La civilta islamica: scienze della vita. Oftalmologia
Oftalmologia
Lo studio e il trattamento delle malattie degli occhi furono al centro dell'interesse degli autori dell'Islam medievale, che in questo campo dimostrarono una notevole originalità. I trattati greci di medicina, tradotti in arabo all'inizio del IX sec., si occupano, tra l'altro, anche della cura degli occhi, ma non esistono opere greche specializzate nell'oftalmologia. È nel mondo islamico medievale che questa diviene oggetto di una letteratura specialistica autonoma. Capitoli sulle malattie oculari sono presenti in tutti i compendi medici generali in arabo, e molte sono le monografie (redatte prima in lingua araba e, in seguito, in lingua persiana) dedicate esclusivamente alle malattie degli occhi.
Le prime autorevoli monografie sulle malattie e la cura degli occhi furono redatte all'inizio del IX sec. a Baghdad da Ibn Māsawayh (m. 243/857), Kitāb Daġal al-῾ayn (I difetti dell'occhio), e dal suo discepolo Ḥunayn ibn Isḥāq, Kitāb Ma ῾rifat miḥnat al-kaḥḥālīn (Libro della conoscenza dell'esame degli oculisti). Sebbene appaiano ancora in gran parte basate sulle fonti greche, rispetto ai testi greci che ci sono giunti esse rappresentano già un notevole progresso nelle conoscenze specifiche e rivelano, in particolare, la conoscenza di alcune condizioni patologiche, come il panno corneale, non ancora individuate nel mondo greco. L'opera di Ḥunayn, il Kitāb al-῾Ašr maqālāt fī 'l-῾ayn (Dieci trattati sull'occhio), contiene, inoltre, i più antichi diagrammi particolareggiati dell'occhio che ci siano giunti da qualunque civiltà.
Uno dei più apprezzati manuali di oftalmologia di tutto il Medioevo islamico è quello di ῾Alī ibn ῾Īsā al-Kaḥḥāl ('l'oculista', 940-1010 ca.; in latino, Iesu Haly), vissuto a Baghdad nel X secolo. La Taḏkirat al-kaḥḥālīn (Memorandum per gli oculisti) contiene la descrizione di centotrenta condizioni patologiche dell'occhio, accompagnata da un'approfondita discussione dei sintomi, delle cause e della cura di ciascun disturbo, espressa nei termini della teoria allora dominante della patologia umorale. Un altro importante trattato di oftalmologia si deve a un medico contemporaneo di ῾Alī ibn ῾Īsā, ῾Ammār ibn ῾Alī al-Mawṣilī, originario dell'Iraq ma attivo al Cairo, che dedicò la sua unica opera al califfo fatimide al-Ḥākim. Il trattato di ῾Ammār, Kitāb al-Muntaḫab fī ῾ilāǧ amrāḍ al-῾ayn (Scelta concernente il trattamento delle malattie dell'occhio), descrive soltanto quarantotto tipi di patologie, ma contiene il resoconto di alcuni interessanti casi clinici e inoltre l'autore rivendica in esso l'invenzione di un ago cavo per rimuovere la cateratta dall'occhio mediante suzione. Al secolo successivo (precisamente al 480/1087) risale il manuale di oftalmologia redatto in persiano, ma con il titolo arabo di Kitāb Nūr al-῾uyūn (Libro della luce degli occhi) di Abū Rūḥ Muḥammad ibn Manṣūr al-Ǧurǧānī, noto in persiano come Zarrīn-dast ('Mani d'oro').
La vera fioritura dei trattati di oftalmologia si colloca, tuttavia, e per ragioni che ci sono ancora ignote, nei secc. XII e XIII e investì sia l'Andalus sia le regioni orientali del mondo islamico. In Spagna, Muḥammad ibn Qassūm ibn Aslam al-Ġāfiqī, un medico vissuto nel XIII sec., di cui peraltro non sappiamo quasi nulla, compose un trattato di oftalmologia ‒ il Kitāb al-Muršid fī 'l-kuḥl (Libro della guida in oftalmologia) ‒ in nove capitoli, il primo dei quali contiene alcune interessanti osservazioni sulla deontologia oculistica e una parafrasi del giuramento di Ippocrate. Al Cairo, Fatḥ al-Dīn al-Qaysī (m. 657/1258) dedicò ad al-Malik al-Ṣāliḥ II Naǧm al-Dīn Ayyūb il Kitāb Natīǧat al-fikar fī ῾ilāǧ amrāḍ al-baṣar (Risultato delle riflessioni sulla cura dei disturbi oculari), diviso in diciassette capitoli che affrontano l'anatomia e la fisiologia dell'occhio e le cause, i sintomi e le cure di centoventiquattro patologie di quest'organo, alcune delle quali descritte probabilmente per la prima volta.
Un altro importante trattato di oftalmologia del XIII sec. è il Kitāb Nūr al-῾uyūn wa-ǧāmi῾ al-funūn (Libro della luce degli occhi e raccolta di categorie), comunemente attribuito a Ṣalāḥ al-Dīn ibn Yūsuf al-Kaḥḥāl al-Ḥamawī ma in realtà di un certo Abū Zakariyyā Yaḥyā ibn Abī al-Raǧā᾽. Si tratta di un'opera originale, che contiene un'analisi insolitamente ampia della teoria geometrica della visione, oltre a illustrazioni di strumenti e a un interessante diagramma che mostra una sezione ortogonale di un occhio, secata da due piani differenti. Un'esposizione esauriente e sistematica delle conoscenze oculistiche del XIII sec. si deve infine al medico siro-egiziano Ibn al-Nafīs che, nel Kitāb al-Muhaḏḏab fī ṭibb al-῾ayn (Libro perfetto sull'oftalmologia), fa il punto sulle conoscenze del suo tempo.
Al secolo successivo appartengono il Kitāb Kašf al-rayn fī aḥwāl al-῾ayn (Libro sull'individuazione delle impurità nelle patologie oculari) di Ibn al-Akfānī ‒ dal quale l'autore stesso ricavò in seguito un compendio ‒ e un manuale scritto da Ṣadaqa ibn Ibrāhīm al-Šāḏilī che rappresenta una fonte importante per conoscere il livello tecnico e la diffusione raggiunti in quel tempo dalla chirurgia oculare. A partire dalla fine del XIV sec. si registra, tuttavia, un progressivo declino della disciplina oculistica e la perdita di originalità degli studi si riflette, nel XV sec., nell'opera dell'oculista egiziano Nūr al-Dīn ῾Alī ibn al-Munāwī, il quale si limita a realizzare un'opera compilativa, riunendo, oltre ai due testi di Ibn al-Akfānī (il trattato e il suo compendio), di cui peraltro non riconosce la comune paternità, alcuni tra i passaggi più rilevanti del trattato di oftalmologia di Ibn al-Nafīs.
La struttura dei vari testi era comunque piuttosto omogenea. Tutti i manuali di oftalmologia iniziavano con un capitolo dedicato all'anatomia dell'occhio e le illustrazioni che li accompagnano non rendono giustizia alla precisione della descrizione anatomica fornita nel testo. Per esempio, benché fosse noto che il cristallino possiede una forma leggermente appiattita ed è situato nella parte frontale dell'occhio, nelle illustrazioni esso è di solito rappresentato come una sfera posta al centro dell'occhio. I capitoli successivi erano dedicati alle malattie degli occhi, divise a seconda della zona in cui sono localizzate: (1) malattie delle parti esterne, comprendenti quelle delle palpebre (la categoria più estesa) e degli angoli palpebrali (soprattutto gli ascessi e le fistole lacrimali); (2) malattie delle parti mediane, comprendenti quelle della congiuntiva (la seconda categoria per estensione), della cornea (ulcere, pustole, cicatrici corneali, essiccamento della cornea), dell'iride e della pupilla (tra le quali la cateratta); (3) malattie del globo oculare, che includevano lo strabismo, l'atrofia e la protuberanza; (4) disturbi della vista, inclusi annebbiamento, nictalopia, nifablepsia, fotofobia e confusione di immagini (allucinazioni); (5) malattie legate agli umori o fluidi, comprendenti le alterazioni dell'umore acqueo, dell'umore cristallino e di quello vitreo; (6) disturbi delle parti restanti, che riguardavano le tonache e il nervo ottico.
Per quasi tutti i disturbi e le malattie degli occhi erano disponibili ricette per la preparazione di composti medicinali e si consigliava caldamente il medico di tentare prima la terapia farmacologica e ricorrere soltanto in un secondo momento a quella chirurgica. Esistevano due tipi principali di farmaci oftalmici: lo šiyāf e il kuḥl. Il primo, tradotto di solito come collirio, era un prodotto a base di gomma arabica (o di qualche resina simile) che era diluito prima dell'applicazione in un succo vegetale, vino o acqua piovana. Uno šiyāf conteneva in genere tra i suoi ingredienti alcuni tipi di piante aromatiche e, in alcuni casi, una piccola quantità di oppio; esso era confezionato in barre per facilitarne la conservazione. Un kuḥl era invece un composto medicinale ridotto in polvere molto sottile che, senza essere mescolato con alcun liquido, era applicato sulle palpebre con uno specillo. Se era impiegato come refrigerante, il kuḥl era detto bārūd, mentre se era cosparso sull'occhio, invece di esservi applicato con lo specillo, era detto ḏarūr. Al di fuori del contesto della terapia oftalmica specializzata, il termine kuḥl indicava vari composti applicati sugli occhi a fini cosmetici. L'ingrediente principale di questi cosmetici è stato tradizionalmente, ma erroneamente, identificato in un certa forma di antimonio, di solito solfato di antimonio o solfito di antimonio (stibium o stibina), ma le ricerche più recenti suggeriscono che si trattasse più probabilmente di piombo o, secondo alcuni, di polvere di ferro. Il termine kuḥl, derivato dalla stessa radice di kaḥḥāl (oculista), finì per perdere il suo significato specifico e passare a indicare un'essenza qualsiasi; con l'aggiunta dell'articolo arabo, al-kuḥl diede origine infine alla parola alcol.
Buona parte degli interventi di chirurgia oftalmica descritti nei manuali riguarda la rimozione di escrescenze dalle palpebre: cisti, orzaioli, papillomi, vescicole e tumori di vario genere. Il calazio o ciste tarsale (barad), per esempio, era curato inizialmente con una terapia farmacologica; lo si strofinava con un particolare tipo di resina diluita in aceto forte o con un balsamo di olio di rose, cera e trementina o qualche altro medicinale di questo genere. Se questa terapia non aveva effetto, bisognava rovesciare la palpebra e inciderla con una lancetta dotata all'altra estremità di un piccolo cucchiaio che serviva a rimuovere il calazio. Se la ferita così prodotta era ampia, i margini dell'incisione erano richiusi con una sutura. Infine era applicato un collirio e si lavava l'occhio con acqua tiepida. Per la rimozione di papillomi, orzaioli, cisti e altre vescicole si ricorreva a procedure analoghe, che prevedevano l'impiego di strumenti specifici (come la 'foglia di rosa' o la 'lancia') per i vari tipi di escrescenze.
Anche il simblefaro (iltiṣāq), o adesione delle palpebre, era curato chirurgicamente. Questo era distinto generalmente in due tipi: quello risultante da errori nel trattamento chirurgico del panno corneale o dello pterigio e quello causato dalla crescita congiunta della cornea e della palpebra dovuta alla presenza di un'ulcera corneale. Su entrambi i tipi si interveniva nello stesso modo, ossia sollevando la palpebra per mezzo di uno o due piccoli uncini o inserendo al di sotto di essa l'estremità di uno specillo per tenerla separata dall'occhio. Si procedeva quindi a recidere le aderenze con un piccolo bisturi, badando bene di non danneggiare la cornea, per non provocare il prolasso dell'iride. Ci sono giunte anche descrizioni del trattamento chirurgico degli ascessi e delle fistole lacrimali (chiamati ǧarab, termine che può indicare anche un tumore o un rigonfiamento qualsiasi).
Il rovesciamento all'esterno della palpebra inferiore o ectropion era attribuito o alla presenza di un tumore maligno oppure a quella di cicatrici lasciate da un'ulcera trascurata del margine palpebrale. Soltanto quest'ultimo caso era considerato operabile. Dopo aver inciso il tessuto cicatriziale, i margini dell'incisione erano mantenuti separati con un tampone di ovatta imbevuto in una mistura di cera disciolta in olio di rose (o con il collirio 'bianco' o con quello chiamato 'basilicon'). Il tracoma era ben noto sia ai medici greco-romani sia a quelli del mondo islamico ed era considerato una malattia della palpebra che attraversava in genere quattro stadi. Attualmente è considerato una malattia della congiuntiva, che causa il formarsi di granulazioni dense e ruvide sulla superficie interna della palpebra, le quali danno luogo, se trascurate, a numerose complicazioni. La cura delle conseguenze del tracoma (o di quelle patologie che si consideravano sue conseguenze) richiedeva l'impiego di procedure chirurgiche più complesse. Tali conseguenze rappresentavano la causa più diffusa di cecità; dal IX sec. in poi, gli oculisti del mondo islamico ipotizzarono la dipendenza dal tracoma di una serie di altri disturbi, come la trichiasi, l'entropion, il panno corneale e lo pterigio (quest'ultimo oggi non è più messo in relazione con questa patologia). I manuali dell'Islam medievale consigliano di trattare il tracoma, se ancora in fase iniziale, con l'applicazione di diversi colliri. Nel caso di tracoma cronico e inveterato, invece, era necessario intervenire chirurgicamente, rovesciando la palpebra e ripulendone la superficie interna con una serie di raschietti. Si instillava poi nell'occhio un'emulsione di rosso d'uovo e olio di violette, lo si copriva con un batuffolo di cotone e lo si bendava per quattro giorni, trascorsi i quali si lavava l'occhio con acqua tiepida per poi medicarlo con un collirio composto da gomma arabica, ferro, rame purificato, verderame e oppio (macinato fino, passato al setaccio e lavorato con vino).
La cura della trichiasi e dell'entropion (nascita di ciglia superflue e rovesciamento all'interno del margine palpebrale), due effetti secondari del tracoma, prevedeva differenti procedure chirurgiche.
Il panno corneale, una vascolarizzazione invasiva della cornea, era ignoto ai medici greco-romani (o da essi non ancora individuato) ma è descritto con grande esattezza già dai primi oculisti del mondo islamico. Si distinguevano due tipi di panno corneale (sabal): una vascolarizzazione profonda della cornea, che oggi sarebbe probabilmente interpretata come una forma di cheratite o infiammazione corneale, e una vascolarizzazione più superficiale che è caratteristica del panno corneale tracomatoso. Quest'ultimo tipo era considerato una conseguenza del tracoma e si riteneva che fosse contagioso (come il tracoma stesso); era curato chirurgicamente con una peritectomia: l'occhio era mantenuto aperto con un apposito strumento e piccolissimi uncini fungevano da tiranti; servendosi di un minuscolo scalpello o di un paio di forbici o di un ago, il medico procedeva quindi all'escissione, che all'epoca era interpretata come un distacco del panno corneale dalla superficie della congiuntiva. In molti casi la sua asportazione chirurgica doveva certamente comportare la rimozione di strati di epitelio corneale, l'escissione di una striscia di congiuntiva dalla sclera nella zona del limbo corneale e l'interruzione dell'afflusso di sangue alla cornea. I medici dell'Islam furono quindi i primi a sviluppare una procedura per la rimozione del panno corneale tracomatoso, che in Europa fu 'reinventata' nel 1862 da Salvatore Furnari (m. 1866) a Parigi con il nome di tonsura conjunctivalis e continuò a essere applicata, nelle sue numerose varianti, anche dopo la fine della Prima guerra mondiale.
Lo pterigio (ẓafara) è una crescita invasiva della congiuntiva bulbare al di sopra della cornea, in genere di forma triangolare e posta dalla parte del naso. Era già nota ai medici greco-romani, che misero a punto una tecnica di escissione, ripresa dagli oculisti del mondo islamico. Si impiegavano gli stessi strumenti usati per la rimozione del panno corneale: l'escrescenza era sollevata per mezzo di minuscoli uncini e recisa con una piccola lancetta o un paio di forbicine. La rimozione del panno corneale e quella dello pterigio, operazioni entrambe complesse e faticose, causavano considerevoli sofferenze per i pazienti; ciononostante erano ugualmente effettuate, anche se non possiamo dire con quale frequenza. Nel manuale di Ḫalīfa ibn Abī 'l-Maḥāsin sono proprio la rimozione dello pterigio e del panno corneale gli interventi che richiedevano più frequentemente l'uso degli strumenti oftalmici.
Un'altra causa di cecità molto diffusa era la discesa della cateratta. Oggi sappiamo che tale infermità è causata da un opacamento del cristallino, ma nella letteratura medievale si parla di una membrana che verrebbe a interporsi tra la pupilla e il cristallino. Il nome arabo al-mā᾽ al-nāzil (acqua o fluido che scende) ha dato origine, attraverso la sua traduzione latina, al termine moderno 'cateratta'. Benché vi fossero varie teorie riguardo alla sua localizzazione esatta, questa era sempre situata in una posizione compresa tra il cristallino e la pupilla, e l'infermità era considerata una patologia della pupilla. Oltre alla distinzione tra cateratte dure e morbide, si contavano ben dodici differenti tipi di cateratta in base al colore (ma in alcuni casi è evidente che la si confondeva con altre malattie) e si eseguivano diverse prove per stabilire quando un caso era operabile. Già nel X sec., ῾Alī ibn ῾Īsā al-Kaḥḥāl consigliava di valutare la possibilità di operare una cateratta sulla base della reattività della pupilla alla luce; questo criterio rappresentava un progresso rispetto a quello utilizzato dai medici del mondo greco-romano, cioè la dilatazione della pupilla di un occhio quando l'altro era tenuto coperto.
Il trattamento della cateratta prevedeva l'impiego di una tecnica antichissima, già nota nel mondo classico e originaria forse dell'India. Questa tecnica, chiamata in arabo qadḥ, consisteva nello spostamento verso il basso, piuttosto che nella rimozione, della lente opacizzata (o 'umore cristallino'). Per 'abbassare' una cateratta si effettuava una piccola incisione con una lancetta nella sclera in prossimità del limbo o margine corneale e quindi s'inseriva nell'apertura un ago o specillo da cateratta, che permetteva di spostare in basso il cristallino. Alcuni oculisti affermavano di servirsi soltanto dell'ago, senza eseguire alcuna incisione preliminare. Ci si preoccupava molto del fatto che la cateratta, dopo essere stata abbassata, potesse sollevarsi di nuovo, e di conseguenza si ordinava al paziente di giacere sulla schiena per sette giorni dopo l'operazione. ῾Alī ibn ῾Īsā al-Kaḥḥāl fornisce istruzioni precise sul modo di legare le mani dei pazienti e di impedirne i movimenti durante l'operazione ma afferma anche che, una volta effettuata l'inserzione dell'ago all'interno dell'occhio, l'oculista doveva rivolgersi al paziente in tono gentile per acquietarne i timori e assicurarlo che non avrebbe più sofferto. Vi sono numerose testimonianze che indicano come in alcune aree del mondo islamico medievale vi fossero specialisti che si dedicavano esclusivamente a questo tipo di intervento; ma probabilmente si trattava di oculisti itineranti, privi di competenze specifiche in altri campi della medicina. Nel suo commentario al Canone di Avicenna, lo Šarḥ al-Qānūn (Commento al Canone) composto nel 682/1283, Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī (m. 1311), medico e ṣūfī persiano scrive, per esempio, di aver personalmente eseguito salassi, suture, rimozioni chirurgiche di casi di panno corneale e di pterigio ma di non aver mai tentato un'operazione di cateratta, perché non si sentiva portato per questo genere d'intervento.
Le cause più frequenti dell'insuccesso di queste operazioni erano le infezioni e il glaucoma. In molte società tale pratica si è mantenuta fino all'inizio del XX sec. e potrebbe essere ancora in uso in alcune zone relativamente periferiche della Terra. Da una ricerca effettuata in India durante il primo decennio del XX sec. risultava che, su 550 operazioni esaminate, nel 38,3% dei casi si constatava un parziale recupero della vista, nel 10,6% un recupero di un terzo o di oltre un terzo, mentre i casi rimanenti erano condannati alla cecità permanente. Tuttavia, la tecnica descritta nei manuali medievali non corrisponde a quella utilizzata in tempi più recenti, dato che gli oculisti medievali adottavano un approccio posteriore, al di là del limbo, per deprimere la lente nell'umore vitreo, mentre in seguito, almeno dall'inizio del XVIII sec., si diffuse un approccio anteriore, attraverso la cornea e l'iride. Se si considera il fatto che una cateratta non curata porta inevitabilmente alla cecità e che nel mondo medievale non vi erano molte possibilità di sopravvivenza per chi era privo della vista, ci si può forse spiegare la grande popolarità di questa pratica, malgrado la percentuale di successi non fosse particolarmente incoraggiante.
Ci sono giunti anche alcuni resoconti che descrivono la rimozione delle cateratte effettuata per suzione mediante un ago cavo. Numerose fonti medievali, tuttavia, manifestano un atteggiamento critico nei riguardi di questa procedura. Uno dei più importanti medici dell'Islam medievale, al-Rāzī (865-925 ca.), nei suoi taccuini di lavoro, noti come Kitāb al-Ḥāwī fī 'l-ṭibb (Libro comprensivo sulla medicina), riferisce brevemente questo tipo di operazione e lo strumento in esso impiegato, attribuendone l'invenzione al medico greco Antillo (II sec. d.C.). L'intervento consisteva nell'incidere piuttosto ampiamente l'occhio con un ago cavo e richiedeva un assistente dotato di una straordinaria capacità polmonare che forniva la necessaria forza aspirante. Questa tecnica sarebbe poi stata reinventata da un oculista vissuto al Cairo nel tardo X sec., ῾Ammār ibn ῾Alī al-Mawṣilī, originario dell'Iraq e trasferitosi in seguito in Egitto. Egli si vanta di aver ottenuto numerosi successi con la sua tecnica e riporta la descrizione di un intervento condotto felicemente a termine. Nel frattempo, in Spagna, il suo contemporaneo al-Zahrāwī (m. 400/1009 ca.) affermava di aver saputo che in Iraq si eseguiva la tecnica di rimozione delle cateratte mediante suzione ma di non averla mai utilizzata personalmente.
L'autore del trattato Kitāb fī 'l-baṣir wa-'l-baṣīra (Libro della visione e della percezione), scritto nell'XI sec. ma falsamente attribuito al medico Ṯābit ibn Qurra, quasi contemporaneo di al-Rāzī, afferma che l'operazione con l'ago cavo era una pura illusione, che era impossibile eseguirla e che bisognava diffidare di chiunque sostenesse di poterlo fare, anche se si faceva chiamare oculista (kaḥḥāl). Ibn Abī Uṣaybi῾a riferisce invece che un suo predecessore all'ospedale Nūrī di Damasco, Sadīd al-Dīn Maḥmūd ibn ῾Umar ibn Raqīqa (m. 668/1270), aveva eseguito numerosi interventi di chirurgia oftalmica e operava le cateratte servendosi di un ago cavo e ricurvo, che consentiva la suzione della cateratta durante l'operazione. Tuttavia, dal momento che il verbo qadaḥa, impiegato nel racconto, significa 'abbassare' e non 'rimuovere', è possibile che l'autore non intendesse fare riferimento alla rimozione della cateratta.
Nel XIV sec. Ṣadaqa ibn Ibrāhīm al-Šāḏilī diede un'interessante descrizione di aghi cavi da cateratta. Egli affermava che ai suoi tempi nei mercati del Cairo era ancora possibile reperire due diversi tipi di aghi cavi, uno simile nella forma a un grosso ago da cucito e l'altro dotato di una vite che sostituiva la suzione con la bocca; dichiarava tuttavia di non aver mai visto o sentito di qualcuno che se ne fosse servito. Egli racconta inoltre di aver sottoposto gli aghi a collaudi, eseguiti prima con acqua pura e poi con una soluzione mucillaginosa; in tal modo, avrebbe dimostrato che gli aghi riuscivano ad aspirare l'acqua pura ma non un liquido anche lievemente più denso e che, a suo parere, era di una consistenza simile a quella della cateratta. Un suo amico, che si era recato in Russia, vi aveva conosciuto un oculista cristiano che affermava di aver tentato di operare una paziente con un ago cavo ma di essere riuscito solamente a sciogliere la cateratta, senza rimuoverla. Ṣadaqa ibn Ibrāhīm al-Šāḏilī conclude quindi la sua dissertazione con dieci ragioni logiche che dimostrano l'impossibilità di effettuare la rimozione della cateratta con un ago cavo.
Recentemente a Montbellet, nella Francia meridionale, in un sito romano risalente al I o II sec. d.C., sono stati rinvenuti cinque aghi da cateratta. Tre di essi sono del tipo più comune, ma due sono aghi cavi, forniti di un piccolo foro vicino alla punta e di un sottile stantuffo che poteva essere sollevato per produrre un vuoto relativo al suo interno. Non esistono altri esempi di questo tipo di strumenti cavi tra i manufatti romani ma è lecito chiedersi se essi rappresentino una variante dell'ago da cateratta 'cavo' che ῾Ammār nel X sec. affermava di aver inventato e che più tardi Ṣadaqa ibn Ibrāhīm al-Šāḏilī denunciò come inutilizzabile. È difficile interpretare testimonianze così contraddittorie riguardo alla possibilità della rimozione delle cateratte mediante un ago cavo ma possiamo affermare con sicurezza che questo tipo di operazione, ammesso che sia mai stata eseguita, fu molto rara. Le testimonianze disponibili suggeriscono che il giudizio di Ṣadaqa ibn Ibrāhīm al-Šāḏilī sugli aghi cavi fosse corretto e che l'autore dell'opuscolo dell'XI sec. avesse ragione a catalogare questa tecnica tra quelle utilizzate da illusionisti e ciarlatani. In tal senso, sembra che i casi clinici riportati da ῾Ammār ibn ῾Alī al-Mawṣilī per provare l'efficacia della tecnica da lui inventata siano da considerarsi inattendibili.
Purtroppo non abbiamo nessun valido elemento che ci permetta di stabilire la frequenza con la quale le diverse procedure descritte nei trattati arabo-islamici di oftalmologia fossero effettivamente eseguite. Nel Kitāb al-Ḥāwī, al-Rāzī afferma di aver assistito alla rimozione di uno pterigio in un ospedale (egli non specifica però né il nome dell'ospedale né quello del chirurgo); egli riporta inoltre il caso di un uomo recatosi da lui per un intervento alla cateratta al quale avrebbe risposto di andare da un flebotomo e di attendere la maturazione della cateratta prima di farsi operare. Nei quasi novecento casi clinici raccolti nel Kitāb al-Taǧārib (Libro delle esperienze), come pure nel Kitāb al-Muǧarrabāt (Libro delle [procedure] esperite) di Abū 'l-῾Alā᾽ Zuhr (m. 525/1130), manca qualunque accenno a interventi di chirurgia oftalmica. Nei manuali di oftalmologia sono riportati alcuni casi ma, nel complesso, le fonti sono povere di notizie sull'esecuzione di questo tipo di interventi. Tanto meno disponiamo di elementi sufficienti a stabilire la percentuale di successi nelle operazioni realmente effettuate.
È stata avanzata l'ipotesi che gli oculisti del mondo islamico medievale si servissero di sostanze quali l'oppio, il giusquiamo e la cicuta per causare la totale perdita di coscienza del paziente prima di alcune operazioni particolarmente dolorose. ῾Alī ibn ῾Īsā al-Kaḥḥāl, descrivendo le procedure adottate nei casi di trichiasi, panno corneale e pterigio, si serve di un termine, tanwīm, che da alcuni studiosi è stato interpretato nel senso di 'far addormentare' il paziente e, da altri, in quello di 'farlo sdraiare sulla schiena'. Il termine consente in effetti entrambe le interpretazioni ma, in ogni caso, si può osservare che l'autore non fornisce altri dettagli a questo proposito (per es., una ricetta o istruzioni per la somministrazione) e che la parola non è utilizzata da altri scrittori in contesti analoghi. Effettivamente, gli autori successivi non si servono affatto di questo termine nella discussione degli stessi argomenti (trichiasi, panno corneale e pterigio), come se non ne comprendessero il significato o lo giudicassero irrilevante. L'oppio figura spesso nelle ricette dei farmaci oftalmici ma sempre come parte di un medicamento topico e non destinato a essere ingerito.
Sempre a proposito dell'effettiva esecuzione degli interventi di chirurgia oftalmica (contrapposta alla sua discussione e teorizzazione nei manuali) e al dolore a questi inevitabilmente associato, un aneddoto riferito ad al-Rāzī, divenuto in vecchiaia cieco a causa della cateratta, rivela quello che doveva essere un atteggiamento piuttosto diffuso. Benché al-Rāzī fosse considerato uno dei più importanti clinici e medici praticanti, non sembra che abbia eseguito personalmente alcun intervento di chirurgia oftalmica (o, se è per questo, di chirurgia in genere), sebbene nei suoi scritti egli abbia analizzato dettagliatamente molte delle relative procedure. Ora, se si presta fede al racconto di al-Bīrūnī, al-Rāzī si sarebbe rifiutato anche di sottoporsi a un intervento alla cateratta. Al-Bīrūnī comincia il suo racconto dicendo che al-Rāzī studiava troppo e prosegue affermando:
[…] che questa era una delle cause, insieme alla passione per i fagioli, dell'indebolimento e del deterioramento della sua vista, tanto che verso la fine della vita divenne cieco, cosicché [citando Corano XVII, 72] 'sarà cieco anche nell'Altra', perché, alla fine della sua vita, una cateratta discese sui suoi occhi. Un suo vecchio compagno di studi venne a trovarlo dal Tabaristan per curarlo. Al-Rāzī gli chiese quale sarebbe stata la natura del trattamento e l'altro gliela espose in ogni dettaglio. Al-Rāzī allora replicò: 'Riconosco che tu sei il più sapiente degli oculisti. Tu sai, tuttavia, che questa operazione provoca dolore, che ripugna all'anima e comporta lunghi incomodi, difficili da sopportare. E forse non [mi] resta molto da vivere e il momento della morte potrebbe essere vicino, e in questo caso sarebbe sciocco per uno nelle mie condizioni preferire il dolore e il disagio alla quiete. Così, tornatene pure a casa, con i miei ringraziamenti per ciò che hai pensato e tentato di fare'. E [continua al-Bīrūnī] al-Rāzī lo ricompensò generosamente. Egli non visse ancora a lungo dopo quel giorno e morì a Rayy il 5 Ša ῾bān 313 [26 ottobre 925] all'età di sessantadue anni lunari e cinque giorni, che equivalgono a sessanta anni solari, due mesi e un giorno. (Risālat al-Bīrūnī fī fihrist kutub Muḥammad ibn Zakariyyā al-Rāzī, pp. 5-6)
E così, secondo questo aneddoto, al-Rāzī, divenuto cieco a causa della cateratta, rifiutò di farsi curare con quegli stessi metodi che aveva descritto nelle proprie opere.
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