La civilta islamica: scienze della vita. Materia medica e teoria farmacologica
Materia medica e teoria farmacologica
Con 'materia medica' s'intende l'insieme delle sostanze semplici che, fin dall'Antichità, si consideravano utili all'impiego terapeutico. Tali sostanze o farmaci semplici potevano essere di origine vegetale, animale o minerale; talvolta esse erano ottenute per estrazione o per fermentazione ‒ come nel caso dello zucchero, del vino e degli oli ‒ talaltra potevano consistere in misture, quali l'ossimele o sakanǧubīn, un preparato in genere a base di aceto e miele. La locuzione 'materia medica' deriva dal mondo greco; essa è legata, infatti, al titolo del trattato di farmacopea del medico greco Dioscuride (I sec. d.C.), De materia medica, in cui le varie droghe medicinali sono descritte in cinque libri.
Quest'opera, insieme a un testo di Galeno (130-200 ca.) a essa ispirato, il trattato De simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus, fu determinante per la farmacopea araba. Sia il testo di Dioscuride ‒ che esercitò una profonda influenza sul mondo islamico medievale, tanto nell'area orientale (al-mašriq) come in quella occidentale (al-maġrib) ‒ sia quello di Galeno furono tradotti nel IX sec., in epoca abbaside, nella 'scuola' del medico e traduttore Ḥunayn ibn Isḥāq (808-873), cui si devono le traduzioni delle grandi opere della medicina greca. Queste ultime non costituirono, tuttavia, la sola fonte della medicina araba; le versioni arabe delle opere mediche indiane, tradotte perlopiù a partire dal persiano, furono fondamentali per la farmacopea. Dalla medicina greca gli Arabi trassero, infatti, le teorie mediche, quelle farmacologiche e la terapia, ma dalla medicina indiana essi ricavarono le ricette per la preparazione dei farmaci, cosicché numerose droghe originarie dell'India, come alcune specie di mirabolano e le rasāyanāt, i farmaci della giovinezza descritti nelle enciclopedie mediche indiane, finirono per essere usati nella medicina araba. Alla materia medica greca e alla selezione di quella indiana che a questa si accompagnava va aggiunto poi l'apporto che venne alla farmacopea e alla farmacologia dalla tradizione orale del popolo arabo e degli altri popoli del mondo islamico, come quello curdo oppure quello di Khuz.
La terapia farmacologica, almeno sul piano teorico, era preferita a quella chirurgica; ce ne dà una testimonianza, fra l'altro, un brano di al-Rāzī (251-313/865-925): "Quando vedrai il medico guarire con i farmaci le malattie che si possono curare con il bisturi, come gli ascessi, le ulcere icorose, le tonsille, le scrofole del collo, l'ingrossamento dell'ugola, gli ateromi, le ghiandole, le parti del corpo in putrefazione, le ossa che si denudano della carne, quando [cioè vedrai] il medico riuscire in tutti questi casi, senza ricorrere né all'incisione né all'ablazione, se non in caso di necessità estrema, loda le sue conoscenze. […] Il medico esperto può guarire tutte queste malattie con i farmaci e la dieta alimentare" (Iskandar 1962, p. 502).
Inoltre, benché avvertissero la necessità di usare i farmaci composti ‒ che a quanto risulta erano quelli più prescritti ‒ i medici del mondo arabo medievale stimavano soprattutto quelli semplici, che ne costituivano gli ingredienti; è ancora un brano di al-Rāzī, questa volta tratto dal Kitāb al-Muršid (Libro della guida) ad attestarlo: "Se fosse possibile in tutti i casi guarire per mezzo di un farmaco semplice, faremmo a meno di quelli composti. Ma ci sono delle contro-indicazioni che ce lo impediscono" (p. 93).
Al-Bīrūnī (m. dopo il 442/1050), uomo di scienza nonché straordinario osservatore del suo tempo, riferisce nel Kitāb al-ṣaydana fī 'l-ṭibb (Libro della farmacia in medicina) che i medici "per la terapia […] consigliano di limitarsi agli alimenti, di fare in modo che la loro preparazione sia eccellente e di rispettare l'ordine da seguire; se tutto ciò non basta, [dicono allora che bisogna] prendere dei farmaci semplici e quindi, tra i farmaci composti, quelli che contengono meno ingredienti" (p. 10).
Un'attenzione tanto grande alla farmacologia imponeva uno studio attento delle droghe. Il primo problema da risolvere era in tal senso quello della disponibilità stessa della materia medica. Così, benché molte sostanze, e soprattutto quelle originarie dell'India, di Sumatra, o delle diverse regioni islamiche, dovessero essere importate, nacque l'esigenza di cercare ‒ nella flora, nella fauna e nei giacimenti minerari di ogni parte del mondo islamico ‒ le varie droghe medicinali da utilizzare nella terapia. I medici e i farmacisti arabo-islamici, i quali si trovarono a usare tutti un'unica trattatistica, riservarono così una funzione specifica a chi, essendo in grado di riconoscere le erbe della farmacopea, poteva anche fornirne la descrizione.
Si possono contare quasi centodieci scrittori arabi che abbiano dedicato un'opera ‒ o almeno parte di un'opera ‒ alla materia medica. L'intento degli autori era essenzialmente quello di ritrovare le droghe medicinali già descritte da Dioscuride e da Galeno e di darne quindi il corrispettivo nome nelle lingue locali, come il berbero, le lingue romanze, il catalano e altre. Anche le piante ignote alla medicina greca furono descritte con il metodo seguito da Dioscuride: Abū Dāwūd Sulaymān ibn Ǧulǧul (m. dopo il 384/994) nella sua Maqāla ṯāmina (Trattato ottavo), descrisse sessantadue droghe vegetali, animali e minerali non indicate da Dioscuride, utilizzando lo stesso metodo del medico greco. E proprio per questa ragione, il testo di Ibn Ǧulǧul, il cui titolo completo era Maqāla ṯāmina naḏkuru fī-hā mā qaṣṣara Diyusqūrīdūs ῾an ḏikri-hi fī kitābi-hi mimmā yusta῾malu fī ṣinā῾at al-ṭibb wa-yuntafa῾u bi-hi wa-mā lā yusta῾malu wa-lākin lā nuġfilu ḏikra-hu (Trattato ottavo in cui si menzionano i medicinali che Dioscuride non citò nel suo libro e che si impiegano nella scienza medica e sono utili e quelli che non si impiegano ma che noi non tralasciamo) finì per costituire una sorta di supplemento ai trattati di medicina, per quegli studenti che volevano iniziarsi alla materia medica.
Il più originale di tutti i farmacologi sembra essere stato Rašīd al-Dīn ibn al-Ṣūrī (m. 637/1241) la cui opera è andata perduta ma, grazie al suo allievo Ibn Abī Uṣaybi῾a, medico e bibliografo (m. 668/1270), ne abbiamo qualche notizia; egli ci informa anche del fatto che oltre a fare delle lunghe escursioni botaniche sulle montagne del Libano, non contento di raccogliere e di descrivere da sé le piante medicinali, Rašīd al-Dīn ibn al-Ṣūrī si fece accompagnare da un pittore per farle riprodurre con i loro colori in un'opera sui farmaci semplici dedicata a ῾īsā, sultano di Damasco.
D'altronde, l'esigenza di rintracciare le droghe medicinali era così sentita e tali erano le difficoltà che si avevano nel reperirle che uno dei rami più importanti della medicina era costituito dallo studio dei succedanei delle droghe. Infatti, in quasi tutte le enciclopedie e testi medici e farmaceutici si trovano, in genere nel capitolo dedicato ai farmaci semplici, alcune liste di succedanei di droghe medicinali. Al-Rāzī dedicò ai succedanei persino un libro intero, il Kitāb fī abdāl al-adwiya ba῾ḍa-hā min ba῾ḍ (Libro sui farmaci che possono sostituirne altri, ossia Dei succedanei). Così si legge nella sua introduzione: "i succedanei dei farmaci sono un ramo della medicina che merita che gli sia dedicato un libro a sé stante. L'obiettivo perseguito è utile per il medico, perché non tutte le droghe possono essere trovate facilmente dappertutto, e se il medico non ha, in tali casi, dei succedanei che sostituiscano ciò che gli manca [in farmaci semplici], l'effetto benefico della sua arte è annullato. Ho voluto riunire questo ramo della medicina in un libro a essa proprio, come è il caso per gli altri rami importanti [della medicina]" (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ar. 196, f. 43a).
Introdotto il tema, al-Rāzī segnala che l'unico testo importante che egli abbia trovato in questo ambito è il Kitāb fī abdāl al-adwiya (Dei succedanei) di Ḥunayn ibn Isḥāq, che avrebbe compilato la propria opera fondandosi sul libro sui succedanei di Galeno e sui testi di Archigene, di Paolo l'Antico e di Paolo il Moderno. L'intento di al-Rāzī è comunque quello di scrivere un'opera più completa di quelle dei suoi predecessori: egli cita, infatti, non solo i succedanei dei farmaci semplici, ma anche quelli di alcuni farmaci composti.
Secondo la teoria galenica, il farmaco semplice ha qualità primarie, qualità secondarie, qualità terziarie e, infine, proprietà specifiche (in arabo, ḫawāṣṣ). Sulla scia di Galeno, il farmaco semplice veniva classificato secondo una o due delle quattro qualità primarie, associate in due coppie: caldo e freddo (le qualità attive); umido e secco (le qualità passive). Se le due coppie di qualità primarie erano in equilibrio, il farmaco era detto 'temperato'; l'eccesso di una qualità primaria rispetto a quella contraria, in una coppia di qualità o in entrambe, portava invece a definire il farmaco 'caldo' o 'freddo', 'secco' oppure 'umido'. La malattia, considerata come lo squilibrio di un umore, era attribuita all'eccesso di qualità primarie di un dato umore. Si pensava, quindi, che l'azione terapeutica del farmaco dovesse consistere nel neutralizzare l'eccesso patogeno d'umore grazie alle sue qualità primarie. Galeno aveva classificato i farmaci semplici in base alla forza o potenza delle loro qualità primarie, stabilendo quattro 'gradi' per ogni qualità dominante e tre 'stati' per ogni grado: un farmaco poteva quindi collocarsi all'inizio, alla fine o alla metà di un determinato grado. L'effetto terapeutico del farmaco semplice era fatto coincidere con le sue qualità secondarie; in tal senso, un farmaco poteva essere maturativo (munḏiǧ), emolliente (mulayyin), indurente (muṣallib), ostruttivo (musaddid), aperiente (mufattiḥ), detergente (ǧallā᾽), dilatatore dei vasi sanguigni (mufattiḥ li-afwāh al-῾urūq), costrittore dei vasi sanguigni (musaddid li-afwāh al-῾urūq), rarefattivo (muḫalḫil), condensante (kaṯṯāf), caustico (muḥriq), putrefattivo (mu῾affin), 'riducente la carne [di un'ulcera]' (nāqiṣ li-'l-laḥm), cicatrizzante (dāmil), attrattivo (ǧāḏib), 'tale da fungere da antidoto' (bādzahr), analgesico (musakkin), o 'tale da far accrescere [la carne]' (bānī). Le qualità terziarie, invece, erano fatte corrispondere all'azione specifica che il farmaco semplice aveva su una determinata parte del corpo; un farmaco poteva, per esempio, sciogliere i calcoli (era allora mufattit al-ḥiǧāra); essere espettorante; stimolare la formazione del latte (mudirr li-'l-ḥalīb); essere diuretico (mudirr li-'l-bawl); o aumentare le mestruazioni (mudirr li-'l-ṭamṯ). Le proprietà specifiche del farmaco semplice erano, infine, attribuite alla complessione stessa del farmaco, e non alle sue qualità.
I medici arabi adottarono in genere questa teoria galenica, limitandosi a presentarla, nei loro scritti, in una forma che risultasse accessibile non solamente agli specialisti di medicina e di farmacia, ma anche agli studenti. Tre autori si distinsero, invece, per la loro originalità nelle teorie farmacologiche: pur accogliendo la base della teoria galenica, al-Kindī nel IX sec., Averroè nel XII sec. e ‒ se le fonti sono correttamente interpretate ‒ Ibn al-Nafīs, nel XIII sec., si chiesero se vi fosse una relazione tra l'effetto terapeutico dei farmaci semplici e quello dei composti e se esistesse una caratteristica, esterna o interna, ai farmaci stessi.
Contemporaneo del grande Ḥunayn ibn Isḥāq, al-Kindī osservò che Galeno non aveva indicato ‒ né nel De simplicium medicamentorum temperamentis, né nei suoi vari testi di farmaceutica e medicina ‒ quale fosse il grado di qualità dei farmaci composti. Per rispondere a tale domanda, al-Kindī fu costretto ‒ come afferma egli stesso nel suo Fī ma῾rifat quwā al-adwiya al-murakkaba (Sulla conoscenza delle facoltà dei farmaci composti) ‒ a studiare il rapporto che lega tra loro i differenti gradi di una stessa qualità nei farmaci semplici. A tale scopo egli adoperò la legge delle proporzioni che il pitagorico greco Nicomaco di Gerasa (II sec. d.C.) aveva presentato nella Introductio arithmetica; in tal modo, grazie a un complesso ragionamento speculativo, al-Kindī giunse ad affermare che le qualità, dominanti nei differenti gradi di una stessa qualità, si trovano tra loro in una progressione geometrica di ragione 2. Alla fine dello scritto, egli elenca poi le varie applicazioni della sua teoria: conoscere il grado di qualità di un composto; precisare il sotto-grado di certi farmaci composti; e preparare, infine, un composto temperato.
L'approccio di al-Kindī rappresenta una vera e propria svolta nella storia della farmacia, perché il farmaco non è più considerato solamente attraverso l'effetto che produce sul corpo, ma è esaminato anche in base alle sue caratteristiche. Non è sorprendente, perciò, che molti medici del mondo medievale arabo e in seguito molti di quello latino non siano riusciti a comprendere questa teoria che è stata criticata nel XIII sec. anche da Ruggero Bacone nel De erroribus medicorum.
Tre secoli dopo al-Kindī, Averroè, giudice, medico e filosofo, collegò l'efficacia del farmaco semplice sul corpo umano a una sua quantità caratteristica che denominò la 'quantità minima'; la teoria farmacologica di Averroè è esposta nel quinto capitolo del Kitāb al-Kulliyyāt fī 'l-ṭibb (Libro delle generalità della medicina) noto in Occidente come Colliget. Secondo Averroè, che risolveva così la questione della mescolanza dei corpi già affrontata da Empedocle e da Galeno, nel caso di una mistura di due farmaci semplici possono presentarsi due possibilità: la prima è che si formi un corpo nuovo, le cui qualità sono imprevedibili, come nel caso della fermentazione; la seconda è che ci sia un'accumulazione di qualità e in questo caso le qualità primarie, quelle secondarie e quelle terziarie di un farmaco composto sono prevedibili a partire dalla 'quantità minima' degli elementi semplici che lo compongono e delle loro qualità primarie, secondarie e terziarie. La quantità minima di un farmaco è, infatti, secondo Averroè, quella necessaria perché il grado di azione di un farmaco semplice si manifesti. Tre sono i punti essenziali in questa teoria: (1) le quantità minime di due farmaci semplici di qualità contrarie e dello stesso grado formano un farmaco composto temperato; (2) le quantità minime di due farmaci semplici della stessa qualità e dello stesso grado formano un farmaco composto della stessa qualità e dello stesso grado; (3) quando i farmaci semplici sono di qualità contrarie a gradi differenti, uno agisce sull'altro secondo una quantità minima o secondo un multiplo di questa quantità. Se i farmaci semplici hanno qualità dominanti contrarie e dello stesso grado, il farmaco composto a partire da essi sarà temperato, a condizione di prendere una quantità minima di ogni farmaco semplice. Averroè fornisce un esempio per due farmaci dei quali specifica la quantità minima: il miele, la cui dose minima è di una ūqiyya (che equivale a 33,85 g), e il sandalo, la cui dose minima è di due dirham (e cioè di 6,25 g).
L'opera di Averroè interessa anche la storia della medicina occidentale. Con la sua traduzione nel 1285, il mondo latino poté conoscere la dottrina di Averroè ma anche le diverse teorie che egli discuteva nella sua opera. Un caso particolare riguarda proprio il trattato di al-Kindī, conosciuto nel mondo latino grazie all'esposizione e alla confutazione che ne fa Averroè per poi essere 'riscoperto' da Arnaldo da Villanova (1240-1311 ca.). La teoria farmacologica che questi espone negli Aphorismi de gradibus, e che fu insegnata all'Università di Montpellier, prima da lui stesso e poi dai suoi colleghi, è costruita proprio sull'armonizzazione delle due dottrine, quella di Averroè e quella di al-Kindī.
Vi è anche un'altra teoria farmacologica attribuita ad Averroè, della quale ci dà testimonianza Ibn al-Quff, un medico del XIII-XIV sec., che, nel Kitāb al-῾Umda fī 'l-ǧirāḥa (Libro di base in chirurgia), riferisce i metodi elaborati da al-Kindī e Averroè per riconoscere il grado di qualità dei farmaci; del metodo di Averroè, egli afferma: "somma le parti calde e fredde [separatamente] e confrontale: se sono uguali, il farmaco è temperato; se una supera l'altra, esamina la differenza e il rapporto tra il numero minore e il maggiore; nel caso che le più numerose siano le parti calde e le meno numerose le parti fredde […], secondo la dottrina di Ibn Rušd, se il rapporto tra esse è della metà, il farmaco è caldo al primo grado; se il rapporto è di un terzo, è caldo al secondo grado; se il rapporto è di un quarto, è caldo al terzo grado; se il rapporto è di un quinto, è caldo al quarto grado" (I, pp. 208-210).
Anche a un primo esame si rivela come questa teoria appaia ricalcata su quella di al-Kindī, con la sola differenza che le parti della qualità dominante nei quattro gradi seguono, qui, una progressione aritmetica. Ora, né nel Kitāb al-Kulliyyāt né nei diversi testi editi di Averroè vi è traccia di questa teoria, che compare, invece, in uno scritto di Ibn al-Nafīs al-Qurašī, al-Mūǧaz fī 'l-ṭibb (Compendio di medicina), nel quale egli afferma a proposito del grado di qualità dei farmaci composti: "se vuoi conoscere il grado di caldo o freddo di un farmaco composto, somma le parti calde e le parti fredde dei farmaci semplici, sottrai il numero minore dal maggiore e prendi dal resto una parte proporzionale al numero dei [farmaci] semplici: otterrai così il grado di qualità del farmaco composto" (Parigi, BN, ar. 2919, ff. 57a-57b).
Non è tuttora ancora possibile determinare con certezza quale dei due autori, se Averroè o Ibn al-Nafīs, abbia elaborato originariamente questa teoria. Essa si trova, comunque, ulteriormente precisata nel trattato di oftalmologia di Ibn al-Nafīs, Kitāb al-Muhaḏḏab fī ṭibb al-῾ayn (Libro perfetto sull'oftalmologia) in cui, nella sezione dedicata ai farmaci, semplici e composti, si legge: "ogni farmaco composto può contenere i suoi [farmaci] semplici in quantità uguali o disuguali, e in entrambi i casi le loro qualità possono essere contrarie o non esserlo, e in entrambi i casi può esistere o non esistere tra essi un temperato. Si ottengono così otto suddivisioni" (p. 194).
Secondo questa teoria, dunque, se un farmaco caldo al secondo grado si mescola in quantità uguali con un farmaco caldo al primo grado, sommando le parti calde, si otterranno 5 parti, mentre sommando le parti fredde, 2 parti; sottraendo il secondo numero dal primo e dividendo per il numero dei farmaci semplici (in questo caso 2), si ottiene 1,5: il farmaco composto sarà cioè caldo alla metà del secondo grado. Il calcolo delle proporzioni nella teoria di Ibn al-Nafīs è quindi così schematizzabile:
Nelle varie opere ‒ o parti di opere ‒ dedicate alla 'materia medica', ai dati relativi alle droghe medicinali seguiva, in genere, la descrizione delle droghe stesse. Un'idea di quale fosse normalmente la complessità del capitolo dedicato alla materia medica può essere fornita, per esempio, dal Libro II del Canone di Avicenna, dove questo argomento è presentato secondo uno schema preciso. La prima parte è dedicata alle 'leggi naturali che bisogna conoscere riguardo ai farmaci usati nella scienza medica'; essa è divisa in sei 'trattati' (maqālāt): il primo è sul 'riconoscimento della complessione dei farmaci semplici'; il secondo e il terzo ‒ sui quali sarà opportuno soffermarsi in modo particolare ‒ sul 'riconoscimento della complessione dei farmaci semplici per via sperimentale (taǧriba)' e su come riconoscere 'la complessione dei farmaci semplici per analogia o ragionamento (qiyās)'; il quarto sul 'riconoscimento dell'azione delle forze dei farmaci semplici'; il quinto sulle 'condizioni esterne che agiscono sui farmaci' e l'ultimo su 'raccolta e conservazione dei farmaci'. La seconda parte è invece occupata dalla definizione delle 'potenze o facoltà specifiche dei farmaci' e, sotto forma di tavole sinottiche di 16 colonne per ogni droga (in 28 sezioni: faṣl), Avicenna vi presenta le varie droghe medicinali.
Come ogni corpo del mondo sublunare ‒ ossia del mondo terrestre il quale, nella sistemazione cosmologica medievale, era collocato al di sotto della sfera della Luna ‒ il farmaco semplice era concepito come il risultato di una specifica complessione, ossia di una particolare mescolanza dei quattro elementi fondamentali, ed era importante saperla riconoscere. Due erano i metodi che il medico aveva a disposizione per questo scopo: il primo procedeva per via sperimentale, in modo induttivo, il secondo passava invece per il ragionamento analogico. La II maqāla del Libro II del Canone è quindi dedicata alla sperimentazione del farmaco semplice. Avicenna, seguendo Galeno, vi enumera sette condizioni che devono essere rispettate perché sia inducibile la complessione dei farmaci semplici tramite gli esperimenti: (1) il farmaco non deve avere subito alcuna alterazione nelle sue qualità; (2) il malato sul quale si pratica l'esperimento deve soffrire di una malattia semplice, cioè non complessa; (3) per evitare errori il farmaco deve esser verificato anche nel caso di una malattia contraria alla malattia semplice; (4) la potenza del farmaco deve corrispondere alla potenza della malattia; (5) bisogna tenere conto del tempo necessario perché il farmaco faccia effetto; (6) bisogna perseverare nell'esame dell'azione del farmaco; (7) bisogna sperimentare il farmaco sul corpo umano.
Al riconoscimento della complessione dei farmaci semplici per mezzo del ragionamento analogico, Avicenna dedica invece, come si è osservato, parte della III maqāla dello stesso Libro II. Alcune leggi di questo genere di riconoscimento sono basate sulla trasformazione che i farmaci semplici subiscono più o meno velocemente a causa del fuoco; altre si fondano sull'odore, sul sapore e sul colore dei farmaci. A partire dalle forze o potenze (quwā) e qualità (ṣifāt) conosciute, si possono ricavare, per analogia, alcuni indizi sulle potenze o facoltà non visibili dei farmaci. Anche il gusto è, per esempio, un elemento in grado di rivelare la complessione di un farmaco semplice il quale può, infatti, essere insipido, oppure presentare uno degli otto sapori possibili: dolce (ḥulw), unto (dasim), amaro (murr), salato (māliḥ), piccante (ḥirrīf), acre (῾afiṣ) astringente (qābiḍ) o acido (ḥāmiḍ), che, salvo qualche eccezione, riflettono le qualità primarie dei farmaci. Gli odori e i colori, invece, non sono, secondo Avicenna, segni di queste qualità altrettanto affidabili come i sapori.
La descrizione delle droghe medicinali segue infine l'ordine alfabetico; per ognuna Avicenna fornisce i seguenti elementi: (1) quiddità (māhiyya) e dunque 'denominazione'; (2) selezione della qualità migliore; (3) qualità e natura; (4) proprietà specifiche ed effetti; (5) uso esterno; (6) azione su tumori e pustole; (7) azione su ulcere, piaghe e fratture; (8) azione su articolazioni e nervi; (9) azione sulla testa; (10) azione sulle parti dell'occhio; (11) azione sulla respirazione e sul petto; (12) azione sugli organi di nutrizione; (13) azione sugli organi di escrezione; (14) azione sulle febbri; (15) azione sui veleni; (16) succedanei.
Numerosi medici e farmacisti del mondo arabo medievale avevano adottato prima o dopo Avicenna altri metodi per presentare la materia medica che utilizzavano. Ḥunayn ibn Isḥāq redasse, a fini didattici e mnemotecnici, un manuale in forma di domande e risposte, che purtroppo è andato perduto. La presentazione in forma di tavole sinottiche ebbe, comunque, i suoi adepti nel mondo arabo-islamico sia a Oriente sia a Occidente: oltre ad Avicenna si possono citare al-῾Alā῾ī (m. XII sec.) e Ibn Biklāriš (m. all'inizio del XII sec.). Ibn al-Ǧazzār (m. 369/979 o 980), un medico di Qayrawan, in Tunisia, scelse di presentare le droghe classificandole secondo il loro grado di qualità. Maimonide (529-601/1135-1204), medico e teologo ebreo che, come la maggior parte degli autori ebrei andalusi, scrisse in arabo, nel suo Kitāb šarḥ asmā᾽ al-῾uqqār (Libro sull'esplicazione dei nomi delle droghe) optò per il genere della lista, dando per ogni droga i corrispondenti nomi in berbero, in romanzo, in arabo, ecc.
Vi sono due farmaci semplici, molto utilizzati in medicina nel mondo arabo medievale, che meritano un'attenzione particolare: sono lo zucchero e il vino, ambedue ottenuti per estrazione. Il primo cambiò le abitudini culinarie della popolazione araba, ma soprattutto permise, grazie alle sue capacità di conservazione, di rivoluzionare l'arte farmaceutica; la preparazione di sciroppi zuccherati e la loro conservazione ha perfino prodotto nel mondo arabo una specializzazione in farmacia: il mestiere di preparatore di bevande o di sciroppi (šarrāb), segnalato nei trattati medici e farmaceutici e nei manuali di ḥisba (ispezione o controllo dei mestieri e delle professioni). Il secondo farmaco, il vino, era considerato in modo ambiguo: pur essendo a pieno titolo un 'rimedio', conformemente al dettato coranico era proibito e il suo abuso era vietato anche da un punto di vista medico.
Lo zucchero era ottenuto a partire dalla canna da zucchero, una graminacea originaria del Bengala da cui si estraeva il succo; questo poi era bevuto puro o concentrato. Più tardi, quando si apprese come fare evaporare il liquido, si ottenne lo zucchero grezzo solido, farinoso e di colore giallastro che fu probabilmente scoperto tra il III e il VI sec. in India e venne poi introdotto in Persia, dove se ne perfezionò la produzione (Tav. II). Avicenna descrive così le proprietà fisiche e terapeutiche dello zucchero:
Sukkar (quiddità e denominazione) La canna da zucchero è della stessa natura dello zucchero, ma è più emolliente di quest'ultimo. [natura] Lo zucchero più freddo è il ṭabarzad (zucchero in pani): è in generale più dolce, è caldo e umido alla fine del primo grado; lo zucchero vecchio è caldo e umido all'inizio del primo grado. Più è vecchio e più diventa secco. (Proprietà specifiche) È emolliente, detergente; il genere sulaymānī è più emolliente, soprattutto il fānīd (zucchero candito). Il succo della canna da zucchero e lo zucchero sono altrettanto detergenti e purificanti del miele. Più lo zucchero invecchia più diventa gradevole. (Gli occhi) Lo zucchero che si deposita come resina sulla canna da zucchero è detergente per gli occhi. (Apparato respiratorio) È emolliente per l'apparato respiratorio ed elimina le sostanze ruvide. (Apparato digerente) È buono per lo stomaco, tranne quando lo stomaco provoca la formazione della bile gialla: in tal caso gli è nocivo, perché si trasforma [anch'esso] in bile gialla. Elimina le ostruzioni e genera sete, ma meno del miele; è soprattutto lo zucchero vecchio che dà origine al sangue torbido e libera lo stomaco dalla pituita; la canna da zucchero può favorire il vomito. (Organi di escrezione) È lassativo: quello che si deposita sulla canna da zucchero come sale e il genere sulaymānī rosso sono più lassativi e possono provocare flatulenza; mescolato con l'olio di mandorla è benefico contro le coliche. (Kitāb al-Qānūn fī 'l-ṭibb, I, pp. 389-390)
Il vino era un farmaco prescritto dai medici, che non ignoravano però né i danni provocati dal suo abuso, né il suo stato di bevanda intossicante e quindi proibita dalla religione islamica. Nelle opere mediche e farmaceutiche, esso veniva citato nel capitolo dedicato alla materia medica.
Avicenna dà come sinonimi in arabo del termine šarāb (vino) le voci al-ḫamr e al-qahwa. Quest'ultima designava inizialmente il vino e in un'epoca relativamente tarda fu utilizzata per indicare il caffè. Nel Canone, Avicenna si dilunga sulle qualità mediche del vino, una bevanda che egli stesso consumava per aumentare la propria concentrazione e alla quale dedicò perfino qualche componimento poeticoin lingua persiana:
šarāb (quiddità e denominazione) Intendo con ciò al-qahwa (Proprietà specifiche) Corregge le perdite di genere biliare; il vino nuovo e il vino denso e torbido provocano nei vasi sanguigni una congestione e un accumulo di sostanze crude. (Selezione) Il migliore è il vino d'uva vecchio e chiaro; sarà preso a dosi diverse secondo le complessioni: per i giovani una piccola quantità con [del succo] di melograno, alle persone anziane si dia com'è e senza diluirlo. È preferibile che se ne prenda in quantità moderate, perché se se ne prende in grandi quantità provoca gravi danni […]. (Uso esterno) Migliora il colorito, alcune persone prendono peso. Elimina la vitiligine e la pitiriasi quando è utilizzato con i farmaci indicati; inoltre, dà lustro alla carnagione. (Ulcere) Se si versa il vino sulle ulcere maligne, sulle piaghe, ha un effetto benefico […]. (Parti della testa) Agisce sulla testa inebriando e rendendo sonnolenti; fa perdere la memoria. Se si persiste a prenderne nuoce ai nervi, provoca dei tremiti convulsi. Se se ne prende quotidianamente, rilassa i nervi e li indebolisce. Quanto al vino addizionato di miele, è benefico per le malattie delle articolazioni. Ibn Māsawayh ha detto che il vino molto vecchio è nocivo per gli occhi. È benefico contro lo pterigio, lo si aggiunge al collirio di Cesare (šiyyāf qayṣar). […] (Apparato respiratorio) Aumenta il calore innato e mette di buon umore. Il vino dolce deterge i condotti polmonari ed esalta l'anima. (Apparato digerente) Ha un passaggio rapido e si digerisce facilmente, è molto nutriente; dà un chimo di buona natura ma a volte fa perdere conoscenza, fa vomitare. Libera lo stomaco dalle scorie e aumenta l'appetito se è bevuto in quantità moderate. Preso in grandi quantità provoca delle ostruzioni nel fegato e nei reni. Preso in piccole quantità facilita il passaggio degli alimenti e la digestione. (ibidem, p. 442)
Avicenna cita anche l'azione benefica del vino contro i veleni e le morsicature degli animali velenosi: "Il vino vecchio agisce contro le morsicature di tutti gli animali, bevuto o utilizzato in soluzione esterna. Preparato con l'acqua di mare, è benefico contro i veleni stupefacenti, contro l'ingestione di litargirio o di funghi e contro le morsicature degli animali freddi. Ringraziamo Dio che ha fatto del vino un farmaco che stimola il calore innato" (ibidem).
Poco più di un secolo prima di Avicenna, al-Rāzī aveva dedicato numerosi aforismi al vino, nel Kitāb al-Muršid, mostrando i benefici che ne derivavano dal punto di vista medico, ma, d'altro canto, anche i danni che se ne potevano subire in caso di abuso:
l'utilità del vino per la preservazione della salute e il miglioramento della digestione sono certe se gli si attribuisce il posto che gli spetta e se la sua quantità, la sua qualità e il momento in cui è preso sono conformi alle regole dell'arte. Esso fertilizza il corpo, espelle tutte le superfluità, le obbliga a uscire dal corpo, intensifica il calore innato. Grandi danni sono provocati dal vino quando se ne abusa e se ne beve sempre fino a ubriacarsene totalmente. […] Non bisogna bere il vino che alle condizioni prescritte dall'arte medica. Tali condizioni sono numerose e, a descriverle, questo libro diventerebbe noioso. Basti rimandare alla nostra opera Del vino. (pp. 90-91)
L'influenza del dato religioso era considerevole: i medici che esercitavano secondo i precetti della medicina del Profeta rifiutavano di prescrivere il vino per la terapia e alcuni di coloro che seguivano la medicina scientifica, come Averroè, lasciavano la decisione al faqīh (giureconsulto). Nella Maqāla fī 'l-tiryāq (Trattato sulla teriaca), Averroè si riferisce al vino come a uno degli ingredienti di questo antidoto. Egli afferma che gli Antichi avevano constatato come il vino perdesse la sua nocività se mescolato con gli altri ingredienti della teriaca. Nei casi in cui ne era necessario l'uso, Averroè consiglia però al medico di ricorrere al faqīh: quest'ultimo chiederà al medico quale sia la quantità di vino necessaria per la cura e concederà il permesso di utilizzarlo oppure, al contrario, respingerà la terapia indicata. Rispettando la decisione del faqīh, quindi, il medico lo prescriverà oppure darà al malato un altro farmaco.
La materia medica utilizzata nel mondo medievale arabo include 400 droghe in più rispetto a quella usata dai medici greci. Le opere mediche tradotte in latino nei secc. XI e XII misero a disposizione dei medici latini una farmacopea e una ricca materia medica, insieme alle teorie farmacologiche come quelle di al-Kindī e di Averroè. Le teorie speculative basate su quella umorale ‒ caratteristiche di quest'epoca ‒ saranno in seguito spazzate via dalla comparsa della farmacia chimica: esse avevano tuttavia sensibilizzato i medici alla quantificazione in farmacia. La materia medica continuò a essere impiegata tanto nella medicina araba quanto nel mondo latino, persiano ed ebraico; la farmacopea araba è usata ancora oggi: un gran numero di droghe e di ricette popolari è impiegato nella medicina tradizionale dei paesi arabi (ṭibb ῾arabī), e nel ṭibb yūnānī (medicina greca) praticato in India e Pakistan.
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