulle monete da Costantino alla fine del Medievo, in La croce. Iconografia e interpretazione, cit., II, pp. 7-35.
101 Si veda in questo senso L. Brubaker, J. Haldon, Byzantium in the Iconoclast Era c. 680-850. A History, Cambridge 2011, pp. 61-66.
102 Si veda M. della Valle, Architettura e scultura fino al 1453, in Bisanzio, Costantinopoli, Istanbul, a cura di T. Velmans, Milano 2008, pp. 219-250.
103 Una sintesi in L. Brubaker, J. Haldon, Byzantium in the iconoclast Era, cit., pp. 19-24.