La civilta islamica: antiche e nuove tradizioni in matematica. La matematica ebraica
La matematica ebraica
Gli studiosi ebrei arabofoni che vivevano nei paesi dell'Islam rappresentavano una componente ricettiva della cultura e della scienza arabe. Ricordiamo che sia in Oriente sia in Occidente essi composero scritti in arabo nel campo della filosofia e delle scienze, ma anche in quello della grammatica, della morale e della giurisprudenza rabbinica. Inoltre, la conoscenza della lingua e della cultura arabe si perpetuò nella Spagna cristiana almeno fino al XIV sec. (a Toledo, Saragozza e Barcellona). I grandi testi matematici antichi furono accessibili agli studiosi ebrei attraverso le traduzioni arabe e grazie agli sviluppi che esse stimolarono, a partire dal IX sec., a Baghdad. I prodotti dell'attività matematica di questi studiosi ebrei arabofoni appartengono alla storia della matematica araba; tuttavia, è importante non trascurare, quando sia possibile valutarlo, anche il peso degli 'antichi' (ossia degli studiosi ebrei arabofoni) nell'orientamento delle attività scientifiche ed educative che in seguito avrebbero promosso i 'moderni' (ossia gli studiosi ebrei ebraicofoni). Questa influenza dei 'più anziani' si eserciterà in misura maggiore attraverso gli sviluppi riguardanti i rapporti fra scienze, filosofia e teologia, piuttosto che tramite gli scritti scientifici propriamente detti.
Con il nome di 'matematica ebraica' indichiamo la letteratura matematica scritta in ebraico, i cui primi testi databili compaiono nel XII secolo. La carta geografica del suo sviluppo è, in un primo momento, quella delle comunità ebraiche di cultura ebraico-araba spagnola, nelle quali non si aveva più accesso diretto, tranne alcune eccezioni, alle opere scritte in arabo: si tratta, nel periodo compreso fra i secc. XII e XIV, del Nord-Est della Spagna e del Sud della Francia. Nel corso di questa fase iniziale si può osservare la costituzione sia di una cultura matematica di base (composta da opere generali di aritmetica e di geometria e da enciclopedie scientifiche) sia di un fondo di testi destinati più propriamente a un pubblico colto; questa produzione ha come fonte quasi esclusiva gli scritti matematici arabi, di cui essa rappresenta un testimone e un erede. Nel periodo successivo, nell'Italia dei secc. XV e XVI, si riscontra un'influenza crescente delle fonti latine e volgari, i cui elementi costitutivi sono stati ancora poco studiati; durante la stessa epoca si assiste, nelle comunità ebraiche bizantine, a una ripresa d'interesse nei confronti delle scienze, che si nutrì delle fonti ebraiche, oltre che di quelle arabe e greche. Non è possibile isolare lo sviluppo della matematica ebraica da quello dell'astronomia ebraica, la quale, per numerosi aspetti, stimolò lavori di traduzione ma anche contributi originali, relativi a questioni legate al calendario, ai calcoli di approssimazione, agli strumenti di osservazione, alle regole per determinare le posizioni dei pianeti, e così via.
Nel presentare il periodo di formazione di questo corpus, i cui contenuti iniziano a essere maggiormente conosciuti, vorremmo circoscrivere le tradizioni arabe che alimentarono gli sforzi degli studiosi ebrei ebraicofoni, e caratterizzare, quando risulti possibile, le tradizioni matematiche propriamente ebraiche che da esse sono sorte.
L'esistenza di conoscenze di tipo matematico è confermata dalla letteratura biblica e postbiblica, ossia rabbinica; si ritrovano, in questo contesto, nomi di numeri, frazioni, regole di geometria pratica e proprietà numeriche utilizzate a fini aritmologici. Tuttavia, queste conoscenze sono sparse, esigue, non presentano alcun carattere sistematico e non assumono un significato se non in rapporto ai problemi pratici, giuridici e liturgici che le chiamano in causa. Non è in alcun modo possibile considerare gli scritti matematici redatti in ebraico successivamente come uno sviluppo di questi elementi. La nascita della matematica ebraica è senza dubbio marcata dall'incontro della cultura ebraica con le tradizioni matematiche arabe. Questi saperi 'antichi' sono connessi allo sviluppo della matematica ebraica per due aspetti: in primo luogo, il lessico elaborato da coloro che forgiarono per primi la lingua matematica ebraica sfrutta le risorse linguistiche offerte dagli Antichi; in secondo luogo, i protagonisti della vita scientifica medievale invocarono frequentemente, per legittimare i loro procedimenti, quelle poche regole identificabili con facilità come matematiche: la diagonale del quadrato, il rapporto della circonferenza con il diametro, il volume di alcuni solidi.
Non è da escludere che Mišnat ha-Middôt (La regola delle misure), senza dubbio il più antico libro di matematica scritto in ebraico, sia stato composto con il proposito di mettere al servizio dell'esegesi rabbinica le tradizioni geometriche sviluppate fin dal IX sec. a Baghdad. L'opera presenta una serie di regole relative al calcolo di aree e di volumi, articolate ed esposte metodicamente, e nell'ultimo capitolo si trovano alcuni commenti relativi alle dimensioni (middôt) del Tabernacolo, così come è descritto nel racconto della Bibbia. La somiglianza tra questo testo e la parte geometrica del Kitāb al-Ǧabr wa-'l-muqābala (Libro dell'algebra) di al-Ḫwārizmī (IX sec.), intitolata Bāb al-misāḥa (Capitolo sulla misura), ha indotto a pensare che il testo ebraico fosse 'la' fonte della geometria di al-Ḫwārizmī, e a collocarne la data di composizione in un'epoca molto antica (II sec.).
Tuttavia, studi più recenti hanno permesso di individuare nel testo ebraico la traccia, soprattutto a livello terminologico, degli scritti arabi di geometria, il che implica una data di composizione molto più tarda. Inoltre, dal punto di vista del metodo storico, sembra più ragionevole pensare alle fonti geometriche disponibili e attestate nel IX sec. negli ambienti colti di Baghdad frequentati da molti ebrei arabofoni; oltre a ciò sappiamo che il mondo rabbinico, in quest'epoca e in questa regione, non ignorava alcun aspetto della vita scientifica. Comunque, non sembra che quest'opera, così come ci è pervenuta, sia stata ripresa in maniera significativa nella letteratura scientifica medievale, né per quanto riguarda il contenuto, né per quanto concerne il lessico matematico.
All'origine dei primi scritti di matematica composti in ebraico e datati, bisogna collocare due studiosi spagnoli di lingua araba: ᾽Avrāhām bar Ḥiyya (ca. 1065-1145) e ᾽Avrāhām ibn ῾Ezrā (1092-1167). Questi autori, attingendo ampiamente ed esplicitamente da fonti arabe non ancora del tutto identificate, scrivono rivolgendosi a un pubblico colto che non conosce l'arabo. Le loro opere sono, più che traduzioni, adattamenti di materiali diversi, che costituiscono le basi della cultura matematica, della cui legittimità, e persino necessità, nei confronti della cultura tradizionale, questi studiosi trattano diffusamente.
᾽Avrāhām bar Ḥiyya fu educato e formato scientificamente in uno di quei regni arabi (ṭawā᾽if, plur. di ṭā᾽ifa) che fiorirono dopo la caduta del califfato omayyade di Cordova all'inizio dell'XI secolo. Forse egli beneficiò dell'ambiente letterario e scientifico della corte dei Banū Hūd, sovrani della ṭā᾽ifa di Saragozza dal 1039 al 1118. Fu tuttavia nella Spagna cristiana, a Barcellona, che Bar Ḥiyya scrisse in ebraico opere di matematica, di astronomia, di astrologia e di filosofia. Egli può essere considerato di diritto il fondatore della lingua e della cultura scientifica ebraiche, e in particolare il padre della matematica ebraica. Sono note due opere di matematica da lui scritte: la parte matematica di un'enciclopedia scientifica (di cui rimangono soltanto le sezioni dedicate alla geometria, all'aritmetica e all'ottica) e un'opera di geometria pratica.
Il primo testo, intitolato Yesod ha-tevûnāh û-migdal hā-emûnāh (I fondamenti della ragione e la torre della fede), raccoglie e adatta numerose fonti arabe, non tutte identificabili, e tratta della classificazione e della presentazione delle scienze. L'opera rivela che il suo autore si è ispirato allo scritto di al-Fārābī, Iḥṣā᾽ al-῾ulūm (Enumerazione delle scienze) e, senza dubbio, a quello dell'enciclopedista persiano Abū ῾Abd Allāh al-Ḫwārizmī (X sec.), Mafātīḥ al-῾ulūm (Le chiavi delle scienze). I principî della numerazione, che non è posizionale, sono formulati in una forma che è possibile riscontrare in numerosi testi arabi di aritmetica (ogni numero si può esprimere a partire da dodici 'nomi': le nove unità, la dozzina, il centinaio e il migliaio). I passaggi dedicati ai 'calcoli di vendita e di acquisto' riproducono talvolta alla lettera il testo corrispondente di algebra di al-Ḫwārizmī ed è possibile fare raffronti con le opere di aritmetica di Abū 'l-Wafā᾽, di al-Karaǧī (entrambi attivi nel X sec.) nonché di Abū Manṣūr al-Baġdādī (m. 1037).
Anche il secondo testo, Ḥibbûr ha-mešîḥāh we-ha-tišbôret (Il libro della superficie e delle misure), si basa su scritti arabi di geometria pratica, che sono però di difficile identificazione in quanto questa parte della matematica araba è ancora poco studiata. Tuttavia, nella soluzione del problema delle aree si può riscontrare il ricorso a procedure tipicamente algebriche, che non implicano però l'uso della terminologia tecnica dell'algebra e neppure un termine equivalente alla parola 'algebra' (al-ǧabr): queste caratteristiche vanno ascritte all'intento dell'opera, di natura essenzialmente pratica. Con il titolo di Liber embadorum (1145), il testo conobbe una vasta diffusione, oltre i confini degli ambienti di lingua ebraica, grazie all'adattamento in latino che ne fece il traduttore Platone di Tivoli, amico e collaboratore dell'autore. L'importanza rivestita da quest'opera nello sviluppo delle tradizioni di geometria pratica dell'Europa medievale è stata più volte sottolineata; a questo proposito basta citare il suo influsso sulla Practica geometriae di Leonardo Fibonacci, nel XIII secolo.
᾽Avrāhām ibn ῾Ezrā nacque a Toledo, o forse a Tudela in Navarra. Aveva una formazione araba, probabilmente conosceva il latino, e per gran parte della sua vita viaggiò in Europa. Fu poeta, grammatico, astronomo e astrologo, nonché commentatore biblico molto rinomato. Anche Ibn ῾Ezrā, vissuto una generazione dopo Bar Ḥiyya, forgiò un nuovo linguaggio scientifico, differente da quello del suo collega più anziano, in quanto più vicino all'ebraico biblico e più distan-te dalle espressioni e dalla terminologia arabe. La sua opera matematica propriamente detta è costituita dall'importante Sēfer ha-Mispār (Il libro del numero), anche se molte osservazioni di natura aritmetica o aritmologica sono disseminate in tutti gli altri suoi scritti: Sēfer ha-᾽Eḥād (Il libro dell'Uno), Sēfer ha-šēm (Il libro del nome), Sēfer yesōd mōrā᾽ (Il libro del fondamento del timore), Sēfer yesōd ha-mispār (Il libro del fondamento del numero), Sēfer ha-῾ôlām (Il libro del mondo), inclusi i suoi commenti biblici. Il Sēfer ha-mispār, composto senza dubbio prima del 1146, in quanto è citato in un altro libro di Ibn ῾Ezrā, terminato nel 1146, si apre con un'esposizione della numerazione decimale posizionale con lo zero. In seguito sono trattati i fondamenti dell'aritmetica nel seguente ordine: moltiplicazione, divisione, addizione, sottrazione, frazioni, proporzioni e radici quadrate. Questo testo divenne immediatamente un'opera di riferimento; è possibile valutare la sua diffusione, che fu vasta e duratura, non soltanto dal numero di copie manoscritte che sono conservate, ma anche dai numerosi commenti che furono redatti a partire da esso.
Si deve sottolineare il valore della testimonianza di Ibn ῾Ezrā per la nostra conoscenza della diffusione del 'calcolo indiano', di cui egli offrì una delle prime esposizioni nell'Europa medievale. Come è noto, non ci è pervenuto il testo arabo dell'opera sul calcolo indiano scritta da al-Ḫwārizmī. Le esposizioni più antiche in latino derivate da questo testo furono scritte in Spagna nella stessa epoca in cui fu composta l'opera di Ibn ῾Ezrā, in ambienti frequentati da studiosi ebrei. Inoltre, sembra che Ibn ῾Ezrā fosse ben informato circa la storia del calcolo indiano nel mondo arabo; infatti, nel prologo della sua traduzione del commento di al-Muṯannā all'opera Zīǧ al-Sindhind (Tavole astronomiche indiane) dello stesso al-Ḫwārizmī, egli ricorda come il celebre studioso arabo fosse stato il primo ad aver dominato il segreto del calcolo indiano, e come gli altri studiosi arabi si fossero basati sul libro che egli aveva scritto su questo argomento.
Se gli scritti di ᾽Avrāhām bar Ḥiyya e ᾽Avrāhām ibn ῾Ezrā fondarono una cultura matematica ebraica di base, i grandi classici matematici furono accessibili in ebraico solamente a partire dal XIII sec.; più precisamente, la 'biblioteca matematica' dello studioso ebreo medievale si costituì fra il 1230 e il 1330, essenzialmente in Provenza. La traduzione dei libri matematici dall'arabo all'ebraico si iscrive in un movimento di traduzione più generale, che include la filosofia, le scienze e la medicina. Molti di questi traduttori facevano parte di una famiglia di studiosi. Il primo di questi, Yehûdāh ibn Tibbōn, lasciò Granada intorno alla metà del XII sec., al momento dell'arrivo degli Almohadi nell'Andalus, per stabilirsi a Lunel, nel Sud della Francia; qui, su richiesta dei notabili ebrei locali, intraprese la traduzione in ebraico di opere filosofiche o morali, scritte in Spagna o in Oriente da studiosi ebrei arabofoni. Suo figlio, Šemû᾽ēl ibn Tibbōn (1160 ca.-1230 ca.) tradusse in ebraico la celebre opera di Maimonide Dalālat al-ḥā᾽irīn (La guida dei perplessi), la cui stesura fu terminata in Egitto intorno al 1194. I traduttori di opere scientifiche, e in particolare matematiche, comparvero alla terza e alla quarta generazione di questa dinastia.
Grazie al lavoro di traduzione, nello spazio di un secolo fu prodotto un corpus di testi, la cui base era costituita dalle opere principali della matematica ellenistica, completata da commenti o da opere originali arabe. Oltre ai trattati di Euclide, di Archimede o di Nicomaco di Gerasa, tale corpus comprendeva anche libri di astronomia matematica e numerosi scritti dedicati alla geometria della sfera, che erano indispensabili per una migliore conoscenza dell'astronomia. I frutti di questo primo grande movimento di traduzione e di adattamento dall'arabo in ebraico costituiscono quella che si può chiamare 'la biblioteca matematica dello studioso', ossia un fondo di opere classiche che rappresentavano gli strumenti indispensabili di una pratica matematica di livello non elementare. Al di là di questa formula descrittiva, è importante però caratterizzare appieno la selezione che fu operata fra le opere arabe 'classiche' che erano potenzialmente accessibili e considerare la presenza in questa 'biblioteca' di testi di livello elevato. Nel seguito ci occuperemo dei principali traduttori e presenteremo una visione d'insieme di questa fase dello sviluppo della matematica ebraica.
Gli Elementi di Euclide sono l'opera più tradotta, commentata e diffusa; limitandoci a considerare le versioni propriamente dette, sono stati rinvenuti trentuno manoscritti, ai quali si possono aggiungere due frammenti identificati nella Genīza del Cairo. Sono state individuate quattro traduzioni tratte da fonti arabe. Mōšeh ben Šemû᾽ēl ibn Tibbōn (attivo fra il 1240 e il 1283) è l'autore della versione più nota; questa traduzione, che fa riferimento alla versione di Isḥāq ibn Ḥunayn, corretta da Ṯābit ibn Qurra, fu terminata nel 1270. Ya῾aqōv ben Maḵîr (1236 ca.-1305), che era parente di Mōšeh ibn Tibbōn, è l'autore di un'altra edizione commentata, terminata nel 1289, che ricalca in gran parte quella di Mōšeh, dalla quale si distingue però in numerosi passaggi. Conosciamo anche una versione anonima parziale (il Libro I e l'inizio del Libro II), che è opera di un traduttore alle prime armi. Infine, è stata di recente studiata una versione inedita, da attribuire a un certo 'Jacob', che è indiscutibilmente legata alle versioni arabe più antiche del testo euclideo, attribuite ad al-Ḥaǧǧāǧ ibn Yūsuf ibn Maṭar (fine dell'VIII-IX sec.); questa versione sfrutta le traduzioni associate ai nomi di Isḥāq e di Ṯābit, e menziona varianti dovute ad Avicenna. Potrebbe trattarsi della più antica versione ebraica degli Elementi.
A queste quattro traduzioni degli Elementi bisogna aggiungere quella in ebraico di due adattamenti del testo euclideo redatti in arabo. Il primo è l'adattamento-riassunto dei quindici libri degli Elementi compilato da Avicenna con il titolo Uṣūl al-handasa (I fondamenti della geometria), il quale costituisce la parte geometrica della grande enciclopedia di Avicenna, Kitāb al-Šifā᾽ (Libro della guarigione); la traduzione ebraica è anonima, non è datata e non menziona il nome di Avicenna. Il secondo è l'adattamento di Yehûdāh ben Šelōmōh ha-Kōhên di Toledo (n. 1215 ca.), inserito in un'enciclopedia delle scienze da lui scritta inizialmente in arabo. Il testo arabo, di cui non è rimasta copia, fu tradotto in ebraico dallo stesso autore, durante un soggiorno alla corte di Federico II di Sici-lia, nel corso degli anni Quaranta del XIII sec.; la versione ebraica è intitolata Midraš ha-ḥoḵmāh (La ricerca della sapienza). Nella seconda parte, essa include una versione ridotta degli Elementi (Libri I-VI e XI-XIII), concepita come un'introduzione allo studio dell'Almagesto di Tolomeo.
Per quanto riguarda le altre opere della tradizione euclidea, Ya῾aqōv ben Maḵîr nel 1274 tradusse in ebraico i Dati, utilizzando una fonte araba attribuita a Ḥunayn ibn Isḥāq (anche se la maggior parte delle copie arabe conosciute indica Isḥāq ibn Ḥunayn come traduttore del testo greco e Ṯābit come revisore). Furono inoltre tradotti l'Ottica e il Libro degli specchi, da non confondere con la Catottrica, altra opera pseudo-euclidea e con lo Šarḥ ṣadr al-maqāla al-ūlā wa-'l ḫāmisa min kitāb Uqlīdis (Commento all'introduzione dei Libri I e V dell'opera di Euclide) di al-Fārābī, testo tradotto da Mōšeh ibn Tibbōn, che nel 1270 tradusse anche i Libri V-VII e X-XI dello Šarḥ muṣādarāt Kitāb Uqlīdis fī 'l-Uṣūl (Commento ai postulati degli Elementi di Euclide) di Ibn al-Hayṯam, di cui nel 1314 Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs di Arles (n. 1286) tradusse il Libro X. Per quanto riguarda lo studioso andaluso Ǧābir ibn Aflaḥ, al quale le fonti arabe attribuiscono un commento degli Elementi che non possediamo, si conosce un frammento manoscritto in ebraico, che tratta della prop. 24 del Libro XII degli Elementi, e che è introdotto da queste parole: "Discorsi di Ǧābir su un problema che Euclide ha trattato in modo inesatto nel Libro XII del suo scritto […]" (Oxford, Bodl., heb. d4).
La versione araba di Qusṭā ibn Lūqā degli Sphaerica di Teodosio, opera dedicata alla scienza della sfera, fu tradotta due volte in ebraico. Mōšeh ibn Tibbōn portò a termine una versione di questo scritto a Montpellier nel 1271. Nello stesso periodo, Ya῾aqōv ben Maḵîr ne compilò un'altra versione, che potrebbe essere una revisione di quella di Mōšeh; vent'anni dopo, nel 1290, egli ne fornì un'ulteriore copia, poiché la precedente gli era stata rubata. Ya῾aqōv ben Maḵîr tradusse anche, nel 1271, una versione araba degli Sphaerica di Menelao, compilata da Isḥāq ibn Ḥunayn (la fonte araba non ci è pervenuta) e, nel 1273, il De sphaera quae movetur di Autolico. Inoltre, tre commenti arabi degli Sphaerica di Menelao ci sono pervenuti nella versione in ebraico: un commento anonimo manoscritto, tradotto da Samuel di Marsiglia (1294-1340 ca.) nel 1318 (Milano, Biblioteca Ambrosiana, Bernheimer 97); alcune note anonime intitolate Divrē qeṣāt ha-qadmônîm ῾al Sēfer Mîlî᾽aûs (Discorsi di alcuni anziani sul libro di Menelao), che potrebbero essere state tradotte da Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs, e che compaiono in numerosi manoscritti (Oxford, Bodl., heb. d4; heb. hunt. 96); infine un commento di Ǧābir ibn Aflaḥ in riferimento ad alcune difficoltà relative al libro di Menelao, che compare negli stessi manoscritti.
Fra le opere sulla geometria della sfera redatte in arabo, al-šakl al-qaṭṭā῾ (La figura secante) di Ṯābit ibn Qurra, che tratta della regola sui birapporti stabilita da Menelao, fu tradotto da Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs nel 1311; la versione ebraica, come quella latina di Gherardo da Cremona, contiene i complementi attribuiti al celebre astronomo andaluso Maslama al-Maǧrīṭī (attivo nel 1000). Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs tradusse anche, nel 1315, La figura secante di Menelao di Ǧābir ibn Aflaḥ, che si presenta come un commento critico della trattazione della questione da parte di Ṯābit (la versione araba a quanto pare è andata perduta). Non si deve trascurare l'importanza delle traduzioni delle opere di astronomia matematica: oltre agli scritti di Tolomeo e di Gemino, furono tradotti quelli di al-Biṭrūǧī, di Ǧābir ibn Aflaḥ, di al-Farġānī, di Ibn al-Hayṯam, di Averroè e di autori ebrei che scrivevano in arabo, come Yôsēf ibn Naḥmî᾽aś o Yôsēf ibn Yiśrā᾽ēl.
La versione ebraica dell'Introduzione all'aritmetica di Nicomaco di Gerasa, realizzata da Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs nel 1317, non corrisponde esattamente né al testo greco, né alla versione araba di Ṯābit ibn Qurra. Essa è stata tratta da un testo arabo (che per quanto ne sappiamo è andato perduto), che era a sua volta una traduzione di una versione siriaca (anch'essa andata perduta); presenta importanti glosse attribuite ad al-Kindī. Per quanto riguarda gli autori arabi, furono tradotte opere di Abū 'l-Ṣalt, di al-Ḥaṣṣār e di Ṯābit ibn Qurra. Lo studioso andaluso Abū 'l-Ṣalt (1068-1134) molto probabilmente fu l'autore di un'enciclopedia delle scienze che ci è nota solamente per le due parti che ci sono giunte in versione ebraica: una sulla musica e l'altra sull'aritmetica; il testo sulla musica fu tradotto in ebraico da due studiosi anonimi, mentre quello sull'aritmetica fu tradotto nel 1395 a Saragozza da Benvéniste ben Lāvî. Il testo ebraico, che è presentato come uno sviluppo del libro di Nicomaco, è composto essenzialmente da una traduzione letterale della sezione aritmetica del Kitāb al-Šifā᾽ di Avicenna. Di al-Ḥaṣṣār, il quale svolgeva la sua attività nell'Andalus o nel Maghreb, Mōšeh ibn Tibbōn tradusse nel 1271 un 'piccolo' trattato di aritmetica, scritto senza dubbio nel XII secolo. Infine, l'opuscolo Fī istiḫrāǧ al-a῾dād al-mutaḥābba (Sulla determinazione dei numeri amicabili) di Ṯābit ibn Qurra fu tradotto senza menzionare l'autore. In effetti, l'insieme dei teoremi del testo arabo si può trovare, senza le dimostrazioni, in una composizione aritmetica originale, redatta con molta probabilità da Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs su richiesta del re Roberto d'Angiò, intitolata Sēfer ha-Melaḵîm (Il libro dei re). Il traduttore fece ricorso forse alla recensione araba del testo di Ṯābit che figura nella collezione matematica intitolata Kitāb al-Istikmāl (Libro del perfezionamento), redatta alla fine dell'XI sec. dall'erudito sovrano di Saragozza, al-Mu᾽taman ibn Hūd.
Fino a non molto tempo fa si credeva che il primo movimento di traduzione avesse ignorato un'opera celebre come l'Algebra di al-Ḫwārizmī (nota in latino fin dal XII sec.), e che in generale avesse escluso qualsiasi esposizione sistematica di questa nuova disciplina matematica. A tale proposito si metteva in evidenza il carattere 'tardivo' della prima grande opera di algebra araba accessibile in ebraico: la versione ebraica dell'Algebra di Abū Kāmil, realizzata alla fine del XV sec. in Italia da Mordecai (Angelo) Finzi. Oggi possiamo affermare, grazie a recenti ricerche e al ritrovamento di alcuni documenti inediti, che è necessario modificare questo quadro, poiché l'algebra araba non è stata esclusa dal primo movimento di acquisizione ebraica del sapere matematico arabo.
Consideriamo le principali testimonianze testuali oggi disponibili a questo riguardo. Abbiamo già accennato al fatto che l'opera di geometria pratica di ᾽Avrāhām bar Ḥiyya faceva ricorso a formulazioni e a procedure tratte dall'Algebra di al-Ḫwārizmī; tuttavia, la terminologia algebrica e il termine stesso di 'algebra' sono assenti dal testo di Bar Ḥiyya, nella forma in cui esso ci è pervenuto. D'altronde, la versione ebraica dell'Aritmetica di al-Ḥaṣṣār prima citata contiene numerosi passaggi che espongono 'il trattamento mediante l'algebra'. In effetti, quest'opera (identificata da più di un secolo) non presenta un capitolo in particolare dedicato all'algebra; esso viene annunciato dall'autore, ma è assente dal testo arabo, nella forma in cui ci è giunto, e anche dal testo ebraico. Tuttavia, più volte, per risolvere problemi aritmetici (problemi pratici o associati ad alcune successioni di interi), si ricorre al 'metodo dell'algebra' (che è tradotto in ebraico con ōfen ha-ḥîttûm, che significa il metodo di ciò che è sigillato), nonché alla terminologia che essa richiede, 'la cosa' (in arabo šay᾽; in ebraico dāvār), o 'il bene' (māl; māmôn). La soluzione delle equazioni quadratiche che traducono il problema esaminato è ricondotta a uno dei sei tipi canonici.
A questi elementi acquisiti si è aggiunta la recente scoperta dell'adattamento ebraico di un'opera araba di aritmetica, che contiene un importante capitolo dedicato all'algebra. L'autore del testo arabo non è ancora stato identificato, mentre il traduttore è ben noto: Yiṣḥāq ben Šelōmōh ben Ṣadîq ben al-Aḥdab, un importante astronomo castigliano che alla fine del XIV sec. si trovava a Siracusa, dove scrisse la sua 'epistola sul numero', adattando e commentando un'opera araba che egli si era procurato in terra d'Islam. Può essere interessante riportare il piano dell'opera, nella sua versione ebraica. La prima sezione tratta dei numeri interi, quindi delle frazioni, e infine delle radici degli interi e delle frazioni. Un paragrafo specifico sul calcolo dei radicali è dedicato alla scrittura delle binomiali e delle apotomi; l'autore tratta queste grandezze irrazionali in termini esclusivamente aritmetici. La seconda sezione è dedicata 'alle regole che permettono di ottenere il [numero] incognito ricercato'; dopo una parte che tratta della proporzionalità, che include i metodi delle false posizioni, questa sezione espone per esteso i principî e le tecniche dell'algebra (in ebraico si usa l'espressione hašlāmāh we-haqbālāh) e le operazioni aritmetiche sui monomi e sui polinomi (addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione). Quest'ultima parte indica che l'opera araba che era stata utilizzata come fonte integrava, a suo modo, la tradizione inaugurata da al-Karaǧī. Per quanto concerne la matematica ebraica, quest'opera di Yiṣḥaq ben Šelōmōh costituisce un'importante testimonianza sulla conoscenza, negli ambienti colti di lingua ebraica, delle tradizioni aritmetiche e algebriche che erano nate e si erano sviluppate nei paesi dell'Islam. Anche se al momento non è possibile stabilire quale fu la sua diffusione, e valutare quindi le conoscenze acquisite nel campo dell'aritmetica e dell'algebra arabe, è necessario chiedersi se vi fosse un rapporto fra queste fonti e l'interesse che, nella seconda metà del XV sec., alcuni studiosi ebrei italiani come Simon Motot e il già citato Mordecai Finzi manifestarono nei confronti dell'algebra. Un esame metodico delle raccolte aritmetiche, che sono ancora numerose nei fondi manoscritti ebraici, ci permetterà di confermare se effettivamente queste testimonianze testuali siano la prova dell'esistenza di una tradizione algebrica in ebraico.
Per quanto riguarda le opere di Archimede, i bibliografi hanno identificato una versione ebraica anonima de La misura del cerchio, alla quale bisogna aggiungerne una seconda, diversa dalla precedente. La versione araba di Qusṭā ibn Lūqā del Della sfera e del cilindro fu tradotta, sembra due volte, da Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs, che tradusse anche il relativo commento di Eutocio. Inoltre, in una raccolta manoscritta inedita di proprietà geometriche si riscontra la presenza di un testo 'archimedeo' dedicato alla misura dell'area del cerchio in funzione del diametro e della circonferenza, ossia la prima proposizione de La misura del cerchio (Parigi, BN, hebr. 1026, ff. 69b-70b); la dimostrazione è condotta in maniera differente dal testo di Archimede ed è vicina a quella che figura nel trattato dei Banū Mūsā (IX sec.), il Kitāb Ma῾rifat misāḥat al-aškāl al-basīṭa wa-'l-kuriyya (Libro per conoscere l'area delle figure piane e sferiche, noto nel mondo latino con il titolo Liber trium fratrum oppure Verba filiorum Moysi), nelle propp. 3 e 4, senza essere però una vera e propria traduzione del testo arabo nella forma in cui lo conosciamo. È lecito domandarsi se l'autore di questo testo, Emmanuel Bonfils (XIV sec.), abbia consultato l'opera dei Banū Mūsā, forse in arabo, forse in latino, e se quest'opera degli studiosi arabi sia stata tradotta in ebraico; allo stato attuale delle nostre conoscenze, non possiamo escludere nessuna di queste possibilità.
L'opera principale di Apollonio, Le coniche, era disponibile in arabo fin dal IX sec., ma non abbiamo nessun indizio dell'esistenza di una versione ebraica, anche parziale, di questo trattato. Ci sono però pervenuti numerosi testi della tradizione di Apollonio, più o meno legati alle Coniche e ad altre opere del geometra greco; in particolare, la traduzione di un'opera araba dell'XI sec. testimonia che all'epoca erano in corso ricerche molto avanzate nella geometria delle curve e delle superfici. Ci riferiamo in primo luogo a due opere redatte in arabo per le quali l'originale è andato perduto. La prima, anonima, è intitolata ῾al ῾Inyān yeṣî᾽at šenē qawîn (Sulle due linee che si avvicinano senza mai incontrarsi). Si tratta di un opuscolo redatto prima dell'inizio del XIII sec. (epoca in cui fu tradotto in latino da Giovanni da Palermo, alla corte di Federico II), che si occupa della proprietà asintotica dell'iperbole o, in altre parole, della prop. 14 del Libro II delle Coniche di Apollonio, il cui nome, in effetti, è citato. Il testo fu tradotto due volte in ebraico, adattato e commentato da numerosi autori. Il pubblico dei suoi lettori si estese assai oltre la cerchia dei soli matematici, per la portata filosofica della stessa proprietà matematica che esso descrive; Maimonide, per esempio, nella critica del kalām contenuta nella sua Dalālat al-ḥā᾽irīn, invocava il teorema di Apollonio per opporre i 'limiti dell'immaginazione' ai poteri 'dell'intelligenza dimostrativa'. Il secondo testo è un importante trattato di geometria delle curve scritto dallo studioso andaluso Ibn al-Samḥ (979-1035), allievo di Maslama al-Maǧrīṭī, che rappresenta una prosecuzione delle ricerche innovative intraprese dai Banū Mūsā, in particolare sulle coniche. Verosimilmente, è una parte di questo trattato che è stata tradotta da Qâlônîmôs nel 1312 con il titolo di Ma᾽amār ba-iṣṭewanôt we-ha-meḥuddādîm (Trattato sui cilindri e sui coni); il testo ebraico tratta principalmente dell'ellisse, caratterizzata dalla sua proprietà bifocale e considerata come la sezione piana di un cilindro.
A queste due opere si devono aggiungere quattro testi riuniti nello stesso codice manoscritto (Oxford, Bodl., heb. d4) e tradotti da Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs; non se ne conoscono altre copie, anche se è possibile riscontrarne alcune tracce in altre composizioni. Il primo è un Opuscolo sul triangolo scritto da Abū Sa῾dān, del quale non conosciamo alcun originale arabo, che tratta di un problema geometrico la cui soluzione richiede l'uso di proprietà della parabola stabilite nelle Coniche; la traduzione risale al 1311. Dello stesso anno è anche la traduzione del secondo testo, intitolato Libro di problemi geometrici: una raccolta anonima di problemi, che appartengono al classico genere arabo masā᾽il handasiyya (problemi geometrici), alcuni dei quali sono attribuiti dalle fonti arabe ad Apollonio. Anche l'opuscolo anonimo, Soluzione dei dubbi relativi all'ultima premessa del Libro delle sezioni coniche, può essere attribuito allo stesso traduttore. L'ultimo testo, anch'esso anonimo, tratta delle proprietà dei cinque poliedri regolari e fu tradotto nel 1309; attribuito a Ipsicle, tratta gli stessi argomenti del Libro XIV degli Elementi di Euclide e menziona più volte il nome di Apollonio, che è l'autore di un trattato, andato perduto, citato da Ipsicle con il titolo di Confronto del dodecaedro e dell'icosaedro. Un testo arabo, simile a quello ebraico, ma che se ne distingue per numerosi aspetti, fu scritto dallo studioso del XIII sec. al-Maġribī.
Conosciamo infine anche traduzioni ebraiche di altri testi, anonimi, difficili da datare e da identificare precisando le fonti, benché legati a tradizioni matematiche arabe la cui esistenza è accertata. I temi trattati in queste opere sono: il quinto postulato degli Elementi di Euclide e la teoria delle parallele; la quadratura delle lunule; i problemi di isoperimetri nel piano e nello spazio (le proprietà elementari del cerchio e della sfera possono essere individuate in numerose raccolte manoscritte, come il ms. conservato a Parigi, BN, hebr. 1026, ff. 69a-72a) e la trisezione di un triangolo rettilineo con mezzi meccanici. Per quanto riguarda quest'ultimo tema, un frammento manoscritto da noi identificato (Parigi, BN, hebr. 1030, f. 37b) può essere accostato con profitto sia alla prop. 18 dell'opera citata dei Banū Mūsā, sia alla prop. 8 di un testo attribuito ad Archimede, i Lemmi, che ci è pervenuto soltanto nella versione araba (Kitāb al-Ma᾽ḫuḏāt, noto in latino come Liber assumptorum); tuttavia, in questo campo la tradizione matematica araba è molto ricca e per il momento è difficile essere più precisi.
Le traduzioni che abbiamo menzionato, per la maggior parte, sono state effettuate da un numero ridotto di studiosi. Cosa sappiamo della loro formazione, del loro statuto professionale, delle loro opere originali, del loro ambiente culturale e sociale, che ci permetta di rendere conto delle loro produzioni? Nella Provenza medievale tre personaggi ebbero un ruolo di fondamentale importanza, in un arco di tempo che non supera le tre generazioni: Mōšeh ibn Tibbōn e Ya῾aqōv ben Maḵîr di Montpellier e Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs di Arles.
Mōšeh ibn Tibbōn, il padre, lo zio e il nonno del quale erano, come si è visto, celebri traduttori, fece senza dubbio il suo apprendistato scientifico, letterario e linguistico nell'ambiente familiare. Negli anni Quaranta del Duecento si recò a Napoli, dove suo zio Ya῾aqōv aveva già tradotto, alla corte di Federico II e con il sostegno dello stesso sovrano, gli scritti astronomici di Tolomeo, di al-Farġānī, di Averroè e una parte dei Commenti medi di quest'ultimo all'Organon. Fu proprio a Napoli, d'altra parte, che Mōšeh realizzò nel 1246 la sua prima traduzione di uno scritto scientifico, l'Introductio astronomiae di Gemino. Fra il 1244 e il 1258 egli tradusse la gran parte dei compendi ed epitomi di Averroè che trattano degli scritti non logici di Aristotele. A ragione si è parlato di lui come di un 'traduttore di professione', poiché egli esercitò il suo talento nel campo della filosofia, della medicina, dell'astronomia, della matematica, e inoltre sugli scritti di Maimonide che non erano stati tradotti da suo padre Šemû᾽ēl. Subito dopo aver completato, alla fine dell'estate del 1270, la traduzione degli Elementi di Euclide, egli tradusse il commento di Ibn al-Hayṯam, e senza dubbio anche quello di al-Fārābī, seguiti dagli Sphaerica di Teodosio e dall'Aritmetica di al-Ḥaṣṣār, nel 1271. Egli non praticò a sua volta le scienze: il suo lavoro di traduttore si inseriva nella prospettiva tracciata da suo nonno Yehûdāh ibn Tibbōn di Granada, ossia di offrire al pubblico di lettori di lingua ebraica le opere fondamentali della scienza 'universale'.
Ya῾aqōv ben Maḵîr, imparentato con la famiglia dei Tibbōn, conosciuto in provenzale come Don Prophet Tibbōn, e in latino come Profacius Judaeus, fu astronomo di professione. Ebbe contatti scientifici con gli studiosi cristiani di Montpellier, fondati su scambi e collaborazioni. In tal modo, nel 1263 tradusse oralmente dall'arabo al provenzale un testo di astronomia che Giovanni da Brescia trascrisse in latino, il trattato sull'uso della ṣafīḥa, un tipo di astrolabio inventato dal celebre astronomo toledano dell'XI sec. al-Zarqālī (Azarquiel). Scrisse numerose composizioni astronomiche originali, come il suo Rōvā῾ Yiśrā᾽ēl (Quadrante di Israele), che fu tradotto e adattato molte volte in latino con il titolo di Quadrans novus. Le Tavole (o Almanacco) che scrisse in ebraico nel 1300 a Montpellier, su richiesta di 'nobili e onorevoli personaggi', furono anch'esse tradotte e adattate in latino. Nel prologo di queste tavole, egli si lamenta del fatto che vi sia un così scarso numero di veri astronomi in rapporto al numero elevato di coloro che vorrebbero conoscere questa scienza difficile e rigorosa, constatando con amarezza che il desiderio di guadagno porta piuttosto a studiare la medicina o il diritto.
La sua attività di traduttore si rivolse principalmente all'astronomia, teorica e pratica, e alla matematica, anche se nel 1288 e nel 1302 tradusse due raccolte di compendi di Averroè. Secondo la testimonianza che egli stesso ci fornisce, iniziò a tradurre gli Elementi di Euclide mentre era giovane e inesperto, senza dubbio prima del 1270; da un colofone del Libro XV si deduce che egli portò a termine il suo lavoro nel 1289. Egli sfruttò ampiamente la versione di Mōšeh ibn Tibbōn, integrandola tuttavia con altre lezioni, prese a prestito da fonti arabe complementari. È interessante ricordare come in altri due casi Ya῾aqōv ben Maḵîr abbia 'duplicato' il lavoro di traduzione di Mōšeh ibn Tibbōn: per ciò che riguarda gli Sphaerica di Teodosio e per l'Iṣlāḥ al-Maǧisṭī (La rettifica all'Almagesto) di Ǧābir ibn Aflaḥ.
La lista delle opere di matematica tradotte da questo studioso fra il 1271 e il 1273 presenta un'indubbia coerenza: i Dati di Euclide, e forse l'Ottica e Il libro degli specchi, La sfera in movimento di Autolico, gli Sphaerica di Teodosio, gli Sphaerica di Menelao. Nell'elenco si riconoscono i testi che sono più spesso citati nelle fonti arabe come opere 'intermedie' (al-mutawassiṭāt), ossia i libri che sarebbe meglio studiare 'fra' gli Elementi di Euclide e l'Almagesto di Tolomeo. Queste collezioni, dal contenuto più o meno vario e senza dubbio destinate all'insegnamento, erano molto diffuse in arabo, ma anche in latino; a questa situazione Ya῾aqōv ben Maḵîr doveva essere notevolmente sensibile, per via delle sue relazioni con gli ambienti colti cristiani.
Queste relazioni segnarono anche la concezione di Ya῾aqōv ben Maḵîr nei confronti del ruolo e dell'apprendimento delle scienze nel mondo ebraico del suo tempo. Egli fu molto impegnato nella polemica che scosse le comunità ebraiche della Provenza alla fine del XIII sec., riguardo la filosofia e le scienze profane, e incoraggiò l'insegnamento e la pratica delle scienze senza alcuna restrizione. A sostegno del proprio punto di vista egli addusse due argomenti: per essere veramente feconda, la pratica delle scienze deve essere preparata da un apprendistato precoce ('Senza capretto, niente capro…'); gli ebrei avrebbero dovuto prendere esempio dall'apertura mentale che a quell'epoca manifestavano, nel loro ambiente culturale, i gentili, che avevano incoraggiato la scienza e gli studiosi, senza tuttavia mettere a rischio la propria religione.
Qâlônîmôs ben Qâlônîmôs ben Mē᾽îr, noto anche come Maestro Callo, o Callus, iniziò la sua carriera scientifica nel 1305, traducendo una serie di scritti di medicina, nel momento in cui venne a mancare Ya῾aqōv ben Maḵîr. All'inizio del XIV sec. la situazione in Provenza era molto cambiata rispetto a quella di mezzo secolo prima, poiché diventava sempre più difficile imparare l'arabo e procurarsi opere scientifiche arabe, fatta eccezione per gli ambienti medici, che pare avessero conservato, e senza dubbio protetto gelosamente, queste prerogative. In effetti, non esisteva più un vero ambiente filosofico e scientifico, ma solo pochi studiosi isolati, i quali, sottoposti alle incertezze dell'epoca ‒ come le misure di espulsione decretate da Filippo il Bello nel 1306 ‒ erano depositari di un sapere tanto prezioso quanto raro. Questa fu una delle ragioni che spinse Qâlônîmôs a lasciare la Provenza, in una data difficile da precisare, per recarsi a Barcellona, dove, secondo quanto egli stesso racconta, entrò in contatto con alcune persone che conoscevano perfettamente l'arabo e dove ebbe la possibilità di consultare biblioteche assai fornite. È molto probabile, anche se non siamo in grado di stabilirlo con certezza, che egli si procurò in Catalogna, terra che era ancora aperta all'eredità scientifica arabo-musulmana, le raccolte di scritti scientifici arabi, dei quali redasse le versioni ebraiche che conosciamo.
Fra il 1309 e il 1317 tradusse, oltre alle opere di matematica che abbiamo menzionato, libri di filosofia, di astronomia e di astrologia. Sembra che la sua attività di traduttore dall'arabo all'ebraico ebbe termine nel momento in cui fu spinto dal re Roberto d'Angiò, senza dubbio intorno al 1319, a tradurre in latino testi arabi o ebraici. Egli soggiornò a Napoli e a Roma, ma fu ad Arles, nel 1328, che intraprese, su richiesta del re, la traduzione in latino della celebre opera di Averroè Tahāfut al-tahāfut (La distruzione della distruzione), con il titolo di Destructio destructionis. Abbiamo accennato in precedenza che Qâlônîmôs fu probabilmente l'autore di un'opera dedicata alla scienza del numero, Sēfer ha-Melaḵîm, nella quale si trovano esposte, fra l'altro, le proprietà e il metodo di calcolo dei numeri amicabili. Essa fu scritta in ebraico e dedicata al 'grande re', ossia a Roberto d'Angiò; non siamo in grado di stabilire se fosse stata tradotta in latino.
Qâlônîmôs non fu un matematico o un astronomo di professione, ma è possibile che in gioventù abbia praticato la medicina. In effetti egli toccò, con pari maestria, tutti i campi del sapere del suo tempo, e in una composizione letteraria chiamata Even bōḥan (La pietra di paragone) descrisse, con pungente ironia, i difetti degli 'specialisti'. Per quanto riguarda le sue scelte nella traduzione dei testi matematici arabi, le opere di commento a Euclide, oppure quelle che completavano gli scritti intermedi già disponibili in ebraico, prendevano posto naturalmente nella 'biblioteca matematica' dello studioso; è invece più difficile comprendere a chi fossero rivolti e a quale uso fossero destinati gli opuscoli della tradizione di Apollonio, l'opera Della sfera e del cilindro di Archimede e soprattutto l'opera di Ibn al-Samḥ sulle sezioni di cilindro, che rappresentava una ricerca d'avanguardia sulla geometria delle curve. Per quanto ne sappiamo, negli scritti matematici ebraici successivi non si trova alcun riferimento a quest'opera; tuttavia, a Costantinopoli, nel 1506 fu trovato qualcuno in grado di copiarla, pur sottolineando la difficoltà del testo e la sua rarità (è la sola copia che sia rimasta).
L'attività di traduzione nella Provenza del XIV secolo
L'analisi del primo grande movimento di traduzione ci ha permesso di tracciare un quadro dei mezzi teorici che erano accessibili tra la fine del XIII sec. e l'inizio del XIV. È evidente che l'attività di traduzione non si interruppe del tutto alla fine di questo periodo, e che essa non si limitò, dal punto di vista geografico, ai centri della Provenza che ne costituirono comunque il contesto principale. Tuttavia, è chiaro che le composizioni principali che videro la luce nella Provenza del XIV sec. sono in gran parte debitrici dei testi classici, che erano oramai disponibili in ebraico. Queste composizioni di matematica furono scritte da astronomi rinomati. Il primo è Lēwî ben Gēršôm (Gersonide, 1288-1344), autore di un'importante opera di astronomia e di numerosi scritti di matematica, le cui fonti e la cui portata scientifica iniziano a essere valutate più approfonditamente. Per ciò che concerne la geometria, Gersonide commentò gli Elementi di Euclide e scrisse un opuscolo che mirava a dimostrare il quinto postulato. L'analisi di questi testi spinge a interrogarsi a proposito dell'accesso di Gersonide ad alcune fonti arabe, delle quali non conosciamo una versione ebraica, come il commento degli Elementi di al-Nayrīzī o la parafrasi del testo euclideo dello Pseudo-Ṭūsī; si riscontra anche il riferimento a una copia araba degli Elementi, a proposito della formulazione della prop. 10 del Libro IV. Tuttavia, bisogna sottolineare l'assenza di qualsiasi opera araba nel catalogo autografo, di recente identificato, della biblioteca personale di Gersonide, nel quale figurano molti dei testi tradotti in ebraico che abbiamo menzionato. In ogni caso, non possiamo escludere che egli avesse rapporto di fattiva collaborazione con uno studioso arabizzante.
Nel 1321 Gersonide finì di scrivere una vasta opera di aritmetica, intitolata Ma῾aśê ḥôšēv (L'opera del calcolatore). Se i libri aritmetici degli Elementi, l'Introduzione all'aritmetica di Nicomaco e il Sēfer ha-Mispār di Ibn ῾Ezrā costituirono i punti di partenza di quest'opera, ci si può domandare a ragione a quali fonti (arabe o latine) l'autore abbia avuto accesso, per esempio per ciò che riguarda gli sviluppi dell'analisi combinatoria. I contatti comprovati che Gersonide ebbe con studiosi cristiani gli consentirono forse di consultare i lavori di Campano da Novara, di Giordano Nemorario, oppure di Giovanni di Murs, che egli potrebbe aver incontrato ad Avignone. A questo proposito, si può menzionare l'opuscolo che egli redasse su richiesta di Filippo di Vitry, vescovo di Meaux e uno dei maestri della scienza musicale dell'epoca, sui numeri armonici; è possibile che questo testo, del quale si conosce solamente una versione latina intitolata De numeris harmonicis, fosse noto nel circolo scolastico parigino di cui faceva parte Nicola Oresme.
Il secondo autore è Emmanuel ben Jacob Bonfils di Tarascona attivo fra il 1340 e il 1365, che fu medico e, soprattutto, astronomo rinomato. I suoi scritti matematici, ancora poco studiati, trattano soprattutto delle frazioni decimali e della misura del cerchio. È certo che egli conoscesse il latino, poiché è proprio da questa lingua che tradusse in ebraico il Romanzo di Alessandro.
Le traduzioni e gli adattamenti nell'Italia del XV secolo
Lo spostamento verso l'Italia non fu di natura esclusivamente geografica: i testi che possediamo testimoniano il ricorso sempre più frequente al latino e alle lingue volgari. Il corpus delle opere matematiche ebraiche identificabili come 'italiane' (sia che siano state scritte da studiosi ebrei italiani, sia che portino il segno di diversi 'italianismi') non è ancora stato approfondito in maniera sistematica. Uno studio d'insieme dovrà integrare le caratteristiche del contesto culturale specifico ed esaminare lo sviluppo, a partire dal XIV sec., di tradizioni algebriche e aritmetiche locali. Uno dei personaggi più rappresentativi di questo periodo fu Mordecai Finzi (m. 1475) di Mantova. Astronomo, traduttore e commentatore, Finzi associò il suo nome a numerosi scritti matematici: tradusse l'opera di Abū Kāmil sul pentagono e il decagono e fu anche il traduttore, o forse persino l'autore, di un ambizioso riassunto del sapere geometrico, diviso in undici parti, nel quale sono menzionati i nomi di Campano e di Giordano Nemorario e sono utilizzate numerose espressioni italiane. Finzi scrisse anche un'opera di stereometria, il Ma᾽amār be-ḥešbôn medidat ha-gigiyyôt we-ha-ḥaviyyôt (Trattato sulle misure delle vasche e dei barili), nella quale vengono citati ᾽Avrāhām bar Ḥiyya e alcuni abacisti cristiani.
Nel campo dell'algebra conosciamo una composizione dedicata a Finzi e scritta da un suo amico, Simon ben Mōšeh ben Simon Motot. Questo testo espone i principî generali dell'algebra e tratta delle equazioni canoniche di secondo grado e delle equazioni di terzo grado che si possono ricondurre a esse. L'autore dichiara di aver raccolto le "regole dell'algebra nei libri dei cristiani", cioè in latino, o più verosimilmente in lingua vernacolare. In quest'opera, scritta negli anni Quaranta del XV sec., si possono riscontrare alcuni elementi che sono da ricondurre al Liber abaci di Fibonacci, al quale si possono aggiungere le opere, di difficile identificazione, degli abacisti italiani dei secc. XIV-XV.
Stimolato forse dallo studio dei principî elementari dell'algebra esposti dal suo amico, Mordecai Finzi tradusse l'Algebra di Abū Kāmil, della quale il testo sul pentagono è una prosecuzione. Inoltre, tradusse l'importante trattato Aliabraa argibra del Maestro Dardi di Pisa (1344), scritto in italiano, nel quale sono presenti, forse per la prima volta in Europa, equazioni di terzo o di quarto grado irriducibili; quest'ultima traduzione, della quale conosciamo il manoscritto autografo, porta la data del 1473. È possibile domandarsi, a proposito delle versioni ebraiche degli scritti di Abū Kāmil, se Finzi li abbia tradotti direttamente dall'arabo o meno. Non ci sembra, infatti, che le argomentazioni che sono state portate a favore dell'esistenza di una fonte araba siano risolutive; è stata anche ipotizzata la presenza di una fonte latina, italiana o spagnola.
Il nome di Simon Motot si trova associato anche a una copia di un opuscolo dedicato alla proprietà asintotica dell'iperbole. Questo testo ebraico derivava da una composizione originale di Šaraf al-Dīn al-Ṭūsī (XII sec.), autore di un'opera algebrica di fondamentale importanza; questo legame insospettato con un autore arabo testimonia la complessità delle vie di diffusione delle tradizioni matematiche arabe in Europa. Non è da escludere, inoltre, che i contatti degli ambienti degli studiosi ebrei italiani con quelli di Costantinopoli, soprattutto dopo l'arrivo degli Ottomani, abbiano costituito canali di trasmissione delle idee o dei testi originali dell'Oriente arabo.
La matematica nel mondo colto giudeo-bizantino fra i secc. XV e XVI
L'attività scientifica svolta nelle comunità giudeo-bizantine è stata ancora poco studiata. Tuttavia, a partire dal XV sec. e fino alla metà circa del XVI, si registra un notevole interesse per l'apprendimento e l'insegnamento della matematica e dell'astronomia. In queste comunità si copiava molto: infatti numerose raccolte manoscritte di grande valore che ci sono pervenute sono opera dei copisti che lavoravano a quell'epoca a Costantinopoli. Essi, con la loro attività, rispondevano evidentemente a una richiesta. Oltre a ciò, si svolgeva un lavoro di compilazione: ci è pervenuto per esempio un voluminoso commento anonimo manoscritto degli Elementi di Euclide, che cita al-Kindī, al-Fārābī, Ibn al-Hayṯam e al-Anṭākī, a fianco di altri autori greci (Berlino, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, hebr. 204). Inoltre, si continuava a tradurre: intorno al 1460 Šālôm ben Yôsēf ῾Anāwî tradusse e commentò in ebraico l'opera Ḥisāb al-Hind (Il calcolo indiano) di Kūšyār ibn Labbān (X-XI sec.).
Infine, si scriveva. Le opere che citiamo segnalano il ricorso a una triplice eredità: quella dei testi già disponibili in ebraico (᾽Avrāhām bar Ḥiyya, ᾽Avrāhām ibn ῾Ezrā, i classici greci o arabi tradotti in ebraico, Gersonide e così via); quella dei testi arabi non tradotti in ebraico e quella dei testi greci o greco-bizantini. Mordekhai Komtino o Komatiano (Mordecai Comtino, 1402-1482) è l'autore di un Sēfer ha-ḥešbôn we-ha-middôt (Il libro del calcolo e delle misure), nel quale è possibile reperire fonti greche antiche come Erone, che a volte viene citato pedissequamente, ma anche procedimenti esposti da autori bizantini dei secc. XIII e XIV. Ēliyyā Mizrāḥī (1455 ca.-1526), allievo di Comtino, al quale succedette nella carica di gran rabbino di Costantinopoli, testimonia, nel suo Sēfer ha-Mispār, una vasta cultura scientifica e una grande attenzione per la pedagogia; stampata a Costantinopoli nel 1534, l'opera fu tradotta parzialmente in latino nel XVI sec. e, in seguito, riassunta in yiddish. Infine, un altro allievo di Comtino, Kalev Afendopulo (1460 ca-1525 ca.), responsabile spirituale della prospera comunità caraita di Costantinopoli e prolifico copista ed esegeta, scrisse di astronomia e di matematica; conosciamo un suo lungo commento manoscritto all'Introduzione all'aritmetica di Nicomaco, che contiene numerosi sviluppi concernenti la filosofia, l'astronomia e l'astrologia (Berlino, Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz, hebr. 226).
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