La 'Critica'
Al momento della pubblicazione dell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, avvenuta nell’aprile del 1902, Benedetto Croce avvertì l’esigenza di calare nel concreto i valori assoluti su cui aveva fondato la sua teoria filosofica sulla «scienza dell’espressione». Nel racconto retrospettivo del Contributo alla critica di me stesso (scritto nel 1915, ma edito nel 1918), la lettura delle bozze del suo trattato lo aveva convinto di non potere «lasciare così solo» quel testo, privo di «svolgimenti particolari, applicazioni, esemplificazioni e relative discussioni e polemiche». Incapace come sempre di concedersi pause o indugi, non poteva considerare l’Estetica un punto d’arrivo, ma «una sorta di programma o di abbozzo da compiersi» (Contributo alla critica di me stesso, 2006, p. 43). E il mezzo più adatto per determinare con una chiarezza sempre maggiore il suo pensiero filosofico, in continuo divenire, gli era sembrato la fondazione di una rivista. In verità Croce aveva più volte parlato con Giovanni Gentile dell’opportunità di dare vita a una nuova rivista, nella quale la riflessione del filosofo si ponesse in continuo confronto con la cultura e la società del suo tempo. Il progetto era però stato rimandato per l’impegno di portare a termine l’Estetica.
Licenziato questo lavoro, centrale nell’attività speculativa crociana, sembrò giunto il tempo per disegnare la fisionomia della «Critica», un titolo che riassume fin dalla testata le intenzioni della rivista, quelle di un’attività di pensiero sempre vigile nel giudicare, distinguere e vagliare le idee e i fatti, fondandosi su rigorosi presupposti teoretici. Il 28 giugno del 1902 Croce, scrivendo a Karl Vossler, mostrava di avere già in mente quello che voleva, anticipandogli il «programma» di una «piccola rivista critica», composta da
articoli retrospettivi per ciò che si è fatto in Italia nel campo letterario, storico, critico, filosofico, ecc. negli ultimi quaranta anni, per preparare una storia filosofica e letteraria della nuova Italia.
Ma per evitare che l’amico pensasse a una pubblicazione soltanto erudita, di varia e anodina umanità, precisava anche che essa avrebbe pubblicato «articoli critici su libri della letteratura del giorno, italiana e straniera, ma solo sui libri significativi d’indirizzi buoni o cattivi». «La Critica» insomma avrebbe avuto un carattere combattivo, militante, dotata di un «indirizzo determinato» e governata da criteri severamente selettivi, dalle coordinate non già «estensive», come le tante riviste esistenti, ma dalla vocazione «intensiva, che si occupi di pochi libri ma a fondo» (Carteggio Croce-Vossler, a cura di E. Cutinelli Rendina, 1991, p. 34). Benché, per contenuto e per ideologia, la creatura di Croce si differenziasse radicalmente dalle riviste d’avanguardia sorte negli stessi anni, da «Leonardo» (1903) al «Regno» (1903), da «Hermes» (1904) alla «Voce» (1908), era nondimeno sorretta da un affine spirito pugnace, che la attestava su posizioni di schieramento, quelle filosofiche del neoidealismo, in nome del quale sostenne battaglie e polemiche contro tutti, rinunziando in partenza a un ruolo di ecumenica e indistinta informazione. La differenza fondamentale consisteva nel fatto che quelle erano l’espressione di un gruppo trascendente la personalità dei singoli collaboratori, mentre «La Critica» fu, secondo l’efficace definizione di Renato Serra, una «rivista persona, che esprime solo e sempre un uomo». In tutte le annate, le firme erano sempre le stesse: «Croce e Gentile, Gentile e Croce». Nella costanza e continuità, era la conclusione desunta con un piglio da sociologo, stava «la loro forza», che li rendeva «famigliari, amici di chi legge: ogni mese, sull’avvenimento, sul libro, sulla questione tu aspetti il loro sentimento» (R. Serra, Scritti letterari, morali e politici, a cura di M. Isnenghi, 1974, p. 158). Il periodico di Croce, dotato di solidità filosofica, rigore analitico, coerenza logica, poté così godere di un’esistenza priva della precarietà effimera di altre avventure editoriali, uscendo con immancabile cadenza bimestrale il giorno 20 di ogni mese dispari, ma non diversamente da quelle non solo si concentrò intorno a un’idea specifica di letteratura e di arte, ma spaziò in una visione complessiva del reale, affidata a un programma che, quanto alla forma, non si allontanava troppo, con le sue risolute rivendicazioni, dal genere dei manifesti impiegati dalle avanguardie per imporre le loro poetiche rivoluzionarie.
Basta leggere le pagine, firmate «La direzione» e intitolate dimessamente «Introduzione», con cui si apre il primo numero della «Critica», apparso il 20 gennaio 1903, ma anticipate a parte il 1° novembre 1902 sotto forma di programma-manifesto. Come si conviene a una rivista dai propositi radicalmente innovativi, la prima preoccupazione fu quella di prendere le distanze dalle consuetudini esistenti. Nella pars destruens si respinge ogni pretesa d’informazione indifferenziata di «tutte le questioni e controversie minute», esposte da «annunzii editoriali di uniforme intonazione elogiativa» per altro limitati a un «singolo ramo di studii». Per un verso, dunque, «La Critica» si proponeva di spaziare su argomenti «d’interesse generale», ricusando ogni logica settoriale e specialistica, in modo da non perdere di vista il quadro d’insieme dei problemi; per un altro verso, però, si assumeva la responsabilità di trascegliere e di prendere in esame, tra i libri «italiani e stranieri, di filosofia, storia e letteratura», quelli che «abbiano, per l’argomento o pel merito, maggiore interesse, o meglio si prestino a feconde discussioni». Soprattutto si rivendicava il diritto di prendere posizione, di schierarsi, dopo una severa disamina razionale, a favore o contro una tesi alla luce «di criteri fermi e di un organico sistema d’idee», senza i quali si sprofonda in «un’anarchia e un’ineguaglianza di giudizii». Si comprende da queste premesse il pregnante valore semantico assegnato alla denominazione della rivista, che, con un risoluto senso morale, si arroga la prerogativa di giudicare e, quando occorra, di condannare le tesi altrui attraverso una critica fondata sull’assunzione di «un determinato ordine d’idee» (1903, 1, p. 2).
La rivendicazione di Croce è che alla verità e alla libertà «meglio si serve con l’offrire un bersaglio netto agli avversari, anziché con l’unirsi ad essi in una poco sincera e poco benefica fratellanza», visto che niente è
più dannoso al sano svolgimento degli studii di quel malinconico sentimento di tolleranza, ch’è in fondo indifferenza e scetticismo, pel quale da molti si fa largo nelle proprie riviste a vedute diverse e discordanti (p. 2).
Nel primo Novecento la cultura, e in particolare i suoi organi di dibattito rappresentati dalle riviste, escono dalla reticenza. Nel programma della «Critica» si proclama a tutte lettere, con un sillogismo apodittico, che, «poiché filosofia non può essere se non idealismo», Croce, il suo direttore, non può che essere «seguace dell’idealismo» (p. 3). Ecco perché a Giovanni Papini si confidava che la nuova rivista doveva essere «monocroma, non policroma» (B. Croce, G. Papini, Carteggio 1902-1914, a cura di M. Panetta, 2012, p. 27). È evidente, a questo punto, che il nemico da combattere era la cultura positivistica, accusata di miopia e di dilettantismo, derivante da una cronica assenza di metodo e di sistematicità, ovvero di «spirito filosofico», di cui la nuova rivista ambiva a «promovere un generale risveglio» («La Critica», 1903, 1, pp. 3-4).
Nel terzo anno di vita della «Critica», Croce, in uno dei suoi «ricordi personali», interveniva proprio A proposito del positivismo, stabilendo una serie di antitesi tra il proprio operare e quello dell’indirizzo un tempo dominante. Se il suo metodo filologico ricorreva alle fonti dirette e si premurava di citazioni esatte, i positivisti «citavano di quarta o quinta o decima mano»; se, da lettore di poesia e di letteratura, egli era «rispettosissimo dello scrivere nitido ed ordinato», i positivisti scrivevano con «fraseologia da mediconzolo di provincia»; se egli aveva familiarità con gli studi classici e germanici, i positivisti «non praticavano se non la letteratura francese di second’ordine» (1905, 3, p. 170); e soprattutto, se egli credeva che la filosofia dovesse accompagnarsi alla conoscenza della sua storia, i positivisti «trattavano con grossolanità barbarica i grandi pensatori del passato, quasi povera gente» (p. 171). A questo punto, per Croce non si trattava più di una semplice «teoria discutibile», ma di «uno stato d’animo misto d’ignoranza e di baldanza: una rivolta di schiavi contro il rigore e la severità della scienza» (p. 171). Una volta di più il ripudio sorgeva da un atteggiamento etico che si ribellava all’impreparazione e al pressappochismo.
Croce dunque era tutt’altro che ostile all’erudizione, da lui stesso praticata con passione negli anni giovanili. In apertura della «Critica» se ne professava addirittura «un convinto fautore» (1903, 1, p. 3). Sennonché, negli anni in cui, riflettendo sulla storia dell’estetica, veniva scoprendo il pensiero di Giambattista Vico, ritenne imprescindibile la simbiosi di filologia e filosofia, in modo che la documentazione e il reperimento dei dati fossero sottratti all’anarchia grazie a «criteri fermi» attinenti a «un organico sistema d’idee» (p. 2). Alla luce di questa sinergia, più che contrastare il positivismo tout court, il programma della nuova rivista era, «di fatto o virtualmente, riforma del metodo positivo, instaurazione d’un nuovo positivismo» (Contini 1989, p. 4), così come, per tornare all’Introduzione alla «Critica», l’idealismo per cui si batteva era di tipo affatto «nuovo», che «può ben designarsi come idealismo critico, o come idealismo realistico, e perfino […] come idealismo antimetafisico» (1903, 1, p. 3). Si potrebbe parlare di un «hegelismo assai più concreto e vivo» (B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica, 1900, 19519, p. 12), ma, di là dalle appartenenze di scuola e dalle etichette, verso cui Croce si è sempre mostrato refrattario, i principi fondamentali a cui ci si richiamava erano il coraggio civile, i valori umani e la serietà, la dedizione, la dura disciplina, la profondità, la dignità degli studi, che si sono tradotti, nei quarantadue anni di vita della rivista, in un inflessibile impegno etico avverso a ogni forma di dilettantismo, di improvvisazione, di superficialità. «Questa rivista» – ribadiva Croce con particolare energia – «non darà quartiere» a coloro che pretendono di risolvere ardue questioni «con un colpo sbrigativo della loro asserita genialità», come pure a coloro che «spregiano ogni tentativo di pensiero filosofico», o a chi aderisce alle «correnti mistico-reazionarie o gesuitico-volteriane», tanto integraliste quanto scettiche, per non dire, come si conviene a chi era stato un carducciano convinto, degli «artisti» che, anziché produrre un’«arte vigorosa e vitale», si dedicavano a un’«arte povera e fiacca […] esibendo modernistiche ricette» (1903, 1, p. 4).
Bastano forse questi pochi lacerti della prosa crociana per comprendere l’indole polemica della rivista, resa ancora più efficace e mordente dalla snellezza delle sue rubriche che, in sintonia con le forme brevi e incisive di primo Novecento, ricusano la pesantezza del trattato a favore di rapidi articoli, note ficcanti, postille pungenti, recensioni spigolose, dissacranti «frammenti di etica», aneddoti arguti, profili acuminati, sempre scaturiti da situazioni concrete e attuali. Non a caso, in un’intervista rilasciata nel 1908 a Serra e a Luigi Ambrosini, Croce si dichiarava persuaso che «per edificare, nulla è più necessario che distruggere» (R. Serra, Con Benedetto Croce, in Id., Scritti filosofici, a cura di J. Sisco, 2011, p. 9). Gli derivò da questo atteggiamento iconoclasta la fama di «tremendissimo scrittore» e «terrore dei vivi e dei morti», come lo qualificò Alfredo Panzini (Nicolini 1962, p. 225), o, secondo Ugo Ojetti, di «Paolo IV della critica» (p. 19). Il tono faceto di queste definizioni rivela – di là dalla consapevolezza di quanta apprensione destasse la lettura della «Critica», per le temibili stroncature che ogni fascicolo conteneva – la popolarità che Croce si era fatta nel tempo con la sua rivista. Lo riconosce egli stesso, che anzi, se ha dato vita a una rivista, lo ha fatto con lo scopo di «promuovere un’attività negli spiriti del mio paese più larga e più viva che non potessi far nascere coi soli miei volumi di speculazione astratta e solitaria» (R. Serra, Con Benedetto Croce, cit., p. 12). Perfino il taglio pluralistico, precisato nel sottotitolo di «rivista di letteratura, storia e filosofia», deriva dal sapere che «una rivista puramente filosofica» non poteva incontrare favore «in un paese antifilosofico come il nostro». Di qui la necessità che «il pensiero scenda dalla larga astrazione» e faccia della sua critica una «filosofia in azione» (p. 12).
Il «culto della realtà e concretezza storiche» (Contini 1989, p. 28) è uno dei connotati più evidenti della «Critica», avvalorato dallo stesso Croce, quando nel Contributo alla critica di me stesso (cit., p. 81) fa consistere «la perfezione di un filosofare […] nell’aver superato la forma provvisoria dell’astratta ‘teoria’, e nel pensare la filosofia dei fatti particolari». Si potrebbe quasi arrivare a dire che la fondazione della «Critica» esercitò per il suo ideatore un ruolo terapeutico, capace per il momento di placare la fase di crisi radicale che lo aveva travagliato negli anni precedenti. Come confessa nel Contributo, Croce era reduce da un periodo tormentoso vissuto con un senso di
scissione tra l’uomo pratico e il teoretico […], tra una sorta di studi, che non rappresentava l’utilità che potevo arrecare, e la voce della coscienza, che mi rimproverava e mi spronava ad altro segno (p. 46).
Abituato a programmare il suo lavoro, la cui metodicità puntigliosa sembra fungere da antidoto alla minaccia sempre incombente di una nevrosi atterrita dal vuoto e dal disordine, Croce, con la pianificazione a lungo termine delle uscite periodiche della «Critica», si liberò «dalle angustie del periodo precedente» e conseguì la «tranquilla coscienza di ritrovar[si] al suo posto» (p. 47).
A poco meno di quarant’anni Croce inaugurava l’epoca della sua «maturità» (p. 46), coincidente con il superamento dei «contrasti interiori» e la conseguente conquista della «calma», che non significa «godimento e riposo, ma fatica e lavoro armonico, concatenato, sicuro di sé» (p. 51), come non era avvenuto prima, al tempo delle ricerche erudite svolte negli angusti e dispersivi campi dell’aneddotica e delle curiosità della storia di Napoli. Il metodo di lavoro impiegato sembrava fatto apposta per garantire serietà di risultati, massima affidabilità documentaria, acribia meticolosa, garanzia di completezza:
Se volete sapere come io compongo la Critica, vi dirò che la faccio quasi tutta intera in capo all’anno, per non esserne distratto a mezzo altri lavori. Per ogni studio faccio una preparazione larga, di letture e di note. Note copiosissime, se anche poi non me ne abbia a servire. Ma un autore lo spoglio. Ne tiro fuori tutto quello che mi interessa. Ho bisogno di vedere sul tavolino il fascio compatto degli appunti; di avere la certezza che tutto il mio argomento, tutto quel che posso sapere e debbo dire sia materialmente in quel fascio […]. Fin che una cosa io non la vedo scritta con la mia lettera sulla mia carta non mi pare essermela appropriata (R. Serra, Con Benedetto Croce, cit., p. 14).
La stessa consuetudine di predisporre insieme il materiale perfino di tre anni assicurava una compattezza ignota alle altre riviste del tempo. La prosa distesa e avvolgente di Croce e Gentile, governata da un pensiero analitico ed esatto, generava lunghe disamine, tutt’altro che affrettate, al contrario dell’incedere freneticamente aforistico e frammentario di «Leonardo» o delle altre riviste d’avanguardia. Era sottinteso anche dalla forma che i saggi della «Critica» erano pensati con l’intento di vincere l’immediatezza di una ricezione effimera, tanto più che la suddivisione di uno stesso tema in più puntate assicurava una sua continuità nel tempo e un’aspettativa nei lettori. Quasi sempre gli articoli si sarebbero poi unificati diventando libri, ma intanto la loro scansione conferiva un’efficacia diversa, un senso nuovo di mobilità e insieme di riflessione costante, come di un pensiero che crescesse nel tempo, dando modo di assimilarlo meglio.
Con «La Critica» Croce intese rendere un servizio alla cultura italiana, emancipandola dal provincialismo con un’opera di rinnovamento attuata da una filosofia più moderna «disposata agli studi di storia letteraria e artistica e di storia civile», indirizzati non già a un mero intento informativo, ma alla risoluzione dei «problemi che il corso delle cose propone sempre nuovi» (1944, 42, p. 2). Si trattava dunque di un benefico esame di coscienza che nell’atto di fondazione doveva intanto rendere conto del lavoro svolto nel campo intellettuale nel primo mezzo secolo di vita del giovane Stato italiano, presentandone criticamente i meriti e le deficienze senza abbandonarsi a giudizi emotivi. Anche per la grande diffusione e per la popolarità, che ne fece un punto di riferimento, la sua opera è stata altamente pedagogica in quanto ha educato al rigore razionale e promosso nobili valori ideali, mai disgiunti però da una stretta adesione all’esperienza concreta e alla realtà. Non era perciò una battuta di spirito la definizione della «Critica» quale «ottimo ‘testo di prediche’», come si legge nel Contributo alla critica di me stesso (cit., p. 45) che, per essere stato scritto nel 1915, si può considerare un bilancio della prima serie.
In questo primo periodo Croce si incaricò di fotografare, sotto forma di medaglioni critici, l’opera degli scrittori, adunati sotto la rubrica di «Note sulla letteratura italiana nella seconda metà del secolo XIX», e di affidare a Gentile analogo compito per «La filosofia in Italia dopo il 1850». Avverso a una storia della letteratura generale e astratta in cui gli autori diventavano momenti singoli di uno sviluppo ideologico o il prodotto determinato di un milieu sociale, a formare un disegno schematico tenuto insieme da surrettizie connessioni estrinseche che ottundevano il significato unico e irripetibile di un’opera d’arte, Croce riteneva che il solo modo di esposizione critica e storica fosse la monografia o il saggio. Ciò non vuol dire che i suoi medaglioni rimanessero delle monadi irrelate. Se per un verso tutto il lavoro storiografico e critico costituiva
un ponderato ritorno a tradizioni di pensiero, che furono disgraziatamente interrotte dopo il compimento della rivoluzione italiana, nelle quali rifulgeva l’idea della sintesi spirituale, l’idea dell’humanitas (1903, 1, p. 3),
per un altro verso la ricerca non si limitava alla pura storicità e alla documentazione, ma si traduceva in saggi che acquistavano «il precipuo valore di esemplificazioni di una dottrina estetica piuttosto che di un libro pensato col fine principale di penetrare nell’interno spirito della più recente letteratura» (Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 46). E una conferma paratestuale giunge dal proposito crociano, per altro mai portato a termine, di affiancare a un possibile «index nominum» un «ben più importante index rerum», nel quale avrebbe richiamato «sotto tanti paragrafi le tante quistioni d’ordine astratto che nel corso dell’opera» aveva trattato e chiarito «or su questo or su quell’autore» (R. Serra, Con Benedetto Croce, cit., p. 13).
Accanto agli «articoli», «La Critica» ospitava anche la rubrica “Varietà”, che spesso la rendeva più sapida con il pigmento della polemica, il quale per altro non mancava nemmeno nei saggi, come si può vedere, per rimanere ai primi anni, nelle monografie su Gabriele D’Annunzio (1904, 2, pp. 1-28 e 85-110) o su Giovanni Pascoli (1907, 5, pp. 1-31 e 89-109). Ma nelle postille Croce aveva modo di ampliare il suo orizzonte, discutendo non solo di scrittori ma anche di metodi critici e di costume, con un taglio ancora più risolutamente militante e mordace, favorito dalla concentrazione degli interventi, quasi mai superiori alle quattro pagine. Fin dal primo numero si lanciavano strali ora contro la letteratura comparata, accusata di produrre ricerche di mera erudizione, prive di una trattazione organica e incapaci di entrare nel vivo della creazione artistica, ora contro il carattere ozioso di tanta critica dantesca, in risposta a una lettera dell’amico Corrado Ricci (10 marzo 1903, pubblicata su «La Critica», 1903, 1, p. 230), ora contro l’istituzione di cattedre universitarie di stilistica, che avrebbero voluto migliorare la capacità di scrittura degli studenti, delegando agli atenei un compito di pertinenza dei licei se non addirittura delle scuole elementari. Standosene fuori dalla consorteria accademica e dal «mercato» delle cattedre, Croce non aveva remore nel denunziare l’arretratezza della cultura ufficiale e i mali dell’università, colpendo non solo «i dilettanti e i lavoratori antimetodici», ma anche i professori «adagiati in pregiudizî e ozianti nelle esteriorità dell’arte e della scienza» (Contributo alla critica di me stesso, cit., p. 48).
Talché è vero che «La Critica», per l’estensione dei suoi interessi, diventò «un terribile osservatorio su quanto si veniva producendo di più significativo in tutte le sfere della vita letteraria», e che la puntualissima uscita dei suoi fascicoli fosse attesa «come una sorta di incubo», o di forche caudine, erette a «vigilantissima cinta doganale delle scienze, delle lettere e delle arti» (Parente 1953, pp. 34-35). Non si devono però equiparare le denunzie di Croce – ma Gentile non fu da meno – alle virulente stroncature dei giovani avanguardisti, di un Papini o di un Filippo Tommaso Marinetti, perché «La Critica» non era mossa da una volontà di scandalizzare fine a se stessa, ma dall’intento costruttivo di combattere l’inerzia della cultura e strigliare, più che i singoli studiosi, un modo sterile di filosofare. Se ne ha una riprova a posteriori, quasi trent’anni dopo l’esordio della rivista, in un bilancio retrospettivo in cui l’intento professato sarebbe apparso a Croce
antipositivista e antimetafisico; avverso alla trattazione meramente filologica ed erudita dei problemi, ma risoluto ad attuar sul serio il congiungimento della filosofia con la filologia; avverso al razionalismo dei matematici e all’empirismo dei naturalisti, e anche al panlogismo e astratto monismo della volgare scuola hegeliana […]; ma avverso non meno al pragmatismo, all’intuizionismo, al misticismo e all’irrazionalismo d’ogni sorta (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, 1928, 2004, p. 242).
Questo obiettivo è ben visibile già dai primi anni della «Critica», e non a caso nell’editoriale d’apertura si ipotizzavano alla «piccola rivista» che nasceva dieci anni di vita per realizzarlo, anche se non si escludeva, profeticamente, una durata di «trenta o quaranta» per fare ancora di più (1903, 1, p. 5). L’incertezza iniziale si giustificava forse dall’essere un’impresa finanziata personalmente da Croce e pubblicata da un tipografo che fu il pioniere dell’editoria in Puglia, Valdemaro Vecchi, al quale si deve la stampa delle prime tre annate. Ma alla morte di questi, commemorato in un necrologio che lo ricorda quale «cooperatore prezioso» e «amico saldissimo» (1906, 4, p. 167), la rivista poté continuare ancora più prospera grazie all’incontro fortunato con Giovanni Laterza, che ne assunse l’amministrazione cominciando un diuturno sodalizio evocato con affetto e commozione nell’anno di chiusura della rivista (1944, 42, pp. 5-7). Se, come si è detto, la lunga durata non fece mai deflettere dai fermi propositi di partenza, è anche vero che si possono distinguere al suo interno dei cicli parziali, individuati dallo stesso Croce in serie compiute di dodici anni. Il primo, in cui sono privilegiate la letteratura e la filosofia, è dunque fatto terminare nel 1914, un anno che segna una cesura anche nella vita civile, per lo scoppio della Prima guerra mondiale.
Con il dodicesimo volume del 1914 giungono a compimento i due principali blocchi di articoli con cui la rivista fu iniziata: le note sulla più recente letteratura italiana, che consta di cinquanta puntate, subito raccolte e pubblicate nei primi quattro volumi della Letteratura della nuova Italia (1914-1915), e quelle sulla filosofia in Italia dopo il 1850, suddivisa da Gentile in sei sezioni (gli scettici, i positivisti, i platonici, i neokantiani, i neotomisti, gli hegeliani), per un totale di quasi quaranta capitoli. Con queste voci non si coglie solo il senso del pensiero crociano ma anche quello delle vicende della cultura italiana fino alla Prima guerra mondiale. Lo stesso Croce si rende conto che si è conclusa una fase della sua vita intellettuale e per questo ai primi del 1915 scrive il Contributo alla critica di me stesso, con cui «guardare indietro al cammino percorso e cercar di spinger lo sguardo su quello che [gli] conviene percorrere negli anni» a venire (cit., p. 1). Anche un lettore attento come Serra, che sempre nel 1914 pubblica con Le lettere un bilancio dei primi anni del secolo, osserva come Croce «abbia voluto, con quella sua correttezza metodica, esaurire il programma della prima serie delle Opere» (R. Serra, Scritti letterari, cit., p. 453).
Anche in seguito la configurazione delle rubriche rimane la stessa, come pure il criterio di cicli di articoli sopra un unico tema, con cui ottenere una maggiore coerenza di risultati. Cambia però il baricentro dei contenuti, ora più spostato sulla storia che, dei tre campi cui è consacrata la rivista, aveva avuto nella prima serie un rilievo minore della letteratura e della filosofia. Croce quindi si dedica a saggi sulla “Storiografia in Italia, dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri”, secondo l’abito di chi, nel fare concretamente storia, è condotto alla riflessione sulla storia e sugli altri storici, mentre a Gentile sono affidati gli “Appunti per la storia della cultura in Italia nella seconda metà del secolo XIX”. Vero è che la letteratura non viene meno, in quanto sempre Croce si incarica, soprattutto attraverso la pubblicazione delle inedite lezioni giovanili, di illustrare la vita e le opere di Francesco De Sanctis, che ai suoi occhi non è stato soltanto il critico che ha tenuto insieme «idee filosofiche sull’arte, coltura storica, sensibilità estetica, acume di analisi e forza di sintesi», come Croce aveva in precedenza affermato in uno dei numerosi interventi contro la poesia di Pascoli (1907, 5, p. 258), ma anche il maestro di vita morale, il sostenitore della necessità di coniugare la cultura alla vita civile e di mettere in rapporto l’individuo con la società di cui fa parte. È un ritorno che si può interpretare come un ritrarsi dalla critica militante del periodo precedente, per non dovere fare ancora i conti con la letteratura decadente contro cui tante volte aveva impugnato la penna nel primo decennio del secolo.
Non più quindi la ricognizione di una letteratura ancora in via di definizione, ma l’analisi di opere riconosciute come canoniche, dal valore già consolidato e lanciato, dopo avere saggiato la realtà della «nuova Italia», verso un’estensione enciclopedica. La lettura di tanti scrittori contemporanei spesso di modeste qualità, studiati per ragioni di compiutezza, destò un senso di sazietà e di usura, cui Croce reagì volgendosi ai grandi classici della letteratura universale, facendo esordire, nel 1917, una rassegna di “Note di letteratura moderna italiana e straniera”, prodromo dei grandi saggi su Johann Wolfgang von Goethe, uscito nel 1918 insieme con quello su Ludovico Ariosto, su William Shakespeare (1919), su Pierre Corneille (1920). Secondo una testimonianza più tarda di Croce, questo ecumenismo intendeva tutelare la cultura dalle falsificazioni che in tempo di guerra si commettevano per screditare le nazioni nemiche. In particolare i francesi, specie dalle pagine del «Mercure de France», e gli italiani si erano spinti ad accusare «Kant e Hegel e Goethe, e perfino Shakespeare» di essere «rappresentanti o addirittura mandatarii della barbarica prepotenza e violenza germanica e si esortava a discacciarli dalla nostra cultura» (1944, 42, p. 3). Si spiegano allora le Postille del 1915 contro Guglielmo Ferrero che aveva ritenuto Georg Wilhelm Friedrich Hegel colpevole di avere benedetto la guerra (13, pp. 322-24) e aveva diffamato la filologia tedesca per le sue tesi sulla questione omerica e per gli studi sulla storia primitiva dell’Italia. Il monito crociano era che l’idea dell’esistenza di un «popolo reprobo» non è meno aberrante di quella di chi creda a un «popolo eletto» (pp. 399-401), finendo poi per dare la stura a un florilegio di «ragionamenti sconclusionati» da parte di intellettuali italiani contro «la perpetua barbarie dei Germani» (1916, 14, pp. 161-63).
Mentre fino allora se ne era sempre tenuta lontano, con lo scoppio della guerra «La Critica» fu costretta a entrare nella polemica politica, ma solo per difendere la filosofia, la storia, la letteratura e le arti dalle strumentalizzazioni, senza però mai «volgere i concetti della scienza a conforto di questa o quella tesi politica contingente, a difesa ed offesa di questo o quel popolo» (1915, 13, p. 318). Altre riviste, all’apertura del conflitto, sospesero le pubblicazioni o stravolsero la loro impostazione culturale per farsi strumento di propaganda nazionale. Croce ebbe invece la coerenza di fare vivere la sua come prima, sia pure «con mente serena nell’animo turbato» (p. 318). L’avere continuato imperterrito ad approfondire le sue indagini storiche, a emettere giudizi critici, a sollevare discussioni filosofiche gli attirarono l’accusa d’indifferenza e di freddezza, ma in realtà non venne mai meno la sua chiara presa di posizione neutralista, solo che la si diffuse tramite altri periodici, come «Italia nostra», dove apparvero suoi scritti poi raccolti in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra (1919), evitando di farlo sulla sua rivista, «consacrata alla scienza», affinché l’evento bellico non fosse l’alibi che giustificasse «neghittosità e sconclusionatezza» (p. 320).
Al principio nemmeno l’avvento del fascismo scosse i saldi principi su cui era sorta «La Critica». In questo senso è significativo che nel 1923 e nel 1924 Croce vi pubblicasse un ciclo di saggi “Intorno alla storia del Regno di Napoli”, denso di osservazioni documentarie ed erudite, quasi ci si volesse astrarre dal drammatico presente. Il fatto è che, per sua stessa ammissione, nei primi tempi del ventennio nero Croce sottovalutò il colpo di stato di Benito Mussolini. Qualche contraccolpo però si ebbe anche nell’immediato, e fu l’abbandono della firma di Gentile, che apparve per l’ultima volta nel 1923, sostituito nel completamento delle puntate sulla storia della cultura in Italia da Gioachino Brognoligo. In verità, anche precedentemente Croce aveva preso le distanze da Gentile nel corso di un loro scambio di articoli, editi tra il 1913 e il 1914 sulla «Voce», ma allora lo scontro era avvenuto sul piano teoretico, ossia sulla filosofia attualista, e l’episodio incrinò la loro amicizia solo momentaneamente. Una decina di anni dopo invece la frattura fu irreparabile, perché Gentile, iscrittosi al Partito nazionale fascista, ne divenne il maggiore ideologo, mentre Croce, dopo qualche incertezza, ne divenne un oppositore. A compensare il vuoto lasciato dall’antico sodale, la rivista si valse di nuovi collaboratori, tra cui spiccano Guido De Ruggiero, che dal 1927 riprese a scrivervi dopo le polemiche con Croce degli anni di guerra e immediatamente successive, occupandosi delle recensioni e dei filosofi del Novecento. Con più continuità si aggiunse Adolfo Omodeo, autore, dal 1928 in poi, di saggi sulla storia italiana e francese dell’Ottocento e di una serie di “Momenti della vita di guerra” del 1915-1918, mentre Francesco Flora, come gerente, assunse la responsabilità giuridica della rivista. Questi e pochi altri fecero dimenticare a Croce «l’amara esperienza dell’inaspettata conversione e distacco del collaboratore filosofico delle prime due serie» (1944, 42, p. 7).
Lungo l’intero ventennio del fascismo «La Critica» tenne sempre un contegno fermo e dignitoso, evitando ogni possibile celebrazione del regime e, non potendo manifestare esplicitamente la sua avversione alla becera dittatura, la dimostrò e contrariis con la severità delle ricerche storiografiche, fedele al suo liberale programma educativo e morale. La volta in cui Croce non seppe proprio trattenersi dall’intervenire a viso aperto fu all’indomani del Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Gentile, con una condanna che, di là dall’ideologia, colpiva il tradimento in primo luogo deontologico perpetrato con la rinuncia ad «attendere, con l’opera dell’indagine e della critica e con la creazione dell’arte, a innalzare parimente tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale» (1925, 23, p. 310). La contaminazione tra politica e letteratura, tra politica e scienza, che è di per sé un errore, nel caso in questione era tanto più grave in quanto veniva a «patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze, e la soppressione della libertà di stampa» (p. 310). In quel «verboso» documento, proseguiva la requisitoria, si notavano ovunque, contraddistinte da «un imparaticcio scolaresco», «confusioni dottrinali e mal filati raziocinamenti», «arbitrarie interpretazioni e manipolazioni storiche» (p. 310) che lo faceva scadere a «incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all’autorità e di demagogismo», per giunta espressi «con facile riscaldamento retorico» (p. 311).
Paradossalmente «La Critica», che senza questo stimolo avrebbe rischiato di fossilizzarsi in un lavoro stancamente ripetitivo sulla scia dei precedenti lavori, trasse dal fascismo un nuovo stimolo, una nuova ragione di vita, un nuovo vigore polemico che si esercitò in due modi:
indirettamente con le sue rubriche di storia civile e letteraria, le quali erano percorse e avvivate da quella opposizione e dalla nuova onda di affetto per la perduta libertà, e direttamente con le sue recensioni e postille e varietà (1944, 42, p. 4).
Tra la seconda serie, conclusasi con il 1926, e la terza non intercorrono sostanziali differenze, uscendo entrambe sotto l’uniforme cappa della dittatura fascista. Croce non interpose nemmeno un avviso che segnalasse il passaggio a un nuovo dodicennio, come era avvenuto nel 1914, allorché un editoriale “Ai lettori” li aveva avvertiti della conclusione della prima serie (12, pp. 401-03); solo si indicava sulla copertina del 1927 l’avvio della terza serie.
Non è esagerato dire che «La Critica» fu l’unica superstite forma di opposizione, tollerata dal regime soltanto per la fama internazionale di Croce e per lo scandalo che avrebbe suscitato all’estero un’azione restrittiva della sua libertà. Egli stesso del resto, pur escludendo «ogni concessione e transazione», conservò «la calma e la dignità necessarie a imporre rispetto e si guardò dalle intemperanze» (1944, 42, p. 4), anche per non approfittare di una libertà concessagli quando un’intera nazione era costretta al silenzio. Spesso la critica alla dittatura si attuò obliquamente, in riferimento ad altri periodi storici, con un trasferimento ammesso da chi credeva che ogni storia fosse sempre una storia contemporanea. Se ne ha conferma nei giudizi intorno all’età barocca, nei cui confronti sembrerebbe di assistere a una radicalizzazione della condanna, indotta proprio dall’avvento del fascismo. Ancora ai primi del Novecento Croce non nascondeva qualche «simpatia» per gli scrittori barocchi e per la loro ispirazione sensuale. Negli anni Venti, quando «La Critica» anticipava i capitoli del noto libro sul barocco, questo periodo è viceversa condannato senza appello. La scomunica della cultura secentesca parrebbe dipendere dalla definitiva resistenza della coscienza morale di Croce al fascismo, nei giorni in cui con il manifesto degli intellettuali antifascisti aveva chiarito in primo luogo a se stesso il suo rifiuto del regime. È quanto si intuisce tra le righe di un articolo apparso nel 1925 sulla rivista, all’indomani del delitto Matteotti, di cui nel gennaio di quell’anno Mussolini si era assunto la piena responsabilità. Qui, mentre Croce parla del Seicento, pare in realtà riferirsi al proprio tempo, quando gli viene da osservare che
la filosofia dice: “nulla virtus solitaria”; e a rendere solitaria la virtù non si è pensato se non ai nostri giorni, quando si è concepito un amor di patria astratto e campato in aria, e per ciò stesso congiungibile con la rozzezza, con la cupidigia, con la violenza, col delitto (1925, 23, p. 194).
Non si vuole sostenere deterministicamente che il rifiuto del fascismo sia la causa che trascinò Croce alla condanna del barocco, ma è certo che l’accentuazione del giudizio negativo su quel periodo, dovuto soprattutto all’asserita degenerazione morale e politica attribuita al Seicento italiano, discenda anche dalla constatazione di analogie tra quell’età e il clima falso e inutilmente altisonante in cui Croce si trovava a vivere mentre scriveva la Storia dell’età barocca in Italia. Dai taccuini di lavoro sappiamo che quelle note sulla decadenza italiana del Seicento, risalenti all’agosto 1924, furono ricopiate proprio nel gennaio 1925, in giorni in cui Croce scriveva di sé di trovarsi in condizioni di «nervosità, specialmente per cause politiche» (Taccuini di lavoro 1917-1926, 2° vol., 1987, p. 402), in preda a «penoso senso di soffocamento per la soppressa libertà di stampa» (p. 441). Non si trattava solo di uno stato d’animo, ma anche della necessità intellettuale di non avallare la rivalutazione di un periodo come il barocco che, nella logica neoidealistica dei precorrimenti, poteva apparire connotato da caratteri etici ed estetici simili a quelli del fascismo.
La parabola discendente disegnata dall’atteggiamento crociano verso la letteratura secentesca corre parallela a quella della valutazione dell’arte di D’Annunzio, strettamente legata alle sorti del barocco, che anzi ai primi del Novecento deve all’Imaginifico la sua riscoperta e la sua parziale rivalutazione per certe consonanze tra il fenomeno del marinismo e il decadentismo. A quel tempo i giudizi su di lui erano addirittura entusiasti (1904, 2, p. 1) e anche in seguito (1935, 33, p. 181) D’Annunzio è abbinato al fenomeno del secentismo; ma mentre a inizio di secolo Croce, pur senza nascondere una serie di riserve, aveva mostrato qualche benevolenza per tutti e due i fenomeni letterari, per la loro novità, spregiudicatezza e freschezza di idee, negli anni Venti essi sono accomunati da un rifiuto totale, per essere la manifestazione di una grave malattia morale. Della letteratura si difende ancora l’autonomia, che «implica l’eversione di tutte le estetiche eteronome, cioè intellettualistiche ed edonistiche e pedagogiche o moralistiche» (Contini 1989, p. 11), ma mentre nel saggio del 1904 D’Annunzio era celebrato come poeta puro, adesso è escluso dal novero degli autentici poeti per mancanza di «umanità», indifferente ai drammi e pago di ostentare una vuota oratoria capace solo di fare sentire il compiacimento della «propria bravura e virtuosità» (1935, 33, p. 180).
Con il presupposto di una somiglianza tra la cultura del 17° e del 20° sec., scrivere del «Pensiero italiano del Seicento», come recita un ciclo di saggi a partire dal 1926, spesso voleva dire per Croce parlare indirettamente dei propri anni. Pubblicare nel 1927 il trattatello Della ragion di stato (1621) di Ludovico Zuccolo o anticipare nel 1928 la prefazione alla Dissimulazione onesta (1641) di Torquato Accetto, dove si fa riferimento «all’arte, assai coltivata ai nostri giorni e che ha nella letteratura contemporanea molti documenti letterari, di falsificare la propria anima, trasvalutandone i valori» (1928, 26, p. 226), era un modo per denunziare la corruzione morale recata dal fascismo, al quale il lettore è ricondotto nel punto in cui si rammentano «le condizioni illiberali della società di allora» (p. 225). Intervenire sul trattato di Vittorio Alfieri Del principe e delle lettere (1778-1786), che verteva sul rapporto tra intellettuali e potere, serviva tra l’altro ad additare, «anche nell’esperienza quotidiana», i tanti uomini che, pur avendo «mostrato disposizione e dato saggio di buon lavoro», dopo avere scritto «cosa contraria alla loro coscienza», si erano sempre più disonorati «in quella via di perdizione» al servizio del tiranno (1942, 40, pp. 336-37). E ancora più esplicito era il disprezzo per quei «professori tedeschi convertiti al “nazismo” e bramosi di farsi notare nella gara dei servilismi», contribuendo a inquinare anche le riviste culturali con una loro «cattiva politica razzistica» (1935, 33, p. 319), tanto che «la parola “arïo” finirà a prendere il significato di “imbecille”» a causa dei tanti spropositi sostenuti (p. 237).
Se l’indignazione di Croce colpisce gli intellettuali non è soltanto perché «La Critica» è una rivista di cultura. La loro responsabilità è tanto più grave perché la loro «forza si fonda sul culto del vero e vacilla e si disfà con l’indebolimento e la corruttela» della loro «classe», di cui essi violano la deontologia, che consiste nel non «tradire il dovere per cui ricevono onori e stipendi dalla società» (1937, 35, p. 77). In un’altra Postilla su Ciò che la filosofia non dev’essere ci si scaglia contro la tendenziosità messa al servizio del proprio utile personale che, «sotto specie di affermare l’universale verità», predica asserti faziosi e unilaterali (1935, 33, p. 157). Di esempi negativi sono pieni tutti i fascicoli del Ventennio, dal «fastidioso frastuono» levatosi dalle celebrazioni del centenario di Goethe (1932, 30, p. 400), alla strumentalizzazione del pensiero di Hegel, gestita dagli «untuosi predicatori» dello «Stato etico» (p. 399).
Si potrebbe pensare che in questo intervento su Hegel e il politicantismo filosofico, in cui si attaccavano uomini «privi di genio, i cui nomi neppure per celia si possono avvicinare a quello di un Hegel», Croce non pensasse a Gentile, ma ai suoi mediocri epigoni seguaci dell’attualismo. Se però si va a vedere ciò che Croce scrisse qualche anno dopo su di lui, in risposta a un tentativo condotto dalle pagine del «Giornale critico della filosofia italiana» di riaprire tra loro il dibattito filosofico interrottosi nel 1924, c’è da credere che proprio a Gentile si riferisse con quel tono sprezzante. La ripresa del dialogo, ormai troppo compromesso, è rifiutata perché «da vent’anni egli trascura il campo della scienza propriamente detta», contentandosi di fare del «grosso giornalismo, che altera fatti e testi» per ottenere facilmente la meglio sugli avversari, all’opposto dello stesso Croce che ha sempre continuato a «studiare, imparare, tener[si] al corrente» (1941, 39, p. 388). La sua chiusura nasce dall’indignazione nel vedere anche in Gentile il caso di un «così detto poeta o filosofo o storico che si acconcia» a giovare «ai fini del politico», con un comportamento da cui esce «offesa la sua dignità morale e minacciate le radici stesse della propria vita migliore» (1933, 31, p. 238). In questa Postilla, intitolata Apoliticismo, Croce mette in chiaro che la sua ripulsa non vuole sostenere il rifiuto della politica tout court e difendere il suo «particolare». Una posizione come questa sarebbe la scelta dell’«uomo del Guicciardini», oggetto di una critica spietata di De Sanctis (1869), pienamente condivisa da Croce, che sempre ha seguito quella lezione morale e civile. In realtà l’avversione per una politica «che copre di rossore e di sdegno il volto di chi riverisce la castità del bello e del vero» è al contrario «interessamento e non disinteressamento, e fa presente quello che si vorrebbe fuggire». L’afflizione che si prova non è dunque «il gretto tormento egoistico che immeschinisce, ma l’affanno e il dolore per la società e per l’umanità» (p. 240).
Anziché rifugiarsi in un’inerte forma di apatia stoica, «La Critica» si fa carico di pungolare coloro che, «per non compiere sotto la propria responsabilità sforzi di volere e di pensiero», delegano altri a decidere per loro. Non è difficile cogliere in ciò la condizione dell’Italia, prona ai piedi di Mussolini, soggiogata per «la mancanza d’ideali e di fede», disposta, per «la paurosa cura di scansare lotte e pericoli», a ubbidire «a una presunta necessità storica», invece di ubbidire, come si dovrebbe, a una «non presunta ma effettiva necessità morale» (pp. 159-60). Croce sapeva bene che i valori in cui egli credeva si erano indeboliti: lo denunciò in una conferenza tenuta a Oxford nel 1933, edita sulla «Critica» dell’anno successivo sotto il titolo di Difesa della poesia, richiamante la memorabile apologia di Percy Bysshe Shelley (1792-1822). Al presente «le sublimi, le sante parole che facevano battere il cuore delle generazioni passate» erano ormai «sbeffeggiate», o quanto meno svuotate di senso, perché si preferiva ossequiare la filosofia che si prestava a «ornare di sofismi ed artificiose formole e di vergognose menzogne le mire particolari delle classi, dei governi e delle nazioni» (1934, 32, p. 3). Ma non per questo egli cedeva alla rassegnazione, anzi traeva incentivo da questo stato di acquiescenza per predicare con tenacia i più alti valori dell’uomo, a cominciare dalla libertà.
È questo un appello che ricorre in ogni fascicolo della «Critica», soprattutto dagli anni Trenta, come mostrano le citazioni, volutamente attinte a periodi diversi, ma sempre fedeli nell’assunto. Nel 1933 scongiura di attendere,
con ogni zelo e ad ogni rischio, a tutelare e promuovere gli umani valori e le umane virtù, il coraggio del vero, la purezza delle intenzioni, il rispetto della personalità, il dir no al male e sì al bene, ciò che si chiama, insomma, il culto della libertà (31, p. 160).
Nel 1934, affrontando il tema della decadenza, reagisce con veemenza a quanti credono che l’ideale della libertà abbia in quei giorni «ricevuto una profonda scossa, dalla quale non risorgerà», replicando con convinzione che «la libertà risponde a un bisogno fondamentale dell’uomo, che nessuno sforzo vale ad eliminare o a sostituire» (32, p. 158). Naturalmente, chi come Croce aveva studiato il fallimento della Rivoluzione napoletana del 1799 sapeva bene che la libertà non poteva essere un dono ineluttabile, ma una conquista, e ritornando ancora nel 1943 sulla «teoria della libertà», ribadiva che per lui essa era un «metodo», «il principio supremo», e non un aspetto particolare della politica. E se in Inghilterra la «generale e popolare fede liberale» si è insediata attraverso una lenta acquisizione durata nei secoli fin dalla «magna Charta», altri Paesi, e certo il riferimento è all’Italia,
potranno acquistarla con pari saldezza e durevolezza per effetto di una terribile e dolorosa e vergognosa esperienza di quel che accade a un popolo altamente civile e in pieno progresso economico, sociale e morale, che la libertà fecondava, quando si è lasciato insidiare, stordire, avvolgere e sopraffare e ha abbandonato il governo di sé stesso nelle mani di un conclamato superuomo e della banda che gli si forma intorno per servirlo e più ancora per servirsene (41, p. 347).
La conclusione di questa riflessione è in perfetta linea con ciò che sempre è stato il filo conduttore della «Critica», secondo cui si poteva inculcare la libertà con un solo mezzo: «con ogni forma di educazione, da quella dell’alfabeto a quella del discutere e di deliberare nelle assemblee» (p. 348). Era, con perfetta consequenzialità, il fine enunciato nel Contributo alla critica di me stesso, quello «di dare il meglio di sé, e di compiere opera politica, di politica in senso lato: opera di studioso e di cittadino insieme» (cit., p. 47). Con un continuo stillicidio, anno dopo anno, la rivista si era adoperata per innalzare il livello culturale della nazione e per irrobustire la sua coscienza morale e civile, prendendo posizione contro le mistificazioni, le falsità, i pregiudizi. «Con paziente insistenza» – annotava Croce nel 1937 – «bisogna venire sradicando le male erbe ovunque accada di vederle espandersi, o appena spuntare, nei campi del sapere» (35, p. 78). Forse nel 1944, anno finale della rivista, egli non pensava ancora che le «male erbe» fossero davvero tutte estirpate, nondimeno, componendo gli ultimi fascicoli da Sorrento, poteva scrivere dalla parte d’Italia dove la libertà era tornata che per questa ragione «la Critica non serve più al fine al quale ha servito per vent’anni» (42, p. 8). Non essendo la sua «un’intrapresa commerciale», ma un’iniziativa ispirata da «una causa ideale», avvertiva che, «ove questa venga meno perché ha conseguito il suo effetto […], deve saper tacere e cedere agli altri la parola, chiudendo la sua vita» (pp. 1-2). Senza dubbio con la Liberazione un periodo si era «chiuso» (p. 4), ma la cessazione della rivista non era dovuta solo a questo, come si evince dai Taccuini di lavoro 1944-1945 (5° vol., 1987, p. 1), dove, al principio dell’anno, il 2 gennaio, scriveva che con l’Italia divisa in due non si riusciva più a distribuirla e, pieno di dubbi, si domandava: «Non sarà il caso di farla placidamente morire?».
In effetti nel periodo di guerra gli ostacoli materiali si erano di molto accresciuti e anche la rivista ne risentiva. Non potendo più disporre dell’antica circolazione di persone e di libri, in quegli anni indebolì la sua tradizionale organicità, di cui è spia la presenza di rubriche generiche quali “Conversazioni filosofiche”, o “Articoli varii”, per non dire della drastica riduzione delle informazioni bibliografiche, che nel 1944 si ridussero a tre sole recensioni. Eppure, al momento di chiudere «La Critica», Croce rispondeva positivamente a ciò che aveva ipotizzato nei taccuini, cioè di «trasformarla in conformità delle nuove condizioni» (42, p. 1) e nel suo estremo “Avviso” preannunziava «una nuova serie da pubblicare a intervalli liberi», senza più scadenze troppo vincolanti (p. 343). Il riferimento è ai «Quaderni della Critica», editi dal marzo 1945 con un nuovo, severo monito alla serietà, ritenendo indebito lo «scherzo spensierato» di altre riviste inebriate dal clima euforico del dopoguerra (1945, 1, p. 111). Non si può dire se e quanto questo «testimone severissimo della verità e della vita morale» (Parente 1953, pp. 35-36) sia davvero riuscito, con la sua opera di moralizzazione, a instillare negli italiani una «nuova etica degli studi» e a migliorare il loro senso di responsabilità civile; quello che è certo è che l’influenza della «Critica» ha avuto comunque, nello svolgimento della cultura, una rilevanza incalcolabile.
A. Parente, La «Critica» e il tempo della cultura crociana, Bari 1953.
E. Garin, Alle origini della «Critica», in Id., Cronache di filosofia italiana. 1900-1943, Bari 1955, 19592, pp. 186-240.
F. Nicolini, Croce, Torino 1962 (in partic. La fondazione della «Critica» e alcune polemiche, pp. 208-20).
L’indice ragionato della «Critica» di Benedetto Croce, Bari 1972.
G. Innamorati, Tra critici e riviste del Novecento, Firenze 1973.
E. Garin, Intellettuali italiani del XX secolo, Roma 1974.
G. Contini, La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino 1989.
Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di M. Ciliberto, Roma 1993.
E. Giammattei, La Biblioteca e il dragone. Croce, Gentile e la letteratura, Napoli 2001.
F. Lolli, Croce polemista e recensore, 1897-1919, Bologna 2001.
D. Coli, Il filosofo, i libri, gli editori. Croce, Laterza e la cultura europea, Napoli 2002.
M. Panetta, Settant’anni di militanza: Benedetto Croce tra riviste e quotidiani, in Parola di scrittore. Letteratura e giornalismo nel Novecento, a cura di C. Serafini, Roma 2010, pp. 135-58.