La città dei «piaseri»
Concorrono molte ragioni per fare della Venezia del Settecento uno dei punti focali dell’attenzione europea, molte ragioni che subito appaiono, qualunque punto di vista si voglia adottare.
Da quello politico, perché, quasi paradossalmente, Venezia venne a trovarsi agli antipodi di tutte le concezioni della struttura del governo, costituita, com’era, in una aristocrazia nella quale si distribuiva ogni aspetto del potere.
Esemplare davvero unico in una Europa nella quale si stavano affermando le monarchie nazionali e dove si lottava per l’ampliamento degli spazi e, quindi, per l’arricchimento anche materiale dei dominanti. Venezia, al contrario, stava riducendosi in estensione senza per ciò perdere alcunché della propria ossatura di governo né, si direbbe, della propria mentalità politica né della propria tradizione di saggia, prudente e giusta amministrazione. Ciò era dovuto ad una serie di fattori: da un lato il trasmettersi delle esperienze, si direbbe, di padre in figlio, ma certamente nell’ambito di quelle che venivano acquisite nei vari gradi del cursus honorum, un qualcosa che la faceva somigliante, e così dicevano di somigliarle, ai valori di Roma repubblicana; e proprio per questo si direbbe che il suo governo fosse improntato a criteri di severità e a un modo di agire severo: infatti le forme dell’amministrare proprio degli uffici veneziani erano ciò che più colpiva gli osservatori.
La mancanza, poi, di un soggetto sovrano, essendo la sovranità diffusa per tutte le membra dello Stato aristocratico, rendeva impensabile l’esistenza di una corte e di cortigiani. I nobili veneziani non ricevevano i loro uffici per una graziosa concessione di un monarca o dei suoi ministri, né erano adusi a comperarli, tranne, e non tutti e non sempre, per gli uffici minori. Solo le qualità personali, naturalmente sostenute dalle qualità morali ed economiche delle famiglie di appartenenza e quindi sostenute dalla loro influenza, erano gli elementi che venivano ad appoggiare ogni candidatura da parte dei supremi organi collegiali.
La mancanza di una corte, per la quale non vi sarebbe neppure stato uno spazio fisico, essendo lo stesso palazzo Ducale ripartito come sede dei vari organi, dal maggior consiglio al senato, dalla zonta al consiglio dei dieci, dalle quarantie a tutte le varie cancellerie, riservava un ambito ristretto al doge e alla sua famiglia, cancellati quasi nella loro identità umana per assumere le caratteristiche di simboli viventi della sovranità dello Stato.
Un tono, dunque, di austerità marcava la vita quotidiana nella sede del governo veneziano, né vi erano palazzi o ville dove il doge potesse ritirarsi a vivere una propria vita privata: neppure quelli che egli avesse posseduto prima della sua elezione al trono.
Venezia rappresentava in tal modo un unicum nel mondo europeo del Settecento nel quale i re, fossero di Francia, di Spagna, di Prussia o d’Austria, si attorniavano di ministri o di favoriti onnipotenti, ovvero di una loro corte nell’ambito della quale stemperavano gli affanni di governo e, tutti, avevano dei luoghi nei quali ritirarsi per la loro vita privata, si chiamassero Escorial, Fontainebleau, Sans-Souci o Schönbrunn.
Allora la vita nelle capitali era incentrata sulla vita dei palazzi reali e gli stessi Grandi regolavano la propria esistenza e il proprio modo di vivere sul metro della corte, ben attenti a non rappresentare motivi di concorrenza che avrebbero attirato i fulmini del sovrano (e il caso dell’intendente Fouquet era stato di monito per tutti i nobili d’Europa).
A Venezia, del tutto differentemente, non poteva esserci rivalità tra il centro del potere e coloro che lo costituivano: le grandi casate, splendenti per opulenza e magnificenza, molto di più di quanto non potesse fare quel supremo prigioniero del dovere e delle forme che era il doge. In realtà, proprio perché era uno Stato aristocratico, la sovranità effettiva era diffusa tra tutto il ceto nobiliare e qualunque manifestazione di ricchezza o di gloria patrizia finiva sempre per risolversi in manifestazioni di gloria della Repubblica.
A ben guardare, ciò spiega il fatto che la scomparsa della Repubblica non abbia lasciato niente dietro di sé se non un vuoto palazzo Ducale: non un corteo di statue nei campi, non un apparato di collezione pubblica come fu per il Louvre, il Prado, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, gli stessi Uffizi a Firenze, Capodimonte a Napoli o i Musei Vaticani, senza contare i musei sopravvissuti alla fine dei vari principati e ducati italiani. Perché la vera ricchezza della Repubblica era quella costituita da tutti i suoi appartenenti. Tranne la grande Biblioteca Marciana, le vere raccolte d’arte erano conservate nei palazzi della nobiltà, fossero essi i Grimani o i Farsetti per citarne solo due. Ed ecco perché alla caduta della Repubblica queste ricchezze rimaste proprietà private poterono essere in gran parte disperse; perché lo scioglimento del vincolo di appartenenza alla Repubblica sciolse non solo i doveri di fedeltà, ma anche quelli di compenetrazione nello Stato. Né, d’altra parte, avrebbe potuto alcuna casata nobiliare sostituirsi, come tale, allo Stato. Vigilavano su tutto il consiglio dei dieci e gli altri organi attenti ad impedire qualunque manifestazione che potesse essere eversiva dell’unità dello Stato e ciò non solo sul piano degli atteggiamenti politici (il che dopo il Falier sarebbe stato impensabile e la stessa vicenda settecentesca del Querini ne è ulteriore dimostrazione) ma anche su quello delle manifestazioni esteriori del potere. Basti ricordare l’attenzione con cui venivano seguite, controllate e punite le ostentazioni della stessa ricchezza femminile cui era preposto un apposito organo, il magistrato alle pompe.
Gravava, allora, una cappa di sospetto e si direbbe oggi un clima poliziesco: dappertutto erano sguinzagliati segreti informatori degli inquisitori di Stato; nelle cosiddette bocche di leone, destinate alle missive segrete, potevano essere, appunto, inviate denunce anonime; su tutto vigilava l’apparato di protezione del sistema e nessuno poteva sentirsi sicuro, non solo nelle strade e nei luoghi pubblici, ma nemmeno nelle proprie case.
Le inquisizioni e i processi seguivano continuamente l’un l’altro, mentre i parroci costituivano una stretta rete di annotatori di ogni cosa che potesse avere l’aspetto anche solo di dissenso sia in materia politica che in materia civile.
Solo la politica ufficiale, quella che si esprimeva nei vari consessi, aveva titolo di esistenza a Venezia. Non solo, quindi, non era possibile parlare di politica, ma non si poteva neppure accennare a temi anche generali senza incorrere nel pericolo di gravi conseguenze. In questo modo la società veneziana non aveva la possibilità di parlare di politica, ciò che, invece, occupa la maggior parte del tempo dei nostri contemporanei.
Perciò, Venezia poteva apparire come un luogo nel quale non vi era spazio se non per l’esercizio del potere, oggi si direbbe, costituzionale e amministrativo. Né diversa doveva apparire la situazione dei ceti medi, di quei mercanti che fornivano l’ossatura economica di tutto lo Stato. Mercanti certamente anche i nobili, attenti sempre a non disperdere le ricchezze accumulate nei secoli ed anzi, possibilmente, ad aumentarle. L’attenzione, ad esempio, con cui l’ambasciatore veneto a Parigi, costretto nei tragici giorni della rivoluzione a trasferirsi a Londra, assicura la Serenissima di avere con cura salvato da ogni possibile distruzione i beni conservati nella sede della rappresentanza diplomatica, può essere esempio illuminante di come vivesse e si comportasse un nobile veneziano, rappresentante della Repubblica, attento non solo all’esercizio delle sue funzioni ma anche alla salvaguardia del patrimonio materiale della Repubblica. Quanto al ceto medio, non vi è rappresentazione più vivida e realistica di quella che ci è stata fornita da Carlo Goldoni, autentico cronista della vita minore della città dove, esemplarmente, la severità cisposa e accigliata dei quattro rusteghi contrasta con il desiderio quasi puerile di espansione gioiosa dei più giovani familiari: anche qui, dunque, una sottolineatura della severità dell’impegno, vuoi di conduzione della famiglia vuoi di tutela del patrimonio, che può ben essere estesa come simbolo di una vita che, se nello specchio dell’arte diventa ridicola musoneria, nella realtà corrisponde ad un modo di vita improntato a principi, appunto, di severità.
L’altro polo può essere rappresentato dal modo di vivere nel palazzo di Versailles. Già ai tempi di Luigi XIII e di Maria de’ Medici a Fontainebleau, la struttura monocratica del potere, formalmente accentrata nella persona del re e, poi, della reggente, ma sostanzialmente nelle mani dei due grandi ministri, Richelieu e Mazzarino, aveva portato alla distinzione di due corti, quella che gravitava intorno al re e ai suoi favoriti e quella che gravitava intorno ai ministri: la prima tendenzialmente esclusa dagli affari e la seconda costituita da personaggi non solo fedeli ma quasi automi nelle mani del ministro.
Qui questa corte minore non si divertiva ma quotidianamente tesseva la tela dei grandi disegni ambiziosi, dei rapporti con i potentati interni, fino a giungere alla guerra civile e ai potentati esterni con continue azioni belliche che impegnavano le forze militari e, soprattutto, quelle economiche della Francia. In questo ambito poco rimaneva per il divertimento: si trattava di una continua tensione senza momenti di rilassamento.
Il re, per parte sua, era invece occupato, oltre alla presidenza dei vari collegi, nei divertimenti della caccia e in quelli dell’alcova.
Approdata la Francia al regno personale di Luigi XIV, l’enorme vigoria intellettuale e fisica di questo re fece sì che i due aspetti si fondessero in uno solo e, mentre scomparso il Mazzarino tutto il governo fu raccolto nelle sue mani, questi celebrò in se stesso sia i successi della sua politica che i fasti e i piaceri della sua corte, passando dagli uni agli altri senza soluzione di continuità.
Fu così identificata la giornata del re con la vita dello Stato e il sorgere del sole coincise con il Lever ufficializzato del Re Sole, mentre tutto il resto della giornata era rigidamente segnato e pubblicizzato avvenendo, tranne che per le riunioni mattutine dei consigli, alla presenza di tutta la corte fino alla fine della giornata, con il Grand Couvert e il Coucher. Attorno al re girava la vita quotidiana del cortigiano, che gli faceva compagnia nei suoi svaghi e nei suoi giochi, la caccia, il biliardo, le carte, le passeggiate nel parco e le gite sull’acqua con un’imitazione di quei cortei di barche che voleva essere imitazione dei piaceri veneziani. Ma, in sostanza, la vita del re a Versailles si svolgeva sotto gli occhi di tutti, ben diversamente da ciò che avveniva nel chiuso del palazzo Ducale. Né le cose cambiarono sotto il regno di Luigi XV, dove anzi furono impudicamente ostentati i piaceri libidinosi del re, o sotto quello di Luigi XVI, dove la civetteria di Maria Antonietta teneva desta la corte e superava la naturale riservatezza del sovrano.
Ora, poiché la Francia era Parigi e Parigi era la corte, si può ben dire che tutta la Francia che contava si riassumeva nei piaceri degli appartenenti alla corte. Vi furono continuamente congiure, processi e perdoni e il piacere, quindi, era non soltanto quello dei divertimenti ma anche quello della lotta politica, fosse essa rivolta contro Richelieu o contro Mazzarino o anche tesa a far cadere i vari ministri per sostituirli con altri più graditi.
L’ambiente era perciò un ambiente aperto dove la politica si mescolava all’intrigo delle nobildonne e dei casati. Un clima di festevolezza contrassegnò, allora, la Francia, soprattutto nel Settecento, ma un clima che restava limitato e racchiuso in un ambito ben definito e, in sostanza, di poche centinaia di persone ammesse a condividere questi piaceri.
Un quadro che non poteva ripetersi nelle altre corti d’Europa. Non certamente in Spagna dove la pesante presenza dell’apparato ecclesiastico e la naturale tendenza al misticismo e alla religiosità degli Spagnoli tenevano a freno ogni manifestazione di gioiosa anche se eccessiva vitalità. D’altronde l’impronta data a quel regno da Carlo V e aggravata dalla malinconia congenita di Filippo II non poteva non condizionare il modo di vivere dei successivi sovrani.
L’Inghilterra aveva ben altri problemi di assetto interno per consentire grandi esplosioni di ostentazione ludica dei suoi sovrani, almeno fino al Settecento, quando il giungere sulla scena politica delle classi medie spostò il centro vitale dalla corte ai borghesi.
Quell’attento e spiritoso cronista che fu Giacomo Casanova non mancò nel VII capitolo del volume IX delle sue Memorie di rendere conto della pubblicità che veniva data alle avventure del pubblico in una Londra popolata da una media borghesia che mostrava di divertirsi nelle taverne «con le bottiglie e le ragazze di cui Londra ridondava», ovvero presa dalla febbre del gioco d’azzardo, mostrando le sembianze di una società straordinariamente libera e aperta, retta da una consapevolezza delle libertà individuali e dei relativi diritti.
Anche qui, dunque, un assetto sociale completamente diverso da quello veneziano che nascondeva nelle case da gioco e nei teatri ogni manifestazione che potesse avere le caratteristiche della licenza o, anche, della licenziosità.
D’altronde, la stessa natura democratica del governo britannico tendeva ad espandere verso l’intera collettività quegli svaghi che in Francia sembravano propri del solo potere monarchico e della corte.
La congenita serietà dei popoli tedeschi propone un quadro particolare del modo di essere dei vari Stati: per citare i due maggiori, in Prussia un forte senso di subordinazione gerarchica sfociava in una organizzazione militare dell’intera società, creando una specie di Stato collettivo dove ognuno trovava la sua esatta collocazione e serviva a fornire i mezzi finanziari e quelli personali all’esercito, tanto che Immanuel Kant poté scrivere che «oggi odo gridare da tutti le parti: non ragionate, l’ufficiale dice: non ragionate ma eseguite gli esercizi, il consigliere di finanza: non ragionate ma pagate».
L’ottusità di questa vita veniva appena rischiarata dagli interessi di Federico II, il re-filosofo che teneva alla sua corte Voltaire, Karl Philipp Emanuel Bach e Karl Heinrich Graun e si dilettava a scrivere e ad eseguire musica.
La naturale festevolezza del popolo austriaco si manifestava, invece, sulle piazze della capitale, ma non giungeva a penetrare i segreti di una corte che il bigottismo di Maria Teresa o di Giuseppe II improntava ad una grande severità che si estendeva ai sudditi e consentiva anche nelle case dei più grandi nobili i massimi svaghi delle esecuzioni musicali e di qualche ballo solenne.
In realtà si può immaginare, al di là di queste notazioni ancora generali, che vi siano dei tipi diversi di piaceri a seconda dei loro ambiti e delle loro finalità, queste ultime, in particolare, potendo offrire dei punti di vista, per così dire, sistematici nella considerazione dei divertimenti.
Un primo punto di vista potrebbe essere adottato osservando come il divertimento sia posto al servizio del potere. Si tratta, come è evidente, dei divertimenti organizzati o pubblici quali le cerimonie, le feste religiose, quelle militari e perfino i solenni funerali. Che il divertimento sia stato usato come strumento di potere non può certo essere negato: dalla storia antica, sia di Grecia che di Roma, viene una tradizione di organizzazione di spettacoli tesi a soddisfare il bisogno di evasione di un pubblico usualmente costretto nei confini della mediocrità della vita quotidiana se non anche in limiti di ristrettezze economiche. La Grecia aveva risolto questo tema attraverso le grandi feste dei giochi olimpici, ma non solo di quelli; Roma, forse più rozza, costruiva nelle sue città, dalla capitale alle lontane periferie, le grandi arene dove si svolgevano giochi, per lo più cruenti, giustificati dagli scrittori di quel tempo come un mezzo per abituare il popolo a sostenere la vista del sangue e della morte ed essere, quindi, pronto a sostenere i rischi delle battaglie. Più raffinata, la civiltà greca tendeva al culto della vita e a quello connesso della fisicità dell’essere ed esaltava e laureava i campioni, vincitori di gare di estrema eleganza. E di queste è rappresentazione ancora oggi nei piccoli quadri dei grandi vasi appartenenti ai vari secoli della civiltà precristiana.
Non necessariamente, perciò, giochi o feste popolari al servizio del potere identificato come un qualsivoglia governo, ma al servizio di una concezione ideale della comunità, militare quella romana ed estetica quella greca, cosicché nei giochi il divertimento diventava al tempo stesso un momento di rilassamento rispetto alla vita quotidiana e di omogeneizzazione del tipo di cittadino. Senza dimenticare, a questo riguardo, la grande funzione educativa dei teatri, ospitassero le tragedie greche o le commedie romane.
Tracce di questa funzione del piacere al servizio del potere si sono conservate lungo i secoli in tutta Europa, assumendo ovviamente forme diverse, andandosi, per fare qualche esempio concreto, dal palio di Siena ai raduni folcloristici degli Schützen.
Ma se il piacere fu al servizio del potere e cioè della identificazione di una determinata comunità, anche il potere fu al servizio del piacere. La necessità di dare sfogo alla compressione di una vita generalmente meschina di un popolo formato di piccoli artigiani, di operai, talora quasi di servi della gleba persuadette sempre i detentori del potere a organizzare essi stessi dei divertimenti che rappresentassero delle pause festose nella monotonia della vita di tutti i giorni.
Così il potere politico sfruttò il piacere nel proprio interesse provvedendo a organizzare feste popolari per solennizzare varie occasioni come i matrimoni della famiglia reale, i battesimi degli eredi e perfino i fastosi funerali. A queste «feste» accorreva il popolo, le attività si fermavano, e spesso per molti giorni, e si aveva, più che l’illusione, la certezza di avere con ciò legato il popolo ai destini della classe dirigente, certezza che appare per litteras dai documenti e dalle cronache del tempo, nonché, visivamente, dalle varie rappresentazioni nelle pitture e nelle stampe.
La stessa Chiesa cattolica mise le proprie cerimonie al servizio del piacere: non solo le grandi messe cantate nelle cattedrali richiamavano le folle, ma anche i celebri predicatori, talora agitantisi e vocianti negli spazi aperti; e come non ricordare le varie processioni cui il popolo accorreva o come partecipante o come osservatore?
La Chiesa, dunque, usava del piacere per i propri scopi così come ne usava il governo civile, con una specie di parallelismo che alle volte convergeva su un unico punto quando l’esaltazione del potere civile concorreva con l’esaltazione del potere religioso.
In realtà vi erano in quei tempi due poteri che si sostenevano a vicenda e così alle manifestazioni collettive del potere religioso, come ad esempio le processioni, corrispondevano le manifestazioni del potere politico, come i grandi cortei dei dignitari o le parate militari. Così come, allora, l’anno romano era scandito dalle feste religiose o popolari e inframmezzato da festività occasionali come potevano essere le celebrazioni dei trionfi, anche gli anni dei secoli passati seguirono ovunque le stesse scansioni, non mancando neppure quei trionfi che nella prima metà del Cinquecento sottolineavano la forza del potere politico del papa e dell’imperatore romano.
Questa visione della frapposizione del piacere organizzato a servizio del potere, o di cui il potere si metteva a servizio, rappresenta una visione della vita che si direbbe piena di contrasti o meglio piena di vivaci colori nelle festività e di grigia, talora dolente uniformità nei periodi dominati dalla fatica.
Ma questa rappresentazione del piacere nell’ambito della società riguarda il fenomeno nella sua generalità o meglio nel rapporto tra classi dominanti e classi dominate.
Le fonti, sia quelle documentali che quelle iconografiche, non ci riportano soltanto questi aspetti dei piaceri collettivi; conosciamo, infatti, anche i piaceri particolari alle due classi e va detto subito che questi non sono al servizio né servono, essi sono dei piaceri, per così dire, allo stato naturale e tipici, quindi, delle varie classi sociali, piaceri per soddisfare quell’esigenza dell’homo ludens che ne è insopprimibile componente.
Tralasciamo qui, come ovvio, il tema dei piaceri tipici dell’individuo, da quelli dei rapporti amorosi a quelli delle soddisfazioni personali di chi si dedica alla cultura, questi ultimi sufficientemente caratterizzati dagli stessi segni nelle varie epoche: un ritirarsi nel gioco delle letture o in quello delle scritture, affidati piuttosto alla comunicazione attraverso la ristretta cerchia di amici o alla più ampia, ma pur sempre limitata, circolazione dei libri.
Quanto agli amori, nella ineluttabilità delle forme di esplicazione, potevano variare i mezzi del corteggiamento, segreti e quasi inespressi nei periodi di maggiore idealizzazione, più aperti o in vari modi camuffati nei periodi di maggiore libertà dei costumi.
Ma non vanno dimenticati anche i piaceri di cerchie ristrette e spesso omogenee come i teatri, sia che fossero impegnati in produzioni, come oggi si direbbe, musicali od operistiche ovvero in rappresentazioni di tragedie o commedie.
In effetti il gusto del teatro cominciò come un gusto collettivo e il teatro stesso, nell’antica Grecia come nell’antica Roma, fu manifestazione di concezioni socio-politiche oltre che, naturalmente, di valore letterario. Ma quel teatro, per ragioni che non sfuggono, venne meno per l’opposizione di una Chiesa cattolica che non poteva accettare forme di educazione collettiva che andassero fuori del suo ambito di dominanza; così l’immoralità degli spettacoli e della gente di teatro fu per lunghi secoli pretesto per una condanna cui si poté ovviare solo quando con l’affermarsi di una classe aristocratica educata alle lettere più che alle armi, come nel Rinascimento, i teatri tornarono ad essere centri di attività che oggi chiameremmo culturali.
Ma seppure ciò non impedisce di concepire l’attività teatrale come un divertimento, si intende l’attività che si svolgeva nei teatri, fosse essa appunto segnata dalle espressioni musicali o da quelle dei commediografi e dei drammaturghi, certamente il teatro era anche un luogo di piacere come luogo di ritrovo e non sempre lo spettacolo ne era il fine ultimo, anzi veniva considerato come una occasione per il gusto del ritrovarsi insieme, come potrebbe essere oggi il cabaret; e spesso anche il palcoscenico era luogo per motteggi e lazzi, non privi tuttavia di un qualche significato sociale.
I ritorni sulle scene di un Molière, di un Corneille come di un Goldoni e a partire da Monteverdi e dai musici della camerata fiorentina fino agli operisti del Settecento, da Vivaldi a Mozart e a Gluck, segnano l’apparire di un teatro che non è più divertimento ma è anzi impegno intellettuale con non poche intenzioni moraleggianti.
Ma questi sono divertimenti intellettuali riservati ad una classe sociale di alto livello. I piaceri intimi delle classi minori continuarono ad essere polarizzati sui giochi collettivi, quando non si esaurivano nelle baldorie e negli azzardi delle taverne.
Ma torniamo a Venezia, l’altro polo dell’Europa.
La straordinaria unicità di questa città-stato riposa, in sostanza, sul fatto che in essa le evoluzioni sociali furono lentissime e quelle politiche quasi inesistenti. Per queste ultime la rigidità della costituzione impedì che avvenissero trasformazioni di rilievo nell’organizzazione dello Stato, anche se, naturalmente, lo spirito dei tempi portava a cambiare gli atteggiamenti degli individui. Ma sempre all’origine vi era un modello di comportamento in un certo senso non suscettibile di mutamenti che si risolveva più che in un rispetto dei singoli, come è nei tempi attuali, in un rispetto della posizione dei singoli nei confronti di una società rigorosamente disciplinata dalle leggi e da quell’idea ispiratrice della Repubblica che veniva chiamata equità: una sorta di giustizia naturale che si tramandava di padre in figlio e di cui le autorità erano interpreti abituali.
La sicurezza del vivere era, infatti, garantita da questo principio di giustizia naturale che si risolveva nell’antico adagio «unicuique suum».
Il rispetto dei limiti di responsabilità individuale come il radicamento di ciascuno nel proprio ambito sociale discendevano da una attuazione attenta e perfino inesorabile di quel principio. Ciò ha significato, nel corso dei secoli, una fissità dell’assetto sociale e un tramandarsi di costumi che erano le manifestazioni esteriori di questi principi di stabilità di quell’assetto.
La ricerca di Giustina Renier Michiel sull’origine delle feste veneziane, scritta agli inizi dell’Ottocento, quando erano ancora vivi gli spiriti che avevano retto la Repubblica, è del tutto persuasiva. Essa ha infatti posto l’accento sulla permanenza delle feste in relazione ai fatti antichi che le avevano originate, fatti che risalivano alla stessa credenza sulla fondazione della città o ad eventi di particolare incidenza nella sua storia. Una storia politica ma anche religiosa e civile. La Renier Michiel ha catalogato quarantuno feste ricorrenti nel corso dell’anno e attraverso di esse è possibile risalire non solo agli eventi ritenuti essenziali per la Repubblica ma anche alla loro continua evidenza e permanenza intesa a conservare i valori di cui la società veneziana era intessuta.
Perché questa fu, e non è una scoperta, una società conservatrice dove il desiderio delle novità non poteva attecchire e dove, quindi, le celebrazioni che si ripetevano di secolo in secolo, fino all’ultimo della Repubblica, servivano a mantenere vivo il contatto con i fatti che la costituivano e che la mantenevano intatta.
Una società aristocratica, attenta alla continua presenza delle origini così delle famiglie come dello Stato; il quale, al tempo stesso, travalicando questi confini nobiliari, faceva partecipe della vita politica collettiva tutto il popolo.
A ben guardare, allora, le feste, pur fornendo motivi di pausa dagli impegni, finivano per far coincidere il piacere al servizio del potere con il potere al servizio del piacere. Questa dicotomia che si rendeva evidente negli altri Stati europei non sussisteva nell’ambito della Serenissima dove, dunque, il piacere era in funzione dello Stato, cioè dell’unità della società, e al tempo stesso lo Stato si prestava a conservare l’unità della società.
Posto in questi termini, il piacere popolare si confondeva con la politica dello Stato: esso non aveva mai una propria funzione autonoma, non vi era, cioè, il piacere per il piacere ma sempre tutto era finalizzato all’unità politica dello Stato e della comunità che lo formava. Senza distinzioni, quindi, tra piacere delle classi alte e piacere delle classi medie e del ceto popolare. Alle feste tutti partecipavano e partecipavano in eguale misura: il doge rappresentava veramente l’unità di tutti e la sua presenza alla testa dei cortei riassumeva quell’unità. Egli non era visto come un sovrano lontano e distaccato ma era uno, seppure il princeps, tra tutti i Veneziani, e così, senza che vi fosse una corte di cortigiani, i nobili partecipavano alle feste vivendole allo stesso titolo di tutti gli altri cittadini.
Forse il fatto che qui non vi fossero carrozze e tutti dovessero andare a piedi poneva una condizione di inevitabile parità; e al tempo stesso, quando le feste si celebravano sulle acque, accanto all’imbarcazione del doge si affollavano quelle dei nobili e quelle, sia pure modeste, dei cittadini ma tutte equalizzate dallo stesso tipo di energia motrice.
Allora l’uguaglianza e la parità dei mezzi impingevano sull’eguaglianza e sulla parità degli individui. Non solo, ma presupponevano una staticità della storia che coincideva con la staticità della società politica o civile.
Al che concorreva la viva presenza della Chiesa in quella società, con la fissità dei suoi riti, la ripetitività delle occasioni, la inevitabile riassunzione in una sola assemblea di tutti i partecipanti.
Si vuol dire, dunque, che almeno fino agli inizi del Settecento, e forse fino al secolo avanzato, Venezia non conobbe né lotte e guerre civili né distinzioni tra sovrani, nobili cortigiani e popolo che erano invece tipiche di altri Stati europei, in particolare dei grandi Stati continentali, la Spagna, la Francia e l’Austria. A Venezia i piaceri erano piaceri di Stato ma di uno Stato fatto di tutta la collettività, dove tutti erano contemporaneamente coinvolti ed interessati al comune benessere.
Probabilmente i tempi erano scanditi da questi avvenimenti: ad essi ci si preparava in modo da essere liberi di presenziarvi ed è facile immaginare come, finita la festa, seguisse poi la scia dei commenti intesi a sottolinearne la riuscita o le manchevolezze, mentre sciamavano per le calli della città i costumi indossati dai nobili, dagli ecclesiastici e le frotte rumorose dei popolani: una festa nella festa, un piacere che si diffondeva per tutta la città.
E basterebbe sfogliare quel libro di Giacomo Franco intitolato Habiti d’huomeni et donne venetiane con la processione della ser.ma Signoria et altri particolari, cioè trionfi feste et cerimonie pubbliche della nobilissima città di Venetia, scritto alla fine del Cinquecento, per vedere rappresentati tutti questi divertimenti e piaceri in una confusione di nobili e popolani che letteralmente riempiono gli spazi e i luoghi deputati, e confrontarlo, poi, con quei quadri del Bella che ancora nel Settecento documentano gli stessi divertimenti, si direbbe nelle stesse forme o, per finire, con le grandi incisioni del Brustolon sulle feste di Venezia.
Benché la pittura ufficiale mitizzi questi momenti e si riduca a magnificare le feste pubbliche come gli ingressi dei principi stranieri, una sostanziale uniformità di espressione sottolinea la continuità dei modi di vivere.
D’altronde la raccolta delle leggi attinenti ai momenti del piacere, da quelle sulla prostituzione a quelle sulla ostentazione della ricchezza, mostra una sostanziale uniformità di vedute e di precetti che convincono della altrettanto sostanziale identità dei problemi e delle cose.
Il relativo isolamento della Repubblica Veneta, assestato oramai su posizioni fondate su tradizionali rapporti tra gli Stati europei, era destinato a venir meno nel secolo dei lumi, quando, cioè, le politiche internazionali non erano più decise e realizzate sulla testa dei popoli, ma quando anche i popoli, nelle loro espressioni culturali, cominciavano a giudicarle e a criticarle.
L’atteggiamento sottomesso e ubbidiente dei vari ceti sociali nei confronti di decisioni che venivano prese nel chiuso dei gabinetti ministeriali cominciò a venir meno ad opera di quei filosofi che furono detti illuministi.
Non sarebbe facile, e forse neppure utile ai fini di questo contributo, scavare nelle origini del movimento illuminista, certamente non scollegato con i progressi di una cultura naturalistica che aveva abbandonato il principio di autorità per porre in discussione, senza vincoli ideologici, il modo di essere della natura.
Cominciò allora quel movimento che ancora oggi è in corso di sviluppo circa l’avvicinamento delle cosiddette due culture, quella umanistica e quella scientifica, la prima tesa ormai ad una indipendenza di giudizio rispetto ai principi affermati e osservati come indiscutibili; appuntandosi prima di tutto sui dogmi della fede, non solo nelle forme in cui essi erano affermati dalla Chiesa e universalmente ricevuti ma addirittura sugli stessi principi su cui essi erano radicati e cioè l’esistenza di Dio e l’autorità della Chiesa che da quella esistenza traeva la propria forza.
La rivolta contro la religione e contro l’apparato che la personificava fu davvero virulenta e rapidamente conquistò le classi pensanti sia per espresse adesioni che per simpatie personali e forse anche per moda; del che furono protagonisti, innanzitutto, il Voltaire e, nelle varie posizioni assunte, il Diderot e il Rousseau o, per trovare il referente fondamentale, quella Encyclopédie che, pur derivando i motivi della sua origine in Inghilterra proprio dalla necessità di una sistemazione del pensiero e delle acquisizioni scientifiche, inevitabilmente si estese in Francia alle voci relative ai dogmi religiosi e al potere politico, con quella prospettazione degli ambiti delle libertà individuali che doveva costituire il punto di partenza per l’attacco all’antico regime e cioè agli antichi modi della società. Il che comportò, poi, un venir meno di solidi principi morali, forse osservati più nelle forme e nelle apparenze che nella sostanza, con il conseguente dilagare di una libertà che diveniva licenza e, infine, libertinaggio.
I libertini furono, infatti, i protagonisti di quest’epoca non solo attraverso gli innumerevoli romanzi e poemi erotici ma anche nei comportamenti sia pubblici che privati.
Quelle idee e queste libertà si diffusero rapidamente in Europa giungendo a lambire la monarchia prussiana e la stessa autocrazia che imperava in Russia, combattute ovviamente dai governi mediante la censura, lo spionaggio e le delazioni. La moda di Francia penetrava ormai non solo nei costumi ma anche nelle menti.
Venezia non ne fu immune.
D’altronde una lunga tradizione di separazione tra la vita civile e quella politica aveva preparato tutte le classi, e in particolare quelle della borghesia intellettuale allora emergente, ad un desiderio, sia pure sotterraneo, di libertà che i primi viaggiatori francesi non avevano mancato di rilevare.
Mentre Misson prima e il presidente de Brosses poi avevano rilevato che, a patto di non immischiarsi negli affari dello Stato e, naturalmente, di non commettere delitti o di dare pubblico scandalo, si poteva fare a Venezia tutto ciò che si voleva, l’austero Montesquieu deplorava questa libertà, implicitamente riconoscendone l’esistenza, perché «essa permetteva di andare in pieno giorno a visitare le donne di piacere, sposarle, non fare la pasqua ed essere totalmente sconosciuti e liberi nelle proprie azioni».
In sostanza i testimoni di quel tempo, dal barone de la Brède ad Arthur Young, confermano questa posizione di grande libertà dei costumi e delle opinioni purché non osassero mettere in discussione l’ordine dello Stato; e testimone di ciò è lo stesso Goldoni che non senza ragione ne La Fondazione di Venezia fa dire al vecchio Besso «a prezzo d’oro / la nostra libertà nu no venderemo; / liberi semo nati, / liberi moriremo», riferendosi, sicuramente, alla libertà dallo straniero, ma non senza qualche implicito richiamo alle libertà individuali.
Certamente era difficile separare il pubblico dal privato e ciò spiega le disavventure della massoneria a Venezia temendosi che queste libere associazioni segrete potessero tramare contro la sicurezza dello Stato.
Ma tutto era invano.
Se la censura faceva eccezione per le opere di Paolo Sarpi, pur messo all’Indice, e se, quindi, non si potevano stampare libri proibiti da Roma, Venezia impediva di stampare anche i libri che provenivano dall’estero e che sostenevano idee contrarie sia alla religione che allo Stato.
Fin dal 1653 era stato emanato un decreto che riguardava l’importazione di libri provenienti dall’estero, ma questi continuavano ad arrivare tanto che il decreto fu riconfermato nel 1764. Tuttavia, senza dubbio, i Veneziani potevano leggere tranquillamente non solo i libri licenziosi ma anche quelli che introducevano le idee nuove, il Rousseau, in particolare, e il Voltaire. E di ciò sicuramente si discorreva non solo nelle case patrizie ma anche nei luoghi pubblici come i caffè, anche se con grande prudenza.
La celebre delazione di Giacomo Casanova, come la scoperta del blocco di libri proibiti in casa di Caterina Dolfin, non ancora moglie del procuratore Tron, sono indici particolarmente eloquenti: l’uno di quel che si poteva trovare nelle case dei patrizi e l’altro di quanti volumi deteneva un libraio, che, nella specie, era il Lucatello, certamente destinati alla vendita.
Ma qui si entra in un campo diverso da quello dei piaceri pubblici e pertanto leciti. Si entra nel campo dei piaceri privati o, per meglio dire, riservati; ed è un campo amplissimo non difficile da esplorare ma difficile da precisare.
I piaceri della libertà del pensiero si accompagnavano, infatti, ai piaceri della libertà dei costumi, una libertà che andava dai segreti delle alcove a quelli degli incontri il più spesso originati dalla sfrenata passione per il gioco, passando talora anche per quelli della più elevata conversazione.
Sui primi non vi è molto di nuovo da dire.
Anche qui il Casanova è testimone eloquente e spavaldo: basti pensare al libro Né amori, né donne ovvero la stalla ripulita che gli costò il secondo esilio o al famoso epigramma che colpiva Caterina Dolfin Tron e, infine, alla serie innumerevole di scandali di cui allora liberamente si parlava e di cui oggi ancora sono pieni gli studi sul Settecento veneziano.
Ma oltre a questi piaceri segreti altri ve n’erano a metà strada tra lo scoperto e il riservato. La leggenda racconta del privilegio che ebbe a ottenere un Nicolò Barattieri (ma il nome, oltre al resto, è certamente inventato) di poter giocare liberamente d’azzardo sui gradini delle due colonne della Piazzetta.
L’episodio, illustrato in una deliziosa pagina di un codice del quindicesimo secolo, doveva riferirsi soprattutto al gioco dei dadi, tanto che leggi risalenti almeno al 1254 ponevano divieti di giocare ai dadi presso la chiesa di San Marco e lo stesso cortile di palazzo Ducale, divieti che si ripetevano regolarmente sia per proibire il gioco nei vari spazi pubblici sia per regolarlo nei mezzi usati, nelle ore consentite e nell’ammontare massimo dei premi.
L’ampiezza del fenomeno sembra essere dimostrata dallo spostamento di competenze dagli avogadori di comun agli esecutori contro la bestemmia, non appena istituita questa magistratura tesa a diventare garante della moralità pubblica cittadina.
Neppure le chiese erano rispettate da questa passione veneziana e in esse si tenevano scommesse, le cosiddette «pirie», certamente vietate ma non tanto nascostamente esercitate, che spesso avevano per oggetto i risultati delle elezioni ai vari incarichi pubblici.
Al gioco d’azzardo e alle scommesse facevano compagnia i giochi delle carte e si ricordano il faraone, la bassetta, il biribiss, la meneghella, il tressette e altri, compreso quel gioco delle tre tavole che oggi ha il nome di backgammon.
Il gioco delle carte forse veniva a Venezia dall’Oriente con la mediazione degli Arabi, ma è certo che vi sono le prove della loro fabbricazione a Venezia mediante il sistema della stampa giacché fin dalla prima metà del Quattrocento si parla di carte «a figure stampide» le quali si diversificavano dalle carte «a figure depente stampide» che probabilmente utilizzavano ancora sistemi manuali di costruzione anziché sistemi di riproduzione multipla.
Anche qui il gioco veniva esercitato sia in luoghi riservati che in luoghi pubblici e precisamente, parlando dei primi, nei casini che costituivano vere e proprie case da gioco particolari.
In effetti la costante legislazione della sospettosa Repubblica impediva ai nobili non solo i contatti con gli ambasciatori stranieri ma anche le frequentazioni con altri patrizi nei loro palazzi, temendosi il sorgere di congiure, accordi segreti o, quanto meno, opinioni di critica all’opera del governo (e in particolare a quella del consiglio dei dieci e degli inquisitori di Stato).
In tal modo veniva impedita la possibilità anche di riunioni piacevoli quali quelle del gioco.
In verità, ed è strano constatarlo, la Repubblica non era tanto preoccupata del fatto che il gioco potesse costituire occasione di rovina per i patrimoni dei patrizi: in fondo il divieto di esportazione dei capitali faceva sì che ogni loro spostamento all’interno dello Stato lasciasse intatta la sua solidità patrimoniale; potevano rovinarsi i singoli e forse anche le famiglie, ma non si sarebbe rovinato lo Stato.
Ciò che interessava al governo era di evitare le prolungate occasioni di incontri ma, poiché il divieto riguardava soltanto i palazzi e cioè le sedi delle famiglie patrizie, queste trovarono il modo di aggirare la legge e il divieto costruendo accanto ai palazzi o in altri luoghi degli spazi dedicati esclusivamente al gioco, luoghi che furono chiamati casini, cioè piccole case, dove la legge non poteva avere effetto, anche se vari accorgimenti, come le scale segrete, erano adottati per consentire rapide vie di fuga qualora si verificasse il caso di qualche sorpresa da parte del sistema poliziesco.
I popolani, naturalmente, erano invece liberi di giocare e lo facevano nelle osterie e nei bàccari come nelle piccole corti davanti alle loro case.
La Repubblica consentiva queste eccezioni ad una vita indubbiamente monotona fatta di lavoro e di necessità familiari.
Ma vi erano anche degli spazi aperti dove dare sfogo a questa sfrenata passione e precisamente il ridotto destinato a tale scopo nel 1638 nelle sale di palazzo Dandolo a San Moisè. Ivi una folla di persone in maschera o in bauta si aggirava per le sale attorno ai tavoli destinati al gioco e ivi si confondevano nobili, cittadini e popolani come è largamente documentato da una serie di dipinti e di incisioni che vanno dal Guardi alla sua bottega, al Longhi, al Grevembroch, al Bella e ai molti anonimi che documentarono la vivacità di quel luogo.
È bensì vero che il ridotto era aperto soltanto in periodo di carnevale ma questo era molto più lungo di quello attuale cominciando talora in ottobre per finire al mercoledì delle ceneri.
Ciò che interessa di più però è sottolineare come il consenso del governo avesse un significato non solo di apertura verso una passione irrefrenabile ma anche di apertura ad un confondersi di Veneziani e forestieri, di nobili, cittadini e popolani che si trovavano così letteralmente gomito a gomito, avendo l’impressione di una continuità fisica che diventava altresì, inevitabilmente, contiguità sociale.
La maschera impediva, è vero, i riconoscimenti ma gli abiti, le fogge, le maniere, decidevano immediatamente della qualità delle persone, come forse lo stesso modo di pronunciare il veneziano, perché era diverso quello delle classi alte e quello dei popolani.
Né va dimenticato che lo sforzo della Signoria nel combattere il gioco e nell’indirizzarlo verso mezzi suscettibili di controllo non si fermò al ridotto ma aveva già utilizzato «un novo modo de vadagnar» chiamato «lotho», che si teneva a Rialto e di cui è puntuale cronista Marin Sanudo. Esso consisteva, in realtà, in una lotteria dove venivano messi in palio vari premi costituiti da oggetti preziosi come le stoffe, le pelli e le ambre, mentre il pubblico acquistava i biglietti; venivano poi estratti i nomi dei vincitori da un’urna e dall’altra i bollettini bianchi, mentre erano segnati quelli vincenti in relazione al numero degli oggetti messi in lotteria.
All’inizio queste lotterie erano private, anche se lo Stato le utilizzava per le necessità continue di denaro, ed esse continuarono con sicuro successo fino alla fine del Settecento, malgrado il vecchio proverbio, tuttora vivo, secondo cui «chi zoga al loto in rovina va de troto ». Ed erano perfino indette delle lotterie per le assegnazioni di quegli incarichi negli uffici minori che venivano comperati dagli interessati.
Nel Settecento fu invece introdotto il vero e proprio gioco del lotto con le estrazioni dei numeri che avvenivano davanti alla Loggetta sotto il campanile, e qui non vi erano più impresari privati ma era lo Stato che si incaricava di divenire biscazziere.
Altri giochi avevano luogo in pubblico e il più importante e il più onesto è forse quello della tombola che, oltretutto, consentiva una presenza indifferenziata e perciò aveva anche un suo valore democratico, tanto che, dopo la caduta della Repubblica, questo divertimento fu anche cantato in un poemetto intitolato La tombola, ossia il gioco democratico e fino a pochi decenni fa si continuò la pratica della estrazione della tombola in piazza San Marco con i grandi cartelloni costruiti a forma di cubo nel suo mezzo.
Ma vi erano in quei tempi, e soprattutto nel Settecento, altri piaceri sia privati che pubblici. Ai primi possono essere ricondotte le conversazioni.
Esse si tenevano, certamente, nelle case private e avevano per oggetto non solo i pettegolezzi, come è sempre stato, che coprivano le indiscrezioni sui comportamenti altrui: sugli amori leciti quali i fidanzamenti, sugli avvenimenti familiari quali i matrimoni, sugli interessi mercantili quali i guadagni o le perdite, i nuovi contratti, i nuovi mercati, o, ancora, i racconti degli svaghi in villa, o, infine, le notizie circa quella che oggi si chiamerebbe la cronaca nera, tra cui di particolare rilevanza quella che riguardava i tradimenti e i rapimenti.
Accanto alle grandi tele dei Tiepolo esaltanti eroismi o devozioni improbabili, Pietro Longhi ha lasciato il segno di queste riunioni piacevoli, all’interno delle case, fossero originate dal maestro di musica o da quello di danza ovvero dalla toeletta o dalla visita e dalle premure del cicisbeo, sorta di cavalier servente del quale una dama non poteva fare a meno.
Questo costume era probabilmente arrivato dalla Francia dove erano famose le conversazioni nei salotti delle femmes savantes messe in ridicolo già dal Molière e dal nostro Goldoni. A Venezia, poi, vi era un altro tipo di conversazione, quello che si teneva nei monasteri: in essi erano rinchiuse, per lo più, donne di origine patrizia alle quali non poteva mancare, oltre alla privazione della famiglia di origine, quel piacere della conversazione che avevano imparato ad apprezzare prima di essere rinchiuse nel chiostro. Anche qui la pittura si è incaricata di farci vedere il parlatorio delle monache con l’affollarsi delle persone che ad esse raccontavano gli avvenimenti occorsi in città, dove qualche volta si intrecciavano tresche amorose che, se scoperte, potevano portare a gravi conseguenze penali.
In queste conversazioni non si parlava certamente, o almeno apertamente, di temi politici, in quanto si temeva la presenza di orecchi indiscreti, essendo la città piena di spie in vario modo travestite e mandate ovunque a sorvegliare non tanto la moralità quanto la fedeltà al regime. Queste riuscivano a introdursi sotto mentite spoglie di servitori perfino nelle ambasciate straniere o, travestite da gondolieri, nelle case patrizie.
Ma se non si parlava di politica, si parlava di letteratura, dei libri che continuamente gli editori veneziani stampavano, che i librai vendevano; e si parlava delle correnti letterarie portate alla luce dai vari giornali, mentre erano severamente proibiti i fogli di informazione politica.
Andrea Tron, senatore, così commentava il divieto: «grande secreto quello del Consiglio dei Dieci! Impedire che non si possa parlare delle novità pubbliche note ad ognuno! Dunque non si potranno neppure leggere i foglietti né le gazzette? E per conseguenza non si potrà sapere né dove si fa la guerra, né le forze delle potenze belligeranti, né i nomi dei fiumi, dei paesi dove si combatte ed altro. Questo è un ottimo ripiego per coltivare l’ignoranza già radicata nella nobiltà veneziana, e per stabilire una servitù indegna ed insopportabile non dirò a liberi cittadini, ma a qualunque uomo del paese più schiavo. Ne faranno tante che alla fine la nobiltà si sveglierà e non vorrà più soffrire e nasceranno inconvenienti a noi maggiori di quelli alli quali pretendono di rimediare ».
Andrea Tron vedeva chiaro, ma non lontano perché la nobiltà non ebbe il tempo né la preparazione culturale per svegliarsi.
Lo stesso Scipione Maffei dovette tenere segreto il suo Consiglio politico, che pure offriva una valvola di sicurezza per la ristrutturazione dello Stato e per la sua solidità, mentre sono ben note le disavventure di Angelo Querini, l’unico che ebbe il coraggio di alzare la voce contro un ordinamento ormai decrepito.
Alla mancanza di dibattito politico fu sostituito il dibattito letterario e le sorti dei vari autori diventavano oggetto di dibattiti e di passioni.
Nel 1710 Apostolo Zeno aveva fondato il «Giornale de’ Letterati d’Italia» sulla falsariga del francese « Journal des Savants» che risaliva alla metà del secolo precedente e seguiva il «Giornale Veneto de’ Letterati» e poi la «Pallade Veneta» e, sul finire del Seicento, la «Galleria di Minerva». E infine, ad opera del libraio Giambattista Albrizzi, le «Novelle della Repubblica delle Lettere».
Ma accanto a questi mezzi di informazione e di polemica, nella quale i Veneziani si dilettavano, fiorirono ancora la Storia letteraria d’Italia del gesuita Anton Francesco Zaccaria e quelle Memorie per servire all’istoria letteraria che uscivano ad opera di Zaccaria Sceriman, orientate verso interessi giansenistici.
Senonché venivano d’Oltralpe le nuove idee e ad esse tentò di reagire, ma ormai troppo tardi, l’abate Jacopo Rebellini con «La Minerva ossia Nuovo Giornale de’ Letterati Italiani» e in tal modo la critica finiva per far conoscere anche le idee combattute.
Un anno dopo «La Minerva» usciva «La Frusta Letteraria» di Giuseppe Baretti anch’esso polemista di polso e, praticamente, contro tutti, dal Voltaire al Rousseau, da Cesare Beccaria a Pietro Verri, da Goldoni all’abate Chiari.
Verso i due terzi del secolo «La Frusta Letteraria» divenne l’argomento principe delle conversazioni e gli attacchi, che si confondevano con le messe in ridicolo, erano diventati l’oggetto del divertimento non solo per i circoli letterari ma anche per tutta l’aristocrazia della cultura veneziana.
Né mancava la critica sia occulta che palese.
Lo stesso Zaccaria Sceriman con il suo Viaggio di Enrico Wanton alle terre australi aveva scritto nel 1749 una sottile critica alla società e alla struttura politica veneziane, seguendo così, ma con particolare acribia, illustri precedenti inglesi e francesi. E ancor più divertivano le vere e proprie satire, anche queste non prive di precedenti francesi, che attaccavano sia il potere politico che la fede religiosa.
Così a partire dal Dotti, attraverso l’abate Labia fino ad Angelo Maria Barbaro, la satira veneziana si esercitò a castigare i costumi e, oggi, a servire da indizio della situazione, mentre il Barbaro criticava Il regno della donna, causa del malcostume per la sua inconsistente frivolezza che andava dalla toeletta alle parrucche, dai profumi ai vestiti e a tutte le possibili acconciature e ai possibili ornamenti.
Ma anche gli altri aspetti di quella società attraevano gli strali della satira; le notti veneziane e i cicisbei venivano condannati, né restavano immuni gli usi teatrali.
Queste poesie satiriche giravano per la città, come quelle che avevano per oggetto il malcostume dei patrizi e del clero, la corruzione dei magistrati con tristi ma inutili profezie di una vicina caduta; ed era questa produzione che costituiva motivo di conversazione anche se, sfortunatamente, nessuna satira riuscì mai a raddrizzare i costumi o a mettere sull’avviso i governanti.
Né questi piaceri restavano nel chiuso dei palazzi: gli amori e gli intrighi trovavano segreto rifugio anche dentro il felze delle gondole durante quei condursi in Canal Grande che si denominavano freschi. E anche qui spesso spie travestite da gondolieri segnavano e segnalavano gli incontri più sospetti.
Le spie perché, invece, i gondolieri erano tenuti al segreto più assoluto sulla identità delle persone che trasportavano e così fu facilitata la fuga di Casanova come quella dei tanti che tentavano scampo in Terraferma dopo un delitto o un rapimento.
Piaceri riservati e non pubblici ma tuttavia in luoghi pubblici erano poi quelli dei teatri.
Questi ebbero a Venezia una grande diffusione in concomitanza con lo svigorirsi delle pubbliche imprese militari tese alla conquista e poi alla conservazione dei mercati medio-orientali e il conseguente rilassarsi dei costumi, tipico dei periodi di pace.
Le guerre erano ormai un ricordo lontano, buono per celebrare qualche festa o qualche condottiero ma senza più alcuna funzione educativa.
La città si abbandonava alla pace e i pericoli di guerra erano così lontani da poter convincere un uomo come il Tron a far rinunciare alla Repubblica di mantenere un esercito stabile, approdando a quella neutralità disarmata che nel suo pensiero doveva servire a risolvere i problemi finanziari dello Stato ma non servì a quelli della sua conservazione.
Il piacere diventava, allora, l’espressione più viva di questa situazione sociale: non ci si ritrovava più per confrontarsi negli esercizi militari, come avveniva fin dagli antichi tempi, nei campi, ma si sciamava dietro agli avvenimenti che attiravano la variegata moltitudine di popolani oziosi e di nobili altrettanto oziosi offrendo argomenti per quel discorrere, per quel commentare, per quel criticare in cui i Veneziani eccellevano e in cui con le loro ciacole eccellono ancor oggi.
A ciò si prestavano soprattutto i teatri, veri luoghi di coinvolgimento sociale delle varie classi, nei quali le compagnie teatrali e i singoli attori offrivano trame sempre più vicine alla realtà, dove il pubblico parteggiava per l’uno o l’altro degli interpreti e, naturalmente, per quelli femminili, apprezzava le novità che venivano proposte e imponeva con i suoi applausi, spesso sfrenati, il successo o l’insuccesso con le sue grida.
A queste rappresentazioni assisteva in platea il popolo minuto mentre i ricchi, fossero o meno nobili, affittavano i palchi perpetuando così una segregazione che corrispondeva a quella esistente nella vita comune; ma che veniva meno quando essi, contro i divieti, scendevano nella stessa platea.
Sia nella platea sia nei palchi, si svolgeva poi una diversa «commedia»: il teatro era un luogo di incontro dove si potevano passare ore spensierate; nei palchi si poteva fare di tutto, dalla conversazione più innocente agli incontri peccaminosi.
Casanova in un suo celebre rapporto fissava questa situazione in modo indelebile suggerendo che i teatri fossero più illuminati e che alla fine dello spettacolo essi venissero chiusi impedendo a chiunque di rimanervi.
In platea si scambiavano richiami, si avvicinavano dame e cavalieri, si davano appuntamenti non solo di affari o di gioco ma anche di amore. E anche qui, negli intervalli, venditori di cibarie e bevande si aggiravano tra questa folla che sedeva su panche o per terra ovvero stava ritta in piedi appoggiata alle pareti.
Gli spettacoli duravano moltissimo, da quattro a cinque ore e alla fine, verso le undici di sera, non è che il pubblico si ritirasse nelle case, ma continuava la vita allegra nei casini e nei caffè.
In effetti la Repubblica guardava ai teatri con molta prevenzione ma, nella sua ottica, li considerava insieme un luogo di sfogo per le passioni dei cittadini e un luogo dove si poteva più facilmente sorvegliarne gli umori e i pensieri.
Per ciò i teatri erano collocati entro dedali di calli, mai, tranne La Fenice, su spazi aperti e ad essi si doveva accedere rigorosamente in maschera così da impedire reciproci riconoscimenti e dannose evidenze di commistioni tra nobili e no. Come, d’altra parte, avveniva per il ridotto dove solo ai nobili era consentito di tener banco e dovevano farlo a viso scoperto.
Perché anche coi teatri i patrizi avevano trovato un modo per fare quattrini. Aveva cominciato nel 1637 un Tron costruendo il teatro di San Cassiano inaugurato con un’opera in musica. Lo avevano seguito i Giustiniani con il San Moisè e il Santi Giovanni e Paolo. E il successo fu tale che in un decennio furono costruiti ben tredici teatri e il governo dovette proibirne l’apertura di altri.
Il consiglio dei dieci e gli inquisitori sorvegliavano attentamente le produzioni teatrali più per garantire l’ordine pubblico e il rispetto dell’assetto sociale che per garantire la moralità dei costumi, divenuti così labili che, a chi le recitava quell’epigramma licenzioso sopra ricordato, Caterina Dolfin Tron poteva rispondere, senza arrossire, «hanno ragione, perché le mie grazie non le vendo, le regalo!».
E proprio costei fu al centro di una avventura che coinvolse, si potrebbe dire, tutto il pubblico veneziano.
Recitava sul palcoscenico del teatro San Salvador la compagnia del capocomico Sacchi della quale faceva parte un’attrice, forse non bravissima, la Ricci, ma con sembianze tali da suscitare gli appetiti maschili.
Di essa era invaghito, e senilmente invaghito, il commediografo Carlo Gozzi insidiato, e insidiato con felice fortuna, da un segretario del senato, Pier Antonio Gratarol. Era costui un personaggio particolare, molto caricato e tipicamente settecentesco nei vestiti, nella parrucca, negli atteggiamenti. Benché egli lo abbia sempre negato, ma gli indizi depongono a suo sfavore, Carlo Gozzi si vendicò scrivendo per la compagnia del Sacchi una commedia, Le droghe d’amore, nella quale veniva messo in scena e ridicolizzato, sotto le spoglie di Adone, lo stesso Gratarol.
La commedia ebbe un grande successo di pubblico, il quale aveva riconosciuto non solo il significato della vendetta ma anche tutti i sottointesi, molti dei quali oggi a noi sfuggono.
Ma Le droghe d’amore non furono che un caso; altri contrasti si consumavano nei palcoscenici dei teatri con il determinante apporto e appoggio del pubblico.
Erano i contrasti dapprima tra l’azione riformatrice di Carlo Goldoni e la tradizione della commedia dell’arte; poi tra il Goldoni e il Chiari e infine tra questi due e il Gozzi.
L’opera riformatrice di Carlo Goldoni permise di razionalizzare, per così dire, il teatro, superando la rappresentazione di antiche e tradizionali situazioni comiche per avvicinare gli spettacoli a quell’altro più grande spettacolo che era la vita veneziana. E infatti permise che a teatro fossero presentate le varie situazioni dei diversi ceti sociali: quelli dei nobili e dei ricchi («era ben giusto che facessi delle commedie nelle quali essi riconoscessero i loro costumi e i loro difetti»), come quelli dei borghesi e infine del popolo rappresentato dalla sua arte nelle Baruffe chiozzotte. Le commedie goldoniane hanno, dunque, sempre qualche cosa che le avvicina alla realtà e sono, quindi, a metà strada tra la critica e la satira, tuttavia fornendo spunti riflessivi che gli spettatori, nella loro composita presenza, coglievano facilmente, sicché la riforma goldoniana non riguardava soltanto i modi di costruire le azioni o di definire i caratteri ma anche gli stessi contenuti che assumevano colori e connotati sociali.
Dall’altra parte si trovò, dapprima, il Chiari che si assunse il compito di difendere l’ordine costituito e finì per dividere il pubblico, e cioè praticamente tutta la città, tra goldonisti e chiaristi. Fino a che, a metà del Settecento, Carlo Gozzi non entrò nella mischia proponendo delle fiabe come L’amore delle tre melarance e Il corvo, dove la fantasia e il ricorso al meraviglioso nascondevano una critica non solo all’estetica del Goldoni e del Chiari ma anche al loro realismo intessuto di caratteri e dettato da una società ormai priva di nuovi valori; tentando così, oltre la satira, di giungere ad un teatro che finì per abbandonare i temi più seri per attestarsi su livelli di irrealtà tali da provocare un piacere privo di qualunque rimorso.
Forse un modo per dire che la società del Goldoni e del Chiari aveva i giorni contati e che conveniva rifugiarsi ormai nel mondo della poesia lontano dalla realtà e dai problemi che essa poneva e giustificava la scena.
L’alcova, le conversazioni, il gioco erano piaceri riservati, ma in quel secolo di sbrigliata spensieratezza forse ancora più importanti dei teatri erano quei piaceri pubblici cui davano origine gli incontri non programmati o programmati per tutti i cittadini senza distinzione di ceti.
Si è detto delle feste, quelle scadenzate nei vari tempi e tese a rinsaldare i vincoli di fedeltà con la tradizione e, quindi, con lo Stato. E così anche quelle giustificate dalle ricorrenze religiose poiché lo Stato si fondava in effetti anche sull’unità e la validità della fede e dell’organizzazione ecclesiastica.
Vi erano, poi, le sagre, vere feste popolari che si allestivano nei vari sestieri, in gran parte originate da feste parrocchiali e frequentate soprattutto dal ceto popolare che si accalcava per calli, campi e campielli decorati con tappeti appesi alle finestre, stendardi, corone e damaschi; i pittori esponevano i loro quadri per la vendita accanto a improvvisate baracche odoranti di frittelle e di dolciumi, come ancora oggi si può vedere il giorno della festa della Salute. Le donne si adornavano in modo particolare e festoso, i balli venivano improvvisati al suono dei liuti e chi aveva bella voce si esibiva nelle canzoni alla moda.
E, infine, le celebri e celebrate lotte, come quelle che ancor oggi danno il nome al ponte dei pugni o quelle dell’oca.
Vi erano poi le grandi feste, si direbbe, nazionali come quelle appunto della Salute o quella del Redentore che ancora oggi tradizionalmente si celebrano nelle stesse forme, con le stesse modalità e perfino con gli stessi menù.
Le peate, sorta di grandi barche da trasporto, venivano allora decorate con palloncini di origine cinese ma che si chiamarono e si chiamano tuttora alla veneziana. Così alla luce di tremolanti candele si consumavano pasti pantagruelici, forse a compensare la povertà delle mense quotidiane. E anche allora, come oggi, si andava al Redentore a vedere sulla spiaggia del Lido il sorgere del sole, quasi una rimembranza pagana inserita in una festività cristiana.
E come non parlare, giunti a questo punto, di quel piacere che trascinava l’intera popolazione ad accalcarsi lungo le rive del Canal Grande in occasione delle innumerevoli regate o per ammirare i cortei acquei che scortavano illustri visitatori fino al palazzo Ducale?
Le regate colpivano l’occhio e la fantasia dello spettatore immerso in una moltitudine di colori, di suoni, di voci, impegnato nel sostegno ai campioni del cuore con acclamazioni che si allungavano lungo tutto il percorso quasi fossero un’onda sonora ben più grande di quella che le piccole imbarcazioni riuscivano a sollevare.
Le regate erano, dunque, più che una festa, un colpo d’occhio. Esse eccitavano gli animi e i sensi e questa eccitazione si prolungava poi estendendosi sulla via del ritorno a tutta la città per smorzarsi finalmente nei banchetti e nelle baldorie con cui i vincitori, ma anche i soccombenti, venivano festeggiati.
La celebre veduta del Canaletto rende con vivacità la ricchezza della festa dove non si sa se essere più colpiti dalla stravaganza degli addobbi delle bissone o da quella degli apparati o, infine, da quella degli spettatori.
Le regate erano particolarmente sentite. Esse dividevano il pubblico in partiti contrapposti; suscitavano discussioni a non finire (e anche ai giorni nostri spesso, a conclusione della regata, l’unica sopravvissuta, si verificano contestazioni) e suscitavano ammirazione per i campioni del remo e, soprattutto, per quelle campionesse che si cimentavano nella straordinaria regata delle donne di cui ci è rimasta la rappresentazione in una celebre incisione dove esse sono tutte raffigurate con i capelli al vento, come se fossero delle autentiche furie; e neppure mancavano le manifestazioni letterarie: poeti più o meno occasionali, ma mai da strapazzo, celebravano con lunghe canzoni queste regate e i loro eroi.
Né, infine, vanno dimenticati quegli spettacoli pubblici che venivano organizzati sull’acqua, in bacino di San Marco con teatri improvvisati e costruiti su zattere, attorno ai quali si accalcavano le barche degli spettatori.
Ma dove esplodeva il massimo del divertimento e del piacere era nel famosissimo carnevale. Questo durava almeno tre mesi, aveva qualche prodromo e qualche appendice che lo facevano durare anche di più. Il carnevale era il momento nel quale veramente esplodeva il bisogno di divertimento di quei Veneziani che erano, in realtà, sempre degli attori, bisognosi di un continuo palcoscenico, di continui travestimenti, di continui successi.
Cosa fosse quel carnevale si può forse solo immaginare attraverso i vari resoconti e le varie rappresentazioni pittoriche: esso era, in realtà, la stessa festa della Repubblica e il doge non mancava di partecipare agli avvenimenti salienti, come a quella discesa degli acrobati dal campanile di San Marco fino alla Piazzetta, lungo una corda tesa sulla quale essi scivolavano facendo trattenere il respiro agli spettatori fino all’ultimo salto eseguito con destrezza e con uno sberleffo, o alla piramide delle forze.
Qui tutti andavano in maschera, tutti erano qualcun altro, i cori e le musiche si confondevano fra di loro, su palchi improvvisati attori altrettanto improvvisati non riuscivano a far giungere la loro voce a un pubblico che più che seguirli li apostrofava, interloquiva e con ciò cercava la vera occasione di divertimento.
La gioia esplodeva da tutte le parti con chiassi e clamori, ogni giorno era la stessa scena e ogni giorno era nuova. Un infinito disordine dava sfogo ad una compressione politica che era più temuta che accettata.
Proprio nel Settecento si ebbero, infatti, i primi tentativi di richiamare l’attenzione della classe dirigente sulla necessità delle riforme e la classe dirigente rispose, da un lato, asserragliandosi nei suoi privilegi e, dall’altro, concedendo al popolo queste stravaganze festaiole nelle quali veniva dimenticata ogni sofferenza e ogni insofferenza.
Qui, allora, si confondevano le classi sociali e tra la folla si confondevano anche gli informatori del governo perché, malgrado questa assoluta libertà del divertimento, niente era concesso che potesse destabilizzare il regime.
Prima della metà del secolo aveva fatto la sua comparsa a Venezia la maschera di Pulcinella e subito se ne appropriò Giandomenico Tiepolo, forse per i suggerimenti pittorici di una veste tutta bianca, di un viso a metà nero e di un alto berretto a cono, che già avevano sollecitato il padre, ma forse anche per ben altra e più profonda ragione. Si sa che il carnevale era occasione anche per sfoghi politici protetti dalla maschera e così, ad esempio, facevano quei due popolani che travestiti da avvocati mettevano in ridicolo gli usi del foro veneto. Ma che diceva il Pulcinella dal suo palco?
È certo che nell’anno 1760 un Pulcinella fu bandito dalla Piazza e a suo favore furono scritti dei componimenti poetici in latino e in italiano intesi ad ottenere dal doge Marco Foscarini la grazia di consentirgli di tornare a recitare.
Conoscendo lo stile del Pulcinella, dedito alla satira politica, quel Pulcinella di cui non è stato difficile tracciare le simpatie illuministiche, e conoscendo quali argomenti la Repubblica non amava fossero trattati in pubblico, non è difficile immaginare che l’origine di quella cacciata fosse stata una critica più o meno larvata ai diritti della nobiltà o alla conduzione dello Stato.
E vi è allora da chiedersi se l’empito con cui Giandomenico Tiepolo riempì, proprio in quegli anni, i fogli, le tele e i muri con i suoi Pulcinella, non potesse avere, appunto, un risvolto politico, una forma di ribellione verso quel mondo che ormai era destinato a scomparire, una sorta di traslata figurazione dei suoi personaggi, così divenuti simbolo della farsa e del ridicolo o, anche, una non velata accettazione proprio di quelle correnti illuministiche che avevano consentito ad un anonimo redattore della Encyclopédie di ascrivere Pulcinella tra i filosofi, non immemore che Voltaire aveva scritto che sui grandi problemi avevano diritto di interloquire Rabelais, Swift e appunto Pulcinella. Dunque qualche cosa che andava molto al di là di una consonanza pittorica per costituire una specie di atto di rivolta e, al tempo stesso, un atto di fede che si radicava nella distruzione del passato e in una impossibilità di comprendere un futuro che appariva, come a Carlo Gozzi, soltanto immaginabile in una fiaba e nella irrealtà.
Il carnevale, dunque, non è più soltanto un tempo di evasione. Esso, come la commedia, diventa una occasione per dire ciò che, altrimenti, non sarebbe consentito. Il piacere diventa allora un veicolo di contestazione e con ciò stesso rappresenta l’altra faccia della vita, la controparte della segregazione sociale e la controparte della repressione politica.
Ognuna delle forme che assume il divertimento è, in questo secolo, una forma di apertura sociale. La Repubblica, gli Inquisitori, il Fante de’ Cai, il temuto sbirro, nulla possono contro queste fughe dalla realtà che spesso sono vere e proprie fughe in avanti.
Si possono censurare discorsi e propositi, ma queste manifestazioni di massa che assumono valenze simboliche non possono essere impedite e diventano, quindi, non solo lecite ma addirittura guidate per tentare di catturarle a proprio favore.
Se questa era la realtà del piacere, se i Veneziani se ne rendevano conto e da attori diventavano contemporaneamente autori in una generale commedia dell’arte, è difficile dire cosa ne potessero capire quei forestieri che, per le notizie che si spargevano in tutta Europa su questa città del piacere, venivano qui a frotte per trovare ciò che non sarebbe stato possibile trovare nei propri Paesi. Noi abbiamo soltanto i resoconti dei viaggiatori celebri, a partire dal de Brosses, giù giù fino alla fine del Settecento.
Ma, come sempre avviene per ogni uomo e per ogni turista, è il carattere proprio quello che domina l’esperienza: così gli ottimisti vedono tutto bello e i pessimisti vedono tutto brutto, i primi anche se piove e i secondi anche se vi è il sole. Si vuol dire, con ciò, non tanto che queste testimonianze non siano attendibili, quanto che esse debbono essere depurate dai giudizi di valore ed accettate per i giudizi sui fatti.
Naturalmente i forestieri erano praticamente esclusi dai piaceri privati: i Veneziani non potevano avere contatti con gli stranieri salvo che per motivi di affari e solo per il tempo necessario a concluderli.
Quanto ai piaceri riservati certamente essi non escludevano il forestiero; egli poteva frequentare il ridotto, giocare al lotto, partecipare alle lotterie e accompagnarsi ai freschi in Canal Grande; e quanto ai piaceri pubblici non aveva difficoltà a frequentare i teatri, quelli delle stagioni di commedia e d’opera, e quelli straordinari sull’acqua.
Le feste erano ugualmente aperte a tutti e come spettatori i forestieri non avevano difficoltà a godersi gli spettacoli delle cerimonie pubbliche, delle processioni o dei vari giochi, e molto impressionava (favorevolmente o sfavorevolmente) quello dei tori, che sembrava essere una specialità veneziana. Le regate erano, a quanto pare, particolarmente gradite ma più gradita di tutto era la partecipazione al carnevale.
Una vera corrente di stranieri, con la Venetia di Francesco Sansovino alla mano, o con la successiva guida, giustamente intitolata Forestiere illuminato, si metteva in maschera (cosa assolutamente proibita nei loro Paesi), si confondeva tra la folla, subiva e dava spintoni, rideva ai lazzi dei buffoni e dei saltimbanchi, sorbiva il caffè, si rifugiava nell’ombra mistica della chiesa di San Marco. Il forestiero viveva come un qualunque altro cittadino veneziano, per ciò non più straniero, quasi avesse assunto una doppia cittadinanza e, infine, una doppia personalità. Non mancavano certamente gli osservatori delle condizioni politiche ed erano principalmente gli uomini colti che affidavano ai loro diari di viaggio notazioni talora pertinenti, altre volte superficiali se non veri e propri luoghi comuni, ripetuti senza controllo e talora anche con acrimonia.
Ma la maggior parte non pensava a tutto ciò e pensava soltanto a divertirsi con una libertà di occasioni che non faceva certo rimpiangere i Paesi di origine, tranne forse solo l’Inghilterra del Settecento che sembrava godere di una eguale libertà di costumi, ma dove vi era, per di più, una ben maggiore libertà politica. Ed è giusto che gli Inglesi, ma solo loro, potessero criticare sotto questo riguardo la civiltà politica della Repubblica.
Tutti gli altri, quelli che sottolineavano il difetto di libertà politica, si riferivano ad un ideale astratto, non certo alle condizioni in cui patrizi, borghesi o popolani vivevano in quel tempo in Spagna, in Francia, in Prussia o nello stesso Impero asburgico.
Ma proprio questo, allora, giustifica questa calata a Venezia e al tempo stesso, per i racconti del ritorno, la grande risonanza delle libertà ludiche che esistevano in questo Stato o, meglio, in questa sola città capitale dello Stato.
Una città che ormai cominciava a vendere se stessa: il grande successo di Canaletto, del Bellotto, dei Guardi, il successo dello stesso Pietro Longhi, quello di Rosalba Carriera che rappresentava i volti dei Veneziani come i vedutisti ne rappresentavano i luoghi, si spiega proprio con questo nuovo «mito di Venezia».
Giambattista Tiepolo esalta, per l’ultima volta, le virtù di uno Stato e di un ceto che era stato unico in Europa; gli altri corrispondono al desiderio di conoscere la realtà di questa città, la sua vita quotidiana, il suo modo di esistere e di essere.
Le grandi vedute di Canaletto permettono a ognuno di sentirsi presente nella vasta piazza di San Marco; e ognuno può immaginarsi in una gondola accanto a quelle di Francesco Guardi nell’immalinconito Bacino, davanti a San Giorgio.
Perché, in fondo, il carnevale non è solo l’altra faccia, quella spensieratamente gaudente, di una città che avverte il declino nella politica e nell’economia, il carnevale è anche l’altra faccia di un sentimento preromantico che serpeggiava a Venezia.
La critica intimistica di Pietro Longhi, come la trasognata fantasia del Guardi, pongono in evidenza una sensibilità che è quella, tipicamente romantica, della irrealtà del capriccio e della irrecuperabilità della rovina. E i capricci e le rovine che in questo periodo vanno così di moda sono proprio il rivelarsi di un gusto che non è solo quello del decadere di ogni cosa mondana ma anche del decadere di ogni cosa umana.
L’ultima faccia del carnevale è una profonda tristezza che pervade tutta Venezia. Gli spiriti più elevati e più attenti avvertono che ormai la festa è finita, che non vi è più scampo per una Repubblica che non sa rinnovarsi e che vive con la quotidiana superficialità del piacere.
Le accorate invocazioni goldoniane alla libertà di Venezia si accompagnano alle molte altre che ormai diventano profezie della fine. Basterà una spinta per far cadere tutto lo Stato senza che più nulla rimanga che possa essere ripreso per una nuova vita. E il drammatico tentativo di Daniele Manin non riuscirà, perciò, a riscattare la pavidità del suo omonimo Ludovico.
I patrizi, diventati cittadini, si affrettano a manifestazioni di fedeltà, di volta in volta, al vincitore francese o all’imperatore austriaco. L’economia va in sfacelo, la città sopravvive senza ormai più significati politici, una sopravvivenza che è priva di qualunque valore. Ma come in ogni scena che si rispetti, il crollo avviene mentre sono accese le luminarie e avviene nel più assoluto disinteresse per ciò che sta accadendo.
Il Titanic affonda mentre si balla.
La Repubblica è morta da molto tempo; le sopravvivono ancora dei piaceri che furono le sue ultime panacee, perché il piacere era diventato il modo di esistere, anzi l’unico modo di essere vivi e presenti.
La caduta della Repubblica non susciterà né stupore né rimpianti nei contemporanei, pronti ad accettare la municipalità provvisoria, poi la presenza straniera, prima quella francese e poi quella austriaca, inneggiando indifferentemente al vincitore e all’imperatore. Anzi brigando per ottenere da ognuno che fosse al potere nuovi incarichi per nuove prebende.
Dichiarata la fine della Repubblica i patrizi divennero cittadini, gli illuministi del ceto medio esultarono per le provvisorie libertà, il popolo, avvezzo da secoli al regime, tentò di gridare «viva san Marco»; la nave affondava, anzi era affondata ma i teatri continuavano con le loro recite e i Veneziani, come puntualmente annota l’ex patrizio Pietro Zaguri nelle sue lettere a Giacomo Casanova, partecipano indifferenti ai balli offerti dal generale francese in casa Pisani a Santo Stefano.
Come se nulla fosse successo, l’anestesia dell’ultima maschera, quella del piacere, continua ad ingannare.