La civilta islamica: scienze della vita. Contributi teorici ed empirici della medicina araba
Contributi teorici ed empirici della medicina araba
Non è ancora possibile formulare un giudizio definitivo sui risultati cui pervennero i medici dell'Islam, perché solo una parte esigua della letteratura medica redatta in arabo è stata studiata in modo approfondito. Gli storici della medicina hanno sinora esaminato prevalentemente la fase della ricezione e l'epoca 'classica', fino al XIII sec., ma hanno concentrato la loro attenzione soprattutto su quelle opere ‒ quali i manuali pratici e didattici ‒ in cui la presentazione di nuove conoscenze e la discussione di idee originali non occupano un posto di primo piano. Per arrivare a una valutazione complessiva della medicina arabo-islamica non è comunque necessario basarsi su un elenco più o meno esauriente di tutti gli apporti di carattere teorico o pratico attribuibili ai medici dell'Islam; per comprendere il Medioevo arabo-islamico è infatti assai più proficuo analizzare, sulla scorta di esempi tipici, in quale modo i medici arabi intendevano la disciplina come scienza e come la esercitavano nella prassi, quali erano gli aspetti a cui attribuivano maggiore importanza, quali metodi di ricerca avevano a disposizione e quali ne erano i limiti. Un'enunciazione dei presunti apporti originali della medicina arabo-islamica appare del resto inopportuna anche per il fatto che una parte considerevole delle varie scoperte e delle prime descrizioni che sono state attribuite ai medici dell'Islam non regge a una verifica. Si può parlare di innovazioni, infatti, solo dopo un accurato confronto con lo stadio precedente delle conoscenze e sulla base di tale confronto molte nozioni della medicina arabo-islamica risultano rintracciabili già in alcune fonti preislamiche, in particolare nell'esteso corpus della letteratura medica greca. Bisogna inoltre evitare la tendenza a operare indebite attualizzazioni, le quali ‒ sulla base di vaghe associazioni o persino di fraintendimenti terminologici ‒ portano a riconoscere nei testi concezioni moderne, senza che sia peraltro possibile verificare se il sistema di pensiero dominante potesse ammetterle o se a esse si potesse giungere con i metodi di ricerca dell'epoca. Decantare i medici dell'Islam quali precursori della medicina moderna e supporre che essi siano giunti a formulare le loro idee seguendo lo stesso percorso degli scienziati successivi, equivale a ignorare completamente le significative differenze registrabili tra metodi e concezioni della scienza moderna e metodi e concezioni della scienza islamica medievale.
Nell'Islam medievale l'attività scientifica era concepita soprattutto come preservazione e sviluppo di un patrimonio di conoscenze già dato. La medicina si identificava con il corpus del sapere medico in gran parte ereditato dal mondo greco e con quei dati di esperienza e quei modelli interpretativi che erano stati fissati nella letteratura sull'argomento. Compito del singolo medico era appropriarsi nel modo più completo possibile del sapere così formalizzato per padroneggiare quindi la propria materia. Il concetto di originalità era in tal senso del tutto estraneo alla medicina dell'Islam medievale; i medici non erano alla ricerca di nuovi approcci alla loro materia che rendessero obsoleti i modelli esplicativi tradizionali e tale loro concezione aveva una precisa base gnoseologica. Come i loro predecessori antichi, i medici dell'Islam confidavano nella possibilità dell'intelletto umano di intuire in modo immediato i processi naturali e si accontentavano pertanto delle deduzioni teoriche, senza ritenere necessaria una verifica empirica. Da una serie limitata di osservazioni, sulla base di principî esplicativi fissati dogmaticamente e di deduzioni fondate sull'analogia, i medici derivavano ipotesi di vasta portata; inoltre, nonostante su un piano puramente formale il valore autonomo dell'esperienza fosse spesso riconosciuto, l'osservazione sistematica e l'esperimento avevano appena un ruolo pratico nel campo della medicina: le lacune dell'esperienza erano colmate speculativamente e le osservazioni empiriche spesso servivano solo a confermare risultati ottenuti per via deduttiva. La dissezione anatomica, che già in epoca preislamica era stata abbandonata come metodo di ricerca, non fu più ripresa e un esempio patente dell'approccio puramente speculativo con cui ci si accostava ai problemi della ricerca è dato dalla teoria di Ibn al-Nafīs sul passaggio del sangue attraverso i polmoni; proprio in quanto non appare fondata su prove tratte dall'esperienza, ma derivata da una nuova valutazione delle antiche osservazioni di Galeno, essa non può essere considerata una 'scoperta' nel senso moderno. Nella medicina clinica l'esperienza pratica acquistava una notevole importanza; nella dottrina umorale, infatti, il trattamento era determinato dallo stato individuale del paziente e le normali terapie dovevano essere costantemente adattate alle concrete alterazioni dello stato di salute del malato. L'esperienza terapeutica, però, non fece tuttavia compiere alcun progresso alla medicina come scienza in senso moderno.
La mancanza di originalità della maggioranza dei medici arabi, che può sorprendere il lettore moderno, deriva anche dalla particolare situazione di partenza della medicina arabo-islamica. Se da una parte è vero che essa non si riduce affatto alla mera trasposizione in lingua araba della medicina greca, dall'altra è anche vero che la tradizione ereditata dagli Antichi appare particolarmente salda in questa disciplina: il patrimonio scientifico dell'Antichità cui si riferivano i dotti arabi non è recepito come un'amorfa massa di dati sparsi nei vari testi, ma come un sistema integrato di nozioni.
Attraverso la mediazione dei medici cristiani di lingua siriaca, quelli di lingua araba poterono infatti attingere alla tradizione dottrinale della Scuola alessandrina che aveva ordinato le diverse nozioni della medicina, inserendole in una sovrastruttura unitaria e sistematica, basata sullo schema teorico elaborato da Galeno. La cultura islamica conobbe quindi la medicina come una materia già organizzata in un edificio dottrinale compatto e filosoficamente fondato, saldamente ancorato a un'interpretazione globale del mondo in cui ogni singola branca del sapere appariva collegata alle altre. In tale edificio, il sistema galenico costituiva una guida sicura cui affidarsi nella messe delle singole nozioni che si rendevano via via accessibili grazie alla traduzione di una parte essenziale della letteratura medica dell'Antichità e della prima epoca bizantina. Con l'ausilio del sistema galenico, infatti, anche le informazioni raccolte da fonti eterogenee potevano essere ordinate in modo chiaro e spiegate in una prospettiva teorica unitaria. Le categorie cui il sistema faceva riferimento erano inoltre sufficientemente flessibili da consentire opinioni e interpretazioni divergenti in merito a singole questioni; un elemento, questo, di grande importanza, perché permetteva di rettificare e modificare le concezioni erronee dei predecessori senza mettere in discussione il sistema nella sua totalità. Per questa stessa ragione, il sistema galenico forniva spiegazioni soddisfacenti anche in relazione a problemi nuovi, cosicché anche le osservazioni autonome potevano essere integrate nel sistema preesistente. Per le possibilità gnoseologiche dell'epoca, il sistema galenico soddisfaceva quindi tutte le condizioni necessarie a una fondazione teorica globale della medicina; tuttavia, poiché stabiliva al contempo i limiti della ricerca, esso lasciava un certo spazio per le innovazioni soltanto nell'utilizzo delle sue categorie.
L'approccio esplicativo dominante per tutti i processi dell'organismo restava la dottrina umorale differenziata che Galeno aveva sviluppato a partire dai fondamenti della teoria ippocratica. Tre erano gli elementi centrali nella dottrina fisiologica della medicina islamica: le quattro qualità fondamentali, comuni a tutte le cose materiali e ordinate in coppie di opposti, caldo e freddo, umido e secco; i quattro umori corporei, sangue, flegma, bile gialla e bile nera; le tre potenze fondamentali che si riteneva governassero tutte le funzioni organiche attraverso i tre tipi di pneuma, quello vegetativo o naturale, quello vitale e quello psichico. In tale contesto, il fattore decisivo per l'insorgere delle malattie era individuato nella predisposizione interna del corpo, determinata dalla costituzione degli umori e delle qualità che esso ogni volta presentava; così, sulla scorta del paradigma umorale erano interpretati anche alcuni fenomeni che, a una considerazione libera da preconcetti, avrebbero imposto un'altra spiegazione. Ne è un esempio il caso dell'acaro della scabbia che per lungo tempo non fu considerato la causa della malattia ma un suo semplice concomitante: si riteneva infatti che la scabbia, al pari delle altre malattie, derivasse da un particolare squilibrio degli umori.
In ragione del loro vincolo con la tradizione, i progressi registrabili in medicina, sia nella teoria sia nella pratica, possono essere considerati innovazioni solo limitatamente, tanto più che essi erano raramente presentati come tali. Nella tensione fra tradizione e libertà scientifica, molti medici restavano fortemente legati alla prima, limitandosi per lo più ad apportare miglioramenti formali o a offrire una presentazione più chiara del patrimonio di nozioni da essi ereditato; soltanto alcuni cercavano coscientemente di spingersi al di là del sapere tradizionale. Diversi autori, facendo riferimento al principio del famoso primo aforisma ippocratico, "la vita è breve, l'arte è lunga", sottolineavano come il singolo potesse appropriarsi soltanto di una porzione minima delle conoscenze necessarie al medico. Era quindi attraverso l'accumulazione delle conoscenze di molte generazioni e non altrimenti che la medicina poteva gradatamente essere perfezionata. Anche in un autore come al-Rāzī (251-313/865-925), in cui si ravvisa una chiara consapevolezza della necessità di un costante progresso della medicina, la tradizione è fondamentale; infatti, sebbene egli rappresenti il primo periodo della medicina araba autonoma, in cui il sapere medico non era ancora fissato sin nei minimi dettagli come dottrina di scuola, anche per lui il progresso scientifico è legato inscindibilmente alla tradizione. Esso può essere realizzato solamente da chi padroneggia perfettamente il patrimonio di conoscenze del passato; al-Rāzī paragona lo sviluppo della medicina al graduale accrescimento delle ricchezze nel corso delle generazioni: come il patrimonio ereditato costituisce il fondamento che permette agli eredi d'incrementare le proprie ricchezze, così le conoscenze tramandate mettono in condizione gli studiosi di aggiungere a loro volta qualcosa di nuovo.
Nonostante gli sforzi per superare i propri predecessori, la maggior parte dei dotti arabi cercava di evitare una rottura aperta con la tradizione. Nel suo al-Miftāḥ fī 'l-ṭibb (La chiave della medicina) Ibn Hindū (m. 410/1019 o 420/1029) criticava l'ordinamento che nel Canone alessandrino era stato assegnato alle opere galeniche sui rami fondamentali della medicina. In tale ordinamento si procedeva infatti a partire dagli elementi, gli umori e i temperamenti, giungendo solo alla fine a esaminare le varie parti del corpo, mentre secondo Ibn Hindū, per ragioni didattiche si sarebbe invece dovuto iniziare dall'anatomia, accessibile direttamente all'osservazione. Nonostante la sua idea, egli rinunciò tuttavia a modificare l'ordinamento tradizionale del sapere medico per non alienarsi il consenso degli altri studiosi.
Quanto potente fosse il richiamo alla tradizione risulta anche da un aspetto più generale: il rispetto per l'autorità, infatti, fece sì che dalle fonti antiche fosse derivata anche tutta una zavorra di nozioni che nel contesto geografico e culturale dell'Islam non avevano alcuna funzione e che, per questa ragione, la critica ha assimilato ai 'massi erratici' (erratic blocks; Ullmann 1978) della geologia. Si trattava, per esempio, di indicazioni sui serpenti velenosi che vivevano nell'area geografica greca o sugli esercizi sportivi praticati in Grecia, per cui nel mondo islamico non esistevano impianti. A queste si potrebbe aggiungere una serie di operazioni chirurgiche, tramandate nella letteratura dalle fonti antiche, che, dato l'orientamento piuttosto conservatore della chirurgia islamica, non erano praticate.
L'esitazione ad abbandonare determinate teorie tradizionali era dovuta senza dubbio anche alla mancanza di procedimenti empirici certi per decidere tra ipotesi alternative. Infatti nella valutazione teorica delle argomentazioni, soluzioni diverse apparivano egualmente possibili; di conseguenza, visto che in gioco non c'era unicamente la coerenza logica delle deduzioni, ma anche la correttezza delle loro premesse, l'autorità personale dell'autore conservava tutta la sua importanza. Ma vi è anche una ragione culturale più profonda. Se l'immagine di un'ostilità dell'Islam nei confronti della scienza e di una rigida fede nell'autorità da parte degli autori arabi ‒ immagine affermatasi con l'Illuminismo e per lungo tempo dominante nel mondo occidentale ‒ non è più sostenibile, nondimeno non si può negare che i dotti dell'Islam vivessero in un contesto culturale improntato all'ossequio nei confronti dell'autorità. Come nell'ambito della religione e della vita quotidiana il comportamento del credente era determinato dal modello del Profeta, così in campo medico gli autori ‒ esattamente come i loro colleghi del mondo bizantino e occidentale ‒ si richiamavano all'autorità degli 'Antichi' e in primo luogo a Ippocrate e a Galeno.
Dell'importanza dei predecessori discutevano, comunque, anche gli autori arabi, i quali talvolta si riferivano all'ammirazione che lo stesso Galeno aveva nutrito per Ippocrate. E poiché nel corso di molte generazioni Ippocrate e Galeno erano stati riconosciuti come massime autorità, appariva lecito contraddirli solamente per gravi ragioni. Anche quando, dopo la prima fase di ricezione della tradizione, le fonti antiche furono gradatamente tralasciate in favore di quelle arabe, più recenti, l'autorità dei classici continuò a essere tenuta in grande considerazione. Il perdurante interesse per le opere di Ippocrate e di Galeno è testimoniato dalle copie delle loro opere e dai commenti che i medici del mondo islamico vi dedicarono persino più tardi nei secoli seguenti. Per lungo tempo, inoltre, alcuni autori inserirono come premessa ai propri manuali, quali fonti per la conoscenza medica, gli scritti ippocratici e galenici; così fecero, per esempio, ῾Alī ibn Riḍwān (m. 460/1068) e Ibn Ǧumay῾ (m. 594/1198) in Egitto e, dopo di loro, ῾Abd al-Laṭīf al-Baġdādī (m. 629/1231).
Le autorità antiche, comunque, non erano seguite pedissequamente. La letteratura araba è estremamente ricca di lievi e tacite deviazioni da Galeno, dettate da esigenze interne alla coerenza del sistema oppure da ragioni teoriche o motivate invece da nuove osservazioni. I medici che contraddicevano apertamente il maestro erano tuttavia un'esigua minoranza e le critiche erano avanzate perlopiù con molte esitazioni perché coloro che le muovevano si sentivano obbligati a scusare o almeno a motivare il proprio comportamento. Così, sebbene queste giustificazioni in parte non siano altro che tópoi letterari, non v'è ragione di dubitare della loro sincerità. Del resto, anche un pensatore straordinariamente originale come al-Rāzī si sentì in dovere di premettere una siffatta apologia al suo scritto al-Šukūk ῾alā Ǧālīnūs (Dubbi su Galeno), in cui metteva in luce le incoerenze riscontrabili nell'opera del maestro; egli temeva infatti ‒ e non a torto, come dimostrano le numerose repliche che fecero seguito al testo ‒ che le sue critiche suscitassero la disapprovazione dei colleghi. L'argomentazione era semplice: nonostante tutti i debiti di riconoscenza nei confronti dei grandi del passato, è inammissibile seguire ciecamente i capiscuola. Una verifica critica della tradizione è necessaria, in quanto anche i grandi conoscono momenti di distrazione e di disattenzione e incorrono in errori dettati dalla faziosità. È tuttavia interessante notare come nella sua critica all'autorità al-Rāzī rimandi comunque alle autorità antiche, chiamando in causa ancora una volta in primo luogo Galeno, e poi ‒ citando il famoso detto amicus Plato, magis amica veritas ‒ Aristotele e i suoi allievi, i quali, a loro volta, avevano criticato il maestro.
Una posizione analoga a quella di al-Rāzī si riscontra anche nella critica a Galeno mossa dal filosofo e medico ebreo Mūsā ibn Maymūn (m. 601/1204), noto come Maimonide e attivo nel XII sec. in Egitto. Sebbene, per salvare l'autorità del maestro, Maimonide ventili anche la possibilità di un proprio fraintendimento e ipotizzi l'esistenza di errori nella trasmissione dei testi, alla fine del suo Kitāb al-Fuṣūl (Libro degli aforismi; tratti da Galeno), egli individua quasi quaranta singole questioni relative alla patologia e alla terapia, nonché alle proprietà dei farmaci e degli alimenti, sulle quali Galeno si sarebbe espresso in modo contraddittorio in vari luoghi delle sue opere. In molti casi, tuttavia, egli lasciava aperta la decisione sulla tesi effettivamente corretta. Anche altri critici ‒ come Ibn al-Nafīs e persino ῾Abd al-Laṭīf al-Baġdādī, il quale affermava che ciò che poteva vedere con i suoi occhi valeva più di qualunque autorità ‒ cercarono di scagionare Galeno da ogni 'colpa', mettendo in conto possibili errori dei trascrittori, una considerazione non del tutto infondata all'epoca della tradizione manoscritta.
Il concetto moderno di progresso non è applicabile alla medicina islamica i cui limiti sono fissati, una volta per tutte, dal compatto edificio dottrinale galenico, che non lasciava spazio a modelli esplicativi alternativi. Così, poiché la scienza medica era in buona parte di tipo scolastico e mancava una ricerca empirica sistematica, la creatività era spesso orientata non tanto verso un ampliamento delle conoscenze, quanto verso una loro organizzazione formale.
La giovane cultura islamica, la quale recepì un sapere medico che aveva già raggiunto un proprio grado di sviluppo, dovette confrontarsi con una messe di singole nozioni che occorreva in primo luogo ordinare formalmente. Per rendere fruibile nella sua pienezza il materiale dei classici, assai ricco ma disordinato, i medici dell'Islam adottarono un approccio tipico del sapere scolastico medievale. Nei loro predecessori della prima epoca bizantina, essi trovarono infatti i modelli utili alla redazione dei compendi e alla sistematizzazione didattica delle nozioni mediche che in parte svilupparono ulteriormente. Nacquero così le enciclopedie e i compendi generali, opere che combinavano i manuali pratici utilizzati nella Tarda Antichità con una sintesi organica della teoria medica. Esse costituirono un'innovazione che favorì in misura notevole la diffusione del sapere, in quanto offrivano, sia agli studenti sia a coloro che già esercitavano la professione medica, un rapido orientamento su tutti i contenuti essenziali della medicina.
Ma la letteratura medica non assunse soltanto la forma manualistica e per facilitare la trasmissione delle conoscenze furono utilizzati anche particolari generi letterari. Seguendo il modello dell'opera più letta della medicina antica, gli Aforismi di Ippocrate, autori di rilievo come Ibn Māsawayh (m. 243/857) e al-Rāzī approntarono raccolte di principî ed enunciati espressi in formule pregnanti; la stessa operazione è riconoscibile nel medico e filosofo ebreo Maimonide. Le nozioni fondamentali che l'aspirante medico doveva imparare, per quanto possibile alla lettera, erano talvolta esposte in versi per ragioni di mnemotecnica. Nei poemi didattici, che erano in uso anche in altre discipline, era utilizzato il metro arabo più facile e regolare, il raǧaz, e così queste opere erano in genere intitolate Urǧūza, cioè 'poema in raǧaz'. L'opera più diffusa fu quella di Avicenna, dal titolo Urǧūza fī 'l-ṭibb (Poema sulla medicina), nota nella traduzione latina come Cantica; in 1313 versi doppi, essa offriva sul modello della Isagoge di Ḥunayn ibn Isḥāq un quadro completo dei contenuti della medicina. Quale estensione potessero raggiungere tali poemi didattici lo dimostra, con i suoi quasi 7700 versi, il manuale composto da Ibn Ṭufayl (m. 581/1185), medico attivo presso la corte almohade nell'Andalus.
Alcuni generi rappresentavano la diretta prosecuzione di forme letterarie bizantine; si tratta delle rielaborazioni dei testi antichi operate nelle epitomi (muḫtaṣar), nei sommari (ǧāmi῾) e nei timār (frutta), l'equivalente dei florilegi. Opere di questo tipo non appartengono, come quelle di Ḥunayn, di Ṯābit ibn Qurra (m. 288/901) e di al-Rāzī, solo agli esordi della medicina islamica; nei secoli successivi autori come Averroè o Maimonide compilarono sunti delle opere galeniche. Ad avere fortuna duratura nel mondo islamico fu anche il genere dei commentari, sebbene, a partire dal XIII sec., essi abbiano avuto per oggetto sempre più opere arabe, e in particolare il Canone di Avicenna. Dalla tradizione cristiano-siriaca, infine, venne mutuata la forma catechetica, per la quale mostrò una particolare predilezione Ḥunayn ibn Isḥāq, sia per la presentazione didattica dei testi antichi da lui tradotti, sia per le opere che egli stesso compose in siriaco o in arabo, come per esempio il celebre Mudḫal fī 'l-ṭibb (Introduzione alla medicina o Isagoge), noto anche con il titolo di Kitāb al-Masā᾽il fī 'l-ṭibb (Libro delle questioni sulla medicina). Di quest'opera esisteva probabilmente anche una versione strutturata 'ad albero' (tašǧīr), una forma particolarmente adatta, nei compendi di questo tipo, a porre in evidenza le connessioni interne al sistema.
Una novità nel campo della medicina era invece costituita dai quadri sinottici, modellati sulle tavole astronomiche (zīǧ), che consentivano di orientarsi rapidamente laddove si davano molte informazioni disparate che necessitavano di una strutturazione come, per esempio, nel caso dell'enumerazione delle proprietà e dell'effetto dei farmaci e degli alimenti. Un'opera sinottica sull'igiene, il Taqwīm al-ṣiḥḥa (Almanacco della salute), divenuto in latino Tacuinum sanitatis, fu compilata dal medico cristiano Ibn Buṭlān (m. 458/1066); poco più tardi anche Ibn Ǧazla (m. 493/1100) scelse la forma delle tavole sinottiche per il suo manuale terapeutico, nel quale le informazioni relative a quarantaquattro malattie e al loro trattamento sono ordinate in dodici diverse rubriche. Entrambe le opere furono recepite in Europa; nell'edizione tedesca del 1533, sono chiamate 'scacchiere' in ragione della divisione dei vari ambiti in riquadri simili appunto a quelli di una scacchiera.
Organizzare le varie nozioni mediche dell'epoca in una prospettiva sistematica e a fini didattici non era una semplice attività di compilazione. Già nell'esteso corpus di opere di Galeno, che costituiva il nucleo essenziale dell'eredità della medicina antica, si registravano numerose incongruenze; a esse si aggiungevano poi le conclusioni degli altri autori che il mondo islamico recepì ‒ o direttamente, o attraverso la mediazione delle prime compilazioni bizantine ‒ e che muovevano da premesse teoriche parzialmente diverse. Nel rielaborare il materiale necessariamente eterogeneo che avevano a disposizione, i medici dell'Islam dovevano trasformarlo in un'esposizione coerente in cui occorreva armonizzare le affermazioni contraddittorie delle varie fonti. Si trattava di ordinare, e infine interpretare in una prospettiva unitaria, quei dati che, ereditati dalla tradizione, derivavano dalle osservazioni dei predecessori. Lo scopo prioritario che i medici dell'Islam si prefiggevano non era quello di fornire una descrizione esatta della realtà, ma quello di raggiungere una coerenza interna nell'esposizione e di mostrare come la dottrina concordasse sia con l'immagine del mondo che derivava dalle dottrine della Natura dell'epoca, sia con i dettami del sistema galenico. Non di rado, pertanto, l'unitarietà veniva raggiunta a prezzo di semplificazioni, e talvolta gli autori non riuscivano ad armonizzare gli approcci differenti né a superare le contraddizioni; là dove i criteri per addivenire a una decisione mancavano completamente, poteva capitare che teorie tra loro incompatibili fossero giustapposte, senza alcun tentativo di conciliazione.
Se Galeno illustrava le proprie concezioni patologiche, diagnostiche e terapeutiche utilizzando solo alcuni esempi, nei manuali arabi queste erano applicate sistematicamente a tutti i quadri clinici e a tutte le forme morbose. Oltre a nuove differenziazioni nella patologia e nella terapia, ciò comportò talvolta anche ulteriori sviluppi nelle concezioni teoriche, soprattutto in pensatori originali come Avicenna. Attenendosi interamente alla tradizione antica e preislamica, nella quale ravvisava i propri precursori, Avicenna trovò spesso il modo, nel Canone, di sviluppare teorie originali a partire dalla sintesi di diverse concezioni. Il fatto che l'opera di integrazione di idee e nozioni di origine diversa nella dottrina galenica portasse inevitabilmente ad alcune modifiche, lo dimostra il caso della localizzazione diretta delle tre funzioni psichiche superiori (l'immaginazione, il pensiero e la memoria nei ventricoli), che Galeno aveva collegato solo genericamente alla zona anteriore, mediana e posteriore del cervello; per poter dar conto di una localizzazione precisa di tali funzioni e per amore di simmetria, i quattro ventricoli cerebrali furono ridotti dai medici arabi a tre, attraverso l'unificazione dei due ventricoli anteriori.
Non sempre, tuttavia, le modificazioni apportate al sistema galenico si possono spiegare come uno sforzo di armonizzazione. Avicenna, per esempio, riteneva che nella teoria della nutrizione si dovessero assumere non tre ma quattro stadi di trasformazione degli alimenti attraverso la 'digestione'. Dopo la formazione del chilo nello stomaco e nell'intestino e la sua successiva trasformazione in sangue nel fegato e prima che le componenti ematiche destinate a nutrire i tessuti fossero assimilate definitivamente nelle diverse parti del corpo, nelle vene doveva, a suo avviso, aver luogo un'ulteriore 'cottura' del sangue. È soprattutto nel campo dell'anatomia, però, che le deduzioni puramente speculative conducevano in errore; anche in questo caso ne fornisce un esempio Avicenna, secondo il quale nel pene si sarebbero dovuti individuare tre condotti separati: uno per la secrezione dell'urina, uno per lo sperma e uno per il liquido ghiandolare prodotto dall'eccitazione sessuale. Alcune innovazioni derivavano, inoltre, dalla necessità di colmare le lacune che, seppure sporadicamente, si presentavano all'interno del sistema galenico. Così ai due tipi di pneuma ipotizzati da Galeno, quello vitale e quello psichico, ne fu aggiunto un terzo, il pneuma naturale, al fine di ristabilire un rigoroso parallelismo tra gli organi principali (cuore, cervello e fegato), le funzioni principali (vitale, psichica e naturale) e ciò che doveva veicolare tali funzioni. Va osservata infine la tendenza a ridurre sempre più drasticamente gli elementi in gioco: nel trattato di igiene di Ibn Buṭlān, per esempio, le sei res non naturales ‒ ossia i fattori esterni che si riteneva influenzassero lo stato di salute ‒ erano associate, a coppie, alle tre funzioni principali del corpo.
Un problema particolare si poneva nei casi in cui le due principali autorità ‒ Galeno e Aristotele ‒ entravano in contrasto su questioni fondamentali; come recita un aforisma di probabile origine preislamica: "quando Galeno e Aristotele sono di una medesima opinione, questa è senz'altro giusta; quando invece sono di diverso avviso, è oltremodo difficile stabilire chi abbia ragione" (Yūḥannā ibn Māsawayh, Nawādir al-ṭibbiyya). Se non era possibile appianare le discrepanze, optare per l'uno o per l'altro quale autorità ultima non risultava facile: sia Aristotele sia Galeno si erano occupati di filosofia, di medicina e di biologia. A partire da al-Fārābī (m. 339/950), il quale si riallacciava alla critica che già la cultura filosofica precedente aveva mosso a Galeno, ai due maestri finirono per essere attribuiti due distinti ambiti di competenza: l'autorità di Galeno valeva nel campo della medicina, mentre nella filosofia e nella scienza della Natura era determinante l'opinione di Aristotele. Non mancarono però tentativi di egemonizzazione: così, anche se le concezioni anatomico-fisiologiche di Aristotele erano già state rifiutate da Galeno sulla base di nuove prove, Avicenna cercò di riproporre l'aristotelismo, non solo nella sua opera filosofica, strettamente ispirata al Corpus Aristotelicum, ma anche nelle sue opere mediche.
Nel tentativo di rendere attuali le posizioni aristoteliche che risultavano ormai superate, riallacciandole alle osservazioni di Galeno, Avicenna pervenne talvolta a nuovi sviluppi delle teorie antiche che, pur non avendo alcun fondamento empirico, ebbero un'influenza profonda sulla medicina e sono quindi di grande importanza storica. Uno di questi sviluppi è legato alla dottrina cardiocentrica. Sulla base dei principî teleologici cui era ancorato il suo sistema, Aristotele riteneva che il corpo dovesse avere un solo organo centrale, che egli individuava nel cuore. Galeno sosteneva invece l'esistenza di tre organi cardinali: il fegato, il cuore e il cervello. Dalle ricerche effettuate sul sistema nervoso successive ad Aristotele era emerso infatti come le funzioni nervose non fossero governate dal cuore. Così, poiché le teorie galeniche sul ruolo del cervello, corroborate come erano da verifiche sperimentali, non potevano essere messe in questione, ricollegandosi ad al-Fārābī, Avicenna giunse a un compromesso: Galeno aveva apparentemente ragione in quanto le principali funzioni della vita erano governate direttamente dai tre organi suddetti, ma il vero centro di tali organi doveva comunque essere individuato nel cuore, che semplicemente delegava una parte dei propri compiti agli altri due. Allo stesso modo Avicenna cercò di salvare l'autorità di Aristotele anche in altri punti controversi, come per esempio a proposito dell'esistenza di un 'seme femminile'; il suo intento era quello di interpretare le ipotesi aristoteliche in modo conforme alle scoperte più moderne dell'epoca, senza dover fare quindi un passo indietro rispetto allo stato raggiunto dalle conoscenze. Le soluzioni così proposte furono ampiamente recepite, non solamente nel mondo islamico, ma anche in quello occidentale.
I tentativi messi in atto da Avicenna per mitigare la rottura con la tradizione della medicina del suo tempo si fondavano, d'altronde, su una distinzione epistemologica che risaliva anch'essa ad al-Fārābī: la medicina vera e propria doveva essere considerata una disciplina pratica, che trattava soltanto di particularia, ossia di applicazioni specifiche; il suo fondamento teorico, invece, nella misura in cui riguardava leggi universali, rientrava nella competenza del filosofo della Natura e doveva essere ricondotto dunque all'autorità di Aristotele. Così, poiché nell'adempimento dei compiti pratici della medicina le verità ultime della scienza non entrano in gioco ‒ ed era, questa, un'idea espressa dallo stesso Galeno ‒ non vi sarebbe stato alcun male se i medici si fossero limitati ad attenersi a quanto sostenuto dalla massima autorità della medicina, anche se determinate teorie di Galeno non reggevano a una critica formulata in termini di filosofia della Natura.
Questo atteggiamento condusse Avicenna a 'correggere' la tradizione, spesso su una base prettamente speculativa. Un esempio particolarmente significativo in questo senso è dato dalla 'teoria delle tre vescicole' che Avicenna elaborò per spiegare lo sviluppo embrionale; in essa le osservazioni e il modello di Galeno, che pure ne costituiscono l'elemento guida, si ritrovano trasformate sulla base dell'approccio aristotelico. Date le premesse teleologiche del sistema aristotelico, il primo organo a svilupparsi doveva essere quello più importante. Galeno, non potendo stabilire per via empirica quale dei tre organi principali si formasse per primo, optò, dopo molte oscillazioni, per la successione fegato-cuore-cervello: le funzioni del nutrimento e della crescita governate dal fegato, essendo le più elementari, dovevano essere le prime a generarsi. Avicenna, che da aristotelico considerava il cuore come l'organo centrale, doveva attribuire a quest'ultimo la priorità alterando di conseguenza le idee di Galeno; egli arrivò così a formulare la teoria delle tre vescicole, secondo la quale i tre organi si sarebbero formati a partire da tre vescichette colme di pneuma (Weisser 1983). Sebbene l'idea di una successiva formazione delle tre vescicole principali non abbia alcun riferimento con i reali processi di sviluppo, questo modello del primo sviluppo dell'embrione, con la sua insolita plasticità, ebbe ampia risonanza, sia nel mondo orientale sia in quello occidentale.
L'operazione di ridurre il sistema galenico ai principî aristotelici non fu, comunque, solo di Avicenna. Se egli richiama le posizioni aristoteliche, talvolta persino correndo il rischio di far compiere un regresso alla scienza dell'epoca, un ritorno sistematico ad Aristotele, operato senza compromessi e senza riguardo per i risultati cui la ricerca era ormai giunta, è tipico piuttosto di Averroè, il quale, pur non potendo ignorare gli sviluppi della medicina postaristotelica, si voleva presentare in medicina peripatetico come in filosofia.
Allo stato attuale della ricerca storica, si può quindi affermare che nell'ambito teorico le innovazioni riguardarono il perfezionamento del sistema, mentre in quello empirico esse furono rivolte a integrare le conoscenze fattuali attraverso accurate osservazioni. Per le future ricerche sarà comunque particolarmente importante l'esame dei commentari: le affermazioni spesso oscure o controverse dei predecessori, infatti, costringevano gli autori dei commenti a una presa di posizione autonoma. Lo dimostra, ma è solo un esempio, il commentario che Ibn al-Nafīs (m. 687/1288) dedicò all'esposizione di anatomia del Canone di Avicenna.
Nel mondo islamico non fu sviluppato uno studio sperimentale della biologia umana e per questa ragione i contributi empirici di anatomia e di fisiologia riguardano esclusivamente singoli dettagli direttamente accessibili all'osservazione. Un esempio di queste singole osservazioni sembra essere la constatazione di al-Rāzī che le pupille si restringono alla luce e si dilatano nell'oscurità. Egli paragona questo meccanismo alle ventole che nei sistemi di irrigazione artificiale regolano il flusso dell'acqua secondo necessità. Galeno, invece, negava la possibilità di una dilatazione o di un restringimento contemporaneo di entrambe le pupille e riteneva che la pupilla di un occhio potesse dilatarsi solo nel caso in cui uno dei due occhi fosse chiuso, per compensare il mancato apporto di capacità visiva che ne sarebbe derivato. Anche la correzione che ῾Abd al-Laṭīf al-Baġdādī poté apportare alle affermazioni di Galeno a proposito dell'anatomia ossea deriva da osservazioni personali rese possibili dal ritrovamento di numerosi scheletri in seguito a una carestia.
I maggiori contributi dei medici si registrano nel campo della clinica e della terapia farmacologica. Per la clinica un caso esemplare è ancora una volta quello di al-Rāzī, il quale, sfruttando la sua vasta esperienza medica, si occupò intensamente della diagnostica differenziale di quadri clinici simili, alla quale dedicò anche una monografia, Risāla fī 'l-ǧudarī wa-'l-ḥaṣba (Epistola sul vaiolo e il morbillo).
I contributi alla patologia, che sono il risultato delle osservazioni dirette al capezzale del paziente, si limitano, invece, per lo più agli aspetti fenomenologici. Dalla descrizione di nuovi sintomi o di quadri clinici rimasti sino a quel momento sconosciuti non derivava alcun approccio interpretativo nuovo; le distinzioni più sottili tra le varie forme di patologia non scaturivano sempre da un'approfondita osservazione dei casi ed erano spesso il risultato del sincretismo tipico dell'epoca. Quando per una stessa malattia diverse fonti indicavano sintomi o decorsi leggermente diversi nei dettagli, le singole descrizioni erano classificate, per ragioni di completezza, come forme autonome di malattia. L'ordinamento nosologico dei complessi sintomatici descritti nelle fonti era reso più difficile dal fatto che l'antica medicina non intendeva i quadri clinici nel senso odierno, e cioè in base a un'esatta conoscenza delle cause delle varie patologie; da ciò derivano, fra l'altro, le difficoltà che si sono incontrate nelle diagnosi retrospettive e che hanno indotto gli studiosi a essere particolarmente cauti, in via di principio, nell'identificare i quadri clinici storici con quelli odierni. La classificazione eccessivamente minuziosa dei tipi e dei sintomi delle malattie in enumerazioni lunghe e spesso aride rispondeva alle esigenze di sistematicità, ma si rivelava di scarsa utilità pratica; essa fu già criticata, del resto, dagli storici della medicina dell'Illuminismo, i quali rimproveravano soprattutto ad Avicenna un'eccessiva cavillosità scolastica, per esempio là dove egli arriva a enumerare ben quindici tipi di dolore che, sul piano pratico, sono pressoché impossibili da distinguere.
Poiché gli autori arabi in genere non citano i loro modelli, rimane ancora da compiere un lungo e difficile lavoro di individuazione delle fonti prima che si possa stabilire con una certa attendibilità in quale misura vi siano osservazioni originali nei testi arabi. Talvolta è la terminologia a creare problemi nell'interpretazione dei quadri clinici; è il caso della dracunculosi, provocata dal dragoncello o filaria di Medina (o di Guinea), che nei testi arabi è tradizionalmente indicata come 'vena di Medina' (al-῾irq al-madanī), sicché spesso è impossibile comprendere fino a che punto i medici fossero consapevoli della natura parassitaria del male. In genere, comunque, dai testi non si ricavano molte informazioni su casi medici specifici; nella maggior parte dei manuali e dei testi didattici gli accenni a casi medici concreti sono piuttosto sporadici. Invece non è raro incontrare la descrizione di malattie spettacolari in scritti che non sono di medicina. Mentre una parte di tali resoconti è scritta con perfetta oggettività, come quelli dello storico Ibn Ḫaldūn (m. 808/1406) o di al-Qalqašandī (1355-1418), che nel Ṣubḥ al-a῾šā᾽ fī ṣinā῾at al-inšā᾽ (L'alba del nictalope sull'arte della cancelleria) descrive l'agonia del re del Mali morto nel 1373 per la malattia del sonno, dopo due anni di sofferenze, in altri testi prevale l'aneddotica. Lo stesso vale per le biografie di medici famosi ai quali erano spesso attribuite diagnosi perspicaci e cure straordinarie e, talvolta, persino la resurrezione di persone che apparivano morte. Si tratta, talora, di leggende itineranti che erano state narrate già in passato a proposito di medici dell'epoca preislamica.
Interessanti indicazioni sulla prassi medica si possono invece trarre dalle anamnesi di al-Rāzī, il quale però non fornisce una precisa classificazione nosologica delle malattie in questione, ma si limita a descrivere l'esperienza terapeutica, senza approfondirla sul piano teorico. Nel Libro XVI del Kitāb al-ḥĀwī (Libro comprensivo), noto come Continens, nel contesto degli excerpta sulla dottrina delle febbri, egli presenta però trentaquattro casi, riconducibili a patologie di diverso tipo, relativi ai vari rami della medicina; sono descrizioni ispirate alle storie cliniche delle Epidemie ippocratiche. Anche in altri luoghi del Continens, al-Rāzī riferisce alcuni casi medici a correzione o a integrazione delle affermazioni dei propri predecessori e dà anche conto, in base alla propria esperienza nella pratica ospedaliera, dell'effetto di determinati farmaci. Più di novecento casi, in cui si era rivelata efficace la somministrazione di particolari farmaci, sono inoltre descritti nel Kitāb al-Taǧārib (Libro delle esperienze) redatto dai suoi allievi. Simili raccolte di '[farmaci] sperimentati' (muǧarrabāt) sono piuttosto frequenti nella letteratura medica islamica che, sotto questa categoria, faceva rientrare in particolare quei rimedi la cui azione non poteva essere spiegata in base alla teoria farmacologica di Galeno, fondata sulle quattro qualità primarie e sui loro gradi. Il confine tra questi rimedi e quelli della medicina simpatetica non era tuttavia così netto, tanto che le raccolte più tarde comprendono prevalentemente ricette desunte dalle superstizioni popolari e rimedi di bassa farmacia.
Al-Rāzī riporta alcuni casi di ricette anche nel suo originale trattatello intitolato Bur᾽ al-sā῾a (Guarigione in un'ora). In quest'opera, in polemica con alcuni medici ignoranti e presuntuosi, prendendo spunto da una discussione sul lungo e complicato decorso di determinate malattie, egli espone i trattamenti terapeutici adatti a ventinove stati morbosi che nel giro di un'ora insorgono e in un'ora possono essere guariti; si va così dall'emicrania, il ronzio alle orecchie e le coliche sino al formicolio provocato da un bagno in acqua gelata. Per alcune malattie, come per esempio l'epilessia e il raffreddore, invece, un certo scetticismo del lettore riguardo alla possibilità di una guarigione immediata sembra giustificato.
Egli inoltre è il primo a menzionare l'allergia al profumo o al polline delle rose. Chiamato per un consulto dall'amico filosofo e geografo Abū Zayd al-Balḫī (m. 322/934), che soffriva di raffreddore allergico provocato dalle rose, al-Rāzī fornì estese indicazioni terapeutiche e profilattiche; tuttavia, nel trattamento, che mirava principalmente a ridurre la sostanza che provocava il catarro, egli si atteneva strettamente alle categorie della patologia umorale, senza fornire alcuna indicazione riguardo alla patogenesi. Non è quindi possibile stabilire se al-Rāzī ‒ che consigliava al paziente di evitare di annusare le rose, ma al contempo nominava altre piante dall'odore penetrante ‒ riconoscesse la specificità dell'allergene nel suo pieno significato.
Per quanto riguarda i nuovi quadri clinici, anche all'interno delle storie cliniche riportate da altri, è dato trovare, sporadicamente, la prima descrizione, o comunque una descrizione precisa, di alcune malattie. Così due chirurghi dell'area islamica occidentale, Abū 'l-Qāsim al-Zahrāwī (m. 400/1009 ca.) e, tre secoli dopo di lui, Muḥammad al-Šafra (m. 761/1360), descrissero alcuni casi di emofilia. Tuttavia, Abū 'l-Qāsim, che classificava l'emofilia tra le emopatie, non ne accenna esplicitamente l'ereditarietà, pur riferendo che, nel luogo d'origine di un suo paziente, qualsiasi ferita provocava emorragie pressoché inarrestabili e che la maggior parte dei decessi nel luogo era riconducibile a tale causa.
Le osservazioni derivate dalla prassi chirurgica si possono identificare in genere più agevolmente degli stati morbosi interni. Abū 'l-Qāsim descrive, per esempio, il caso di una fistola intestinale, provocata da una ferita da freccia, dalla quale fuoriuscivano contenuto intestinale e gas, che fu guarita con una terapia conservativa; egli menziona anche il caso di una donna che, dopo due aborti, presentava nell'ombelico un ascesso purulento dal quale Abū 'l-Qāsim narra di aver estratto uno per uno numerosi ossicini di un altro feto morto: si tratta probabilmente di una delle prime testimonianze relative a una gravidanza extrauterina.
Per confutare l'errata opinione della tradizione, secondo la quale all'origine della medicina vi sarebbero state solo l'ispirazione e la rivelazione, Ibn al-Muṭrān (m. 587/1191), medico personale del sultano Ṣalāḥ al-Dīn (Saladino), sostenne l'origine empirica del sapere medico. Nell'opera Bustān al-aṭibbā᾽ (Il giardino dei medici), in cui si trovano raccolti e commentati diversi estratti di testi medici, egli propone una teoria sulla genesi della medicina come scienza. Da una prima serie di osservazioni casuali relative all'azione terapeutica di alcune piante, l'uomo sarebbe giunto gradatamente, attraverso una ricerca sistematica, ad acquisire un più vasto patrimonio farmacologico, istituendo un collegamento tra le proprietà sensibili delle piante ‒ in particolare il loro sapore ‒ e il loro effetto e formulando alcune ipotesi che avrebbe poi applicato a piante con proprietà simili o che avrebbe invece modificato a seconda dei casi. Non sembra, tuttavia, che questo metodo di 'prove ed errori', postulato per gli inizi della medicina, sia stato mai applicato nel mondo islamico in vista di una ricerca farmacologica sistematica e, per quanto riguarda la clinica, manca qualunque accenno a una ricerca empirica sistematica.
Un'eccezione degna di nota è costituita dal caso della tracheotomia. Questo intervento, utile nei casi di soffocamento che mettono in pericolo la vita del paziente, fu effettuato da Antillo (II sec. d.C.) ed è menzionato talvolta nell'Antichità, anche se non sembra fosse praticato dagli Arabi, che pure lo conoscevano. L'unica descrizione precisa dell'operazione, infatti, si deve a Paolo di Egina (VII sec.), una delle fonti principali che gli Arabi avevano a disposizione per la chirurgia. Un primo accenno all'intervento lo si trova in Abū 'l-Qāsim che, osservando il rapido risanamento di una tracheotomia a seguito di un tentativo di suicidio, ne concluse la non pericolosità per il paziente senza decidersi a praticare l'operazione lui stesso. A sperimentarlo fu solamente Abū Marwān ibn Zuhr (m. 557/1162) che però, non avendolo mai praticato, decise di eseguirlo su una capra. Anche se l'intervento ebbe pieno successo, Ibn Zuhr si accontentò di quest'unico esperimento, non avendo avuto mai occasione, a quanto risulta, di condurlo sull'uomo.
Dal momento che in una medicina di scuola, come quella dell'Islam, doveva essere data grande importanza alla definizione di regole fisse per il comportamento del medico, una particolare attenzione fu dedicata alle prescrizioni relative ai metodi fondamentali utili alla diagnostica e alla terapia. In tale contesto, l'esame del polso e quello delle urine, eseguiti secondo criteri prestabiliti, divennero procedimenti standard, indispensabili della diagnostica.
Già nell'Antichità, in particolare grazie a Galeno e ad Archigene, i sintomi del polso da cui si traevano indicazioni sullo stato del pneuma vitale del cuore erano stati classificati in un ordinamento sistematico; nella diagnostica di Galeno però l'esame delle urine, i cui criteri non erano classificati in modo sistematico, non aveva ancora un'importanza centrale. Soltanto nella medicina bizantina, nel quadro di quello che è stato definito un 'nuovo empirismo' (Strohmaier 1996), l'ispezione delle urine divenne via via lo strumento diagnostico più importante, che permetteva di trarre informazioni sullo stato degli umori e del fegato preposti al metabolismo. Nella medicina del mondo islamico, infine, le regole dell'uroscopia furono sistematizzate sin nei minimi dettagli. Tuttavia, poiché prima nelle regioni dell'Islam, e poi in quelle del mondo cristiano, i pazienti si aspettavano troppo da questo metodo, i medici più seri si videro costretti a mettere in guardia contro il suo abuso da parte di ciarlatani; questi, come emerge da numerosi aneddoti, pretendevano di fornire a distanza diagnosi complete basandosi unicamente sull'urina e millantavano di essere in grado di leggervi tutte le informazioni relative al paziente, dalla composizione della sua dieta sino alla sua confessione religiosa.
Anche le regole per la flebotomia trovavano ampio spazio nei manuali arabi. Sin dall'epoca di Ippocrate l'uso della lancetta costituiva un elemento centrale nella terapia, poiché secondo la dottrina umorale l'eliminazione dal corpo degli umori responsabili della malattia, o presenti in quantità eccessiva, costituiva uno dei principî terapeutici fondamentali. In questo caso, come in quello delle urine, i Bizantini avevano arricchito le teorie degli Antichi con esperienze derivate dalla prassi medica, associando ai singoli organi e alle varie parti del corpo i diversi punti in cui praticare il salasso. I medici dell'Islam cercarono di ricondurre queste regole nate dall'esperienza pratica ai principî della teoria umorale di Galeno. Oltre all'osservazione delle condizioni individuali interne ed esterne del paziente, un elemento fondamentale della salassoterapia araba era costituito dalla distinzione tra la sottrazione diretta di una certa quantità di sangue (derivazione) e la deviazione del flusso sanguigno verso il punto corrispondente della parte opposta del corpo (revulsione). L'importanza del metodo che era praticato, anche a scopo preventivo, per alleggerire l'organismo da quegli umori che avrebbero favorito l'insorgere delle malattie, attesta fra l'altro l'esistenza della professione medica ausiliaria del salassatore.
Peculiare è la particolare attenzione che i medici del mondo islamico riservavano alle malattie mentali e ai disturbi psichici. Galeno, che li interpretava in chiave puramente somatica, riconducendoli, proprio come tutte le altre malattie, a uno squilibrio nella composizione degli umori, proponeva il ricorso a rimedi puramente fisici; nel mondo islamico, per i disturbi psichici si ammetteva invece anche un'origine psicogena, ovvero una concausa psichica, che in parte era motivata ex iuvantibus, ossia alla luce dell'efficacia dimostrata da metodi 'psicoterapeutici'. La cura delle malattie psichiche era di grande interesse anche per il vasto pubblico, come attestano i numerosi aneddoti relativi a diagnosi avvedute e a stupefacenti guarigioni.
L'unica specializzazione ben delimitata era costituita, tuttavia, dallo studio e dalla cura delle malattie degli occhi, patologie molto diffuse nel Vicino Oriente, che nel mondo islamico furono per la prima volta trattate in buona parte da specialisti di alto livello. Diversamente dai medici generici, che per le affezioni degli occhi ricorrevano a terapie prevalentemente conservative, gli 'oculisti' arabi effettuavano anche interventi chirurgici e riportavano le loro conoscenze ed esperienze in manuali specializzati. Si tratta di una prassi degna di nota, in quanto la chirurgia generale, praticata solitamente da guaritori istruiti con un semplice apprendistato, non aveva dato luogo a una letteratura specializzata.
Nell'ambito della medicina preventiva, la dietetica, intesa in senso ampio come arte di preservare la salute attraverso uno stile di vita saggio e consapevole, assumeva come già nell'Antichità, una grande importanza. Per la medicina premoderna, che non conosceva ancora terapie efficaci per la maggior parte delle malattie, la profilassi era infatti assai più importante di quanto non lo sia oggi. Il suo principio fondamentale era quello della moderazione, che trovava fondamento nell'ideale di vita delle filosofie antiche; la sua prassi si basava sul criterio della compensazione: gli errori nello stile di vita dovevano essere controbilanciati da misure contrarie. Quando poi la malattia era già insorta, la dietetica e, in particolare, le regole relative all'alimentazione costituivano una parte irrinunciabile della terapia accanto al trattamento farmacologico e a quello chirurgico.
La vasta letteratura sull'igiene individuale aveva come filo conduttore la dottrina delle sei res non naturales, quei fattori esterni che si riteneva influenzassero costantemente l'organismo. Accanto a sintesi generali e sistematiche e a monografie sui singoli fattori si trovano guide pratiche per uno stile di vita salubre scritte per insigni personaggi: ne è un esempio il trattato che Maimonide scrisse per il sultano ayyubide al-Malik al-Afḍal (r. 582-592/1186-1196). Le prescrizioni generali erano integrate da regimi specifici per le diverse età ‒ in particolare per i bambini e per gli anziani ‒ o per determinate categorie di persone, come per esempio le nutrici; si riteneva, infatti, che attraverso il latte esse avrebbero potuto trasmettere al neonato gli squilibri nella composizione degli umori provocati da una condotta di vita malsana. I regimi per le nutrici, spesso associati direttamente alle prescrizioni per i neonati e per i bambini piccoli, rientravano nell'ambito della puericultura, la cui importanza nell'Islam è attestata dagli scritti specificamente dedicati all'ostetricia e alla pediatria da ῾Arīb ibn Sa῾d di Cordova e dall'egiziano Aḥmad al-Baladī, entrambi vissuti nel X secolo.
Particolari norme igieniche e profilattiche erano raccomandate anche per i viaggiatori, i quali, a causa delle fatiche del viaggio, del cambiamento di clima e delle inconsuete abitudini di vita che incontravano nei paesi stranieri, erano particolarmente esposti alle malattie. A un caso particolare è dedicata la Risāla fī tadbīr safar al-ḥaǧǧ (Epistola sul regime per il pellegrinaggio), un'opera che il medico cristiano Qusṭā ibn Lūqā redasse per un alto funzionario della corte del califfo, essendo impossibilitato ad accompagnarlo di persona nei luoghi santi dell'Islam. Il cristiano Ibn Buṭlān compilò invece un regime per i monaci.
Vanno infine ricordate le raccomandazioni mediche relative al rapporto sessuale (bāh) rivolte in parte anche ai profani. Poiché nel mondo islamico dominava un atteggiamento assai più positivo e libero di quello che contraddistingueva la cristianità medievale, vi era una certa richiesta di conoscenze che avrebbero permesso di aumentare la potenza e il piacere sessuale, nonché di adottare le misure opportune per prevenire i danni provocati da un eccesso di rapporti sessuali o da pratiche erotiche dannose. Alcuni dei primi scritti scientifici sull'argomento, come per esempio i trattati di Qusṭā ibn Lūqā o di ῾īsā ibn Māssa (m. 275/888), al pari dei capitoli dedicati al tema nella manualistica, avevano un orientamento prevalentemente medico, mentre nelle opere più tarde la componente puramente erotica prese gradatamente il sopravvento, sino a diventare dominante.
La peste nera che scoppiò tra il 1348 e il 1349, così come le epidemie successive che, circoscritte ad alcune regioni, colpirono l'Oriente sino alla fine del XIX sec. fornirono l'occasione per approfondite descrizioni del morbo e della sua propagazione. L'esempio della peste merita di essere considerato da vicino, in quanto mette in luce con particolare chiarezza le possibilità di progresso della medicina del tempo e i suoi limiti, sebbene, tuttavia, la maggior parte degli scritti in lingua araba sulla peste non si debba a medici ma a teologi, il cui principale interesse era quello di definire il giusto comportamento che il credente avrebbe dovuto assumere di fronte all'epidemia mortale.
Per i medici del XIV sec. la peste, che non era descritta chiaramente né nelle fonti greche né nei testi classici arabi, era in un certo senso una malattia nuova. La prima pandemia, la 'peste di Giustiniano', scoppiata alla metà del VI sec., imperversò sino al 750 ca. anche nei principali territori del dominio islamico, ma si verificò in un periodo poco fecondo per la medicina e quindi le esperienze dell'epoca non ebbero alcuna eco nella letteratura medica araba. Gli autori dei grandi manuali presentavano così l'eziologia generale del morbo epidemico seguendo Ippocrate, Galeno e i compendi della prima età bizantina, senza fare alcun riferimento alle epidemie concrete. Poiché i fattori scatenanti, ossia gli agenti patogeni delle malattie infettive acute, non erano visibili a occhio nudo, si riteneva che le epidemie insorgessero quando i 'miasmi', ovvero le esalazioni dannose di varia origine, in condizioni climatiche sfavorevoli ‒ soprattutto con il caldo eccessivo ‒'impestavano' l'aria guastandola. Quando l'aria infetta veniva respirata, anche gli umori del corpo cominciavano a putrefarsi, ma soltanto in quanto l'accumularsi di residui del metabolismo aveva già causato uno squilibrio nella loro composizione. Ciò spiegava come mai, durante le epidemie, alcuni individui restassero immuni dalla malattia. Nel caso delle malattie infettive endemiche, come la malaria, l'origine dei miasmi era individuata, come già in epoca antica, soprattutto nelle paludi e nelle acque stagnanti, nonché nelle spaccature e nelle fenditure della terra. Nel caso delle epidemie che si manifestavano all'improvviso, la contaminazione dell'aria era invece imputata a condizioni atmosferiche abnormi, ai cadaveri in putrefazione o ad altre materie organiche marcescenti, e infine persino a particolari fenomeni astronomici, come il passaggio di comete o di meteoriti o alcune congiunzioni dei pianeti giudicate sfavorevoli. L'influsso dei pianeti era individuato quindi, in parte, in termini fisici ‒ nell'alterazione delle qualità dell'aria ‒ e, in parte, in termini puramente astrologici. Avversario dichiarato dell'astrologia, Avicenna interpretava i fenomeni astronomici straordinari osservati nell'imminenza di un'epidemia come segnali di condizioni atmosferiche che favorivano la putrefazione dell'aria.
Nella misura in cui trattano esplicitamente di 'peste' o di 'febbri pestilenziali', i testi arabi menzionano, rifacendosi al bizantino Ahrūn (VII sec.), la comparsa di bubboni, ovvero di tumefazioni delle ghiandole linfatiche, senza fornire peraltro una descrizione degli altri sintomi della peste; un nuovo approccio, fondato su esperienze vissute in prima persona, si affermò solo nel XIV sec., quando scoppiò la seconda ondata di pandemia.
La discussione in merito alla propagazione e alla profilassi della peste assunse un accento particolare a causa dell'atteggiamento dell'ortodossia islamica nei confronti del fenomeno del contagio. Per via delle epizoozie che colpivano il bestiame, i beduini dell'epoca preislamica sapevano che le malattie possono colpire per contagio, ma lo riconducevano all'intervento di demoni (ǧinn). Anche agli Antichi il fenomeno era noto empiricamente, ma il suo verificarsi era spiegato in termini puramente speculativi: nella patologia di Galeno, basata sul temperamento degli umori, non vi era posto, infatti, per l'idea del contagio. Nello scritto galenico sulle febbri, cui i medici arabi si riferivano, si fa però menzione del carattere contagioso della peste, della scabbia, dell'infiammazione degli occhi (tracoma?), della tisi e di tutte quelle malattie per cui nel paziente si riscontrano esalazioni putrescenti, ma non se ne analizza a fondo il meccanismo. Nella sua monografia Kitāb fī 'l-i῾dā᾽ (Libro della trasmissione [delle malattie]), Qusṭā ibn Lūqā spiega il fenomeno nel modo seguente: penetrando nell'organismo di altri individui, l'aria infettata dal malato danneggia dapprima il loro pneuma vitale, poi il sangue e infine gli organi, esattamente come avviene nel malato, e di conseguenza i sintomi presentati dai vari pazienti sono gli stessi. Qusṭā si rifà tuttavia anche alla tradizione degli antichi problemata physica, in cui erano postulate alcune forme immateriali di contagio per 'simpatia' che si riteneva passassero, per esempio, attraverso il sorriso o lo sbadiglio.
In questo modo il concetto medico di contagio correva però il rischio di restare confinato nell'ambito della magia, assai diffusa nelle credenze popolari ma condannata dalla religione islamica ufficiale. Il Profeta aveva infatti vietato la magia e la divinazione in quanto parte di quelle usanze pagane combattute dall'Islam. Inoltre, poiché in un ḥadīṯ (detto attribuito al Profeta) sull'inefficacia delle varie pratiche divinatorie era menzionato fra l'altro il termine i῾dā᾽ (trasmissione), qui inteso nella connotazione magica, e siccome lo stesso termine era usato dai medici per designare la trasmissione di una malattia, i teologi ne dedussero che il contagio come tale non esiste e che il fatto di contrarre una malattia durante un'epidemia andava accettato come una fatalità. Essi corroboravano questa interpretazione con altri detti del Profeta nei quali era fatto divieto sia di entrare in una regione infestata dalla peste sia di lasciarla per sfuggire alla malattia e nei quali la peste era dichiarata una benedizione per il credente: la morte in seguito al morbo sarebbe stata una forma di martirio e come tale avrebbe assicurato l'accesso diretto al paradiso. Nel caso della lebbra, tuttavia, il Profeta imponeva invece di fuggire da essa come da un leone: un atteggiamento più rispondente all'inclinazione naturale dell'uomo e diffuso nella popolazione, nonostante il divieto religioso.
Nei manuali e nei compendi pratici dell'epoca classica la sentenza dei teologi relativa al contagio non aveva ancora trovato alcuna eco, anche perché era mancata l'occasione concreta per confrontarsi con il fenomeno. I loro autori si limitavano a integrare l'elenco galenico delle malattie contagiose, aggiungendovene alcune, come la diaframmite, il vaiolo e la lebbra. Soltanto la peste del XIV sec., una malattia altamente infettiva, dall'insorgenza improvvisa e in grado di colpire un'ampia parte della popolazione, fornì l'occasione per studiare più da vicino il contagio e i suoi meccanismi, rendendo al tempo stesso urgente il bisogno di un orientamento religioso di fronte alla malattia. L'esplicita negazione del contagio da parte dei teologi acquistò infatti un peso maggiore, rendendo difficile agli studiosi interpretare correttamente i chiari indizi di questo fenomeno. Per contro, l'idea che le epidemie di peste fossero provocate da una generale contaminazione dell'aria, nella misura in cui permetteva di considerare comunque Dio quale causa ultima della malattia, non era in contrasto con la religione e fu dunque universalmente accettata dai medici del mondo islamico, indipendentemente dal fatto che essi ammettessero l'ipotesi di un contagio anche da parte di individui infetti.
Tra i numerosi scritti sulla peste meritano di essere segnalati due testi dell'Occidente islamico. Mentre ancora infuriava l'epidemia, Ibn Ḫātima (m. 770/1369 ca.) descrisse la diffusione del morbo nella sua città natale nel Sud della Spagna, Almería, e fornì un quadro esatto dei suoi sintomi, distinguendo già tra peste bubbonica e peste polmonare e descrivendo la peste polmonare primaria, di cui sottolineava il carattere altamente infettivo. Oggi sappiamo che la peste bubbonica è trasmessa dalle pulci infette dei ratti; soltanto la peste polmonare si diffonde per contagio diretto attraverso l'inalazione dei bacilli pestosi. Questi meccanismi erano ancora ignoti a Ibn Ḫātima, al quale però non sfuggiva il fatto che il contatto con individui affetti dal morbo provocava la comparsa della malattia nella medesima forma, o bubbonica o polmonare. Per non entrare in conflitto con la religione, egli respinse l'interpretazione magica del contagio diffusa tra i beduini e ricondusse il fenomeno a una legge di natura stabilita da Dio. I miasmi provenienti dal respiro e dalle esalazioni degli ammalati non si trasmettevano soltanto attraverso l'aria, ma infettavano anche gli oggetti con cui erano venuti in contatto; ciò avrebbe spiegato l'elevata mortalità tra gli straccivendoli del bazàr, dove erano venduti i vestiti e i letti appartenuti alle vittime della peste.
Ibn al-Ḫaṭīb (1313-1374), medico, statista e storico, spiegò dettagliatamente le diverse forme del decorso della peste sulla base della dottrina delle febbri e delle crisi di Galeno; inoltre analizzò le modalità della trasmissione del morbo che poteva avvenire anche indirettamente attraverso le vesti o i monili. Per dimostrare che la diffusione della peste avveniva attraverso il contagio, egli addusse una serie di osservazioni epidemiologiche, come per esempio la concomitanza tra l'arrivo di un individuo proveniente da una regione infetta e il manifestarsi dell'epidemia, la diffusione di singoli focolai, nonché diversi casi in cui gruppi di persone tenute in stretto isolamento in un ambiente in cui infuriava il morbo restavano immuni dal contagio. Diversamente da Ibn Ḫātima, Ibn al-Ḫaṭīb attaccò direttamente i teologi, accusandoli di aver causato la morte di innumerevoli persone, perché avevano negato il contagio, nonostante le schiaccianti prove contrarie, vietando nei loro pareri legali la fuga dai luoghi infetti. Secondo Ibn al-Ḫaṭīb si sarebbe dovuta interpretare la tradizione cercando di armonizzarla con l'esperienza diretta o seguire piuttosto i ḥadīṯ del Profeta favorevoli all'ipotesi del carattere contagioso della malattia. Anche se Ibn al-Ḫaṭīb non era ancora in grado di fornire una spiegazione migliore per i fenomeni di contagio osservati, resta degna di nota la sua netta presa di posizione in favore della preminenza che deve essere riconosciuta all'esperienza diretta piuttosto che alla tradizione religiosa.
Negli scritti sulla peste dell'epoca seguente prevalse, comunque, l'ortodossia religiosa che negava il contagio. L'ipotesi di una causa a distanza delle epidemie, spiegabile attraverso l'influenza degli astri, che in un primo tempo aveva avuto scarso rilievo nel mondo islamico, venne acquistando un peso sempre maggiore, associandosi, in genere, a pratiche superstiziose che avevano lo scopo di tener lontano il morbo e si basavano sull'uso di amuleti, quadrati magici e altri rimedi e rituali di magia.
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