La civilta islamica: condizioni materiali e intellettuali. Scienza e filosofia nel tardo-ellenismo
Scienza e filosofia nel tardo-ellenismo
La cultura urbana dell'Islam è erede della scienza e dell'educazione greca. Artigiani, architetti e artisti, amministratori e agrimensori, astronomi e medici attinsero non solo dalle tradizioni ma anche dalle discipline pratiche dell'ellenismo. La loro educazione era caratterizzata fin dai tempi antichi dall''enciclopedia', la enkýklios paideía dei Greci. Tuttavia soltanto poche vestigia della cultura linguistica e letteraria della grecità giunsero fino al tardo-ellenismo. I testi della letteratura epica, drammatica, poetica e della storiografia che si tramandavano ancora al sorgere dell'Islam erano scarsi e, al di fuori dell'area linguistica greca, dimenticati. Le materie d'insegnamento e i curricula delle scuole di grammatica e retorica greche non erano più in vigore nel tardo-ellenismo orientale sia perché la lingua greca era in declino sia perché la formazione professionale dell'élite era mutata. Nel corso della cristianizzazione i paradigmi della cultura greca scomparvero, tanto che, in buona parte, mancano nella letteratura siriaco-aramaica tradotta dal greco e sopravvivono al massimo nell'ambito della narrativa popolare. Nella tradizione araba si ritrovano, infatti, versi di Omero o di altri autori classici unicamente in gnomologi e nelle citazioni di medici e filosofi.
Soltanto la teoria e la prassi della scienza riflettevano la concezione unitaria del mondo classico, l'aspirazione a un sapere assoluto e universale. Il metodo delle scienze, a prescindere dalle applicazioni professionali, era apodittico e si basava sui due principî fondamentali della deduzione e della dimostrazione. L'obiettivo della conoscenza scientifica risiedeva nel raggiungimento della perfezione dell'essere umano fondata sul sapere, sulla conoscenza del bene, in cui si realizza la somma felicità. Su quest'unità di fondo si basava ancora nell'Islam la percezione della 'scienza degli Antichi' come una tradizione omogenea: un'unità di pensiero che ‒ anche dopo essere stata recepita dalla cultura arabo-islamica, subendo molteplici adattamenti linguistici e d'altro tipo ‒ fu concepita come comune.
Nel complesso la scienza degli 'stranieri' (degli ῾aǧam, che in quanto non arabi stanno agli Arabi come i bárbaroi agli Héllēnes) si contrappone come tradizione unitaria alle discipline arabo-islamiche dell'esegesi e dell'ermeneutica, le materie canoniche delle scuole giuridiche. La scienza degli 'stranieri' fu, in genere, trasmessa dai cristiani bizantini, siriaci e copti, dagli zoroastriani e dagli ultimi seguaci del pantheon greco stanziati a Ḥarrān, l'antica Carrhae nell'Alta Mesopotamia, e sopravvisse nelle biblioteche scolastiche, monastiche e di corte del Vicino Oriente, della Mesopotamia e della Persia, venendo strumentalizzata dai discendenti delle élite dirigenti di Bisanzio e dell'Iran. Erano in pochi a comprendere ancora il greco degli scrittori classici. La loro lingua era il greco dell'amministrazione e della chiesa bizantina e, nelle regioni orientali, soprattutto il siriaco-aramaico delle chiese cristiane. L'aramaico, divenuto lingua d'uso dell'intero Vicino e Medio Oriente dal tempo dell'Impero persiano degli Achemenidi, era utilizzato nelle sue diverse forme dagli Ebrei in Palestina, dagli Arabi nabatei in Siria, per poi essere trasformato in lingua ecclesiastica e letteraria dai cristiani della Mesopotamia, dai nestoriani e, ben presto, dai monofisiti del Vicino Oriente. Anche nella trasmissione e diffusione della scienza in Iran, l'aramaico rivestì un'importanza maggiore del medio-persiano (pahlavi), la lingua delle istituzioni dello Stato sasanide e della religione di Zoroastro.
Coloro che trasmisero le scienze al mondo arabo-islamico, dunque, appartenevano a una cultura multietnica e poliglotta, segmentata dal punto di vista confessionale e professionale. Il pensiero, le concezioni linguistiche e il metodo di cui erano portatori risentivano tuttavia, anche dopo essere stati tradotti, dell'autorità dei testi greci. Quest'unità intellettuale derivava da una comune eredità culturale, ma non costituiva un'unità sotto il profilo della dottrina sistematica. Dopo la perdita di una unitaria visione del mondo la filosofia aveva perduto la sua competenza definitoria; non a un'unica filosofia, ma a singole filosofie ricorrevano le religioni e le discipline scientifiche per legittimare i propri insegnamenti. La filosofia si presentava ai suoi eredi del mondo arabo-islamico come metodologia e come ideologia degli scienziati specializzati: come il pitagorismo e il platonismo dei matematici, l'aristotelismo degli astronomi, la religione gnostica riservata agli intellettuali nelle 'scienze occulte' dell'alchimia e dell'astrologia, la logica topica ed eristica nelle confessioni cristiane avvezze alle dispute religiose.
Alla molteplicità della tradizione intellettuale corrispondeva poi una molteplicità dovuta ai diversi canali professionali della trasmissione. A pervenire agli Arabi non è 'la' scienza, non è 'la' filosofia degli Antichi, ma sono le varie scuole e i sistemi tra loro concorrenti dei vari autori della mediazione. Le strutture d'identità corrispondono alla molteplicità delle scuole, delle fondazioni teoriche, della provenienza politico-religiosa e degli ambiti di attività professionale.
Filosofia: metodo e concezione del mondo
I grandi pensatori dell'Antichità svilupparono i loro metodi e sistemi in competizione con gli scienziati e in contrasto con i giuristi e i retori. I filosofi contendevano con i matematici, reclamando ciascuno per l'oggetto del proprio studio la qualifica di realtà suprema, nonché di sommo bene. Il leggendario Pitagora riteneva che la realtà fosse nelle grandezze astratte della matematica: per lui il mondo è numero; la dottrina delle Idee di Platone, sviluppata in contrapposizione alla realtà illusoria dei sofisti e per la quale nelle Idee si ha una coincidenza di verità, realtà e sommo bene, ha qui le sue basi. Quanto ad Aristotele, egli negava una sussistenza separata tanto agli enti matematici quanto alle forme, ma orientava la propria teoria verso l'apodissi, reclamando con ciò al modello della matematica la qualifica di scienza deduttiva e dimostrativa. I neoplatonici, primo fra tutti Proclo, il più sistematico della scuola di Plotino, ritenevano possibile cogliere l'essenza delle cose attraverso la matematica, non soltanto in virtù di speculazioni numeriche d'ispirazione pitagorica, ma anche mediante una compenetrazione filosofica degli Elementi di Euclide; i neoplatonici perfezionarono al tempo stesso il modello del mundus intelligibilis come apodissi more mathematico con assiomi, premesse e deduzioni.
Da un lato, quindi, siamo di fronte a una filosofia che, fin dalla sua istituzione come scienza da parte di Aristotele e della sua scuola, manifesta l'ambizione 'professionale' di una competenza che abbraccia tutte le arti e le conoscenze specifiche, laddove queste ultime sono considerate come elementi di una paideía, ossia di una propedeutica alla filosofia. Dall'altro lato, in epoca ellenistica, soprattutto nella Stoa, la filosofia stessa è considerata come una disciplina particolare, una dottrina dell'arte di vivere, della téchnē perì tòn bíon secondo l'exemplum Socratis. Di fronte a questo modo d'intendere la filosofia, la medicina restava l'unica disciplina scientifica in grado di misurarsi con essa come magistra vitae. Da qui le discussioni tra le due discipline contendenti riguardo il carattere filosofico o non-filosofico della medicina; per Galeno "il medico eccellente è al contempo filosofo" ed è personificato in Ippocrate, che (a dispetto dell'evidenza storica) avrebbe inserito il metodo logico nell'armamentario del medico-filosofo. Galeno istituisce, infatti, una correlazione sistematica tra le attività del medico e le discipline filosofiche (logica, fisica ed etica) e ha la pretesa di fondare una scienza autonoma, una teoria universale della dimostrazione e un'etica assoluta.
Anche la matematica 'professionale', in particolare l'astronomia, reclamava una competenza globale; è la matematica a rendere visibile nella realtà fisica l'essenza intelligibile del Cosmo. Tolomeo è un sostenitore della cosmologia aristotelica. Sua quindi è la teoria del movimento senza principio e senza fine del corpo celeste e del costante e perenne moto circolare della sfera delle stelle fisse; il presupposto di tale dottrina è che tutto ciò che è apparentemente dotato di moto proprio debba avere una causa motrice al di fuori di sé, fino a giungere alla causa ultima. Certo, per Tolomeo la matematica era la più grande, in quanto la più esatta, delle scienze deduttive e apodittiche, e in tal senso è legittimo affermare che la concezione del mondo dell'astronomia tardo-ellenistica, e in particolare dell'astrologia, è quella neoplatonica; una concezione fondata sull'idea di una sympátheia cosmica tra il mondo celeste e quello sublunare, tra macrocosmo e microcosmo: tutte le cose sono in tutte le altre, ma in ciascuna a suo modo (pánta en pãsin, oikeíōs dè en hekástē). Il matematico e l'astronomo sono detti philósophos (cui corrisponde la denominazione araba ḥakīm), che dal III sec. a.C. è il titolo ufficiale di tutti coloro che ricoprono una carica al Museo di Alessandria; in ciò va letta l'espressione d'orgoglio dell'uomo di scienza: il 'saggio' o lo specialista di una determinata disciplina rivendica ora un'ampia autorità.
Con l'egemonia del cristianesimo i contorni e l'importanza sociale delle antiche scuole di filosofia ‒ i platonici dell'Accademia, gli aristotelici del Peripato, stoici ed epicurei ‒ andarono sfumando. Il programma d'insegnamento filosofico delle scuole tardo-ellenistiche fu ridotto ai testi di base delle letture canoniche, la bibliografia filosofica si limitò ai commenti a Platone e (in prevalenza) ad Aristotele. Gli scritti scientifici dell'Accademia e del Peripato integravano il Corpus Platonicum e il Corpus Aristotelicum: tra questi, gli scritti di scienze naturali del discepolo di Aristotele Teofrasto e il De plantis di Nicola di Damasco (I sec. a.C., autore anche di un manuale di filosofia aristotelica). Erano i relitti di una filosofia che per lungo tempo aveva fatto concorrenza alle scienze particolari, rivendicando una superiorità basata sul sapere assoluto e incondizionato (epistḗmē anypóthetos) dei principî. Tuttavia, già da lungo tempo la filosofia aveva perso il suo ruolo di preminenza nell'istruzione e nella vita intellettuale, nonché il suo status sociale, a vantaggio delle scienze applicate. Gli ultimi commentatori di Aristotele della tradizione alessandrina, come si evince dalla loro dizione e da altri indizi, si guadagnavano da vivere facendo i medici, i grammatici, i retori e, a volte, gli astrologi. La filosofia antica sopravviveva come ideologia di astronomi e medici di professione. Ricorrendo anche al linguaggio della filosofia e ai metodi della logica, i teologi difendevano le loro contrastanti visioni di Dio e del mondo.
Dalle scuole ellenistiche fino all'epoca degli imperatori cristiani e agli albori dell'Islam si può ripercorrere un millennio di tradizione didattica e scientifica, non del tutto ininterrotta, ma mai interamente sopita, sotto la guida della filosofia. Per quanto sembri che le quattro cattedre di filosofia ‒ stoica, epicurea, platonica, peripatetica ‒ istituite dall'imperatore Marco Aurelio (161-180) siano sopravvissute fino al IV sec., non è chiaro se Plotino e i suoi discepoli ricevessero appannaggi ufficiali; dopo la morte di Porfirio, Giamblico, che operava nella città siriana di Apamea, era considerato il caposcuola dell'Accademia. Dalla fine del IV sec. in poi, tuttavia, si ha notizia di una serie ininterrotta di maestri neoplatonici dell'Accademia (sia pure come istituzione privata): Plutarco, Proclo, Marino (che rappresentava la corrente aristotelica), Isidoro e Damascio svolsero un'attività i cui effetti giungevano lontano. Nell'anno 529 l'imperatore Giustiniano vietò ai filosofi pagani dell'Accademia platonica di Atene l'insegnamento e confiscò i loro beni. Nello stesso anno l'alessandrino Giovanni Filopono redasse il De aeternitate mundi contro Proclo, e quasi contemporaneamente Benedetto da Norcia eresse il monastero di Montecassino nel luogo in cui sorgeva un tempio di Apollo: il 529 è quindi una delle date simboliche al confine tra Antichità e Medioevo. Questo non deve però far dimenticare il perdurare della tradizione antica e la sua continuità, nel graduale passaggio a nuove scuole e città. L'emigrazione in Iran, alla corte del sasanide Cosroe I Anushirwan, dei sette filosofi platonici dell'Accademia sotto lo scolarca Damascio non fu che un breve episodio. Sembra che Simplicio abbia fatto ritorno ad Atene (oppure ad Alessandria?), dove scrisse i suoi grandi commenti ad Aristotele (In Categorias, In Physica, In De caelo). L'acuta argomentazione di Michel Tardieu (Hadot 1978) tesa a dimostrare il soggiorno del filosofo a Carrhae, non ha retto al vaglio delle fonti arabe. Non va dimenticato, però, che Simplicio operava in segreto: nel suo commento al Manuale morale di Epitteto egli parla del ruolo del filosofo in uno Stato corrotto, del suo trionfo sulla tirannia che passa per il ritiro dalla vita pubblica; tale argomento sarà ripreso in seguito dai musulmani al-Fārābī e Ibn Bāǧǧa. Un dato ulteriore sulla continuità tra mondo antico e area islamica viene da Damascio che si stabilì a Emesa (Hims), nella natia Siria; qui, e in altre città del Vicino Oriente, la filosofia platonica e i rami della scienza a essa affini, erano presenti già da tempo. Nella vicina Apamea sull'Oronte, che diede i natali a Posidonio, avevano operato Numenio (II sec.) e Giamblico (IV sec.), discepolo del grande Porfirio di Tiro. A Gaza continuava a esistere la scuola di retorica che, a partire dalla fine del V sec., fu centro di una cultura cristiano-mediterranea di stampo antico; a Berito (l'attuale Beirut) resiste fino alla prima metà del VI sec. la scuola giuridica romana (che dopo il terremoto del 529 sembra sia stata trasferita a Sidone).
Prima tra tutti i centri dell'erudizione greca, la Scuola di Alessandria rimaneva il maggior laboratorio della ricerca scientifica; in filosofia essa rappresentava poi la propaggine più importante dell'Accademia di Atene (al punto da raccoglierne l'eredità, dopo la definitiva sospensione dell'insegnamento ad Atene intorno al 579). Ermia e suo figlio Ammonio (nato intorno al 435-445, morto intorno al 517-526), che aveva studiato ad Atene con Proclo, avevano portato ad Alessandria il platonismo accademico. I discepoli di Ammonio, Damascio e Simplicio, conferirono un nuovo splendore all'Accademia di Atene, mentre le sue opere, soprattutto i suoi commenti all'Organon, pubblicati in parte dagli allievi (tra gli altri Giovanni Filopono) in base agli appunti presi nel corso delle sue lezioni (apò phōnẽs), influirono in modo decisivo sulla propedeutica filosofica e l'interpretazione della logica aristotelica fino ai filosofi di Baghdad del X secolo.
La serie di cattedre ufficiali per l'insegnamento e la ricerca scientifica al Museo di Alessandria, ininterrotta dal IV sec. in poi, di cui Teone di Alessandria e sua figlia Ipazia furono tra i titolari più illustri, seguiti dagli ateniesi Ierocle, Ermia e Ammonio, non venne meno neanche sotto gli imperatori cristiani. Le autorità cristiane non imposero alcuna riforma e non pensarono, in un primo momento, neppure alla riduzione del programma didattico della Scuola di Alessandria. L'accordo tra Ammonio e il patriarca Atanasio II (489-496 ca.) non conteneva alcun obbligo di limitare l'insegnamento a determinati scritti aristotelici. Ammonio era uno specialista di Aristotele, ma il diradarsi dei commenti a Platone rispetto a quelli ad Aristotele non deve far pensare a un taglio con la tradizione platonica. L'obiettivo più alto restava l'interpretazione di Platone, considerata il culmine dell'indagine sulla verità. L'esegesi di Aristotele, il maestro della dimostrazione scientifica, era la premessa necessaria per la comprensione della verità suprema. Questo atteggiamento presuppone una concordia tra le auctoritates: in questa lettura, il principio unitario cui tende la filosofia di Aristotele non è altro che l'Uno neoplatonico. Certo, la società impose un ripudio del militante platonismo anticristiano dei pensatori ateniesi e ciò non fece che aumentare l'importanza dell'autorità scientifica di Aristotele. L'insistere sull'unità della verità filosofica, sull'armonia tra l'insegnamento platonico e quello aristotelico (soprattutto sulla questione della Creazione), è espressione di un atteggiamento di compromesso che rende disponibile la filosofia come interpretazione razionalistica anche per la religione monoteistica.
Avevano preparato il terreno a questa tendenza alcuni commentatori di Aristotele come Temistio e soprattutto Porfirio, nella fattispecie con il suo scritto Sul fatto che la dottrina di Platone e di Aristotele siano una sola. Il tópos di una tale 'filosofia di compromesso' alessandrina appare poi nei prolegomeni dei commenti alle Categorie nell'ambito dell'introduzione ad Aristotele: il Primo Intelletto aristotelico è allo stesso tempo causa finale e causa efficiente e viene identificato con lo spirito creatore del Timeo di Platone; questi è dunque il sommo Dio. Gli Arabi conobbero lo scritto di Ammonio secondo cui Dio, vale a dire il motore immobile di Aristotele, era causa efficiente dell'Universo.
L'attacco di Giovanni Filopono alla cosmologia pagana, la 'cacciata degli dei dal cielo' (in contrasto con Proclo, egli confuta la teoria dell'eternità del mondo) e la sua revisione della fisica aristotelica sono segnali di una rivoluzione scientifica che rimasero senza conseguenze immediate. È vero che la sua dottrina ha sortito effetti profondi nell'Islam (il filosofo al-Kindī e il teologo al-Ġazālī ricorrono ai suoi argomenti), ma i filosofi peripatetici dell'Islam (falāsifa) non seguirono pedissequamente il suo distacco dalla tradizione (al-Fārābī e Averroè sono tra i suoi critici più illustri, e il De aeternitate mundi di Proclo ci è pervenuto per intero soltanto in versione araba). Non fu Giovanni Filopono (che ricopriva soltanto la carica di grammatico, da cui il suo nome in arabo Yaḥyā al-Naḥwī), bensì, a quanto sembra, il matematico Eutocio a ottenere la cattedra dopo Ammonio; Olimpiodoro (caposcuola fino al 565 ca.) esprimeva nei suoi commenti a Platone una teologia non cristiana, neoplatonica; neanche i suoi successori cristiani Elia e David permisero che la fede influenzasse il loro insegnamento.
Intanto anche i dotti cristiani erano attratti in numero crescente da questa tarda fioritura dell'erede alessandrina dell'Accademia platonica a cavallo tra il V e il VI sec.; si trattava di studiosi alla ricerca di una formazione professionale nel campo della retorica e di un'educazione filosofica, medica e matematico-scientifica. Zaccaria Scolastico (m. 553), detto il Retore, giurista a Costantinopoli e in seguito vescovo di Mitilene, ha dipinto un vivace quadro di quest'ultima fioritura delle Scuole di Alessandria nella sua Vita Severi. I filosofi insegnavano sia al Museo sia nelle loro abitazioni private. Il monofisita Severo (m. 538), il futuro patriarca di Antiochia, venne ad Alessandria per studiare grammatica e retorica (dopo aver frequentato, come lo stesso Zaccaria Scolastico, il suo biografo, la scuola giuridica di Berito); egli seguì però anche il corso di filosofia. Cristiani e non cristiani, dunque, vivevano e studiavano in un'interazione completa anche se piena di tensioni; aspiranti teologi, astrologi e medici erano compagni di banco nei corsi propedeutici di filosofia. Anche Sergio di Reshaina (m. 536), uno dei maggiori medici-filosofi siri, era uno di loro. Ancora nel VII sec. si ha notizia di un filosofo di Alessandria, questa volta un cristiano, Stefano, al quale Eraclio I offrì una cattedra a Costantinopoli.
Il metodo della tradizione didattica è documentato, a partire dal II sec. d.C., sotto le forme del commento, il più importante mezzo di diffusione delle idee filosofiche. La segmentazione e la standardizzazione della dottrina filosofica in un ciclo di scritti scolastici e di commenti dipende dal suo essere legata a una norma curricolare, la quale esiste dal tardo-ellenismo: il corso di studi della Scuola di Alessandria che, iniziando con la logica, l'etica e la fisica aristotelica, e attraverso la matematica e la metafisica aristotelica, portava alla lettura di Platone fu trasmesso in buona parte agli Arabi. Base dell'insegnamento filosofico erano gli scritti didattici di Aristotele, che i peripatetici più antichi interpretavano mediante parafrasi esplicative; più tardi si ricorse soprattutto ai grandi commenti letterali, in cui il testo viene diviso in segmenti (lemmi) e spiegato dettagliatamente. Massima autorità e modello metodico divenne in questo campo il peripatetico Alessandro di Afrodisia (200 d.C. ca.). Tali commenti rispecchiano la pratica dell'insegnamento, testimoniataci anche come prassi dell'Accademia ateniese a partire da Proclo (410 ca.-485): synanágnōsis, l'esposizione sotto la guida del maestro. Dopo Ammonio (440 ca.-520 ca.) la Scuola di Alessandria fissò per tali commenti schemi prestabiliti, che suddividono il testo in grandi brani di lettura (práxeis) e fanno seguire alla loro esposizione dottrinale (theōría) una dettagliata esegesi letterale (léxis). Anche l'arte isagogica e quella sistematica sono trattate a partire dal VI sec. secondo uno schema fissato da Ammonio ed elaborato da Olimpiodoro (morto dopo il 565); tradizionalmente i prolegomeni alla filosofia precedono i commenti all'Isagoge di Porfirio, i primi rudimenti di logica si insegnano, infatti, nelle introduzioni allo scritto sulle categorie, come avviene ancora nella letteratura introduttiva araba a partire da al-Kindī, il quale si ricollega strettamente a David nelle sue versioni dei prolegomeni alessandrini, preposti dal nestoriano Abū 'l-Faraǧ ibn al-Ṭayyib (m. 435/1043) ai suoi commenti all'Isagoge e alle Categorie.
Soltanto Stefano, che poco dopo il 610 ottenne una cattedra all'Accademia di Costantinopoli fondata dall'imperatore Eraclio I, diede risalto per primo alla dottrina cristiana nei suoi scritti, senza però tentare una revisione totale del materiale tradizionale. È notevole quanto la sua forma di neoplatonismo cristiano sia vicina a quella degli scritti plotiniani e procliani arabi, specialmente il suo commento al Libro III del De anima di Aristotele, che nella tradizione greca prende il posto della parte corrispondente nel commento di Filopono, ancora del tutto libero da elementi cristiani. Un altro frutto dell'incontro fra cristianesimo e scuola neoplatonica è l'opera scritta, sotto il nome di Dionigi Areopagita, noto come discepolo di Paolo, da un autore vissuto intorno al 500; essa è, infatti, un adattamento cristiano della dottrina neoplatonica basata sulla 'teologia platonica' di Proclo. Tradotta due volte in siriaco, quest'opera potrebbe aver contribuito a influenzare in senso monoteistico l'interpretazione delle fonti neoplatoniche a disposizione dei traduttori arabi intorno all'anno 800. Per contro, la propedeutica filosofica della teologia bizantina, il cui ultimo grande rappresentante fu Giovanni Damasceno, attivo all'epoca degli Omayyadi, non ha trovato continuatori diretti nella tradizione araba.
Trasmesse negli scritti scolastici degli interpreti neoplatonici di Aristotele, costantemente accompagnate dalla dottrina aristotelica del metodo e dei principî, e purificate grazie all'adattamento cristiano dall'impronta del politeismo greco, la cosmologia e la noetica neoplatoniche continuarono a vivere nella concezione del mondo dei filosofi islamici. Il nome di Plotino, però, cadde nel dimenticatoio: con il titolo di Theologia Aristotelis i testi di Plotino, come anche quelli di Proclo, armonizzati, interpretati e codificati, fanno il loro ingresso nelle fonti peripatetiche dei lettori arabi. Sotto le mentite spoglie dell'inattaccabile Aristotele e sotto la scorta del rispettabile Porfirio, Plotino ha quella che è stata definita "la forza dell'anonimato" (Rosenthal 1974).
L'enciclopedia filosofica e le scienze matematiche
In confronto alla filosofia, insigne ma sempre più discussa, furono le singole scienze a guadagnare profilo e autorità. Nel primo ellenismo l'istruzione matematica trovava impiego soltanto nella formazione professionale pratica di architetti, agrimensori e ingegneri; la geografia era tra le materie principali studiate dall'élite amministrativa, insieme alla retorica e alla grammatica. Anche nel corso di filosofia si inseriva lo studio, per quanto solo teorico, delle altre discipline. Nella tradizione pitagorica e platonica, soltanto gli aspetti teorici della matematica e dell'astronomia erano parte della propedeutica filosofica. Nella filosofia le scienze matematiche e la medicina erano coltivate ad Alessandria fin dall'ellenismo, e a partire dal IV sec. troviamo matematici e astronomi competenti tra i titolari di cattedra (philósophoi) del Museo. Agli Arabi arriva così l'intero ciclo delle scienze che qui si insegnano, il canone stabilito nella Tarda Antichità delle auctoritates e dei testi di base, e la forma tradizionale dell'insegnamento mediante commenti e compendi.
Il curriculum degli studi di filosofia iniziava con l'Isagoge di Porfirio, l''introduzione' allo scritto sulle categorie di Aristotele, preceduta da un'introduzione generale alla filosofia, e proseguiva con la logica aristotelica. L'etica, propedeutica per il filosofo, passò in secondo piano, per ridursi più tardi a una preparazione morale sulla scorta del Manuale di Epitteto o dei Dicta aurea di Pitagora cui era riservata una fase anteriore agli studi. Sempre nella scuola, veniva poi insegnata, in parte dai medesimi docenti, la matematica con le discipline 'del Quadrivio': si studiava l'aritmetica su testi di Nicomaco (teoria dei numeri); la teoria musicale su quelli di Aristosseno; la geometria di Euclide e, per la geodesia, Erone; l'astronomia nonché l'astrologia secondo Tolomeo, Teodosio (per la sferica) e Paolo di Egina (la cui introduzione alla prassi dell'astrologia, a partire dal 600 ca., finì per far passare in secondo piano la teoria di Tolomeo). Nei corsi superiori si leggeva la teologia aristotelica della Metafisica (cioè sostanzialmente il Libro XII) e si arrivava infine alla filosofia di Platone.
Alcune di queste discipline, soprattutto la matematica e l'astronomia, avevano goduto già in partenza di una grandissima affinità con la filosofia; ma le scuole neoplatoniche davano loro uno spazio sempre crescente. L'Introductio arithmetica di Nicomaco di Gerasa era stata scritta, tra l'altro, come introduzione alla teoria dei numeri dei platonici; Proclo, Damascio e Simplicio avevano commentato gli Elementi di Euclide e Proclo aveva inoltre redatto un compendio dell'astronomia di Ipparco secondo Tolomeo. Ammonio, come Giamblico prima di lui, tenne lezioni su Nicomaco e compilò alcune tavole matematico-astronomiche (pervenuteci solamente in arabo); il suo successore Eutocio era uno specialista di scienze naturali, che con i suoi commenti ad Archimede, Tolomeo e Apollonio di Perge portò avanti la grande tradizione di Alessandria.
Con la professionalizzazione delle scienze specialistiche, queste divennero il veicolo per eccellenza del metodo e della concezione del mondo dei filosofi. Complessivamente basate sul metodo dell'argomentazione razionale, ma private della loro comune concezione del mondo, esse pervennero, infine, nel bagaglio delle singole scienze pratiche e professionali e, lungo i canali separati delle tradizioni linguistiche e nazionali, nelle città dell'ancor giovane Islam. Il patrimonio del loro sapere è tradizione erudita, anche se in sinergia e talvolta in concorrenza con la pratica e l'esperienza artigianale, mercantile e amministrativa.
Con la tradizione accademica dei testi greci concorre e converge la tradizione autoctona delle pratiche professionali radicate nell'area mediterranea. I manuali di aritmetica a uso dei mercanti e degli scrivani spiegano e codificano antichi procedimenti, di certo assai diffusi nel bacino del Mediterraneo. Soltanto gradualmente s'impone accanto a essi l'aritmetica 'indiana', il sistema posizionale decimale basato sulle cifre a noi familiari, in luogo dell'antica notazione numerica con le lettere dell'alfabeto.
Gli Elementi di Euclide costituivano il libro fondamentale della geometria, del metodo e dell'argomentazione matematica in genere. Anche nell'epoca dell'Islam classico, come già nell'Antichità, gli Elementi sono l'opera più utilizzata e commentata nel campo delle scienze esatte. Vi si aggiungevano altre due opere di Euclide: i Dati e i Fenomeni, che insieme all'Ottica costituivano i 'libri intermedi' anteriori e propedeutici a quelli superiori sull'astronomia. Sul tema dei Fenomeni, la geometria sferica, l'analisi e il calcolo geometrico del modello cosmologico sferico, gli studiosi arabi disponevano anche di un'opera del predecessore di Euclide, il De sphaera quae movetur di Autolico, oltre agli Sphaerica di Erone e di Menelao. Quest'ultimo scritto conteneva il teorema delle trasversali di Menelao sulla 'figura delle secanti' (detta anche 'regola delle sei grandezze'), fondamento dei calcoli sui triangoli sferici prima della scoperta del teorema sferico dei seni da parte dei matematici arabi. Determinanti nell'ambito della trigonometria sferica sono state naturalmente anche le opere dell'astronomia greca, come l'Almagesto di Tolomeo (II sec. d.C.). Base della geometria di ordine superiore erano gli scritti di Archimede e di Apollonio di Perge, di quest'ultimo soprattutto le Coniche e il De sectione rationis sull'intersezione di rette secondo proporzioni prestabilite. Partendo da un problema di fisica, le proprietà ottiche degli specchi parabolici, l'opera di Diocle sugli specchi ustori fornì anche un contributo alla matematica.
Oggetto della Meccanica sono i 'dispositivi ingegnosi', come le catapulte o le macchine di elevazione, automata pneumatici e idraulici. Ma i matematici arabi appresero anche la meccanica intesa nel senso delle leggi fisiche, della statica e della dinamica, da fonti greche: dalla Mechanica pseudoaristotelica, dai trattati di Euclide sulla bilancia e sulla teoria della statica che contenevano i modelli geometrici del principio della leva. Gli scritti di Archimede sul principio della leva, che si fondavano su basi statico-geometriche e sulle leggi dell'idrostatica, diedero l'avvio allo sviluppo della scientia ponderum. La tradizione araba conosce anche un trattato archimedeo sull'orologio ad acqua. I fondamenti e gli spunti per la meccanica delle macchine e dei dispositivi automatici erano forniti dagli scritti di Filone di Bisanzio (I sec. d.C.) e degli alessandrini Erone (attivo nel 65 d.C. ca.) e Pappo (III sec. d.C.). La teoria fisica su cui si basano dà conto del sollevamento 'pneumatico' di gas e di liquidi con la coesione degli atomi tra cui si interpone il vuoto. I rifacimenti arabi di Filone e di altri testi in nostro possesso rivelano comunque precedenti aggiunte tardo-ellenistiche e bizantine oltre a quelle islamiche; la meccanica islamica non riflette soltanto la tradizione letteraria erudita, ma anche quella pratico-artigianale.
Per quanto riguarda l'astronomia, nessuna disciplina dell'antica tradizione scientifica ebbe contatti così multiformi con tutti i rami dell'insegnamento e tutti gli ambiti della pratica. Il calcolo matematico dei moti celesti entrò al servizio della cosmologia filosofica; le sue applicazioni in astrologia erano parte integrante tanto del bagaglio metodologico dei medici e degli alchimisti quanto della concezione popolare del mondo. Restava compito dello studioso custodire e interpretare il sapere tramandato e, se si imbatteva in nuove osservazioni, "salvare i fenomeni" (sṓzein tà phainómena), applicando la teoria tradizionale nell'ambito della prestabilita concezione del mondo, secondo il principio metodologico che già Platone aveva indicato agli astronomi. I problemi di ordine teorico ‒ conflitti tra modelli, osservazione e calcolo del moto stellare ‒ e pratico davano lo spunto per perfezionare le osservazioni e i metodi, cosa in cui la scienza arabo-islamica supererà le scienze a lei contemporanee fino agli inizi dell'Età moderna.
Anche per l'astronomia le fonti ellenistiche sono in soprannumero, per quanto la loro prima ricezione nell'Islam avvenga tramite gli astrologi iranici, che avevano arricchito la tradizione sasanide di concezioni indiane e metodi trigonometrici. La traduzione e l'interpretazione dell'Almagesto, l'opera fondamentale di Tolomeo, veicolata dalla tradizione greco-bizantina e siriaca, portò gli astronomi di Baghdad, sulla base di nuove osservazioni effettuate sotto il califfo al-Ma᾽mūn, al riesame di parametri che si rivelarono contraddittori. L'Almagesto divenne il fondamento supremo e dominante dell'astronomia medievale; forniva la prima descrizione completa, dettagliata e quantitativa di tutti i moti celesti, riassumendo, integrando e inserendo in un sistema teorico i risultati dei predecessori greci; esso era integrato dal 'prontuario astronomico' di Teone di Smirne (metà del II sec. d.C.), compilato in base all'Almagesto, e dalle Ipotesi planetarie dello stesso Tolomeo, che presentano la teoria dei moti planetari costituente il modello tolemaico in senso stretto.
La scienza dei 'giudizi' degli astri sui processi del mondo sublunare e le sorti dei loro abitanti ‒ ossia l'astrologia ‒ si inquadra come applicazione pratica nella cerchia delle discipline matematiche di quello che nella tradizione occidentale fu il Quadrivio. Astronomi illustri si sono occupati, nell'Antichità come nell'Islam, anche di astrologia; l'interpretazione degli astri al servizio di qualche principe era, per molti di loro, anche un modo per guadagnarsi da vivere. L'astronomia matematica forniva i metodi per calcolare le posizioni dei pianeti, dei segni dello zodiaco e altri punti sull'eclittica, le loro reciproche costellazioni e il loro periodico ritorno.
Con le scienze "accademiche", radicate nella tradizione scolastica del canone ellenistico, l'astrologia ha in comune il fatto di basarsi su un corpus di antiche autorità; con l'alchimia e la magia, i cui scritti si basano sulla stessa concezione di un mondo sottoposto agli 'influssi' cosmici (hyporroḗ, fayḍ) e sono pieni di dati astrologici, condivide l'importanza degli apocrifi tardo-ellenistici, le 'rivelazioni' di Ermete Trismegisto, gli scritti pseudoepigrafici di Aristotele e Zoroastro. Come l'astronomia, anche l'astrologia scientifica ricava da Tolomeo i suoi testi fondamentali, la Tetrabiblos e lo spurio Centiloquium. Fonti importanti dell'astrologia greca furono attinte, tramite gli studiosi iranici degli inizi dell'epoca abbaside, da versioni mediopersiane dei Sasanidi, tra le quali le Anthologiae di Vettio Valente (II sec. d.C.), in cui la prognosi della durata di vita è messa in relazione con il grado di longitudine dell'ōroskópos. Anche il Carmen astrologicum di Doroteo di Sidone (I sec. d.C.) fu recepito in tal senso: vi si reperivano, oltre alla genetlialogia e all'astrologia mondana, anche un'introduzione al metodo dell'astrologia della katarchḗ, finalizzata alla scelta del momento propizio per intraprendere azioni importanti. Furono inoltre tradotti, dal persiano, i Paranatellonta di Teucro di Babilonia, sull'influsso di stelle o costellazioni che 'si levano simultaneamente' a un segno o grado dello zodiaco a nord o a sud dell'eclittica. Dalla tradizione indo-persiana proviene invece la teoria delle congiunzioni dei tre pianeti superiori (Marte, Giove, Saturno), e un contributo specificamente persiano è la loro applicazione al concetto degli 'anni platonici' per calcolare i grandi periodi della storia umana.
Per quanto riguarda la medicina, a differenza dei matematici che avevano gli Elementi di Euclide e degli astronomi che attingevano dall'Almagesto, non era possibile trovare nella tradizione greca un testo altrettanto autorevole ed esaustivo; i medici disponevano invece di una raccolta di scritti ippocratici (soprattutto quelli commentati da Galeno) e di un canone delle opere di Galeno standardizzato ad Alessandria. La tradizione araba permette di ricostruire il curriculum degli studi di medicina, di cui si è conservato un documento dell'ultimo stadio di età ellenistica preislamica (Zaki Iskandar 1976). Ciò si può osservare in particolare nel corso dei Summaria Alexandrinorum, i testi di medicina che contengono le nozioni basilari tratte dai sedici testi considerati fondamentali fra le opere di Galeno con l'indicazione dei relativi titoli, ma rielaborate con i materiali rilevanti estratti da altri scritti galenici. La trasmissione di alcuni testi terapeutici, che in epoca tardo-ellenistica riassumevano i fondamenti tratti da Galeno e da altri, è testimoniata dalla ricezione araba: estratti della Synagoge di Oribasio, da cui deriva l'Hypomnema di Paolo di Egina, che con la sua chirurgia, trattata nel Libro VI, avrà grande influenza, e i Therapeutica di Alessandro di Tralle, i manuali pratici di Rufo di Efeso (seconda metà I sec. d.C.), la ginecologia di Sorano di Efeso (II sec. d.C.). Opera fondamentale della farmacologia è, infine, il De materia medica di Dioscuride.
Ancora nel VI e VII sec. d.C. la medicina alessandrina formò medici che diedero nuovi impulsi ai loro successori arabi: tra di essi il medico e filosofo siro Sergio di Reshaina, Paolo di Egina (che studiava ad Alessandria all'epoca della conquista araba) e il presbitero Ahrūn, uno dei primi autori i cui testi furono tradotti in arabo.
L'intrusione di momenti irrazionali e concezioni mistiche nella filosofia neoplatonica che si registra a partire da Porfirio, ma soprattutto dal V sec. d.C. in poi, rese possibile l'accesso per la scuola neoplatonica non soltanto all'astrologia (da sempre inscindibile compagna dell'antica astronomia, di cui costituiva oltretutto l'applicazione più remunerativa) ma anche alla dottrina occulta degli oracoli caldaici e di Ermete Trismegisto, alla poesia orfica, alla teurgia e all'alchimia. A costituire il libro di testo per l'astrologia erano gli Isagogica dell'alessandrino Paolo (IV sec. d.C.). Olimpiodoro è probabilmente l'autore di un corso di astrologia dell'anno 564. Lo stesso Stefano di Alessandria insegnava ancora intorno alla metà del VII sec. matematica e astronomia o astrologia ed era anche noto come alchimista. I commenti a Platone e le monografie di Giamblico e Proclo, Damascio e Olimpiodoro testimoniano in modo eloquente questo sviluppo.
Mentre i neoplatonici non esitavano a porre limiti ben precisi all'accettazione di dottrine estranee, eterogenee rispetto alla filosofia, la cultura popolare appariva meno selettiva. Ad Alessandria, che fu in tal senso uno dei centri dell'occultismo greco-orientale, circolava una vasta letteratura proveniente dalla zona franca tra superstizione e cultura filosofica superficiale che fu l'effetto di quella che con Heinrich Dörrie potremmo definire una "ri-primitivizzazione di ciò che prima era differenziato" e che, usando i nomi pseudoepigrafici di autori illustri, sapeva spesso darsi una veste alquanto rispettabile. L'ampia diffusione di questa letteratura è testimoniata ancora una volta dalla tradizione araba, che supera di gran lunga gli scarni resti di quella greca; ma dato che non è stata trasmessa lungo i canali esaurientemente documentati e ricostruibili della tradizione scolastica, le origini dei testi giunti sino a noi sono avvolte nell'ombra. La popolarità e l'onnipresenza delle pratiche occulte e, in stretta connessione con esse, il perdurare della religione gnostica nel Vicino Oriente sono testimoniati, indipendentemente dalla tradizione letteraria, e in anticipo sull'opera dei traduttori, dalle cronache dei molteplici fenomeni di sincretismo culturale all'epoca degli Omayyadi, quali le raffigurazioni dei regnanti nelle regge di Mšattā e Quṣayr ῾Amrā in Siria, le pratiche alchimistiche del principe Ḫālid ibn Yazīd e i versi, dalle vaghe tendenze cristiano-gnostiche, del califfo Yazīd ibn al-Walīd (uno degli ultimi prima del crollo della dinastia).
Affini alla scienza volgarizzata, e come questa di casa nell'ambiente dell'amministrazione di corte del primo Islam, tutta improntata alla cultura ellenistica, sono l'etica principesca popolare e l'etica espressa in sentenze delle gnomologie greche. Il più importante complesso di argomenti e luoghi topici deriva dal romanzo ellenistico sulle gesta di Alessandro Magno. L'epistolario tra Alessandro e il suo maestro Aristotele, romanzato nelle scuole di retorica, fu tramandato da fonti greche anche attraverso la mediazione iranica. Ugualmente come ammaestramento di Alessandro si apre uno speculum regis pseudoaristotelico, che attraverso l'arabo arriverà in Europa sotto il titolo di Secretum secretorum (contiene tra l'altro un capitolo sulla fisiognomica); il suo rifacimento arabo inizia con un'apocrifa storia di ritrovamento, allo stesso modo di molte opere delle scienze occulte (come anche la versione araba del libro pseudoaristotelico De mundo).
Già molto tempo prima della conquista islamica Alessandria aveva esaurito il suo ruolo di capitale intellettuale dell'area mediterranea; l'incendio della biblioteca a opera dei conquistatori arabi è senz'altro leggenda. A trasmettere agli studiosi arabi la sua tradizione scolastica fu il cristianesimo ellenizzato dell'Oriente e la sua letteratura in lingua siriaco-aramaica.
L'eredità dell'erudizione alessandrina fu raccolta nell'area di lingua greca da Bisanzio, che la mise però al servizio della teologia. Da Alessandria, Stefano fu chiamato ad insegnare a Costantinopoli nell'Accademia imperiale di Eraclio (610-641). I traduttori arabi dell'VIII e IX sec. trovano sì nell'area culturale bizantina i manoscritti delle opere da loro cercate, ma ormai nessuna cultura scientifica autonoma. Due secoli dopo Stefano, Fozio (patriarca di Costantinopoli dall'858 all'867 e dall'877 all'886) svolgeva di nuovo un'attività scientifica di un certo rilievo, scrivendo commenti e testi didattici di filosofia aristotelica; tra i suoi allievi, Areta (arcivescovo di Cesarea dal 901) e Zaccaria di Calcedonia hanno reso grandi servigi alle scienze. Soltanto nell'XI sec. la scienza nella sfera dell'Impero romano d'Oriente riceve nuovi impulsi con la fondazione dell'Accademia di Costantinopoli, con la rinascita della filosofia greca dovuto al platonico Michele Psello e ai suoi avversari aristotelici; nei confronti delle scienze arabo-islamiche i bizantini d'ora in poi non avranno più nulla da insegnare, ma solo da imparare. (Oehler 1969)
Un ruolo significativo nella trasmissione dell'ellenismo preislamico nel Vicino Oriente svolse la già menzionata città di Ḥarrān, centro di una religione astrale ellenizzata, che si mantenne fino all'epoca abbaside (gli abitanti sfuggirono alla persecuzione del califfo al-Ma᾽mūn facendosi passare per Ṣābi᾽a, cioè Sabei, i quali nel Corano erano citati tra gli Ahl al-Kitāb, 'la gente del Libro', ossia coloro che professano una religione basata su un libro sacro). La cura per l'astrologia, l'astronomia, la matematica e l'occultismo ermetico si univa in tali 'Sabei di Ḥarrān' (secondo una sintesi già nota all'Accademia ateniese) alla filosofia neoplatonica. Nel IX e nel X sec. famiglie di studiosi sabei originarie di Ḥarrān ricoprivano cariche importanti a Baghdad, e ancora nel X sec. uno storico arabo, al-Mas῾ūdī, riconobbe alcune citazioni di Platone nelle iscrizioni di alcuni edifici di Ḥarrān. Va ricordato, comunque, che il nome Ṣābi᾽a è spesso una denominazione generica con cui si indicavano i rappresentanti di concezioni 'pagane' preislamiche.
La nascita dell'Islam si colloca nel mondo ellenistico del Vicino Oriente, un ellenismo che tuttavia non si propagava esclusivamente in lingua greca: in Oriente le parlate volgari avevano iniziato a rimpiazzare la lingua della koinḗ anche nei centri culturali urbani. Il greco, che in Oriente era in larga misura soltanto la lingua del ceto superiore (i Hrōmaĩoi), in Egitto, Palestina, Siria e Mesopotamia (Adiabene) non aveva mai sostituito del tutto gli idiomi nazionali (una tale sostituzione era avvenuta solo in Asia Minore); oltretutto lo scisma religioso favorì l'ascesa di lingue ecclesiastiche nazionali (siriaco, copto, armeno, georgiano). Già intorno al 400, l'autrice della Peregrinatio Aetheriae, raccontando del suo pellegrinaggio in Terra Santa, riferisce che durante la messa la liturgia greca veniva tradotta in siriaco da un diacono.
A partire dal IV sec. le istituzioni ecclesiastiche e le scuole monastiche dell'area aramaica orientale tramandavano l'eredità greca in lingua siriaco-aramaica, e anche nella letteratura persiana dell'Iran sasanide (che oltre a quella greca custodiva pure la tradizione indiana) la civiltà e la scienza greche continuano a far sentire la loro importanza. Una parte notevole delle fonti scientifiche ellenistiche non è stata quindi tradotta in arabo da originali testi greci, ma da versioni e rifacimenti siriaco-aramaici. Anche le fonti persiane giunsero nei centri della cultura islamica emergente sia direttamente (soprattutto nel primo periodo della ricezione araba) sia attraverso il siriaco.
Scuole nestoriane nell'Impero sasanide
A partire dallo scisma della Chiesa orientale anche la trasmissione della letteratura profana seguì presso i monofisiti e i nestoriani strade diverse. Emigranti della Scuola di Nisibi, forse già con Efrem (303 ca.- 373), uno dei padri della Chiesa siriaca, continuarono l'insegnamento sul suolo romano a Edessa, dopo che nel 363 la città di Nisibi era caduta in mano ai Persiani. In seguito alla condanna di Nestorio nel Concilio di Efeso (431) la 'scuola persiana' di Edessa rimase per qualche tempo il centro spirituale del cristianesimo siriaco orientale. A Edessa il vescovo Hībā (m. 457) e altri insegnanti della scuola tramandavano mediante traduzioni in siriaco da un lato la teologia antiochena (Teodoro di Mopsuestia), dall'altro lato la logica aristotelica. Nell'anno 489, tuttavia, la Scuola di Edessa fu chiusa dall'imperatore Zenone e, dopo il suo ingresso nella Mesopotamia romana, da allora in poi la letteratura nestoriana si sviluppò prevalentemente nell'ambito della chiesa dello Stato sasanide, che riuscì a prevalere sullo zoroastrismo e sul manicheismo, espandendosi fino all'interno dell'Asia. Uno sviluppo autonomo della lingua e della scrittura nestoriana siriaca orientale rispetto a quella siriaca occidentale ne fu la conseguenza.
I centri dell'insegnamento nestoriano nella Mesopotamia e nella Persia sasanide erano le Scuole di Nisibi (con annessa una scuola medica), di Seleucia-Ctesifonte, la capitale sasanide, e di Jundishapur (in siriaco Bēt Lāpāṭ) nel Khuzistan (Elam). Quest'ultima si guadagnò una fama duratura, più che per la sua scuola di teologia soprattutto per il suo ospedale e per l'annessa Accademia di medicina; istituito forse già dal fondatore della città, Šāpūr I (r. 240-273), l'ospedale raggiunse la sua massima fioritura nel VI sec. d.C., grazie al sostegno di Cosroe I Anushirwan, rimanendo fino agli inizi dell'epoca abbaside un luogo d'esercizio di medici stimati e un centro di tradizione erudita della medicina greca in lingua siro-aramaica. Un legame diretto porta poi da Jundishapur a Baghdad: i medici di Jundishapur, dopo la fondazione di Baghdad, capitale del califfato abbaside, furono chiamati da al-Manṣūr (r. 754-775) a prestare la loro opera presso l'ospedale locale. Le famiglie dei Baḫtīšū῾ (Ǧurǧīs ibn Ǧibrīl, m. 768), dei Māsawayh (in particolare Yūḥannā ibn Māsawayh, Giovanni Mesue, 163-243/777-857) e altre, con la trasmissione e la traduzione degli scritti per la scuola di autori greci dal greco e dall'aramaico, posero proprio a Baghdad le basi della medicina scientifica in lingua araba, determinandone il corso con i loro discendenti e allievi fino al X secolo.
Anche gli studi filosofici, segnatamente quelli di propedeutica e di logica secondo la tradizione alessandrina, furono sviluppati nelle scuole nestoriane sul suolo iranico. Scritti originariamente in medio-persiano, ma pervenutici soltanto in rifacimenti siriaci e arabi, i prolegomeni alla filosofia e alla logica nonché i commenti al De interpretatione e agli Analitici primi di Aristotele, che Paolo il Persiano dedicò al re Cosroe I Anushirwan, sono notevoli anche perché Paolo, contrariamente a quanto accadeva negli scritti propedeutici degli alessandrini (anche quelli redatti da cristiani), utilizza nella sua introduzione alla logica citazioni bibliche allo scopo di esaltare la filosofia, ponendo il sapere filosofico al di sopra della dottrina religiosa, gravata da dubbi e contraddizioni. Un frammento dell'introduzione di Paolo alla filosofia è attestato in traduzione araba. Nella cerchia di Cosroe I, il sovrano che agli inizi del suo regno accolse i filosofi dell'Accademia ateniese esuli dopo il decreto giustinianeo del 529, vi era senza dubbio un'apertura alle idee liberali. Alla corte di Cosroe II (590-628), Ābā di Kashgari si fece un nome come conoscitore del greco e del persiano nonché del siriaco e dell'ebraico e praticò sia la medicina sia l'astronomia. Nello stesso ambito furono anche tradotti in siriaco da versioni medio-persiane alcuni racconti profani. Le favole di animali del Pañcatantra indiano furono tradotte dalla versione medio-persiana di Burzōe, realizzata per Cosroe I, e divennero lo scritto arabo Kitāb Kalīla wa-Dimna (Libro di Kalīla e Dimna; in siriaco Qalilag w-Damnag). L'introduzione del traduttore persiano (pervenutaci solo nella versione araba di Ibn al-Muqaffa῾) è notevole per la sua liberalità: sopra le religioni rivelate che sono in contrasto tra loro il medico-filosofo pone l'etica della ragione. Anche la leggendaria vita di Alessandro Magno fu tradotta in siriaco dal persiano.
Monofisiti
L'area linguistica siriaca occidentale della chiesa cosiddetta giacobita era più fortemente ellenizzata e vicina ai centri della tradizione greca. L'attività di traduzione iniziò qui soltanto con il declino della conoscenza della lingua greca tra la popolazione colta, quindi alquanto più tardi che nell'Oriente mesopotamico, a partire dal VI sec. d.C., con le traduzioni e i commenti all'Organon di Proba, ma in buona parte solo in epoca islamica (VII-IX sec. d.C.). Anche qui il numero e la varietà tematica delle opere tradotte è indice di un vivace interesse per tutti i settori delle scienze greche, un'attività che ancora una volta ha trasmesso agli Arabi testi fondamentali.
Uno dei primi e al tempo stesso più versatili traduttori era Sergio di Reshaina (nell'Alta Mesopotamia), che aveva studiato filosofia e medicina ad Alessandria. Sulle sue traduzioni delle opere più importanti di Galeno si basavano ancora nel IX sec. le versioni arabe quando mancavano traduzioni più recenti o copie greche. Sergio è citato anche in un manuale di medicina galenica pervenutoci anonimo, anch'esso della Scuola alessandrina e usato dai medici agli inizi dell'epoca abbaside: Yūḥannā ibn Māsawayh e ῾Alī ibn Rabban al-Ṭabarī (m. 240/855 ca.). Per lo studio della filosofia egli scrisse alcuni testi introduttivi ai libri dell'Organon, alla cosmologia "secondo Aristotele", basata su uno scritto di Alessandro di Afrodisia sulla Causa Prima, traducendo anche lo pseudoaristotelico De mundo. Tradusse inoltre scritti dello Pseudo-Dionigi Areopagita, contribuendo così a diffondere un'interpretazione cristiana della filosofia neoplatonica. Benché essi non siano stati tradotti in arabo (al pari di una seconda traduzione siriaca, realizzata nel VI sec. d.C. da Foca di Edessa), il neoplatonismo teistico di questa tradizione ha contribuito a dare un'impronta alla ricezione di Plotino e di Proclo prima che arrivasse agli Arabi. Sergio di Reshaina si occupò infine anche di astrologia e forse persino di alchimia.
Non troviamo alcun altro studioso siro che si sia dedicato al pari di Sergio di Reshaina alle più varie materie del programma didattico alessandrino; riscontriamo però altrove nella tradizione siriaca occidentale esempi della sopravvivenza di un ellenismo non accademico, popolare, in trattati etici, nella letteratura sentenziosa gnomica, nelle versioni siriache del Physiologus e della Geoponica (con le loro componenti magiche) e in una letteratura alchimistica di ragguardevole ampiezza. Sarà ben difficile dimostrare in modo stringente la derivazione di al-Filāḥa al-nabaṭiyya (Agricoltura nabatea) da apocrifi siriaci; questa è probabilmente una mistificazione del sedicente traduttore Ibn Waḥšiyya, che pretende di essersi basato su fonti babilonesi; tuttavia non può esserci alcun dubbio che anche in lingua siriaca sotto il livello dell'erudizione accademica sopravvivesse il sostrato di tradizioni occulte e magiche dell'Oriente ellenistico. Dall'altra parte il giacobita Severo Sebokht (m. 666-667), vescovo di Qenneshrin sull'Eufrate, si occupò della traduzione di scritti astronomici e matematici dal persiano. Gli si deve anche la traduzione del commento del già menzionato Paolo il Persiano al De interpretatione di Aristotele. Nei suoi scritti astronomici, come in un trattato sull'astrolabio e in un opuscolo sulle costellazioni astrali, egli sostiene la preminenza della tradizione autoctona su quella greca. Dobbiamo a lui la prima menzione delle cifre indiane (ossia 'arabe') e del loro utilizzo per effettuare calcoli con il sistema posizionale decimale.
Da Alessandria a Baghdad
Anche se solo in casi eccezionali possiamo collazionare gli originali siriaci con le versioni arabe che ne sono scaturite, i testi siriaci pervenutici dimostrano l'entità degli stimoli e l'ampiezza del materiale che agli studiosi arabi provennero dal contesto intellettuale del cristianesimo siriaco. Le traduzioni mostrano d'altro canto l'attività di erudizione e d'istruzione scientifica, precedente e in parte ancora contemporanea al primo Islam, tra gli intellettuali cristiani di lingua siriaca.
Il clero si limitava perlopiù allo studio dei primi rudimenti della logica, e dunque sono soprattutto reiterate traduzioni dell'Isagoge di Porfirio, dell'ermeneutica aristotelica, dello scritto sulle categorie e della sillogistica, quelle che ci hanno lasciato gli studiosi, sia i cosiddetti giacobiti sia i cosiddetti nestoriani, agli inizi dell'epoca islamica. Ma anche gli Analitici secondi, i Topica e i Sophistici elenchi, l'Ars poetica e la Rhetorica, cioè l'intero patrimonio dell'Organon nella sua definizione tardo-ellenistica, furono tradotti prima in siriaco e poi ben presto in arabo. Notevole è lo spirito di concorrenza, ma anche di cooperazione, che divampò nel corso del confronto tra i rappresentanti delle diverse confessioni e tradizioni, soprattutto rispetto ai numerosi e influenti committenti musulmani.
Atanasio di Balad (sull'alto Tigri, m. 686) tradusse i Topica e i Sophistici elenchi e scrisse introduzioni alla logica e alla sillogistica aristotelica. Giacomo di Edessa (m. 708) tradusse le Categoriae e gli Analitici primi e illustrò nel suo Encheiridion i principî fondamentali della filosofia. Anche il suo allievo Giorgio delle Nazioni (m. 724), 'il vescovo degli Arabi', tradusse e commentò le Categoriae, il De interpretatione e gli Analitici primi.
Con Teofilo di Edessa (m. 785) arriviamo ai traduttori della logica aristotelica in arabo; Teofilo tradusse i Sophistici elenchi e si cimentò persino ‒ così sembra ‒ con la traduzione di Omero. La sua versione dello scritto di Galeno sull'igiene De sanitate tuenda è menzionata dal traduttore arabo Ḥunayn ibn Isḥāq.
Oltre ad Aristotele e ad alcuni dei suoi commentatori alessandrini ‒ Olimpiodoro, l'aristotelico cristiano Giovanni Filopono ‒ ci sono pervenuti frammenti in traduzione siriaca dei testi di Nicola di Damasco (Sulla filosofia di Aristotele, Sulle piante) e la Meteorologia di Teofrasto; Giacomo di Edessa e Giorgio delle Nazioni si sono occupati anche di astronomia e geodesia. Sono inoltre attestate versioni siriache degli Elementi di Euclide e dell'Almagesto di Tolomeo. Infine troviamo anche, accanto agli astrologi di corte iranici, l'appena menzionato Teofilo di Edessa come astrologo alla corte del califfo abbaside al-Mahdī (158-169/775-785). Sotto il califfato di al-Ma᾽mūn (198-218/813-833) era attivo a Baghdad l'originale e prolifico Giobbe di Edessa, traduttore in siriaco di numerosi scritti di medicina e autore di una piccola enciclopedia filosofico-scientifica, i cui rapporti con i primordi delle scienze naturali arabe vanno tenuti in debita considerazione. Nello stesso periodo era già iniziata in grande stile la traduzione in arabo della letteratura scientifica greca, in cui i cristiani siriaci ebbero un ruolo di primo piano.
Per i Siri cristiani passa anche il percorso "da Alessandria a Baghdad" dell'insegnamento filosofico, in particolare della logica, che trasmise ai filosofi arabi del X sec. tutto ciò che era ancora disponibile di Aristotele. La cronaca attribuita al filosofo islamico al-Fārābī (m. 339/950), a causa di numerose inesattezze, è però difficilmente accettabile come documento storico sulla tradizione didattica della Scuola alessandrina dopo la sua chiusura; anche coloro che tramandavano la letteratura medica hanno prodotto resoconti simili, tesi più che altro a dimostrare l'autenticità e la preminenza della loro tradizione, come nel caso dell'apocrifa storia medica di Giovanni Filopono e di quella, da essa dipendente, di Isḥāq ibn Ḥunayn. È però indiscutibile che nei rappresentanti dell'erudizione cristiana di tutto l'Oriente, che scrivevano in siriaco (dopo la fine del IX sec. ormai a malapena padroni del greco), si trovino gli ultimi depositari autorevoli della scienza greca. A loro si devono anche le traduzioni di quelle fonti che all'epoca, nell'insegnamento filosofico degli eruditi cristiani (ridotto all'ermeneutica e alla logica elementare), non si studiavano più e che erano messe a frutto dai nuovi arrivati arabi ai fini dell'emancipazione della filosofia, ossia con lo scopo di renderla un'emancipata scienza dimostrativa. Nel X sec. furono così resi accessibili in lingua araba, grazie al nestoriano Abū Bišr Mattā, ossia Matteo, maestro di al-Fārābī, e ai suoi allievi, non soltanto l'intero Organon e quindi anche gli Analitici secondi, i Topica e i Sophistici elenchi, ma inoltre un gran numero di commenti della tradizione scolastica peripatetico-neoplatonica, in particolare della Scuola alessandrina del neoplatonico Ammonio. Il manoscritto parigino del corpus logico arabo è una notevole testimonianza di continuità nella tradizione scolastica fino agli inizi dell'XI secolo.
Cultura di corte, astronomia e astrologiasotto i Sasanidi
Dei centri di insegnamento scientifico nell'Iran sasanide e in Mesopotamia ‒ a Nisibi, Ctesifonte e Jundishapur ‒ e anche di alcune traduzioni siriache dal persiano, si è già trattato per quel che riguarda la tradizione siriaca. La nostra conoscenza della letteratura scientifica in lingua medio-persiana si basa però in misura preponderante sulle traduzioni arabe che ne derivano e sulle notizie e citazioni degli studiosi arabi. In mancanza di fonti originali possiamo quindi formulare ben pochi giudizi sicuri sull'istruzione e sulla tradizione scientifica nell'Iran preislamico e sull'apporto specificamente iranico alla cultura araba. Lo stesso vale per le conoscenze e le opere indiane giunte a Baghdad grazie alla mediazione persiana. Quando il persiano Abū Sahl ibn Nawbaḫt, figlio e successore di uno degli astrologi di corte di al-Manṣūr, e Abū Ma῾šar al-Balḫī (m. 272/886), il più importante continuatore dell'astrologia persiana dopo Māšā᾽allāh (m. 200/815 ca.), risalgono nel tracciare la storia della loro scienza ai diversi predecessori persiani (fino all'epoca di Zoroastro o del leggendario re Ṭahmūraṯ, il quale secondo il Libro dei re apprese la scrittura dai 'demoni') e si diffondono nella ricezione della scienza indiana e greca in Iran, che fu possibile grazie al mecenatismo dei grandi re sasanidi, essi lo fanno in primo luogo per conferire autorità alla tradizione di cui sono portatori. Sulla base del materiale arabo si possono però trarre alcune conclusioni sulla trasmissione di etica, astrologia e medicina popolare nell'Iran sasanide.
Nell'ambito della tradizione 'filosofica', si rimane colpiti dallo spazio occupato dalla letteratura iranica 'delle sentenze' presente negli gnomologi, nelle compilazioni letterarie arabe e nei cronisti dell'Iran preislamico: accanto a singoli apoftegmi abbiamo i 'testamenti' dei re sasanidi, gli insegnamenti di Buzurgmihr (visir di Cosroe I Anushirwan) e opere simili, appartenenti piuttosto al genere dello speculum regis. Anche la versione araba delle lettere pseudoaristoteliche ad Alessandro Magno risente forse della mediazione persiana; queste a loro volta ispirarono scritti di filosofia popolare, attribuiti ad Aristotele, sul governo dello Stato. Si è già parlato di Paolo, il logico persiano di tradizione alessandrina alla corte di Cosroe; un razionalismo e una liberalità analoghi a quelli dei prolegomeni alla logica di Paolo si trovano nell'introduzione di Burzōe alla versione da lui realizzata per Cosroe del Pañcatantra, tradotta in arabo da Ibn al-Muqaffa῾ (m. 139/756 o più tardi). Anche il più antico rifacimento arabo, sempre per mano di Ibn al-Muqaffa῾, dell'Organon aristotelico risale a una fonte persiana.
L'amministrazione iranica dell'Oriente poi divenuto islamico tramandava un sapere più concreto; così il sistema delle sette parti del mondo (in persiano kišwar) è chiamato dai geografi arabi con un termine di origine greca iqlīm (clima), ma non con il senso che il termine ha nella geodesia greca; anche la relativa attribuzione alle sfere d'influenza dei pianeti è un'eredità iranica.
L'astronomia sasanide univa elementi greci e indiani. Fonti astrologiche greche furono rielaborate sotto l'influsso di teorie indiane; i parametri e il calcolo dei dati astronomici furono ripresi da fonti indiane. A quanto affermano Abū Ma῾šar e Ibn al-Nadīm, sotto il regno di Šāpūr I furono tradotte in persiano opere di astronomia e di astrologia greca di Tolomeo e Doroteo di Sidone. Ciò è confermato da un parallelo nel Dēnkart medio-persiano, secondo cui Šāpūr avrebbe incluso tra l'altro nel corpus dell'Avesta opere astronomiche. Nel Dēnkart è menzionata anche una versione pahlavi della Syntaxis mathematica tolemaica, per cui sembrerebbe che la forma del titolo al-mǧsty (dal greco Megístē sýntaxis), Almagesto, presente già nelle più antiche testimonianze arabe, risalga alla versione persiana degli inizi dell'epoca sasanide. L'autore del Dēnkart (intorno all'880) potrebbe comunque avere già attinto alla tradizione araba. Le versioni arabe dei testi persiani a noi pervenute derivano in ogni caso da rifacimenti posteriori e contengono la combinazione, caratteristica dell'astrologia sasanide, di elementi greci e indiani.
L'astrologia indiana ‒ che ovviamente aveva già essa stessa assorbito componenti ellenistiche ‒ era giunta in Asia centrale e nell'Iran orientale con la diffusione del buddhismo. Il suo influsso è già visibile nel rifacimento persiano (pervenutoci nella traduzione araba di ῾Umar ibn al-Farruḫān, morto intorno al 200/815) della genetlialogia di Doroteo di Sidone e nei frammenti di Vettio Valente (in arabo Bīzīḏaǧ, derivato dal medio-persiano vižīḏak 'estratti', cioè Anthologíai).
Fu soprattutto Cosroe I Anushirwan a incoraggiare generosamente lo sviluppo delle scienze in Iran ‒ anche la fioritura dell'Accademia medica di Jundishapur si deve al suo mecenatismo ‒ e a favorire la ricezione della tradizione sia greca sia indiana.
Uno dei più importanti risultati di quest'attività sono le tavole di astronomia matematica, dette dagli Arabi Zīǧ al-Šahriyār o Zīǧ (Šahriyārān) al-Šāh, rielaborate sotto Cosroe I e rivedute ancora una volta sotto l'ultimo re sasanide Yazdaǧird III (632-651). Quest'ultima versione fu utilizzata dai primi studiosi arabi (Māšā᾽allāh e Abū Ma῾šar) e trasmise un'astronomia in cui, oltre a fondamenti greci più antichi, è dimostrabile il ricorso a parametri tratti da fonti indiane (Sindhind - Siddhānta). Anche il titolo Zīǧ al-Arkand designa il rifacimento persiano di una fonte indiana. Zīǧ, derivante dal medio-persiano zīk 'catena (d'ordito)', oppure piuttosto dal medio-persiano zeh 'corda, cordella metrica' (riferito quindi in origine alla tavola dei seni), diverrà d'ora in poi in arabo la denominazione consueta dei manuali astronomici. Anche altri termini di astronomia e astrologia sono entrati nella lingua araba dal pahlavi.
Un esempio della trasmissione di testi greci attraverso il medio-persiano è poi costituito dalla tradizione persiano-araba dei Paranatellonta (sulle costellazioni dei decani) di Teucro di Babilonia, laddove la forma del nome presente negli autori arabi, Tankalūšā (e simili), deriva dalla lettura della forma pahlavi. Allo stesso modo si è giunti al nome arabo Qusṭūs ibn Askūrāskīna (e simili) per l'autore dell'Agricoltura greca, Cassiano Basso Scolastico; l'opera fu tradotta in arabo da una versione medio-persiana dal titolo Warz-nāma.
Su un sistema indiano eclettico, non completamente adattato, si basa il calcolo dei 'cicli millenari' di Māšā᾽allāh e Abū Ma῾šar, contenuto nelle fonti persiane, una periodizzazione astrologica della storia universale. Dall'India deriva l'utilizzazione di un periodo abbastanza lungo per contenere, essendo composto esso stesso da 'giorni' interi, rivoluzioni complete di tutti i corpi celesti; per far ciò i parametri per le orbite dei pianeti, mutuati dai Greci, dovettero essere modificati solo leggermente. La base del calcolo è però un contributo sasanide, ossia la teoria secondo cui i cicli degli eventi mondiali sono determinati dalle congiunzioni regolarmente ricorrenti (circa ogni 20 anni) dei pianeti 'superiori' Saturno e Giove. Le congiunzioni Saturno-Giove si alternano per quattro volte di seguito fra i tre segni zodiacali di una cosiddetta triplicità (secondo la divisione dello zodiaco in quattro triangoli equilateri che corrispondono ai quattro elementi); dopo 12 congiunzioni (240 anni) si passa alla triplicità successiva, sicché dopo 48 congiunzioni (960 anni) inizia un nuovo ciclo che è accompagnato da avvenimenti storici incisivi, come l'avvento di un nuovo profeta (analogamente anche il passaggio da una triplicità all'altra provoca mutamenti significativi, tra i quali in primo luogo il succedersi delle dinastie, dawla: revolutio).
Dalla mitologia indiana deriva l'uso di considerare i due 'nodi' dell'eclittica e dell'orbita lunare come pianeti immaginari, testa e coda del 'Drago' (persiano-arabo al-ǧawzahar). Già nella tradizione araba più antica si trova invece il sistema, noto anche in India, delle 28 stazioni lunari, gruppi di stelle nei quali la Luna appare durante la sua orbita, che riveste un ruolo importante nell'astrologia della katarchḗ e domina la letteratura delle interrogationes, i responsi a domande su persone od oggetti assenti e avvenimenti attesi.
Le fonti indiane non sarebbero confluite però nelle scienze arabe solo grazie all'influsso da esse esercitato sugli astronomi persiani; si ha notizia anche di traduzioni in arabo di opere indiane, di cui rimangono tracce soprattutto in astronomia e in medicina. La più nota è quella degli Zīǧ al-Sindhind (Tavole astronomiche indiane), cioè (secondo al-Bīrūnī, m. 440/1048) il Brahmasphuṭasiddhānta di Brahmagupta (VII sec.), un manuale matematico-astronomico utilizzato da al-Fazārī e Ya῾qūb ibn Ṭāriq nelle loro opere arabe all'epoca di al-Manṣūr. Si narra che sia stato portato a Baghdad, nell'anno 154/771, da un indiano giunto alla corte del califfo con una delegazione proveniente dal Sind. Questa notizia sembra indicare che i Musulmani, nella loro espansione verso est, entrarono in contatto con una tradizione scientifica in cui l'influenza dei traffici con l'India era ben più forte che non nelle scuole dei grandi centri dell'Impero sasanide. Non si parla però mai espressamente di traduzioni arabe dal sanscrito. Dopo aver riferito la sua storia, al-Bīrūnī si sofferma sulle notevoli differenze tra i testi Sindhind arabi e altri testi di Brahmagupta a lui noti in lingua originale, e parla di aggiunte persiane nelle tavole degli Zīǧ al-Arkand, di analoga provenienza. Se ne deduce che anche questa tradizione era basata su rifacimenti persiani, allo stesso modo delle già menzionate teorie astrologiche e delle favole del Pañcatantra.
Anche le cifre indiane, e il sistema posizionale su base decimale a esse legato, erano note già da tempo in Oriente; il siriano Severo Sebokht le menziona fin dalla metà del VII sec., prima che l'algebra araba se ne avvalesse. Che l'aritmetica araba abbia antecedenti indiani sembra indicarlo non solo la notazione posizionale decimale, ma anche l'uso dei singoli procedimenti aritmetici: per esempio, oltre alle quattro operazioni fondamentali, la 'prova del nove', la regola del tre semplice e i metodi di approssimazione per il calcolo delle radici quadrate. A parte questo, è stata soprattutto la trigonometria indiana a lasciare le sue tracce nella matematica araba.
Anche gli astronomi e i medici provenienti dall'India, che agli inizi dell'epoca abbaside esercitavano la loro attività a Baghdad, hanno probabilmente trasmesso agli Arabi non solo fonti originali indiane, ma anche la sintesi di componenti greche e indiane realizzata nell'area iranica. Uno dei pochi testi di farmacopea 'indiana' pervenutici per intero, il libro dei veleni di Šānāq (Pseudo-Canakya), contiene materiale attestato nelle fonti indiane, ma anche elementi greci; sembra sia stato tradotto dal medico indiano Mankah per il barmecide Yaḥyā ibn Ḫālid, che lo aveva fatto venire a Baghdad insieme ad altri medici indiani. Ugualmente in qualità di medico era venuto alla corte del califfo Hārūn al-Rašīd (r. 170-193/786-809) il matematico e astronomo Kanaka. Un compendio di medicina, il Carakasamhitā (Raccolta di Saraka; le citazioni arabe indicano come autore Šarak al-Hindī o simili), fu tradotto in arabo dal persiano. Troviamo anche tutta una serie di autorità indiane nelle prime compilazioni della medicina araba, nel Firdaws al-ḥikma (Il paradiso della saggezza) di ῾Alī ibn Sahl Rabban al-Ṭabarī (morto dopo il 240/855), nel Kitāb al-ḥĀwī (Libro comprensivo della medicina) di al-Rāzī (865-925 o 935), come nel Fihrist (Catalogo) di Ibn al-Nadīm e più tardi nel dizionario medico di Ibn Abī Uṣaybi῾a (m. 668/1270). In confronto all'importanza predominante dei medici greci la loro influenza è però rimasta scarsa.
L'Islam nasce all'interno della cultura scientifica ancora vitale e multiforme dell'Oriente ellenistico. In seguito alla decadenza politica e sociale degli antichi imperi la forza d'innovazione spirituale del primo ellenismo si era però esaurita. Con l'ascesa dell'Islam la pratica professionale riceve nuovi impulsi, la tradizione erudita viene rafforzata e naturalizzata mediante le traduzioni, giustificata da una nuova filosofia e rinnovata dall'interno. Pur nella trasformazione e nel rinnovamento, la cultura scientifica razionale rimane comunque nell'Islam una parte integrante della comunità culturale mediterranea e orientale di eredità greca.
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