La civilta islamica: osservazioni, calcolo e modelli in astronomia. L'astronomia araba nella tradizione medievale latina
L'astronomia araba nella tradizione medievale latina
Prima dell'apporto della scienza araba, nel mondo latino mancava un'astronomia d'alto livello. Se si esclude qualche nozione sommaria sui movimenti celesti, soprattutto per ciò che concerne i fenomeni sinodici quali il sorgere e il tramontare del Sole, ciò che si intendeva con astronomia non era che un insieme di idee cosmologiche imprecise riguardo alla forma e alle dimensioni del mondo. Certo, esisteva una tradizione di calcoli cronologici, incoraggiata dalla necessità della Chiesa di seguire il calendario; se ne ha un esempio nel De temporum ratione del monaco inglese Beda il Venerabile (m. 735), ma la letteratura di computo legata alla produzione dei calendari non era assolutamente fondata su un'elaborazione matematica dei fenomeni. L'opera di Beda è in tal senso eloquente, poiché i movimenti planetari sono qui rappresentati da eccentrici semplici, la seconda anomalia planetaria (ossia i fenomeni che riguardano la retrogradazione dei pianeti sul cielo delle stelle fisse) resta inspiegata. In breve, la scienza del cielo dell'Alto Medioevo manca al contempo di osservazioni, di un'analisi geometrica dei fenomeni e di una riflessione sui fondamenti delle ipotesi, senza le quali non vi può essere alcuna vera teoria astronomica (Pseudo-Beda, De mundi celestis terrestrisque constitutione). Quanto all'astronomia pratica, non si può dire che essa fosse rappresentata in modo migliore: le tavole sono assenti e gli strumenti, quali lo gnomone e i quadranti solari, sono del tutto approssimativi.
L'apporto della scienza araba fu quindi essenziale per lo sviluppo dell'astronomia latina d'Occidente: per tutto il Medioevo gli astronomi latini trovarono nei testi arabi elementi utili alle loro ricerche, si trattasse di risultati delle osservazioni, di procedimenti matematici (i testi arabi furono essenziali allo sviluppo della trigonometria), di tavole o di descrizioni di strumenti oppure di teorie o di ipotesi utili alla spiegazione dei fenomeni celesti. Fu inoltre considerevole l'influenza che i trattati di Abū Ma῾šar (m. 272/886) esercitarono sull'astrologia latina; in particolare vanno segnalati l'Introductorium maius in astronomiam ‒ conosciuto in una versione latina abbreviata dovuta ad Adelardo di Bath e in due traduzioni complete rispettivamente di Giovanni di Siviglia (del 1133) e di Ermanno di Carinzia (del 1140) ‒ e il De magnis coniunctionibus, tradotto da Giovanni di Siviglia.
I primi concetti importati: l'astrolabio e la teoria del Primo Mobile
Secondo la tradizione medievale, l'astronomia si divideva in due domini: da una parte, l'astronomia del moto quotidiano della volta celeste ‒ e questa era detta l'astronomia del Primo Mobile ‒ e, dall'altra, l'astronomia planetaria. Le prime testimonianze della penetrazione nell'Occidente latino del sapere arabo si riferiscono al primo di questi due domini, sotto forma di trattati sull'astrolabio stereografico. Sebbene, infatti, le proprietà della proiezione stereografica, sulla quale si fonda l'astrolabio, e i vantaggi da essa presentati, furono definiti da Tolomeo nel suo Planisphaerium, è attraverso gli Arabi che il mondo latino ne venne a conoscenza; il testo tolemaico non arrivò al mondo latino prima del XII sec., mentre già dalla fine del X sec. gli ambienti colti del Nord della Penisola Iberica, in contatto con il mondo arabo-musulmano, cominciano a conoscere l'astrolabio e i trattati che lo riguardano. Già nei secc. X-XI fiorirono opere sulla costruzione e sull'uso dell'astrolabio, costituite da estratti o da rimaneggiamenti di precedenti trattati arabi ancora male identificati; l'autore più noto di questa prima letteratura tecnica in latino è Gerberto di Aurillac, che diverrà papa sotto il nome di Silvestro II. Del resto, lo stesso Planisphaerium di Tolomeo fu introdotto in Occidente attraverso una versione araba: fu infatti tradotto nel 1143 da Ermanno di Carinzia sulla base di una versione di Maslama al-Maǧrīṭī (noto anche come Maslama di Madrid, attivo intorno all'anno 1000).
Fu quindi ancora dietro la spinta delle traduzioni che nel XII sec. altre opere permisero all'Occidente latino di acquisire la padronanza completa dello strumento: vanno menzionate in particolare la traduzione del trattato di Ibn al-Ṣaffār (m. 1035) da parte di Platone di Tivoli (tra il 1135 e il 1145) e le opere originali prodotte in latino da Adelardo di Bath verso il 1149-1150, da Roberto di Ketton (1147) e, prima del 1141, da Raimondo di Marsiglia. D'altra parte, l'inserimento dell'astrolabio nei programmi d'insegnamento universitario confermò il ruolo didattico dello strumento fino alla fine del Medioevo, assicurando in particolare il successo di un trattato sull'astrolabio, falsamente attribuito a Māšā᾽allāh (fine del VII sec.) e noto nella traduzione latina di Giovanni di Siviglia (tra il 1135 e il 1142) con il titolo De compositione et utilitate astrolabii.
L'ampia diffusione dell'astrolabio nel mondo latino si deve alle sue virtù a un tempo teoriche e pratiche. Oltre alla sua funzione pedagogica per l'introduzione all'astronomia sferica e alla teoria del Primo Mobile, l'astrolabio è anche un notevole strumento di calcolo, perché permette di risolvere agevolmente i problemi che riguardano il movimento quotidiano e quello annuale del Sole, quali i calcoli delle ascensioni rette e oblique, della durata delle ore ineguali, del levarsi eliaco delle stelle o ancora, in astrologia, della localizzazione delle case celesti. In compenso, l'astrolabio comporta pochi dati tecnici che riguardano la teoria astronomica: sono l'obliquità dell'eclittica, la localizzazione sullo Zodiaco dell'apogeo del Sole e il posto iniziale dell'Ariete (equinozio di primavera) nel calendario, che è legato al moto di precessione. Ed è notevole, quindi, che nel trattato sull'astrolabio di Raimondo di Marsiglia si trovino alcuni parametri astronomici fondamentali i cui valori sono diversi da quelli di Tolomeo. Egli dimostra, infatti, di nutrire una grande ammirazione per l'opera dell'astronomo andaluso al-Zarqālluh (noto anche come Ibn al-Zarqālī, m. 493/1100), dal quale ricava la posizione dell'apogeo del Sole a 17;50° dei Gemelli e il valore dell'obliquità dell'eclittica, stimato a 23;33,30°, valore che egli preferisce a quello di Tolomeo (23;50°). La messa in discussione dei parametri tolemaici della teoria del Sole proseguirà per tutto il Medioevo e a questo riguardo l'opera di al-Zarqālluh non cesserà di rappresentare un punto di riferimento.
Il XII sec. è l'epoca in cui l'astronomia latina, grazie all'immenso sforzo di traduzione dei testi arabi, acquista slancio. I testi tradotti aprono un nuovo campo agli studi e forniscono la materia essenziale ai nuovi lavori che consistono principalmente in tavole astronomiche. Le raccolte manoscritte di tavole che conosciamo contengono una grande quantità di dati che possono essere sommariamente ripartiti in tre gruppi: il primo comprende gli elementi che riguardano più o meno direttamente l'astronomia del Primo Mobile (tavole di ascensioni rette e oblique, di declinazione, di equazione del tempo); il secondo gruppo contiene le tavole planetarie, costituite da quattro parti (tavole cronologiche, tavole delle coordinate medie, tavole di equazioni e tavole di latitudini); il terzo, infine, include tavole diverse che si riferiscono alle congiunzioni del Sole e della Luna, alle eclissi, alle parallassi, alla visibilità lunare, ecc.
Per intraprendere le nuove ricerche, gli astronomi latini attinsero principalmente a tre fonti: in primo luogo, ai canoni e alle tavole di al-Ḫwārizmī (attivo nell'830 ca.); in secondo luogo, alle tavole di al-Battānī (m. 317/929) e, infine, alle tavole di al-Zarqālluh. Sembra che i canoni e le tavole di al-Ḫwārizmī siano stati adattatati in latino da Pietro d'Alfonso (1062-1140) fin dal 1116, a partire dalla versione che ne aveva dato Maslama al-Maǧrīṭī; la stessa versione costituì poi l'oggetto di una traduzione di Adelardo di Bath nel 1126. Le tavole di al-Battānī, invece, furono tradotte prima da Roberto di Ketton e poi da Platone di Tivoli; quelle di al-Zarqālluh confluirono nelle Tavole di Toledo, con allusione al loro meridiano di riferimento, assieme a elementi di origine diversa, alcuni provenienti da al-Ḫwārizmī, altri da al-Battānī e altri ancora da Tolomeo o dal Liber de motu octavae spherae, un testo attribuito nel Medioevo latino a Ṯābit ibn Qurra.
Nella traduzione che ne diede Gherardo da Cremona (1114 ca.-1187), le Tavole di Toledo conobbero una diffusione molto ampia in tutto l'Occidente latino. È quindi possibile affermare che esse consentirono la conoscenza, seppure indiretta, delle tavole di al-Zarqālluh, anche se, come si è accennato, la sua opera fu utilizzata prima della traduzione di Gherardo da Cremona. Infatti, già nel 1141 Raimondo di Marsiglia compose la propria opera sul movimento dei pianeti inserendovi le tavole precedute da canoni e citando inoltre, in un'introduzione, lo stesso al-Zarqālluh. Di fatto, le tavole di Raimondo di Marsiglia sono un adattamento, per il calendario cristiano e per la longitudine di Marsiglia, di quelle di al-Zarqālluh. Anche nelle tavole, come nel suo trattato sull'astrolabio, Raimondo utilizza il valore, che riprende da al-Zarqālluh, di 23;33;30° per l'obliquità dell'eclittica. Inoltre, una delle novità più importanti che si devono ad al-Zarqālluh, ossia l'aver rilevato l'esistenza del movimento proprio dell'apogeo del Sole, è nota a Raimondo, che riproduce anche la tavola dell'astronomo arabo per le posizioni degli apogei del Sole e degli altri pianeti. Con l'opera di Raimondo appare per la prima volta nel mondo latino un metodo di calcolo delle posizioni planetarie che si basa sulle costruzioni geometriche tolemaiche destinate a spiegare i movimenti dei pianeti.
La nuova conoscenza delle tavole arabe, e principalmente di quelle di Toledo, portò nel corso dei secc. XII e XIII a una serie di adattamenti delle tavole ai diversi luoghi della Cristianità. Tra le altre, si possono menzionare alcune tavole per il meridiano di Pisa, composte da ᾽Avrāhām ibn ῾Ezrā᾽ nel 1145 ca. e alcune tavole per il meridiano di Londra, concepite da Roberto di Ketton nel 1149-1150; altre tavole per Londra si devono invece a Ruggero di Hereford che le realizzò nel 1178. Molte di queste tavole sono anonime, quali quelle per Mechelen (nell'attuale Belgio) o quelle compilate per alcune località italiane come Novara o Cremona. Tra tutte, le tavole che furono composte per il meridiano di Tolosa rivestirono una particolare importanza perché, data la vicinanza del meridiano di Tolosa a quello di Parigi, furono utilizzate anche dagli astronomi parigini.
Come si è accennato, sotto il nome di Tavole di Toledo sono riuniti di fatto elementi di diversa provenienza: oltre ad alcune parti ricavate dalle tavole di al-Zarqālluh, vi si trovano elementi presi da al-Ḫwārizmī (precisamente per le latitudini planetarie), da al-Battānī (in particolare per le tavole delle equazioni planetarie), dall'Almagesto o dalle Tavole manuali di Tolomeo e, infine, dal Liber de motu octavae spherae attribuito nel Medioevo latino a Ṯābit ibn Qurra. Da tale eterogeneità di composizione consegue che le Tavole di Toledo non hanno un coerente schema astronomico sottostante e, inoltre, che alcuni calcoli sono fondati su parametri diversi e fra loro incompatibili. La tavola delle differenze d'ascensione, per esempio, è calcolata per un'obliquità dell'eclittica uguale a 23;51°, valore che figura nelle Tavole facili di Tolomeo, mentre la tavola d'ascensione retta è calcolata per il valore di 23;35°, utilizzato da al-Battānī. Un altro esempio è dato dalle colonne che costituiscono la tavola d'equazione di Venere: alcune di esse sono infatti calcolate a partire da due eccentricità differenti del pianeta. D'altra parte, i canoni che accompagnano le tavole si limitano a enunciare i procedimenti dei calcoli da effettuare, senza esplicitare i modelli geometrici che sottendono la composizione di queste tavole: coloro che nel mondo latino utilizzarono per primi le Tavole di Toledo hanno dunque assunto i valori dati nelle tavole senza essere in grado di valutarli criticamente.
Gli studi recenti hanno dimostrato che le tavole latine dei secc. XII e XIII ereditarono, attraverso le Tavole di Toledo, alcune variazioni apportate alla teoria tolemaica dagli astronomi arabi del IX secolo. Queste modificazioni riguardano, in primo luogo, i parametri solari, la cui determinazione da parte di Tolomeo era stata mediocre. Numerose e ripetute osservazioni, fatte a Damasco e a Baghdad nel IX sec., avevano condotto a stime differenti rispetto a quelle di Tolomeo per quanto riguarda la durata dell'anno tropico; la velocità del movimento di precessione degli equinozi; l'obliquità dell'eclittica (23;33° secondo gli astronomi del califfo al-Ma᾽mūn; 23;35° secondo al-Battānī; 23;51,20° nell'Almagesto); l'eccentricità del Sole (2;4;45 parti del raggio del deferente secondo al-Battānī, invece del valore di 2;29,30 parti di Tolomeo); la posizione dell'apogeo del Sole (situato secondo Tolomeo a 65;30° dell'inizio dell'Ariete; secondo al-Battānī a 82;17°; secondo il trattato De anno solis, erroneamente attribuito a Ṯābit ibn Qurra, a 80;45°). La scoperta di queste divergenze con i valori ottenuti da Tolomeo aveva posto gli astronomi arabi davanti a un difficile problema di interpretazione: queste discrepanze sono dovute a errori di osservazione oppure a variazioni a lungo termine dei parametri? Quest'ultima opzione poneva un problema teorico: essa implicava, infatti, l'esistenza di altri movimenti rispetto a quelli osservati fino ad allora. A partire dal IX sec. si incontrano entrambe le interpretazioni. Al-Battānī adotta la prima; senza rimettere in discussione i modelli cinematici tolemaici, egli si accontenta di optare per un movimento di precessione più rapido di quello di Tolomeo (ossia 1° in 66 anni invece di 1° in 100 anni). La seconda interpretazione fu quella dell'autore del Liber de motu octavae spherae, il quale suppose, inoltre, che le variazioni presunte dei parametri solari fossero periodiche: per renderne conto, egli concepì un modello che producesse simultaneamente una variazione periodica della precessione, e dunque della lunghezza dell'anno tropico, e una variazione periodica dell'obliquità dell'eclittica. Senza entrare in dettagli troppo tecnici, diciamo che questo modello comporta due eclittiche: una fissa, inclinata a 23;33° sull'equatore; l'altra mobile, implicata dal moto di un piccolo circolo che ruota attorno all'intersezione dell'equatore e dell'eclittica fissa. Quando il circolo piccolo compie la sua rivoluzione, il punto vernale è coinvolto in un movimento di oscillazione sull'equatore. I parametri del modello erano stati scelti in modo da produrre un effetto massimo (distanza tra l'inizio dell'Ariete mobile e il punto vernale) uguale a ±10;45°; la periodicità del movimento di oscillazione era di 4163,3 anni arabi (ossia 4039,2 anni cristiani). Le tavole del Liber de motu octavae spherae, corrispondendo a questo modello geometrico, erano state incluse nelle Tavole di Toledo, che hanno dunque assicurato, fino alla fine del XIII sec., un notevole successo a questa teoria del movimento di oscillazione degli equinozi, chiamato nel linguaggio medievale 'movimento di avvicinamento e di allontanamento' (accessio et recessio).
Nelle Tavole di Toledo le quantità da prendere in considerazione nel calcolo dei movimenti planetari, e cioè il movimento medio e due correzioni dette rispettivamente 'equazione del centro' ed 'equazione dell'argomento', sono la traduzione numerica delle irregolarità prodotte dall'esistenza, nelle costruzioni geometriche tolemaiche, delle eccentricità e degli epicicli. Per ogni pianeta esse sono funzione dell'eccentricità e del rapporto del raggio dell'epiciclo con il raggio del deferente. Dato ciò, è notevole che, se le coordinate medie registrate nelle Tavole di Toledo (movimento medio per i pianeti superiori, argomento medio per i pianeti inferiori) sembrano essere indipendenti dalle tavole anteriori conosciute, le tavole d'equazione sono essenzialmente le stesse di al-Battānī e derivano dalle Tavoli manuali di Tolomeo a eccezione, comunque, della tavola dell'equazione del centro di Venere: gli astronomi arabi, seguiti da al-Battānī, facevano infatti coincidere il centro dell'epiciclo di questo pianeta con il Sole medio, con la conseguenza di dover ritenere l'eccentricità di Venere la stessa di quella del Sole, contrariamente alla teoria di Tolomeo che le distingueva.
Il fatto che nelle Tavole di Toledo si siano conservate le tavole delle equazioni di origine tolemaica (tranne che per il caso di Venere) significa che la struttura dei modelli geometrici planetari soggiacenti a queste tavole, e poi a quelle latine che da queste derivarono, resta la stessa da Tolomeo in poi. In compenso, la collocazione di questi modelli nel sistema di riferimento che costituisce la teoria del Sole associata a quella del movimento delle stelle fisse è stata completamente modificata rispetto alla concezione tolemaica. Gli astronomi arabi del IX sec. avevano mostrato che la posizione dell'apogeo solare è variabile (in coordinate tropicali) e avevano trovato per il suo movimento un valore simile a quello del movimento di precessione (1° in 66 anni). Essi avevano dunque supposto che questi due movimenti fossero identici, ossia che l'apogeo solare fosse fisso non in rapporto all'equinozio, come in Tolomeo, ma in rapporto alla sfera delle stelle fisse. Questo cambiamento ebbe per conseguenza che, da allora in poi, fu la sfera delle stelle fisse a servire come riferimento per i movimenti planetari. Perciò, mentre le tavole tolemaiche erano espresse in coordinate tropiche, le tavole toledane sono espresse in coordinate siderali. Il calcolo dei veri luoghi dei pianeti sulla sfera delle stelle fisse, per somma algebrica del movimento medio e delle equazioni, precede dunque il calcolo dei luoghi sulla sfera dell'eclittica immobile (o, nel linguaggio medievale, 'nona sfera'). Tale computo si fa aggiungendo l'equazione del moto di avvicinamento e di allontanamento per tenere poi conto di quello di 'trepidazione' (o moto del 'va e vieni') delle stelle e, in seguito, dell'apogeo dei pianeti in rapporto al punto vernale. Fino alla fine del XIII sec. l'astronomia latina, erede delle Tavole di Toledo, procederà nello stesso modo.
La funzione delle tavole astronomiche era principalmente d'ordine pratico: esse permettevano a chi le utilizzava di reperire la posizione di un astro in longitudine e in latitudine in un momento qualunque. Di contro, esse non forniscono alcuna informazione diretta sulla teoria astronomica soggiacente alle tavole stesse. La formazione di un nuovo campo di ricerca in questa materia coincise con l'apparizione di un nuovo tipo di testi di astronomia, le theoricae planetarum, il cui fine consisteva nell'esporre i modelli cinematici capaci di rappresentare con la maggiore esattezza possibile i movimenti celesti. All'origine di tale letteratura si trovano segnatamente due trattati arabi che danno alcune spiegazioni semplificate del sistema del mondo secondo Tolomeo. Si tratta, da una parte, dell'opera di al-Farġānī (redatta tra l'833 e l'857) intitolata Kitāb fī ǧawāmi῾ ῾ilm al-nuǧūm (Compendio della scienza degli astri) e nota in latino come Differentie scientie astrorum, nella traduzione del 1137 di Giovanni di Siviglia, e come Liber de aggregationibus scientiae stellarum, nella traduzione di Gherardo da Cremona; dall'altra, di un trattato analogo composto da Ṯābit ibn Qurra (m. 288/901), anch'esso tradotto da Gherardo da Cremona e conosciuto come De hiis que indigent antequam legatur Almagesti.
Alla maniera di questi due trattati, le theoricae planetarum del Medioevo latino si limitano per lo più a esporre i concetti fondamentali dell'astronomia e l'organizzazione generale dei circoli che servono a rappresentare i movimenti planetari. Tale è il caso, precisamente, della più diffusa di tutte le theoricae medievali, nota come Theorica planetarum Gerardi, ma di cui non si conosce l'autore (attivo probabilmente all'inizio del XIII sec.). Gli schemi geometrici descritti in questa theorica sono conformi alle costruzioni tolemaiche, a eccezione di quelli che forniscono una determinazione erronea delle stazioni planetarie e di quelli che concernono le latitudini dei pianeti. Due furono le tradizioni note nel Medioevo su questo secondo punto: una è rappresentata dall'Almagesto, ed è quella seguita anche da al-Battānī; l'altra, debitrice dei metodi indiani, giunse in Occidente per l'intermediario delle tavole di al-Ḫwārizmī e della traduzione delle Tavole di Toledo eseguita da Gherardo da Cremona. È questa seconda tradizione (fondata su un'organizzazione, differente da quella di Tolomeo, delle inclinazioni dei piani dei diversi circoli che rappresentano i movimenti dei pianeti) che la Theorica planetarum Gerardi diffuse ampiamente e che si impose fino all'inizio del XIV secolo. Data la sua forma sommaria, la Theorica planetarum Gerardi non fornisce alcuna indicazione sui parametri delle costruzioni geometriche e neppure sulla velocità di rivoluzione degli elementi mobili.
La Theorica planetarum di Campano da Novara, composta tra il 1261 e il 1264, rappresenta, invece, la forma più evoluta di questo tipo di opera. In particolare, essa comporta, oltre a un'esposizione teorica dettagliata della cinematica tolemaica dei movimenti planetari, anche la descrizione di uno strumento capace di rappresentare questi movimenti per mezzo di dischi mobili (che potevano essere realizzati in cartone o in metallo) convenientemente graduati e disposti per raffigurare i sistemi cinematici planetari: tale strumento era conosciuto nel Medioevo sotto il nome di equatorium. L'introduzione, nel corso del XIV sec., della Theorica di Campano nei programmi universitari rese possibile un'ampia diffusione dei temi che l'opera aveva ricavato dal trattato di al-Farġānī, che è, dopo quello di Tolomeo, la sua fonte più importante. Come al-Farġānī, Campano aggiunge al riassunto dell'Almagesto alcune informazioni sul sistema delle sfere celesti: egli completa la descrizione di ogni modello planetario con la valutazione delle dimensioni di ognuna delle parti di questi modelli. Dalle Tavole di Toledo, d'altra parte, che egli stesso ha adattato per la città di Novara, Campano prende in prestito un buon numero di parametri, come quelli relativi agli apogei planetari, ivi compreso quello del Sole che anche per lui, così come per gli astronomi arabi, è sottomesso al moto di precessione. Campano adotta inoltre i valori toledani per i moti medi dei pianeti superiori e per l'argomento medio di Mercurio, ma riprende il valore ricavato dalle sue tavole di Novara per l'argomento medio di Venere. Anche per le distanze tra stazione e apogeo egli utilizza le Tavole di Toledo che segue, infine, quando adotta i parametri tolemaici per le eccentricità e le grandezze dei raggi degli epicicli (salvo nel caso di Marte, la cui differenza è probabilmete dovuta a un errore).
Per ciò che concerne le dimensioni del mondo, Campano ricava da Tolomeo gli elementi di base e cioè le dimensioni relative delle sfere della Terra, della Luna, del Sole, così come il principio di contiguità delle sfere celesti; principio che, gradatamente, consente il calcolo delle dimensioni relative delle sfere planetarie fino a Saturno e, da lì, fino alle stelle fisse. In compenso, tutte le stime di Campano in valori assoluti sono fondate sulla valutazione della lunghezza di un grado di latitudine terrestre che egli aveva trovato in al-Farġānī e aveva in seguito reintrodotta nei calcoli tolemaici degli elementi di base (diametri della Terra e del Sole, distanza fra la Terra e il Sole, ecc.). Inoltre, utilizzando le grandezze dei corpi planetari fornite da al-Farġānī, Campano calcola le dimensioni di tutte le parti del sistema del mondo.
La Theorica planetarum di Campano è il trattato più completo dell'astronomia latina del XIII secolo. In essa si coniugano le influenze di Tolomeo e quelle delle fonti arabe: dal sapiente alessandrino sono ricavati i modelli geometrici e i loro parametri, laddove le Tavole di Toledo forniscono le coordinate medie degli elementi mobili di questi modelli; infine, al-Farġānī e attraverso di lui le Ipotesi planetarie di Tolomeo disegnarono per Campano la costituzione cosmologica dell'Universo. Questa felice combinazione lasciava però in sospeso la questione del movimento della sfera delle stelle ‒ a proposito del quale Campano non prende posizione tra l'ipotesi del moto tolemaico di precessione di 1° in 100 anni e quella del movimento d'accesso e di recesso ‒ e quella dello statuto dei modelli cinematici tolemaici, se essi vadano cioè intesi come realtà o come rappresentazione fittizia.
Proprio nel momento in cui le theoricae planetarum descrivevano per il mondo latino le ipotesi tolemaiche sulle quali si fondava la pratica astronomica, le traduzioni di Michele Scoto (m. 1226) facevano conoscere i commenti di Averroè (m. 595/1198) in cui queste ipotesi erano vivamente criticate. In effetti, secondo la fisica aristotelica, la sostanza celeste non avrebbe dovuto conoscere altro movimento che la rotazione uniforme delle sfere omocentriche. Questa fisica, come sottolineava Averroè, si opponeva dunque radicalmente all'astronomia degli eccentrici e degli epicicli. Considerando tale divergenza, un altro autore andaluso, al-Biṭrūǧī (conosciuto nel mondo latino con il nome di Alpetragio, attivo nel 1200 ca.), aveva giustamente tentato di riformare l'astronomia per metterla in accordo con la fisica di Aristotele. In linea di principio, i modelli di al-Biṭrūǧī possono essere considerati come una sorta di rinnovamento dei modelli omocentrici di Eudosso accolti da Aristotele, con l'innovazione che le inclinazioni degli assi delle sfere planetarie sono rese variabili e il movimento di ogni sfera risulta governato da quello del suo polo che descrive un piccolo cerchio vicino al polo dell'equatore.
Contemporaneamente ai commenti di Averroè, i Latini recepirono, nella traduzione di Michele Scoto del 1217, il Kitāb al-Hay᾽a (Libro dell'astronomia) di al-Biṭrūǧī, noto in latino come De motu clorum. La scoperta di questi testi è stata la fonte di un lungo dibattito nel Medioevo sullo statuto delle ipotesi. A partire dagli anni Trenta del XIII sec. l'eco dell'opera di al-Biṭrūǧī, ancora confusa, si trova in Guglielmo di Alvernia (1180-1249); poco dopo, se ne trova traccia anche in Roberto Grossatesta (1175-1253). D'altra parte Alberto Magno (m. 1280) accoglie una forma semplificata della teoria di al-Biṭrūǧī, ovvero il tentativo di spiegare tutti i fenomeni celesti per mezzo di un solo motore che avrebbe trascinato tutti gli astri in un moto più o meno rapido verso ovest, permettendo così di comprendere i loro movimenti apparenti verso est. Al termine della sua discussione, Alberto rifiuta la critica di Averroè contro gli eccentrici e gli epicicli in quanto i corpi celesti, in senso aristotelico, differiscono da quelli terrestri sia nella materia sia nella forma. Egli rifiuta anche l'astronomia delle sfere omocentriche perché "questa astronomia ‒ egli dice ‒ non è stata completata dall'osservazione della grandezza dei movimenti". Alberto si riferisce così all'incapacità di quest'astronomia di spiegare quantitativamente i fenomeni, un difetto che nel Medioevo è costantemente opposto all'ipotesi di al-Biṭrūǧī e che spiega l'indifferenza che gli astronomi ebbero a suo riguardo. I dubbi e le critiche a Tolomeo, suscitati dalle opere di Averroè e di al-Biṭrūǧī, provocarono un approfondimento della riflessione sullo statuto delle teorie astronomiche. Tommaso d'Aquino (1225-1274) riprende questa riflessione affermando che le supposizioni immaginate dagli astronomi non sono necessariamente vere, anche se sembrano salvare i fenomeni, perché questi potrebbero forse essere spiegati con qualche altro procedimento non ancora concepito. Tommaso oppone così due maniere di rendere ragione di un fenomeno: la dimostrazione sufficiente di un principio da cui il fenomeno deriva e l'evidenziazione di un accordo tra il fenomeno e un principio posto in precedenza. L'astronomia, secondo Tommaso, utilizza questo secondo procedimento sufficiente a salvare i fenomeni sensibili.
Alcuni autori della Scolastica trovarono un elemento di soluzione al dibattito che oppone fisica e astronomia nel trattato al-Maqāla fī hay᾽at al-῾ālam (Trattato sulla configurazione del mondo) che, seppure erroneamente attribuito a Ibn al-Hayṯam (m. dopo il 1040), va certamente ascritto a un autore di grande levatura; le tre traduzioni latine anonime (datate al XIII sec.) di questo scritto sono conservate: segno eloquente dell'interesse nutrito per tale testo in epoca medievale. L'opera è una cosmografia senza apparato matematico in cui l'autore riprende la combinazione di orbite solide concepite da Tolomeo nelle Ipotesi planetarie. Schematicamente, la sfera di ogni pianeta è composta da un'orbita concentrica con la Terra in cui è inserita un'orbita eccentrica, che contiene il deferente e l'epiciclo: le due parti dell'orbita concentrica, che sono rispettivamente interna ed esterna all'orbita eccentrica, sono di spessore ineguale e hanno la funzione di compensare in certo qual modo l'eccentricità e di rendere la sfera planetaria nel suo insieme concentrica al mondo. Dalla Luna a Saturno, ogni sfera planetaria così costituita è inclusa nella sfera del pianeta successivo. Presentata da Ruggero Bacone (m. 1294) nel suo Opus tertium come una imaginatio modernorum creata al fine di evitare gli inconvenienti degli eccentrici e degli epicicli, questa interpretazione fisica dell'astronomia tolemaica renderebbe vane le obiezioni di Averroè. Di converso, le variazioni delle distanze dei pianeti e la non-uniformità dei loro movimenti appaiono come conferme delle ipotesi di Tolomeo, opinione, questa, comune anche alla maggior parte dei maestri medievali.
Il successo di questa imaginatio sarà agevolato dall'incapacità del sistema di al-Biṭrūǧī di rendere conto delle osservazioni semplici che si rapportano, per esempio, all'eccentricità dei pianeti. Viceversa, la capacità dell'imaginatio di rispondere alle critiche di Averroè confortò le ipotesi tolemaiche e assicurò la generalizzazione della loro interpretazione fisica per mezzo delle orbite analoghe a quelle della Maqāla fī hay᾽at al-῾ālam. L'esposizione più completa di questa interpretazione può essere considerata quella delle Theoricae novae planetarum, composte nel 1454, dunque alla fine del Medioevo, da Georg von Purbach: la descrizione delle orbite celesti contenuta in questo trattato servì da esposizione canonica della struttura dei cieli fino a che Tycho Brahe (1546-1601) non rifiutò l'esistenza stessa delle sfere celesti.
A differenza della questione dello statuto delle ipotesi, quella del movimento di precessione non ricevette una soluzione soddisfacente presso gli astronomi medievali. In un commento (1291 ca.) alla traduzione di Gherardo da Cremona dei canoni di al-Zarqālluh relativi alle Tavole di Toledo, l'astronomo parigino Giovanni di Sicilia enumera diverse ipotesi sulla precessione: il movimento uniforme, stimato da Tolomeo in ragione di 1° in 100 anni e da al-Battānī di 1° in 66 anni; il movimento di trepidazione o del 'va e vieni' di 1° in 80 anni e di 8° di ampiezza, rifiutato da al-Battānī; e il movimento di avvicinamento e di allontanamento del Liber de motu octavae spherae attribuito a Ṯābit ibn Qurra. Da parte sua, Giovanni di Sicilia rifiuta il movimento di avvicinamento e di allontanamento e aderisce alla concezione tolemaica del moto uniforme, pur considerando incerta la sua misura esatta. In ciò, egli testimonia la generale sfiducia che l'ambiente parigino degli astronomi nutriva alla sua epoca per la teoria del Liber de motu octavae spherae.
Le osservazioni astronomiche realizzate alla fine del XIII sec. misero in evidenza, in effetti, scarti sensibili tra le posizioni calcolate a partire dalle Tavole di Toledo ‒ o dalle tavole latine che ne sono derivate, come quelle di Tolosa ‒ e le posizioni riscontrate da quelle osservazioni. Se ne può dare un esempio: sulla base di alcune osservazioni personali fatte per stabilire il suo Almanacco, l'astronomo Guglielmo di Saint-Cloud stima lo scarto tra le posizioni degli apogei mobili e quelle degli apogei fissi sull'ottava sfera a 10;13° per il 1290 e a 10;15° per il 1292. Poiché questo scarto è superiore di quasi 1° al valore che risulterebbe dal calcolo fatto secondo la legge del movimento descritta nel Liber de motu octavae spherae, Guglielmo ne ricava la conclusione che questa legge è da rifiutare e ammette che il moto di precessione debba essere ritenuto, almeno provvisoriamente, uniforme in ragione di un minuto per anno (ossia un valore prossimo a quello ottenuto da al-Battānī). Trattandosi, d'altra parte, dei moti medi dei pianeti, Guglielmo di Saint-Cloud è portato anche a correggere le radici delle Tavole di Toledo. Le opere di questo autore, e altre ancora, databili agli ultimi anni del XIII sec., dimostrano dunque che gli astronomi, in questo periodo, considerano le Tavole di Toledo come ormai inadeguate e in particolare rifiutano il moto di avvicinamento e di allontanamento, in favore di un moto uniforme di precessione.
All'inizio del XIV sec., con la diffusione delle Tavole alfonsine, vi sono nuovi sviluppi. La versione latina delle Tavole, realizzata per conto di Alfonso X di Castiglia a partire da una redazione in castigliano risalente agli anni tra il 1252 e il 1272, dominò l'astronomia dal momento della sua apparizione a Parigi nel 1320 fino alla pubblicazione del De revolutionibus di Copernico nel 1543. Nel primo saggio conosciuto relativo alla nuova astronomia, la Expositio tabularum Alfonsi regis Castelle, scritto nel 1321, Giovanni di Murs non dice nulla dei parametri planetari, dell'eccentricità e della misura degli epicicli, e concentra il proprio studio sui valori dati dalle Tavole alfonsine per il moto medio del Sole e per il moto dell'apogeo dei pianeti. È infatti soprattutto per il modo in cui trattano del movimento di precessione che esse si distinguono dalle tavole anteriori. Secondo lo stesso Giovanni di Murs, esse rappresentano un tentativo di conciliazione tra la teoria tolemaica del moto di precessione uniforme e quella araba del moto d'accesso e di recesso. Secondo la teoria alfonsina, il moto dell'apogeo e delle stelle è formato da due componenti: un moto uniforme secondo l'ordine dei segni, il cui periodo è di 49.000 anni (1° in poco più di 136 anni) e un movimento di avvicinamento e di allontanamento in rapporto all'intersezione dello Zodiaco e dell'equatore, il cui periodo è di 7000 anni, con un effetto massimo di 9°. Il moto d'accesso e di recesso del Liber de motu octavae spherae diventa dunque, in questa teoria, una componenente che fa variare la velocità del moto di precessione dell'apogeo e delle stelle. Inoltre, le tavole alfonsine sono concepite per dare i veri luoghi dei pianeti in coordinate tropiche (sulla nona sfera, secondo il computo medievale delle sfere): il moto di precessione, dunque, è preso in considerazione nel calcolo delle posizioni planetarie fin dall'inizio delle operazioni e non più al termine delle stesse, come invece nelle tavole toledane, in cui si trattava di trasporre in coordinate tropiche i luoghi ottenuti sulla sfera delle stelle fisse (ottava sfera).
Le Tavole alfonsine, d'altra parte, modificarono di poco le equazioni planetarie contenute in quelle toledane, eccetto nel caso del Sole, di Venere e di Giove; tali cambiamenti si dovettero alle modificazioni intervenute nelle stime delle eccentricità di questi tre pianeti in rapporto ai valori dati da Tolomeo o dalle Tavole di Toledo. Per i raggi degli epicicli, invece, i calcoli moderni hanno mostrato che i valori utilizzati dalle Tavole alfonsine sono simili a quelli che erano alla base delle Tavole di Toledo e di quelle tolemaiche.
L'analisi delle modificazioni introdotte dalle Tavole alfonsine e delle loro somiglianze con le tavole anteriori ne mette in evidenza un tratto essenziale: le nuove tavole sono costruite su ipotesi che non cambiano la struttura dei modelli planetari tolemaici, salvo che per quanto concerne l'eccentricità del Sole, di Venere e di Giove. Quella che viene fondamentalmente modificata, invece, è la teoria del movimento del Sole e la teoria, che gli è strettamente connessa, del movimento delle stelle fisse. Anche su questo punto, le concezioni espresse nel Liber de motu octavae spherae giocarono un ruolo capitale: esse non servono più a descrivere il moto stesso degli equinozi, ma le variazioni di velocità di questo movimento.
Alla fine del Medioevo fu principalmente l'analisi dei modelli cinematici tolemaici ad attirare l'attenzione dei maggiori astronomi. L'opera più importante, in questa materia, è certamente l'Epitome in Almagestum Ptolomaei, cominciata da Georg von Purbach (1423-1461) e terminata da Regiomontano (m. 1476). Tale testo, che contiene un'analisi molto dettagliata del trattato di Tolomeo, è stato per Copernico una fonte capitale per quanto riguarda i risultati ottenuti dagli astronomi arabi, in particolare al-Battānī e al-Zarqālluh. Nelle Theoricae novae planetarum di Purbach, d'altra parte, Copernico poté trovare una descrizione del sistema delle sfere, eredità delle Ipotesi planetarie di Tolomeo e della Maqāla fī hay᾽at al-῾ālam attribuita a Ibn al-Hayṯam. Inoltre, in un capitolo su questo tema aggiunto da Purbach posteriormente alla redazione originale dell'opera, l'astronomo polacco poté leggere la descrizione di come nel Liber de motu octavae spherae si concepiva il moto d'accesso e di recesso. Copernico vi scoprì infine la rappresentazione del deferente di Mercurio come una figura ovale, la prima menzione della quale si trova nel trattato sull'equatore di al-Zarqālluh, che fu noto in Occidente a partire dalla traduzione castigliana contenuta nei Libros del saber de astronomía composti per Alfonso X; una traduzione che del resto è probabilmente la fonte ultima di Purbach.
La lettura dei testi copernicani mostra innanzitutto la presenza dell'influenza araba nella costruzione della teoria della precessione e di quella solare. Come si è osservato, queste due teorie intimamente legate non cessarono, per tutto il Medioevo, di presentare alcune difficoltà per gli astronomi, i quali esitarono tra diverse ipotesi formulate per spiegare i risultati di osservazione. Ed è notevole constatare che il primo merito riconosciuto a Copernico dal suo discepolo Retico non sia stato quello di avere messo la Terra in movimento attorno al Sole, ma quello di avere risolto questo problema.
Nel sistema copernicano, il movimento della Terra spiega non soltanto la rivoluzione diurna, ma anche la rivoluzione annuale e persino, in ragione di un piccolo moto di rotazione del suo asse, lo slittamento verso ovest degli equinozi in rapporto alle stelle fisse e, dunque, la differenza di durata tra anno siderale e anno tropico. In seguito, il problema dei parametri solari (eccentricità, posizione dell'apogeo, obliquità dell'eclittica) e la vecchia questione della scelta tra precessione uniforme o trepidazione degli equinozi si presentano sotto una nuova luce. Prendendo in considerazione nel suo Commentariolus (un primo trattato, scritto intorno al primo decennio del XVI sec.) sia le lunghezze dell'anno tropico fornite da Tolomeo, da al-Battānī e dalle Tavole alfonsine, sia i valori corrispondenti della precessione procurati dalle stesse fonti, Copernico conclude che, in tutti i casi, il calcolo dà un anno siderale costante di 365 giorni, 6 ore e 1/6 di ora. Il modello concepito nel Commentariolus per motivare questo risultato ‒ e cioè un moto verso ovest dell'asse della Terra che compia la sua rotazione in un anno tropico, mentre il grande orbe portante la Terra gira verso est in un anno siderale ‒ produce in verità un moto di precessione uniforme. Copernico confessa, in effetti, a questa data di non avere ancora scoperto la legge del moto di precessione. Tuttavia, il modello concepito implica già che la sfera delle stelle sia fissa, che le linee degli apsidi planetari siano fisse in rapporto a questa sfera e che sia il movimento dell'asse della Terra a spostare l'equinozio in rapporto all'eclittica. Inoltre, tale modello rappresenta anche un ritorno di Copernico alle concezioni degli astronomi arabi, per i quali, dopo l'epoca di Ṯābit ibn Qurra e di al-Battānī, l'anno siderale era costante e i periodi dei movimenti planetari erano fissati in rapporto alle stelle.
Nel De revolutionibus Copernico mostra progressi nello studio delle ineguaglianze dei movimenti della Terra. Per portare a buon fine questo studio, egli procedette a una recensione storica delle stime ottenute dai suoi predecessori per la precessione, l'obliquità dell'eclittica, l'eccentricità e la posizione dell'apogeo solare. Per il periodo medievale, tenne conto in particolare dei risultati dei due autori arabi, al-Battānī e al-Zarqālluh. A causa della diversità dei valori riscontrati, Copernico si trova di fronte allo stesso problema che si era presentato agli astronomi arabi del IX sec. dopo le loro nuove determinazioni dei parametri in questione: le variazioni nei valori ottenuti si spiegano con degli errori oppure con delle variazioni a lungo termine di questi parametri? Altrimenti, è necessario discernere tra questi valori rifiutandone alcuni o bisogna invece integrarli tutti nelle leggi dei movimenti da determinare? È l'esempio del Liber de motu octavae spherae che, su tale punto, ispira Copernico. Come l'autore di questo trattato, Copernico presuppone, infatti, che le osservazioni riunite riflettano variazioni periodiche dei movimenti in causa e costruisce un modello che, come quello del trattato arabo, combina un anno siderale uniforme e una trepidazione degli equinozi. In Copernico, comunque, questa trepidazione non è semplice ma, come nelle Tavole alfonsine, composta da un termine secolare e da un termine periodico (che hanno rispettivamente un periodo di 25.816 e 1717 anni di 365 giorni).
Il modello cinematico concepito da Copernico per spiegare la variazione di lunghezza dell'anno comporta comunque altri elementi per tenere conto di tutte le osservazioni considerate; ritiene per esempio necessario far intervenire anche due ineguaglianze a lungo termine che, secondo la sua analisi, riguardano il movimento del Sole, e cioè la diminuzione dell'eccentricità e un movimento non uniforme della linea degli apsidi. È nell'opera di al-Zarqālluh che gli astronomi latini avevano trovato, per la prima volta, l'affermazione del moto proprio (ma uniforme) dell'apogeo solare e una distinzione chiara dell'anno anomalistico, confuso fino ad allora con l'anno tropico (in Tolomeo) o con quello siderale (nel trattato De anno solis attribuito a Ṯābit ibn Qurra e nell'opera di al-Battānī). È ancora da al-Zarqālluh, seppure con la mediazione dell'Epitome in Almagestum Ptolomaei di Regiomontano, che Copernico ricava il meccanismo destinato a spiegare sia la variazione dell'eccentricità (di cui suppone il periodo eguale a quello della variazione d'obliquità dell'eclittica) sia l'ineguaglianza del moto della linea degli apsidi: è sufficiente cioè far descrivere al centro dell'orbita terrestre, vale a dire al Sole medio, un piccolo cerchio intorno a un punto che sia lontano dal Sole vero di una distanza eguale all'eccentricità media nel periodo voluto (3434 anni di 365 giorni).
È possibile che Copernico abbia ricavato dallo stesso al-Zarqālluh il principio del modello usato per rappresentare le variazioni concomitanti di precessione e di obliquità dell'eclittica. Infatti, per spiegare queste due variazioni al-Zarqālluh aveva utilizzato, per far variare la precessione, un epiciclo collocato attorno all'equinozio (secondo il metodo del Liber de motu octavae spherae) e, per far variare l'obliquità dell'eclittica, un epiciclo polare (il cui centro era collocato su un deferente concentrico al polo dell'eclittica). Il metodo degli epicicli polari era stato in seguito generalizzato da al-Biṭrūǧī che lo aveva impiegato per il trattamento di tutti i movimenti planetari, ma con la disastrosa conseguenza che la latitudine dipendeva dalla longitudine (e, più precisamente, dall'argomento del pianeta). Copernico riprende, a sua volta, questo metodo degli epicicli polari come parte di una soluzione complessa, permessa dal fatto che le due variazioni di precessione e di obliquità possono essere trattate come due oscillazioni perpendicolari dell'asse dell'equatore terrestre: si tratta allora di attribuire a ognuna di queste due variazioni un piccolo circolo polare di diametro conveniente, di fare descrivere all'asse della Terra i diametri di questi circoli attraverso moti d'oscillazione e di combinare l'insieme delle due oscillazioni in modo che esse si producano in piani perpendicolari e nei periodi voluti.
Il procedimento tecnico utilizzato da Copernico per ottenere ognuna delle oscillazioni è perfettamente simile a quello che Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī (m. 672/1274), astronomo, filosofo e scienziato di grande levatura, espone nel grande trattato Taḏkira fī ῾ilm al-hay᾽a (Memorandum di astronomia); si tratta di ciò che agli eruditi moderni è noto sotto il nome di 'coppia di al-Ṭūsī'. Copernico utilizza tale procedimento anche a proposito della teoria planetaria, elemento che permette di ricordare anche un altro aspetto della questione dell'influenza araba sull'astronomia copernicana, quello legato alla prima anomalia planetaria, che nella teoria tolemaica è spiegata da un moto uniforme del deferente eccentrico attorno a un punto che è il centro dell'equante e non il centro del deferente stesso. Un tale moto era stato vivamente criticato come contrario ai principî stessi della fisica da Ibn al-Hayṯam e, in seguito, dagli astronomi che facevano capo all'Osservatorio di Marāġa (nel Nord-ovest dell'attuale Iran), fondato dal principe mongolo Hūlāgū nel 1259, quali Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī, Mu᾽ayyad al-Dīn al-῾Urḍī (m. 664/1266), Quṭb al-Dīn al-Šīrāzī (m. 710/1311), così come dall'astronomo damasceno Ibn al-Šāṭir (m. 777/1375). Per evitare l'incoerenza che il moto presentava nella dottrina tolemaica, dove il centro non era dello stesso deferente, ma dell'equante, gli astronomi arabi impiegarono un particolare procedimento: scomporre il moto attorno al centro dell'equante in due o più componenti che fossero moti circolari e controllassero la direzione e la distanza del centro dell'epiciclo, in modo che questo centro fosse il più vicino possibile alla posizione che esso avrebbe avuto nel modello di Tolomeo. Due furono i meccanismi utilizzati a tale fine dagli astronomi orientali: l'addizione di epicicli per rendere l'effetto tolemaico della bisezione dell'eccentricità, e la 'coppia di al-Ṭūsī'. Quest'ultima può essere descritta brevemente secondo uno schema geometrico.
Si è ricordato che Copernico utilizza la 'coppia di al-Ṭūsī' per spiegare sia l'ineguaglianza della precessione sia la variazione di obliquità dell'eclittica. Per questo egli dispone non di una, ma di due 'coppie di al-Ṭūsī', in modo che i diametri descritti dalle due oscillazioni risultanti siano in piani perpendicolari e si taglino al Polo Nord medio dell'equatore (i raggi dei cerchi e le velocità di rotazione sono scelti naturalmente in modo che i due movimenti oscillatori abbiano l'ampiezza e il periodo voluti). D'altra parte, per rendere conto delle oscillazioni dei piani orbitali nella teoria delle latitudini, Copernico utilizza anche la 'coppia di al-Ṭūsī', esattamente come faceva Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī nella sua opera.
Non sono, queste, le sole similitudini tra i modelli cinematici copernicani e quelli degli autori arabi. In effetti, il procedimento che consiste nell'aggiungere epicicli per rappresentare i moti planetari in longitudine, evitando le difficoltà legate alla presenza dell'equante tolemaico, è utilizzato in modo del tutto simile da Copernico e da Ibn al-Šāṭir nel trattato Nihāyat al-sūl fī taṣḥīḥ al-uṣūl (Esame approfondito delle questioni sulla verifica dei principî). Così, per quanto riguarda la prima anomalia, nel Commentariolus tutti i modelli planetari sono simili a quelli di Ibn al-Šāṭir, nei quali la combinazione di un deferente e di due epicicli è sostituita al moto del deferente in rapporto al centro dell'equante. La differenza tra i due autori risiede soltanto nei valori dei parametri e, naturalmente, nel fatto che in Ibn al-Šāṭir al centro dei modelli planetari c'è la Terra, mentre in Copernico il Sole medio.
Un'altra analogia avvicina i modelli di Copernico e di Ibn al-Šāṭir: entrambi collocano una 'coppia di al-Ṭūsī' all'estremità del raggio del deferente di Mercurio, in modo da far variare la grandezza del raggio dell'orbita di questo pianeta, imponendo al centro del primo epiciclo un moto d'oscillazione, secondo una linea sempre diretta verso il centro del deferente. Un'ultima somiglianza consiste nel fatto che il modello della Luna nel Commentariolus e nel De revolutionibus è lo stesso di Ibn al-Šāṭir, fatta eccezione per ciò che riguarda i parametri.
Non ci si può che domandare, in ragione di tali similitudini, se Copernico non abbia avuto conoscenza degli scritti degli astronomi orientali dei secc. XIII e XIV. Finora non si è avuta notizia di alcuna traduzione latina medievale delle loro opere né, a dire il vero, si è mai incontrata menzione di tali autori nella letteratura latina del Medioevo; sembra, tuttavia, che la trasmissione di alcuni testi arabi all'Occidente latino sia potuta passare attraverso le fonti bizantine pervenute in Italia nel XV secolo. Così, in un manoscritto di una traduzione greca, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana almeno a partire dal 1475 (Vat. gr. 211, ff. 106v-117r), eseguita verso il 1300 da Chioniade su di un originale arabo, si è trovato il modello lunare di al-Ṭūsī e un'illustrazione rappresentante la 'coppia di al-Ṭūsī'. Un'altra testimonianza dell'impiego della 'coppia di al-Ṭūsī' è costituita dal De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine excentricis et epyciclis di Giovanni Battista Amico, apparso a Venezia nel 1536; l'autore si sforza di ridare vita all'astronomia omocentrica con l'aiuto di modelli fondati proprio sull'impiego della 'coppia di al-Ṭūsī'. Nuove ricerche sono comunque ancora necessarie per conoscere le vie attraverso le quali la tradizione araba avrebbe potuto trasmettersi all'Occidente latino e in particolare a Copernico.
È con Copernico, comunque, che si compie la lunga storia dell'influenza araba sull'astronomia latina. Sarà sufficiente, infatti, qualche anno ancora perché le osservazioni di Tycho Brahe, con la loro precisione e la loro quantità, rendano superato ogni riferimento alla storia delle osservazioni antiche e, in particolare, ai dati degli astronomi arabi. Quanto ai modelli geometrici tolemaici e alle loro varianti arabe o latine, Kepler vi metterà fine all'inizio del XVI secolo. Sussisterà soltanto l'esigenza di spiegare i fenomeni sul piano fisico, un'esigenza a cui avevano tentato di rispondere gli astronomi orientali dei secc. XIII e XIV, soprattutto sotto l'influenza del lavoro critico effettuato nell'XI sec. da Ibn al-Hayṯam; in ogni caso, dopo la confutazione dell'esistenza delle sfere solide da parte di Tycho Brahe, questa necessità non sarà più legata da Kepler a una visione aristotelica del mondo, ma piuttosto a una tradizione matematica platonica.
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