L’Oratio ad sanctorum coetum
Un imperatore cristiano alla ricerca del consenso
L’Oratio ad sanctorum coetum1, giuntaci nei manoscritti col titolo Βασιλέως Κωνσταντίνου λόγος ὅν ἔγραψε τῷ τῶν ἁγίων συλλόγῳ, può essere articolata in due blocchi contenutistici di ampiezza molto diversa, preceduti da un preambolo (capitoli 1-2) che fra l’altro accenna al momento dell’anno in cui venne letto il discorso, e seguiti da un capitolo conclusivo (capitolo 26). Il primo dei due blocchi contenutistici, che occupa gran parte del discorso (capitoli 3-21), è dedicato a combattere il politeismo pagano, e ad affermare i fondamenti della dottrina cristiana, soffermandosi sull’ordinamento del creato voluto da Dio a esclusione di qualsiasi spazio per la casualità, e sull’incarnazione del Figlio, profetizzata già dalla Sibilla, e di cui aveva avuto sentore anche Virgilio; il secondo, molto più ridotto (capitoli 22-25), si incentra su una rilettura dei tempi recenti, in un’ottica ristretta alle persecuzioni scatenate da alcuni imperatori contro i cristiani, e contraddistinta da una filosofia della storia che contempla l’intervento del Dio cristiano in funzione di vendicatore dei persecutori di quella religione e di alleato di quanti, al contrario, si adoperavano per favorirla.
A pronunciare il discorso è l’imperatore Costantino, mentre, per quanto riguarda il suo uditorio, il coetus sanctorum va inteso come un’assemblea di devoti a Dio (ad sanctorum coetum traduce τῷ τῶν ἁγίων συλλόγῳ), non necessariamente da intendersi come composta di soli vescovi (tanto più alla luce del contesto delle celebrazioni pasquali, che reclamavano la presenza dei vescovi nelle sedi cui erano preposti).
L’Oratio consta di ventisei capitoli, che presentiamo sinteticamente nel loro contenuto.
Il discorso, almeno nella redazione che ci è giunta, fu pronunciato in un venerdì santo o in una vigilia di Pasqua; Costantino ricorda come l’empietà degli uomini si fosse opposta per molti secoli a quanto annunciato dai profeti, trovando nei governanti degli alleati. L’avvento del Salvatore valse a insediare invece la giustizia, e fu il compimento di quanto annunciato dai profeti; quando fu accolto in cielo, fece nascere in terra la Chiesa, tempio sacro della virtù. I pagani tentarono con ogni mezzo di tessere insidie contro la Chiesa e questo determinò svariati mali: il pentimento è il modo in cui poter fare sì che questi mali giacciano prostrati a terra. Costantino, comunque, si propone di parlare di ciò che è attinente alla parola divina (capitolo 1). La Chiesa, in guisa di casto nocchiero, è invitata all’ascolto, come il suo uditorio, composto da uomini che si distinguono per il loro adorare sinceramente Dio: Costantino si rende conto dell’altezza del suo cimento, ma lo riconduce all’amore verso Dio e auspica di poter contare sull’assistenza e la correzione di quanti lo ascoltano. Dopo aver invocato l’ispirazione del Padre e del Figlio, si accinge a entrare nel vivo del suo assunto (capitolo 2).
Il Dio che è al di sopra di ogni sostanza è senza genesi e dunque senza principio, in quanto è stato egli stesso a generare tutto ciò che ha un’origine: quindi tutto ciò che è nel mondo, così come anche l’anima, ogni facoltà e ogni organo di senso. Pertanto, Dio sovrintende a tutto, e non ha senso postulare una pluralità di dei (capitolo 3).
Vari argomenti, infatti, confutano la possibilità di un politeismo pagano: se tali dei sono stati generati, sono soggetti a corruzione; se fossero immortali, ormai avrebbero colmato ogni spazio disponibile in cielo e in terra. È dunque insensato il comportamento di quanti tributano venerazione a esseri che vanno considerati (sulla scia di Evemero, noteremmo noi) come uomini una volta forniti di un corpo, e poi trapassati (capitolo 4).
Dio ha creato gli elementi del cosmo e istituito la vita umana. Costantino ricorda i caratteri di tale vita subito dopo la creazione, con la produzione spontanea di frutti da parte della natura, l’inesperienza del bene e del male, e la successiva scoperta delle arti, parallelamente alla comparsa degli animali, ognuno con le sue qualità distintive (capitolo 5).
La vita umana e l’armonica organizzazione del creato non possono essere ricondotte al fato. Ma se il fato fosse una legge, sarebbe comunque invenzione di Dio, che ha potere su tutto, e se anche fosse da identificarsi con la volontà di Dio, non potrebbero spiegarsi sulla base di esso le virtù, e nemmeno i loro contrari. A sua volta, è escluso che l’ordine degli elementi possa aver tratto origine secondo il caso: esso si deve alla sostanza eterna di Dio. Ogni elemento del creato, con la meraviglia dei suoi caratteri, rimanda alla Provvidenza di Dio nei confronti degli uomini (capitolo 6).
Il concetto di caso è chiamato in causa da uomini insensati, i quali, incapaci di comprendere la ragione delle cose, pensano che esse ne siano allora prive. Sono elencati molti dei doni fatti da Dio agli uomini che possono destare meraviglia, ma in realtà proprio la loro preziosa rarità dovrebbe rendere riconoscibile agli occhi degli uomini il potere della Provvidenza; tra i tanti, l’olivo e la vite con i loro frutti sono utili al ristoro e alla cura degli uomini, e poi il corso incessante dei fiumi che evoca la vita eterna, l’avvicendarsi della notte e del giorno (capitolo 7).
Ciò dovrebbe far comprendere che nulla esiste senza ragione e intelligenza, e che la ragione e la Provvidenza si identificano con Dio. La stessa abbondanza dei metalli, commisurata all’uso che era opportuno farne, rimonta alla creazione di Dio, che ha distolto gli uomini da una cupidigia inopportuna e li ha indotti alla temperanza (capitolo 8).
La critica di Costantino investe a questo punto i filosofi pagani, caratterizzati dal costume di dissimulare la realtà con argomenti capziosi quando l’oggetto delle loro indagini va oltre le loro capacità. Socrate, Pitagora e perfino Platone (preferibile a tutti gli altri) ebbero dei limiti; anche l’ultimo dei tre, cui va riconosciuto il merito di aver indotto gli uomini a sollevare in alto la mente verso le realtà intellegibili e immutabili, e di aver distinto un primo Dio creatore dell’universo e un secondo Dio che trae la propria sostanza dal primo eseguendone gli ordini, tuttavia non si astenne dall’errore di introdurre una moltitudine di dei antropomorfi, aprendo la strada alla conseguente idolatria umana. Tuttavia, a Costantino sembra che Platone abbia provveduto subito a correggere questo suo errore, affermando che Dio ispirò negli uomini il suo stesso Verbo: con ciò ha mostrato che lo Spirito di Dio è un’anima razionale e ha distinto le cose intellegibili dalle sensibili. Inoltre, Platone è da considerarsi ammirevole anche quando insegna che gli uomini pii e virtuosi vivranno oltre la morte con le loro anime negli spazi più belli del cielo, mentre i malvagi vedranno le proprie in balia dei flutti dell’Acheronte e del Piriflegetonte (capitolo 9).
Dopo i filosofi, la critica di Costantino si appunta sui poeti: essi affermano che figli di dei giudicano le anime dopo la morte fungendo inoltre da custodi dei trapassati, e narrano delle contese e dell’indole delle varie divinità, descrivendole in preda alle stesse passioni e agli stessi dolori degli uomini. Anche se si concede alla poesia di poter dissimulare talvolta la verità, in questo caso c’è un fine subdolo e illecito che determina l’allontanamento dal vero: i poeti non avrebbero dovuto mentire empiamente trattando della natura divina (capitolo 10).
A questo punto del suo discorso, l’oratore inserisce un lungo capitolo dedicato alla salvezza e al Figlio. Quanti sono consapevoli di aver vissuto in maniera non degna, possono raggiungere la salvezza mediante il pentimento e la fede pura; bisogna invocare Dio perché li assista in questo cambiamento. Costantino introduce quindi un elemento autobiografico, annoverando se stesso tra coloro che non hanno avuto la buona sorte di sperimentare la conoscenza delle cose divine e della virtù fin dalla più giovane età. Ma pervenire alla saggezza mentre si è ancora nel fiore degli anni è comunque una gioia. Di seguito, entra nel merito di una trattazione, che spera sia apprezzata in quanto rivolta al vero, pur se non dovesse essere sorretta da un adeguato talento oratorio. Essa esordisce puntando l’indice contro esempi di condotta blasfema, condannando quanti sostengono che Cristo avrebbe subito la giustizia umana e da essa sarebbe stato privato della vita, quando invece furono gli uomini a essere perdonati per la loro condotta insensata, senza che Dio facesse ricorso alla sua onnipotenza per punire la tracotanza umana; o anche coloro che si chiedono come sia potuto nascere il Figlio se Dio è alieno da qualsiasi accoppiamento, ignorando che esiste anche un tipo di nascita riconducibile alla causa eterna. Cristo preesiste ed è causa della salvezza del cosmo e di ciò che contiene, e il suo effetto è la salvezza di ciò che esiste, così come il Padre è causa del Figlio, e il Figlio effetto del Padre. L’incarnazione del Figlio trae la sua ragione dalla sollecitudine verso il creato. Partorito da una vergine casta nel cui grembo volò dall’arca di Noè una colomba, il Figlio si dotò di un corpo terreno, con incommensurabili benefici per la vita umana. Costantino rende a questo punto nuovamente grazie a Cristo, la cui discesa sulla terra indusse gli uomini di indole virtuosa a prendere a modello la vita divina e beata ed a farne partecipi gli altri. Egli fu come un medico, che con la sua discesa curò il disordine e l’arroganza, lasciando chiari segni della sua eccelsa potenza perfino nel momento della Passione, così che fosse evidente a tutti che le sue opere andavano ricondotte a Dio (capitolo 11).
La polemica si volge ora contro quanti obiettano a Dio di aver scelto un modo inefficace per rendere l’indole umana più docile e virtuosa: l’argomentazione è smentita dal fatto stesso che non sarebbe valso a nulla impartire precetti in assenza, se perfino l’averli dati in presenza non è stato convincente per tutti. La più bella delle dottrine ha cozzato contro la stoltezza umana; obbedire a Dio, invece, porta alla vita incorruttibile ed eterna. È additato a modello il comportamento dei martiri, la cui morte è colma di grandezza d’animo, e che vengono commemorati con cerimonie improntate a limpida sobrietà (capitolo 12).
Discorsi puerili sono quelli di quanti accusano Dio di non aver uniformato la natura di tutti gli esseri in funzione di una maggiore docilità ai suoi precetti. Costoro, che sembrano disapprovare l’ordinamento dell’universo, non si rendono conto che, come il cosmo è diverso nei suoi elementi, così anche gli uomini posseggono attitudini non uniformi, in modo che per ciascuno sia salvaguardata la possibilità di scegliere l’impostazione della propria vita. Quando la ragione prevale sulle pulsioni irrazionali, in guisa di auriga che tira le redini dei cavalli riottosi, si formano allora la fede e ogni tipo di virtù, che valgono gli onori da parte di Dio dopo la morte, e permettono di evitare il fuoco eterno e inestinguibile. La bontà divina è accessibile per quanti seguono il tipo di esistenza che porta alla cognizione di ciò che è divino (capitolo 13).
Follia vera e propria è paragonare ciò che deriva dalla generazione, e che in quanto tale ha un principio e una fine, a ciò che è eterno; allo stesso modo in cui il mondo sensibile non va paragonato all’intellegibile, così neanche i corpi celesti vanno paragonati a Dio: la natura divina, se accostata agli uomini e agli animali, perde ogni preziosità. Per raggiungere la beatitudine divina, e vivere nelle sedi eterne, è necessario conformarsi ai precetti di Dio, venerando lui stesso e ciò che gli è caro, ed elevando verso l’alto il capo (capitolo 14).
Il Figlio di Dio fu precettore degli insegnamenti del Padre: perché la stirpe umana potesse raggiungere la beatitudine scese sulla terra, raccolse gli uomini più virtuosi e li rese edotti del farmaco che dona le virtù maggiormente preziose. Visitò gli ammalati e i poveri, e spiegò che sopportare tutto quello che accade porta sempre alla vittoria. La fermezza d’animo unita alla filosofia è la forza più grande, mentre bisogna astenersi dalla volontà di dominio; solo la virtù va perseguita, insieme alla pietà, alla temperanza, alla bontà. Così istruiti i discepoli, li condusse attraverso un lungo cammino in luoghi deserti, senza acqua, poi fra le onde di un mare infuriato, e fermò le onde, che si fecero solide per sostenere i passi di Dio e degli uomini giusti: in tal modo sperimentò la loro fede, e li rese impavidi. Quando un giorno uno dei suoi discepoli brandì la spada per difendersi da un tale che lo aveva minacciato con la sua, Cristo lo rimproverò perché non aveva confidato nella tutela che avrebbe potuto trovare in lui, e avvertì che anche chi ricorre alla violenza per evitare una morte violenta perirà comunque. Meglio essere pronti a ricevere il male piuttosto che a farne, e comunque il discepolo si era ingannato nel momento in cui aveva pensato di aiutarsi lottando piuttosto che confidando nell’aiuto di Dio, perché così facendo aveva scelto appunto lo scontro, e dunque un’opzione di esito incerto, quando invece avrebbe potuto contare su un’altra di esito certo. Una base di fede evidente è del resto costituita proprio dai prodigi che si sono compiuti per volere della Provvidenza di Dio, come l’attraversamento del mare da parte del Salvatore. Quando la fede permette a Dio di entrare stabilmente nella mente, nulla di ciò che avviene potrà turbare l’anima, allo stesso modo in cui Dio non ha riportato alcun danno dalla sua Passione e dall’ingiustizia degli empi, ma anzi grazie a tutto questo ha distrutto la crudeltà degli ingiusti (capitolo 15).
La Passione di Cristo era stata preannunziata dai profeti, come pure la sua incarnazione, che fu dovuta alla necessità di estirpare i semi dell’ingiustizia e i loro germogli, così che le genti potessero partecipare della saggezza e della temperanza. Consolidandosi la venerazione verso Dio, poteva inoltre venire meno la superstizione, che aveva indotto a sacrifici anche umani, conformemente alle leggi degli egizi e degli assiri, con i loro simulacri in bronzo e terracotta: pagarono il fio di questo tipo di culto Memfi (il cui esercito venne annientato da Mosè con la sola forza delle preghiere) e Babilonia, devastate e lasciate deserte con gli dei patrii – come Costantino afferma di aver visto con i propri occhi – (capitolo 16).
Costantino si sofferma a parlare di Mosè, liberatore e educatore di una moltitudine priva di un punto fermo, preso ad esempio anche da Pitagora. Peraltro quest’ultimo era giunto a un grado di sapienza tale da divenire a sua volta un modello per Platone. Si ricorda poi la vicenda del profeta Daniele, che predisse a Nabucodonosor, tiranno d’Assiria, una sventura gravissima, e venne da quello condannato in pasto alle belve feroci. Caduto il regno d’Assiria, Daniele si trasferì presso Cambise, ma rimase vittima delle trame dei Magi, che mal tolleravano le sue preghiere assidue e le sue eccelse qualità. Chiuso anche qui fra i leoni, li rese mansueti ancora grazie alla preghiera e alla lode per Cristo, ciò che stupì lo stesso Cambise accorso a osservare quello spettacolo, e presto voltosi alla punizione dei Magi, condannati ad essere loro volta dati in pasto ai leoni, tornati feroci di fronte a loro (capitolo 17).
La divinità di Cristo è testimoniata anche da fonti straniere, a riprova del fatto che perfino coloro che si comportavano in maniera blasfema nei suoi confronti erano nondimeno consci del fatto che fosse Dio e Figlio di Dio. Viene introdotta la testimonianza della Sibilla Eritrea, sacerdotessa di Apollo, che dava responsi a quanti le si rivolgevano come a un oracolo. Al colmo dell’ispirazione e negli anfratti del suo santuario, la Sibilla vaticinò la discesa di Gesù ricorrendo a un acrostico, le cui lettere iniziali formavano le parole «Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore, Croce». Costantino afferma di reputare felice la Sibilla, avendola Dio scelta quale profetessa della sua Provvidenza nei confronti degli uomini (capitolo 18).
Tuttavia, la maggior parte degli uomini ritiene che questi versi acrostici siano stati composti da qualche adepto della religione cristiana, che li attribuì alla Sibilla: ma i cristiani hanno stabilito accuratamente la cronologia proprio per evitare che si ritenesse il carme composto dopo l’avvento e la condanna di Cristo. Cicerone lo tradusse e lo inserì nelle sue opere, prima di essere ucciso da Antonio, che a sua volta ebbe la peggio nei confronti di Augusto; questi regnò cinquantasei anni, e poi, sotto Tiberio, ci furono l’avvento di Cristo e una nuova generazione di uomini, cui già Virgilio, nelle Bucoliche, aveva fatto riferimento. Segue l’interpretazione, in senso profetico della venuta di Cristo, di alcuni versi della IV Bucolica (nell’ordine, versi 7; 1; 4; 5-6; 8-10; 13-14), considerati trapunti di allegorie, ed è attribuito a Virgilio il proposito di esprimersi in maniera velata per evitare le accuse di empietà da parte dei contemporanei, e sottrarsi così alla crudeltà pagana (capitolo 19).
Costantino continua poi nella sua interpretazione in senso cristiano della IV Bucolica virgiliana (versi 15-59): l’avvento di Cristo determina con i suoi effetti la morte del serpente che ingannò gli uomini, e fa fiorire la moltitudine dei cristiani, allegorizzata nell’amomo d’Assiria. Virgilio è elogiato per essere riuscito a esprimere questi contenuti, celandoli con la licenza poetica e un’opportuna prudenza, ma rendendoli disponibili alla comprensione di quanti erano in grado di intendere la verità (capitolo 20).
La gioia degli elementi espressa nei versi 37 e seguenti della IV Bucolica evoca evidentemente non una generazione umana, ma la discesa di Dio in terra; anche la preghiera del poeta affinché gli venga protratta l’esistenza denota che si sta rivolgendo a Dio. I versi finali (60-63) confermano che il contesto si riferisce alla venuta di Dio, e in ultimo segue l’invocazione alla Pietà divina da parte di Costantino, che si accinge a questo punto a entrare in un’altra sezione del suo discorso, dedicata alla storia recente e a tutto ciò che egli stesso era riuscito a realizzare felicemente proprio grazie all’aiuto di colei che invoca (capitolo 21).
Costantino attribuisce proprio alla benevolenza della Pietà di Dio il buon esito di ogni cosa per cui aveva pregato: atti di valore, vittorie, trionfi sui nemici. A questo punto subentra il riferimento a una città definita grande e amatissima, i cui cittadini lodano le imprese dell’oratore, anche se in un primo tempo erano stati ingannati da vane speranze e avevano scelto un patrono indegno, ben presto catturato e costretto a pagare il fio dei misfatti compiuti. Viene ricordata la guerra che contro la Pietà e le sue chiese i tiranni avevano un tempo scatenato, una guerra che taluni a Roma guardavano con soddisfazione: ma la Pietà lasciò attoniti quanti si accanivano contro i cristiani indefessi con torture e castighi, e incendiando le loro chiese. Costantino attacca l’uomo empio che aveva dato avvio a tutto questo, che immagina si sarebbe giustificato chiamando in causa l’onore dovuto agli dei, i decreti degli imperatori precedenti, l’opinione della gente: tutti mali dovuti al politeismo pagano (capitolo 22).
A questo punto l’imperatore che ha perseguitato i cristiani è sfidato a paragonare il culto di questi con quello pagano: sarebbe così risultato evidente che tale culto determina ogni tipo di sentimenti lodevoli, e uno stile di vita semplice e innocente che conduce alla vita eterna come lungo una via sacra. Il Dio cristiano è a fianco degli uomini impegnati a fare il bene, e li ricompenserà al momento della cessazione della vita terrena, quando i buoni saranno premiati e i malvagi subiranno invece i giusti castighi (capitolo 23).
L’apostrofe è ora a Decio, efferato persecutore dei cristiani, che pagò con una morte orribile il fio delle sue colpe, esponendo la potenza di Roma al ludibrio dei goti; a Valeriano, la cui sete di sangue fu sperimentata dai martiri, incatenato con tanto di porpora dai persiani di Shabur, spellato e messo sotto sale; ad Aureliano, definito fiamma di ogni ingiustizia, ucciso lungo una strada della Tracia i cui solchi furono riempiti del suo sangue (capitolo 24).
Quindi è la volta di Diocleziano: dopo la sete di sangue che rivelò con le sue persecuzioni, egli si autocondannò, e riconosciutosi incapace di governare si rinchiuse in una casa fatiscente, sempre nel timore che un fulmine lo colpisse. Tutto ciò era raccontato da Nicomedia, e Costantino ne era stato testimone autoptico, mentre il palazzo di Diocleziano prendeva fuoco e l’imperatore malediceva la sua stessa follia. Il castigo del Dio cristiano, del resto, era stato previsto dalla parte più saggia del popolo, attonita di fronte agli effetti della ferocia contro i cristiani, che doveva comportare anche atti di vergognosa libidine su donne virtuose e vergini caste: ma i soldati e il popolo se ne astennero. La Provvidenza di Dio mise fine a tutto questo, e negli anni successivi avvennero tante stragi quante sarebbero bastate a garantire una pace perpetua, se avessero riguardato i barbari. L’esercito del suddetto imperatore, passato nelle mani di un incapace che si era impadronito dell’Impero con la violenza, è stato annientato in molte battaglie di ogni genere, mentre la Provvidenza di Dio liberava la grande città, tra la gioia in terra e la compartecipazione ad essa perfino dei corpi celesti (capitolo 25).
Il capitolo conclusivo vede Costantino richiamarsi a Dio come all’artefice dei suoi successi. Proprio grazie non solo alle sue mani, ma anche alle sue preghiere e alle sue suppliche al Dio cristiano, l’oratore ha potuto vedere il successo di tutto quanto aveva intrapreso, con un profitto, sul piano della vita pubblica e privata, tanto grande quanto ciascuno potrebbe domandare nelle sue preghiere. Dio ha esaudito le preghiere di colui che ha tenuto il discorso: se la fede non è vacillante, Dio esaudisce sempre le preghiere, cosicché non bisogna mai smettere di ringraziare il Salvatore per conservarne i benefici. In Cristo si troverà un alleato invincibile, il protettore dei giusti, il migliore dei giudici, la guida alla vita eterna (capitolo 26).
L’imperatore [Costantino] componeva in lingua latina i testi dei discorsi, e li traducevano in lingua greca persone appositamente incaricate di questo compito; proprio per apportare un esempio di tali discorsi tradotti, dopo l’opera cui sto ora attendendo accluderò quello cui lo stesso imperatore diede per titolo «All’assemblea dei devoti a Dio», poiché lo aveva dedicato alla Chiesa di Dio: questo per evitare che si ritenga la mia testimonianza al riguardo come una millanteria.
Questa affermazione esplicita di Eusebio di Cesarea, contenuta in v.C. IV 32, non ha avuto per destino quello di essere accettata nella lettera del suo contenuto, e ha dato adito quindi al sorgere di una questione inerente alla paternità dell’Oratio ad sanctorum coetum. Tale questione, una volta sorta, ha avuto tre possibili esiti interpretativi. La prima interpretazione è quella che considera il testo eusebiano come una testimonianza veritiera: Costantino componeva in lingua latina dei discorsi ufficiali poi appositamente tradotti in greco dalla cancelleria di corte – evidentemente per la loro diffusione nella parte orientale dell’Impero –, ed Eusebio accluse alla sua Vita Constantini, subito di seguito alla conclusione del quarto e ultimo libro, l’Oratio ad sanctorum coetum al preciso scopo di addurre un esempio dell’oratoria costantiniana e dei risultati dell’opera di traduzione sistematica in lingua greca dei suoi discorsi. Eusebio è dunque l’editore del discorso, mentre Costantino l’autore, andato soggetto a una traduzione autorizzata in lingua greca. La seconda possibilità è quella di attribuire l’Oratio ad sanctorum coetum allo stesso Eusebio (Jean-Pierre Rossignol fu tra i primi a porsi su questa linea), che dunque sarebbe stato, contemporaneamente, editore e autore del discorso. La terza possibilità è quella che toglie, al contempo, a Eusebio il ruolo di editore e a Costantino quello di autore: approfittando di un proposito eusebiano che non avrebbe avuto seguito, un falsario, in un’epoca che, a seconda dei diversi studiosi, può essere individuata nel IV secolo stesso (tra gli altri, Michele R. Cataudella) o nel V (tra gli altri, Augusto Mancini), avrebbe composto e accluso un suo proprio testo spacciandolo per l’orazione costantiniana.
Quanti hanno preferito la seconda possibilità, e hanno postulato un ruolo di Eusebio al contempo di autore e di editore, sono stati indotti a farlo da considerazioni soggettive o da interpretazioni non cogenti di dati oggettivi. Per quanto riguarda le prime, si è fatto notare che il livello culturale di Costantino non sarebbe stato adeguato alla composizione di un discorso ufficiale – per la quale non avrebbe peraltro avuto sufficiente tempo –, tanto più se basato in ampia parte su materia dottrinale, con il ricorso non infrequente a termini desueti. Ma l’argomento è sdrucciolevole, non solo alla luce dell’affermazione eusebiana – confermata anche da altre fonti – di v.C. III 13 (che potrebbe essere ritenuta di maniera), secondo la quale Costantino avrebbe avuto una buona cultura e avrebbe conosciuto il greco; ma soprattutto in considerazione del fatto che ci troviamo di fronte a un tipo di opera ispirato non da estro creativo personale e da volontà letteraria, ma da necessità contingenti di natura propagandistica, il che presuppone pertanto il coinvolgimento di consulenti per quanto attiene sia alla veste letteraria sia ai contenuti – ricordiamo che alla corte costantiniana si potevano incontrare Lattanzio (precettore a Treviri del figlio di Costantino, Crispo) e Ossio di Cordoba, i quali certamente collaborarono alla stesura e alla revisione. Per quanto riguarda i dati interpretativi, si è fatto rilevare che la Vita Constantini eusebiana presenta non pochi propositi poi disattesi, probabilmente anche a causa del breve intervallo di tempo intercorso fra la conclusione della giornata terrena di Costantino (337), dopo la quale la Vita Constantini iniziò a essere scritta, e quella di Eusebio (339-340); inoltre, alcuni autori successivi non confermano la presenza di un ulteriore libro che sarebbe stato accluso ai quattro che compongono l’opera dedicata a Costantino da Eusebio. Tuttavia, piuttosto che considerare v.C. IV 32 come l’espressione di un intento inattuato, è forse più probabile ritenere la frase riguardante l’inserimento dell’Oratio dopo i quattro libri dell’opera eusebiana come scritta dopo la Vita Constantini e con il discorso costantiniano ad sanctorum coetum accluso; la notizia di Fozio, secondo cui l’opera eusebiana su Costantino si componeva di soli quattro libri, può essere considerata una conferma del fatto che Eusebio era stato solo l’editore del discorso ad sanctorum coetum. Tale circostanza è confermata anche da Socrate, che non lo include fra le opere di paternità del vescovo di Cesarea.
Quanti hanno preferito la terza possibilità e presupposto l’esistenza di un falsario tanto nel ruolo di editore quanto in quello di autore dell’Oratio ad sanctorum coetum hanno derivato la maggior forza della propria tesi da un altro passo della Vita Constantini di Eusebio (IV 29,3-4), e dal raffronto tra l’acrostico sibillino (VIII 217-243) contenuto in Oratio ad sanctorum coetum 18,2-42, e quello riportato invece da Lattanzio (inst. VII 24) e da Agostino (civ. XVIII 23,1). Il passo di Eusebio cui costoro fanno riferimento descrive la struttura tipica dei discorsi pronunciati da Costantino: essa si discosta, nella successione degli argomenti e per l’assenza di taluni di essi, da quella che contraddistingue l’Oratio ad sanctorum coetum; ma va osservato, in primo luogo, che gli argomenti descritti come tipici dell’oratoria costantiniana (falsità delle divinità pagane; carattere della vera religione, quella cristiana; incarnazione del Figlio; giudizio dopo la vita con punizione di chi non avrà abbracciato la vera fede) si ritrovano comunque, al di là dell’ordine di successione, anche nell’Oratio; in secondo luogo, che con alto grado di probabilità un eventuale falsario si sarebbe attenuto proprio alla successione contenutistica descritta da Eusebio come tipica dell’oratoria costantiniana, allo scopo di corroborare le sue possibilità di non essere scoperto come tale.
Venendo poi ai versi acrostici tratti dagli Oracoli Sibillini, l’ultima parola che compongono è σταυρός: dal momento che essa manca ancora nella forma di acrostico ripresa nella prima parte del V secolo da Agostino (come già mancava in quella che era stata prescelta un secolo prima da Lattanzio), non sono mancati quanti hanno ritenuto la composizione del De civitate Dei come il terminus post quem per l’intervento del falsario; ma, oltre al carattere problematico della tradizione degli Oracoli Sibillini, di cui esistevano molte redazioni dissimili formatesi probabilmente a seguito del trasferimento dei testi, in epoca augustea, dal tempio di Giove Capitolino a quello di Apollo sul Palatino, va anche notato che la circostanza pasquale che apre il discorso quale lo leggiamo noi ben si adattava all’inserzione della parola croce. In ultima analisi, quand’anche fosse stata effettivamente aggiunta solo in seguito la parola staurovò, da un lato ciò non autorizzerebbe a ritenere interpolato tutto l’acrostico, e dall’altro potrebbe valere quanto detto poco sopra circa il fatto che i falsari, generalmente, cercano di evitare caratterizzazioni e spunti di originalità che rischierebbero di rivelarli come tali.
La prima possibilità presentata, quella cioè di considerare attendibile quanto afferma Eusebio in v.C. IV 32, e dunque ascrivere il lavoro di edizione dell’Oratio ad sanctorum coetum allo stesso vescovo di Cesarea e quello di composizione a Costantino – il cui latino venne poi tradotto in greco –, risulta nettamente preferibile; ciò non toglie che nel testo si palesino delle incongruenze, che rendono comunque problematica l’interpretazione dell’opera e che difficilmente possono risolversi se attribuite a improbabili interventi di falsari.
L’opera si presenta come un discorso ufficiale di propaganda, teso a divulgare le linee guida teologiche e dottrinali della religione cristiana, che l’imperatore Costantino aveva scelto di favorire, e a fornire una chiave di lettura della storia recente, che coincide con la filosofia della storia espressa anche da Lattanzio nel De mortibus persecutorum: l’intervento del Dio cristiano punisce i persecutori del cristianesimo e premia quanti invece prestano la propria opera alla difesa di esso.
Se il carattere dell’impianto è chiaro, non mancano tuttavia nel testo alcuni elementi che suscitano perplessità, e che, appunto, hanno spesso indotto gli interpreti a interrogarsi sulle reali coordinate storico-temporali e sugli intenti dell’opera: l’iniziale riferimento alla Pasqua non è inserito nella cornice di un anno preciso, né ripreso o sviluppato ulteriormente in seguito; i capitoli del discorso ufficiale, allo stesso modo dei suoi nuclei costitutivi, hanno un’estensione non uniforme; i riferimenti a un avversario, contro cui Costantino si scaglia nell’ultima parte del discorso, lasciano però tale figura nell’ombra senza individuarla in una maniera che non si presti ad ambivalenze – anche ad ulteriore scapito della possibilità di una datazione chiara da assegnare all’opera –, come pure resta imprecisato il contesto geografico in cui l’Oratio venne pronunciata.
Queste circostanze proiettano sull’opera un alone di problematicità, tanto da richiedere un approccio particolare, come sarà chiarito nel paragrafo successivo. Accanto all’indagine sulla genesi cronologica dell’Oratio ad sanctorum coetum, è opportuno interrogarsi anche sull’origine della redazione che ci è giunta, alla luce del presupposto per cui il probabile uso del discorso ufficiale in progresso di tempo da parte di Costantino potrebbe averne determinato una stratificazione compositiva e varie redazioni, con conseguenti aggiunte, modifiche, cancellazioni di riferimenti e particolari rispetto alla redazione originaria e a quelle che via via la seguirono, parallelamente all’evolversi della situazione politica nonché al mutare dell’uditorio di riferimento.
All’interno della redazione dell’opera che ci è pervenuta sussistono alcuni elementi datanti di immediata evidenza – a prescindere da quelli che potrebbero assolvere la stessa funzione solo se inseriti in più complesse ipotesi interpretative –, ossia riferimenti e menzioni che rimandano a una cronologia: ma anche per ognuno di questi si può far rilevare come non si possa parlare di univocità di contestualizzazione o di interpretazione. Al capitolo 13, come già anticipato, si presenta il riferimento al giorno della Passione: ma in primo luogo non è chiaro se si tratti del venerdì santo o di una delle giornate immediatamente successive, né viene fornito alcun indizio dell’anno. Ai capitoli 94 e 115 si rinvengono espliciti riferimenti alla dottrina ariana, condivisa dall’oratore (infra): ciò può costituire, per la composizione del discorso, un terminus ante quem al 325, stante l’inopportunità per Costantino di professarsi aderente ai postulati della dottrina ariana dopo che il concilio di Nicea l’aveva condannata, ma non ci soccorre per quanto riguarda l’individuazione di un terminus post quem; la lettura combinata di un passo del capitolo 116, in cui l’oratore afferma di non aver potuto gioire della rivelazione del messaggio cristiano «fin dalla gioventù», e di un altro passo del capitolo 257, in cui l’oratore afferma di essere stato testimone oculare del fulmine che incendiò il palazzo di Diocleziano, portano a presumere un’età non più giovane dell’oratore stesso. Il che va nello stesso senso delle altre affermazioni che sono contenute nei capitoli 228 – in cui si parla di atti di valore, successi, trionfi, accordati dal Dio cristiano in virtù delle preghiere – e 269 – in cui l’oratore si congeda come artefice di successi ottenuti con pubblica utilità grazie alla Provvidenza di Dio, che gli ha assegnato la vittoria e permette allo Stato di prosperare –, affermazioni che riflettono l’avvenuto raggiungimento di obiettivi importanti e di un elevato grado di potere: non è però specificato né il momento in cui Costantino mise in atto la sua conversione, né di quali vittorie si tratti, né tantomeno su chi. Al capitolo 2210 si incontra una frase che riveste un carattere primario come elemento datante: le imprese dell’oratore sono conosciute e glorificate da una «grande città» (ἠ μεγάλη πόλις) e dal popolo della «città amatissima» (ὁ δῆμος τῆς φιλτάης πόλεως), che pure in un primo tempo si era lasciato ingannare dalle false speranze fatte balenare «dal patrono, invero indegno di sé, che aveva prescelto» (άνάξιον έαυτῆς προείλετο προστάτην). Ma quest’ultimo ben presto ἑάλω πρσηκόντως καὶ ἀξίως τοῖς ἑαυτῷ τετολμημένοις, un enunciato la cui interpretazione potrebbe essere ambivalente, come si spiega poco avanti. Questo resoconto è evidente nella sua lettera, ma estremamente ambiguo nei suoi riferimenti, a causa del fatto che questi ultimi non sono esplicitati: alla luce della circostanza per cui i maggiori successi di Costantino avvennero contro Massenzio e contro Licinio, la grande città e il patrono indegno prescelto in un primo tempo dal popolo si presterebbero a essere identificati rispettivamente o con Roma e con Massenzio, in maniera tale da evocare la vittoria al ponte Milvio con la conseguente morte di Massenzio, o con una qualche città orientale e Licinio, fatto dapprima prigioniero e solo in seguito messo a morte. Ma il quadro è intricato, e non è peraltro neppure del tutto chiaro se «la città amatissima» e la «grande città» menzionata subito prima coincidano effettivamente. In caso affermativo, dovremmo preferibilmente pensare a Bisanzio o a Nicomedia (piuttosto che a Tessalonica o a Serdica), che furono le roccaforti di Licinio nel 324, piuttosto che a Roma, sede di Massenzio certamente, ma mai amata da Costantino (per quello che può valere, comunque, questo dato all’interno di un discorso ufficiale). Quanto all’ultima frase, essa può essere intesa sia nel senso di «fece la fine che si meritava, corrispondente ai misfatti che aveva commesso», riferibile per esempio tanto a Massenzio (che non sopravvisse alla battaglia; ma in teoria il riferimento potrebbe essere perfino a Massimino Daia – e quindi ad Antiochia o, in tal caso meno probabilmente, a Nicomedia come «città amatissima» –, con Costantino che allora condividerebbe la gioia per la sconfitta di un competitore, pur se determinata dalla mano di Licinio), quanto a Licinio (prima imprigionato, e dopo un certo tempo messo a morte); sia nel senso – che implica però un riferimento calzante al solo Licinio – di «venne imprigionato, in maniera opportuna e corrispondente ai misfatti che aveva commesso» (slegando quindi il verbo ἑάλω dagli avverbi subito successivi, che nella traduzione precedente, invece, lo determinano nel suo significato). Sempre all’interno del capitolo 2211 si menziona una persecuzione contro le chiese operata dai «tiranni» (l’uso cristiano definiva con questo termine tutti gli imperatori persecutori), ciò che alcuni a Roma avrebbero guardato con compiacimento: il riferimento può attagliarsi anche a Massenzio, pur se questi non fu un persecutore – potrebbe infatti esserlo diventato in una tradizione a lui ostile –, ma in modo certo migliore a Massimino Daia e soprattutto a Licinio, che divergeva da Costantino circa il ruolo che la Chiesa cristiana avrebbe dovuto avere all’interno dello Stato, e che è presentato dalla propaganda cristiana come l’imperatore che ad Amasea Pontica diede l’ordine di abbattere le chiese, perseguitare i cristiani, punire quanti si convertivano alla loro religione (Eus. h.e. X 8,10 ss.; v.C. I 49-59: infra).
Nel capitolo 22 medesimo12 l’oratore previene una possibile scusante che il persecutore, cui si rivolge come ad un uomo empio e delirante (le intestazioni ai capitoli dell’Oratio lo individuano in Massimino Daia: si veda l’intestazione testuale a 153,1-4, ma esse sono di controversa affidabilità, e di discussa paternità eusebiana; l’attacco, nella sua tipizzazione, poteva essere rivolto contro Massimino, ma altrettanto bene contro Galerio, Massenzio e Licinio), avrebbe potuto addurre: egli avrebbe agito spinto, oltre che dal sentimento popolare, soprattutto dall’ossequio per «i dettami degli imperatori precedenti» (διά τὰ ὑπὸ τῶν προγόνων νομισϑέντα). La serie degli imperatori che attuarono persecuzioni su larga scala dei cristiani si inaugurava con Decio e Valeriano, e, più recentemente, avevano lasciato triste memoria i decreti di Diocleziano e l’applicazione estremamente severa di essi da parte soprattutto di Galerio; ancora una volta, tutto concorre a stabilire un terminus post quem costituito dal 312/313 e un terminus ante quem dal 325, ma non è possibile individuare convergenze verso una datazione più precisa provvista di solidità. In ultimo, il capitolo 2513 conserva un’altra narrazione potenzialmente datante, ma neanch’essa incastonabile in una cornice cronologico-evenemenziale univoca: la guerra contro il persecutore, intrapresa da Costantino, portò a un numero di stragi notevole, e tutto l’esercito di Diocleziano, ὑποταχϑὲν ἐξουσίᾳ τινὸς ἀχρήστου βίᾳ τε τήν ῾Ρωμαίων ἀρχὴν ἁρπάσαντος, «venne annientato in molti scontri d’ogni genere» (πολλοῖς καὶ πανταδαποῑς πολέμοις ἁνήλωται), mentre la Provvidenza di Dio faceva tornare libera la grande città. Anche in questo caso, se la frase ὑποταχϑὲν ἐξουσίᾳ τινὸς ἁχρήστου βίᾳ τε τήν ῾Ρωμαίων ἀρχήν ἁρπάσαντος, che presenta evidente incertezza circa il modo in cui rendere τήν ῾Ρωμαίων ἀρχήν ἁρπάσαντος, viene intesa nel senso di «assoggettato all’arbitrio di un uomo indegno di questo nome, che aveva strappato a forza il potere su Roma», il riferimento probabile è a Massenzio, che in effetti era stato acclamato princeps dai pretoriani senza avere alcun titolo a una successione al padre Massimiano, e venne sconfitto in varie battaglie da Costantino (presso Torino e Verona, e infine al ponte Milvio); quanto all’esercito di Diocleziano passato nelle mani di Massenzio, potrebbe trattarsi – con forzatura evidente ma non improbabile all’interno di un contesto polemico – degli effettivi che contro Massenzio erano stati portati prima da Severo e poi direttamente da Galerio, ma che disertarono passando al nemico (perché corrotti, oppure perché ancora legati al padre di Massenzio: cfr. il coevo Lact., mort. pers. 26,8; 27,3-4; 44,2). Se invece la frase viene intesa nel senso di «assoggettato all’arbitrio di un uomo indegno di questo nome, che aveva strappato a forza il titolo di imperatore romano», potrebbe allora attagliarsi a Licinio, il quale non entrò in diretto possesso della città di Roma né ebbe il comando sulla parte d’Impero comprendente l’Italia, ma divenne con Costantino uno dei due imperatori romani, dopo essere stato nominato Augusto già al convegno di Carnuntum. In riferimento a Licinio, se può apparire più forzata l’interpretazione di ἀρχή nel modo sopra esposto, si spiega in compenso meglio l’aggettivazione delle battaglie (πολλοῖς καί παντοδαποῖς πολέμοις), poiché Costantino sconfisse il suo esercito, che era appunto quello della parte orientale dell’Impero detenuta già da Diocleziano, in battaglie sia di terra (Adrianopoli, Crisopoli) che navali (all’Ellesponto, con ruolo notevole svolto da Crispo). Non può non sorprendere la circostanza per cui l’oratore non menziona mai in maniera esplicita l’avversario contro cui si scaglia nel discorso, e che aveva combattuto e vinto, con l’aiuto di Dio, poiché perseguitava i cristiani; come si è notato, esiste una pluralità di elementi datanti, nessuno dei quali orienta però verso una datazione univoca. Tutto ciò difficilmente può essere casuale, e riteniamo maggiormente proficuo cercare una spiegazione che coinvolga anche la tipologia di opera che l’Oratio ad sanctorum coetum intendeva costituire. Harold A. Drake, in studi successivi, ha proposto di accostarsi a quest’opera come a un canovaccio sul tipo di quelli utilizzati in epoca moderna dagli uomini politici per i loro discorsi: donde le asimmetrie e le incongruenze inerenti all’estensione e ai riferimenti delle varie parti dell’opera. La strada indicata dal Drake è quella più convincente: l’Oratio con tutta probabilità non va considerata un’opera scritta una volta per tutte con intento definitivo, ma rappresenta, nella redazione che ci è giunta e che Eusebio prescelse con valore di esemplarità, il testo del discorso quale venne organizzato nella struttura, nei contenuti e nei riferimenti in una delle ultime occasioni in cui Costantino vi fece ricorso. La dignità di questo testo nella forma pervenutaci e edita da Eusebio è superiore a quella di un canovaccio, ma di esso conserva le saldature spesso imperfette, le contestualizzazioni appena abbozzate, le tipizzazioni diffuse, i riferimenti imprecisati: proprio tutto ciò che ne aveva consentito il frequente riuso dal 312/313 al 325 – previa opera di adattamento alle circostanze di necessità cangianti –, di volta in volta all’indirizzo di più di un avversario contro il quale Costantino o i suoi alleati del momento avevano vinto battaglie e guerre, presentate propagandisticamente come conflitti intrapresi in nome della tolleranza religiosa e contro i persecutori. L’oratore veniva così a giovarsi, peraltro, della forza retorica dell’allusività: gli attacchi erano rivolti evocando e non additando, e grazie alla contiguità temporale fra declamazione e avvenimenti le coordinate cronologiche e topografiche apparivano del resto immediatamente evidenti agli uditori cui si rivolgeva, i soli alla cui completa comprensione Costantino mirava. Restavano invece sostanzialmente immutati, all’interno dell’Oratio, i nuclei di esposizione dottrinale del cristianesimo, la religione che Costantino favoriva e intendeva veicolare, e quelli di sintesi della storia recente riassunta sulla base di una chiave di lettura imperniata sulla punizione dei persecutori da parte del Dio cristiano, ancora concepito come un Dio che interveniva attivamente nel corso storico e che poteva essere pertanto considerato, con approccio congeniale a un imperatore di quell’epoca, un ϑεός βοηϑός. Questa prospettiva sembra spiegare bene, da un lato, l’indeterminatezza costante degli elementi datanti non meno che delle localizzazioni topografiche e dei resoconti storico-evenemenziali – comunque perspicui per chi ascoltava di volta in volta l’Oratio –, e dall’altro per quale motivo la redazione che ci è giunta appaia meglio riferibile, pur nelle sue ambiguità, a Licinio piuttosto che a Massenzio o ad altri nel ruolo di bersaglio polemico del momento. Infatti gli ultimi ricorsi all’Oratio dovettero avvenire dopo la vittoria ottenuta su Licinio, presentato come un persecutore a motivo dei fatti di Amasea Pontica, e infine sconfitto in battaglie di terra e navali che proiettarono Costantino all’apice del potere – ciò di cui in più punti l’oratore tradisce la consapevolezza e l’orgoglio.
Nell’orazione costantiniana si impongono all’attenzione due passaggi, che con poche eccezioni gli studiosi hanno ritenuto molto vicini alle posizioni di Ario, il presbitero che ad Alessandria, intorno al 320, cominciò a predicare una dottrina che in ultima analisi rimontava a postulati del pensiero platonico, filtrato e integrato dai filosofi Plotino e Numenio di Apamea (II secolo d.C.), e applicato al cristianesimo da Origene (II-III secolo d.C.) e Luciano di Antiochia (III-IV secolo d.C.). Tale dottrina trovava le proprie basi in alcuni passi dell’Antico e del Nuovo Testamento (ad esempio Pr 8,22 e Gv 14,28): Ario, subito combattuto da Alessandro vescovo di Alessandria, stabiliva un rapporto di subordinazione del Figlio rispetto al Padre, poiché il Figlio, in quanto creato dal Padre, non avrebbe potuto definirsi rispetto a quello stesso né συναίδιος («coeterno») né ὁμοούσιος («consustanziale»). Questo subordinazionismo si riallacciava, con poche differenze, alla gerarchia teorizzata dal neoplatonico Plotino, che nelle Enneadi (II 9) prevedeva una prima ipostasi (ὐπόστασις, cioè «sostanza inserita in una gerarchia»: in riferimento alla Trinità, il concilio di Calcedonia del 451 la avrebbe definita come «sostanza propria di ognuna delle tre Persone», stabilendo il Figlio come fornito di una natura umana e divina indivise, che concorsero a formare una sola ipostasi), l’Uno, dotata di attività, dalla quale procede per generazione l’Intelletto come seconda ipostasi, inferiore alla prima ma superiore ad ogni altro essere, e da questa – che contempla e imita l’Uno – procede l’Anima come terza ipostasi, la quale a sua volta contempla l’Intelletto. Con l’applicazione da parte di Ario di tale sistema alla teologia cristiana – operazione compiuta già da Origene, che aveva però salvato la coeternità del Figlio rispetto al Padre – il Figlio, creato direttamente dal Padre, si configura come dotato di una sua propria sostanza, e come divino, tuttavia in misura inferiore rispetto al Padre, e viene ad essere un δεύτερος θεός («secondo Dio»), cui va ricondotta – in ottemperanza al volere del Padre – la creazione di ogni altro essere.
Ario, scomunicato tra il 322 e il 323, trovò accoglienza presso lo stesso Eusebio di Cesarea, che in alcuni passi delle sue opere è incline al subordinazionismo, ma che certamente non mostra mai di condividere il postulato della creazione dal nulla del Figlio. I passaggi dell’Oratio ad sanctorum coetum, i quali potrebbero essere stati inseriti nelle redazioni successive alla predicazione di Ario, che ebbe fortuna in Oriente anche dopo la condanna al concilio di Nicea del 325 – ma che potrebbero altrettanto bene essere stati presenti anche nelle redazioni precedenti, poiché Ario non fece che ridare efficacia e diffusione a una tesi subordinazionista che certo non nasceva con lui –, sono: 9,3-514, in cui si elogia Platone, il quale «affermò che il primo Dio è quello al di sopra di ogni sostanza», «subordinò al primo Dio un secondo Dio» e distinse numericamente due sostanze, con «la sostanza del secondo Dio che trae la propria esistenza dal primo», e il secondo Dio stesso che «esegue ciò che il primo Dio gli ordina»; e 11,815, in cui viene affermato che «Cristo è la causa della salvezza, mentre la salvezza di ciò che esiste è il suo effetto, allo stesso modo in cui il Padre è la causa del Figlio, ed il Figlio il suo effetto». Appare evidente come questi passaggi, se come detto non sono cogenti nell’indicare un terminus post quem per la composizione del discorso, possano però costituirne un terminus ante quem per il ricorso ad esso da parte di Costantino. Dopo il concilio di Nicea, dal quale l’imperatore si attendeva una rinnovata unità della Chiesa al fine di renderla atta a svolgere l’auspicata funzione di fattore di coesione sociale, e in cui Ario venne condannato riaffermandosi il dogma del Figlio come generato (e non creato) dal Padre ma «della stessa sostanza del Padre» (ὁμοούσιος τῷ πατρί), questo discorso non era più pronunciabile, almeno in tale forma: anche la circostanza del riavvicinamento progressivo di Costantino ad Ario, cominciato con il cosiddetto concilio II di Nicea (o di Nicomedia) fra la fine del 327 e l’inizio del 328 e conclusosi con il concilio di Tiro del 335 e la riabilitazione del presbitero, non costituisce argomento a favore della possibilità di ricorrere nuovamente all’Oratio, poiché ciò avrebbe significato veicolare non l’avvenuta mediazione fra le parti, ma la sconfessione da parte di Costantino del Simbolo niceno (poi riaffermato con l’introduzione della consustanzialità dello Spirito Santo dal concilio di Costantinopoli del 381).
Da respingere, invece, l’opinione di chi considera la presenza di questi passaggi ariani prova della non attribuibilità dell’opera a Costantino, sulla base del fatto che i suoi maestri dottrinari, Ossio di Cordoba e Lattanzio, non erano ariani. Non si deve trascurare il fatto che anche in Lattanzio non mancano tracce di subordinazionismo, e che Ossio e Lattanzio non furono gli unici a insegnargli quella religione e ad avere un ruolo di consulenza nella redazione dell’opera. Inoltre si potrebbe ravvisare nel testo l’intenzione di venire incontro alla simpatia di molte comunità orientali per l’arianesimo quando esso non era stato ancora condannato come un’eresia. Anche il fatto che a Costantino non fu mai rivolta l’accusa di essere stato un simpatizzante dell’arianesimo non risulta di per sé dirimente: sarebbe stata un’accusa poco efficace verso colui che non era stato un teorico di quell’eresia, che l’aveva condannata dopo Nicea allo stesso modo di tanti altri vescovi, e che prestava peraltro il fianco ad accuse ben più gravi dopo i fatti del 326. Inoltre non può suffragare l’ipotesi di una paternità non costantiniana il fatto che l’imperatore si trovasse raramente in Oriente dal 305 al 324 (il che non è esatto).
Il trapasso dalla parte dottrinaria alla parte di rilettura della storia recente è segnato da un vero e proprio suggello all’esposizione della dottrina cristiana e dei caratteri dell’incarnazione del Cristo: la discesa di quest’ultimo sulla terra, e la sua divinità, sarebbero state note ai pagani, e profetizzate tanto dalla Sibilla con un responso oracolare in versi acrostici, quanto da Virgilio, della cui IV Bucolica è presentata nel discorso un’esegesi cristianizzata. Naturalmente Costantino, con il ricorso all’acrostico e con l’interpretazione dell’ecloga virgiliana nel senso di profezia dell’avvento del Cristo, non compiva un’operazione originale e inedita, ma si inseriva lungo un solco che possiamo presupporre comune a una temperie culturale. Varrone (richiamato in Lact., inst. I 6) conosceva dieci Sibille, ma Dionigi di Alicarnasso nella sua opera storica (IV 62) individuava in quella di Cuma la profetessa i cui oracoli erano tenuti in altissima considerazione dai romani per il loro contenuto (definisce Cumaea la sua Sibilla anche Virgilio, in Aen. VI 98). L’acrostico della Sibilla contenuto all’interno dell’Oratio ad sanctorum coetum (18,2-416) presenta un testo che si ritrova in Or. Sib. VIII, vv. 217 segg. (pp. 153 segg. Geffcken), e che l’oratore cita ad esclusione del resto dell’oracolo, poiché solo esso poteva prestarsi a un’interpretazione profetica in riferimento alla venuta del Cristo; gli acrostici formano le parole ᾿Ιησοῦς Χρειστὸς Θεοῦ ῾Υιὸς Σωτήρ Σταυρός («Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore Croce»)17. Ora, il fatto che in Lattanzio, inst. VII 24, e in Agostino, civ. XVIII 23,1, l’acrostico termini con la parola σωτήρ, senza alcun riferimento alla croce, ha indotto a considerare la sua parte finale come una libera aggiunta del traduttore in lingua greca, se non addirittura a fare del De civitate Dei un terminus post quem per quella che a questo punto non potrebbe venire interpretata che come l’opera di un falsario. In realtà, la tradizione degli Oracoli Sibillini, adattati a una propaganda messianico-apocalittica soprattutto dai giudei ma anche, successivamente, dai cristiani, fu molto frastagliata già in antico, ed ebbe nel trasferimento dei testi dal tempio Capitolino a quello di Apollo sul Palatino, avvenuto nel 12 a.C., una tappa molto incisiva. L’ottavo libro della raccolta, dal canto suo, si caratterizza per la compresenza di una sezione giudaica e di una sezione cristiana, la quale ultima dovrebbe cominciare proprio con il nostro acrostico, di chiaro carattere escatologico; un falsario certamente avrebbe però preferito conformarsi alla redazione dell’acrostico già prescelta da Lattanzio (e poi da Agostino) piuttosto che introdurre un indizio così palese della sua falsificazione. Più prudente pensare o a un’altra redazione seguita dallo stesso Costantino, che dovette giovarsi della parola croce essendo in procinto di utilizzare l’acrostico in un’occasione pasquale, o a un’inserzione tarda della sola parte che forma l’acrostico σταυρός.
Di seguito, ai capitoli 19-21 dell’Oratio viene svolta l’interpretazione in senso cristiano della IV Bucolica virgiliana, che si presentava agli occhi degli antichi come caratterizzata da un messaggio di rinnovamento, atto ad avvicinarla notevolmente a un’escatologia oracolare; soprattutto in virtù di quest’ecloga il Mantovano acquisì fama di profeta, e molto prima dell’Età medievale, come desumiamo da questi capitoli dell’Oratio. Già Lattanzio in inst. VII 24, se non si spinse fino al punto di identificare il puer con Cristo, tuttavia intese i versi di Virgilio in maniera allegorica – ponendosi lungo un sentiero non nuovo nella tradizione letteraria cristiana –, considerandoli come dettati da un’ispirazione che, per quanto riguardava l’imminente incarnazione del Figlio, aveva posto il poeta appena a pochi passi dall’ispirazione dei profeti. L’Oratio ad sanctorum coetum, dal canto suo, andò al di là della pressoché coeva opera di Lattanzio, e con essa avvenne la ricezione e l’interpretazione della IV Bucolica virgiliana come di un testo profetico della venuta del Cristo: nell’opera Virgilio è presentato come costretto a esprimersi in maniera criptica e ad avvalersi di simbologie per celare il vero significato dei suoi riferimenti, onde evitare l’ira e la vendetta dei potenti in tempi ancora pagani.
La maggior parte degli studiosi, in particolare Alfons Kurfess, ritiene la traduzione in greco dell’ecloga virgiliana e la sua esegesi come frutto di due mani diverse: l’interpretatio graeca guardava direttamente all’ecloga virgiliana, e la traduzione in versi greci fu successiva alla composizione dell’Oratio; a questa conclusione ha indotto la circostanza per cui, nei casi di divergenza della traduzione greca dal testo latino dell’ecloga, l’esegesi in greco sembra comunque svolta generalmente sulla base del testo originario virgiliano, a prescindere dalla traduzione in greco presentata. Il traduttore e il commentatore si rivelano però animati, al di là della resa di singoli termini o delle varie omissioni, modifiche e aggiunte cui il traduttore fu costretto, dal medesimo fine di fare della IV Bucolica un testo scevro di elementi pagani e teso ad annunciare l’avvento del Cristo.
Nella traduzione, è notevole come vengano fatti sparire nella loro interezza o quasi i versi 2-3 (e con essi la contestualizzazione scomoda silvae sint consule dignae), 11-12 (espliciti nel loro riferimento al consolato di Asinio Pollione), 45-47 (che chiamano in causa le Parche), 56-59 (compendiati, poiché densi di menzioni di divinità pagane), e come parti di versi vengano omesse o modificate nel loro significato. I casi più eclatanti sono quelli di ecl. IV 6: Iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna («ormai anche la Vergine torna, tornano i regni di Saturno»), reso con ῞Ηκει παρθένος αὖθις ἄγουσ’ἐρατὸν βασιλῆα («giunta è la Vergine, che conduce l’amabile re»), laddove alla Dike virgiliana subentra la Vergine Maria e ai regni di Saturno la venuta di Cristo re; 7: iam nova progenies caelo demittitur alto («ormai una nuova progenie viene fatta discendere dall’alto cielo»), reso con ἔνθεν ἔπειτα νέα πληθὺς ἀνδρῶν ἐφαάνθη («quindi apparve da lì una nuova moltitudine di uomini»), con l’immagine della discesa dal cielo sacrificata alla descrizione dei cristiani come νέα πληθὺς ἀνδρῶν e il verbo demittitur reso, con evidente alterazione dell’immagine, mediante un ben diverso ἐφαάνϑη; 24-25: occidet et serpens, et fallax herba veneni / occidet; Assyrium vulgo nascetur amomum («morirà anche il serpente, e morirà l’erba ingannatrice del veleno; nascerà ovunque l’amomo d’Assiria»), resi con ὄλλυται ἰοβόλου φύσις ἑρπετοῦ, ὄλλυται ‹ἰὸς› λοίγιος, / ᾿Ασσύριον θάλλει κατὰ τέμπε’ ἄνωμον («perisce la stirpe del serpente velenoso, perisce il veleno esiziale, nelle valli è in fiore l’amomo d’Assiria»), con una notevole discrepanza, in questo caso, non solo fra originale latino e traduzione greca (nella quale l’allusione all’età dell’oro diviene un’allusione alla nascita di Cristo, e il serpente viene ad essere il diavolo con le sue false dottrine assimilate a un veleno esiziale), ma anche fra traduzione greca e commento greco (20)18, dove la virgola viene messa non già dopo λοίγιος bensì dopo ᾿Ασσύριον, in maniera tale da poter intendere θάλλει κατὰ τέμπε’ ἄνωμον, una volta staccatolo da ᾿Ασσύριον, come «nelle valli è in fiore l’amomo = i cristiani», recuperando l’identificazione neotestamentaria tra l’amomo e i seguaci di Cristo. A prescindere da svariati dettagli, altre evidenti interpretazioni cristianizzate dei versi virgiliani sono poi attuate dal traduttore in greco a proposito dei versi 4; 10; 13; 15-16; 21-22 (con aggiunta perfino di un verso nella resa); 49.
Limitandoci al riferimento ai grandi temi e prescindendo da altri particolari più specifici pure individuati con acribia e dottrina dagli studiosi, osserviamo come, oltre che per il subordinazionismo, e per il ricorso all’acrostico sibillino e alla IV ecloga virgiliana come prove della consapevolezza pagana della divinità del Cristo, l’Oratio ad sanctorum coetum presenti analogie concettuali con altre opere coeve anche per quanto riguarda l’esposizione della storia più recente: tali analogie, a prescindere dalla questione di chi abbia ripreso chi, denotano in ogni caso che sussisteva, nel IV secolo, un approccio a determinati aspetti improntato ad alcuni procedimenti e ad alcune costanti di fondo, e generato dalla presenza di una diffusa koiné culturale. La parte di rilettura della storia recente si impernia su alcuni presupposti concettuali: il Dio cristiano punisce i persecutori; questi ultimi, se precedenti a Costantino, divengono, proprio in quanto persecutori, degli imperatori inadeguati; se coevi a Costantino, subentra allora una intercambiabilità per cui essi, se persecutori dei cristiani, si configurano come immancabili nemici anche di Costantino, ma puntualmente vengono descritti come nemici del cristianesimo anche per il solo fatto di esserlo stati di Costantino (come nel caso di Massenzio). Le ragioni di propaganda, che dovettero essere ampiamente divulgate nelle fasi preparatorie dei conflitti, venivano riaffermate anche quando si trattava di giustificare i conflitti stessi dopo averli vinti, svincolandoli il più possibile dalle ragioni inerenti alla lotta per il potere, e presentandoli come resi necessari per fermare persecuzioni sanguinarie attuate da rivali screditati a quel punto in ogni loro azione e nel profilo generale.
Il destino di punizione e/o morte degli imperatori persecutori accomuna l’Oratio al De mortibus persecutorum di Lattanzio – composta fra il 314 e il 320 – nel presupposto del Dio cristiano che interviene nella storia per punire coloro che agiscono contro i cristiani (nei capitoli 24-25,319 vengono ricordate le vicende di Decio, Valeriano, Aureliano, Diocleziano, e infine di un imprecisato imperatore che è l’obiettivo polemico del discorso: cfr. mort. pers. 4-7; 10 ss.): un presupposto che non nasce con queste opere, ma che affonda le proprie radici almeno in Melitone di Sardi.
Ma l’Oratio ad sanctorum coetum presenta altresì sequenze e particolari narrativi che si ritrovano anche nella Historia Ecclesiastica e nella successiva Vita Constantini, entrambe opere di Eusebio di Cesarea, uomo vicino a Costantino allo stesso modo di Lattanzio. Tali consonanze, inerenti ai particolari descrittivi e all’ideologia sovrastante, rispondono a un procedimento di tipizzazione, che in quanto tale va al di là della possibilità di individuare in modo preciso il modello e gli epigoni. In altra sede, studiando la propaganda di Costantino contro Licinio, si è cercato di evidenziare in maniera il più possibile esaustiva questi punti di contatto fra l’Oratio ed Eusebio: sarà opportuno ricordarne quattro più evidenti. Nell’Oratio le azioni efferate dei tiranni persecutori vengono ricondotte al disegno di ripristinare il paganesimo (22,5)20, allo stesso modo in cui Eusebio, in h.e. X 8,10, si sofferma sul fatto che Licinio impose ai soldati il sacrificio agli dei pagani, e in v.C. II 4,2-5 mette in caricatura il competitore di Costantino per l’abitudine di circondarsi di vati e stregoni che gli garantivano la vittoria, in cambio della quale avrebbe tratto maggior determinazione a perseguitare il cristianesimo, in nome del pieno ripristino della religione pagana; già prima il vescovo di Cesarea aveva descritto lo stesso attaccamento ai rituali e all’apparato del paganesimo in relazione a Massenzio (in h.e. VIII 14,5; VIII 14,8 ss.; IX 9,3). La sezione dedicata alla punizione dei persecutori da parte del Dio cristiano presuppone che l’imperatore contro cui si rivolge la redazione dell’Oratio che leggiamo noi non tenesse presente il destino che inevitabilmente lo attendeva: la stessa considerazione, presente anche in Lattanzio, mort. pers. 6,3, ritroviamo in Eusebio, h.e. X 8,2; X 8,9; X 9,5 riguardo a Licinio, nonché in v.C. I 49,2 e soprattutto nella analoga rassegna della triste fine degli imperatori persecutori in I 56,2-59,1. I competitori di Costantino sono in quanto tali tiranni persecutori, contraddistinti da una libidine che li porta a perpetrare anche stupri; quanto descritto a questo proposito nell’Oratio (25,321) presenta parallelismi evidenti con ciò che racconta Eusebio in h.e. VIII 14,2; VIII 14,12 e VIII 14,16-17 in riferimento a Massenzio – con l’episodio di Sofronia che fa da pendant a quello di Dorotea narrato poco sopra in relazione alla libidine di Massimino Daia –, e in h.e. X 8,13 in riferimento a Licinio, nonché con quanto ancora Eusebio attesta in v.C. I 52 riguardo di nuovo a Licinio. Infine, soprattutto nell’ultimo capitolo dell’Oratio (2622), la preghiera è presentata come lo strumento grazie al quale Costantino, che attribuisce al Dio cristiano ogni suo successo, ha potuto ottenere il soccorso della Provvidenza di Dio e quindi la vittoria: anche nella h.e. eusebiana (X 9,9) viene messo in rilievo come Costantino e i suoi figli ricambiassero con atti di devozione il favore accordato loro dal Dio cristiano, e la stessa affermazione con cui comincia anche il capitolo 22 dell’Oratio23, nella quale l’oratore riconduce tutti i suoi trionfi sui nemici alla benevolenza di Dio, trova una ripresa pressoché speculare in Eusebio, v.C. II 19,3 e II 23,1, dove leggiamo che Costantino aveva ufficializzato in documenti redatti tanto in lingua greca quanto in latino (ἀνεκήρυττε διὰ χαρακτήρων ῾Ρωμαίας τε καὶ ῾Ελληνίδος φωνῆς) il fatto che le sue vittorie andavano attribuite al Dio cristiano.
Possiamo pertanto concludere che anche la parte di rilettura della storia recente dell’Oratio ad sanctorum coetum, condotta sulla base dell’impianto ideologico sopra descritto, si riallaccia a una koiné propagandistica, che non deve necessariamente essere stata creata in tutte le sue linee da Costantino e dai suoi consulenti in materia culturale e di ricerca del consenso, ma che certamente venne da loro arricchita nei particolari e contestualizzata, nonché raccomandata nella sua utilizzazione in riferimento ai più importanti avversari dell’imperatore che combatteva per i cristiani, e che pertanto era celebrato, anche dalle sue stesse parole, come insignito dal loro Dio del premio del comando assoluto su un impero che tornava unitario nella sua guida.
1 La discussione critica su quest’opera si è per lungo tempo concentrata sulle questioni inerenti alla paternità costantiniana o eusebiana, alla cronologia, all’interpretatio greca della IV Bucolica virgiliana, e alla struttura e all’esegesi dei versi che compongono l’acrostico sibillino; a partire dall’ultimo quarto del XX secolo l’attenzione degli studiosi si è invece andata estendendo e infine concentrando sull’ultima sezione dell’opera, quella più propriamente dedicata alla storia recente, e si è cercato di stabilire riferimenti e contesti precisi dietro le allusioni spesso vaghe ed elusive presenti nel testo. L’edizione fondamentale dell’opera, alla quale rimandiamo nel testo, è quella di I.A. Heikel, Eusebius Pamphili, Werke (GCS 7), Leipzig 1902. Tra gli studi principali che è opportuno ricordare in relazione all’Oratio ad sanctorum coetum, prescindendo per ragioni di spazio da opere pur fondamentali su Costantino e il IV secolo, si richiamano sinteticamente: J.-P. Rossignol, Virgile et Constantin le Grand, Paris 1845 (un testo classico, che orientò la maggior parte degli approcci all’opera nell’Ottocento: Eusebio sarebbe stato il vero autore dell’opera, come rivelerebbero, tra le altre cose, il livello culturale di essa e la vicinanza all’arianesimo); A. Mancini, La pretesa Oratio Constantini ad Sanctorum coetum, in Studi Storici, 3 (1894), pp. 92-117, 207-228 (nega la paternità tanto eusebiana quanto costantiniana dell’opera, e pensa a un falsario del V secolo; la sua tesi avrebbe ricevuto il consenso anche dell’editore dell’Oratio ad Sanctorum coetum, I.A. Heikel); P. Fabbri, L’egloga quarta e Costantino il Grande, in Historia. Studi Storici per l’Antichità Classica, 4 (1930), pp. 228-235 (ritiene l’orazione pronunciata da Costantino contro Massimino Daia); tra i numerosi scritti dedicati a vari aspetti dell’opera – principalmente alla dimostrazione del suo carattere di effettiva versione di un originale latino, all’acrostico e alla traduzione della Bucolica virgiliana – di A. Kurfess ci limiteremo a ricordare Zu Kaiser Konstantins Rede an die Versammlung der Heiligen, in Theologische Quartalschrift, 130 (1950), pp. 145-165, in cui muta l’opinione espressa in precedenza e considera l’orazione pronunciata il 29 marzo del 313 da Costantino a Roma contro Massenzio; R.C. Hanson, The Oratio ad Sanctos attributed to the Emperor Constantine and the Oracle at Daphne, in Journal of Theological Studies, 24 (1973), pp. 505-511 (ritiene che il basso livello letterario dell’orazione non consenta di attribuirla a Costantino, e la postdata al ventennio 362-382); S. Mazzarino, Antico, Tardoantico ed era costantiniana, I, Bari 1974 (alle pp. 99 segg. porta al centro dell’attenzione la sezione dell’opera dedicata alla storia recente, e ritiene l’opera pronunciata nel 325 a Bisanzio contro Licinio); C. Monteleone, L’Ecloga quarta da Virgilio a Costantino. Critica del testo e ideologia, Manduria 1975 (importante per l’interpretazione della bucolica virgiliana da parte dell’Oratio ad Sanctorum Coetum); D. De Decker, Le «Discours a l’Assemblée des Saints» attribué à Constantin et l’oeuvre de Lactance, in Lactance et son temps. Recherches actuelles, Actes du IVe Colloque d’études historiques et patristiques (Chantilly 21-23 septembre 1976), éd. par J. Fontaine, M. Perrin, Paris 1978, pp. 75-89 (ritiene l’opera composta ad Antiochia nel 325, ed esamina l’influsso di Lattanzio sulla filosofia della storia rintracciabile in essa); U. Pizzani, Costantino e l’Oratio ad Sanctorum Coetum, in Costantino il Grande dall’Antichità all’Umanesimo, Colloquio sul Cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, Macerata 1993, II, pp. 791-822 (anche questo contributo fornisce molti spunti in merito ai rapporti tra l’Oratio e Lattanzio, e all’interpretatio della IV bucolica); M.J. Edwards, The Arian Heresy and the Oration to the Saints, in Vigiliae Christianae, 49 (1995), pp. 379-387 (ritiene di ridimensionare la vicinanza all’arianesimo di alcuni passaggi di quest’orazione); B. Bleckmann, Ein Kaiser als Prediger: zur Datierung der Konstantinischen “Rede an die Versammlung der Heiligen”, in Hermes, 125 (1997), pp. 183-202 (presupponendo il discorso pronunciato in un concilio che si sarebbe svolto a Nicomedia non prima della primavera del 328, ritiene compatibile il suo utilizzo con il Simbolo niceno condiviso da Costantino); H.A. Drake, Constantine and the Bishops. The Politics of Intolerance, Baltimore 2000 (alle pp. 229 segg. è riproposta più marcatamente un’interpretazione dell’opera, chiaramente innovativa e pregevole, già affacciata quindici anni prima: l’opera andrebbe intesa come un canovaccio di base per discorsi ufficiali, donde la diseguale estensione dei capitoli e l’ambiguità nei riferimenti a fatti e personaggi); M.R. Cataudella, Costantino, Giuliano e l’Oratio ad Sanctorum Coetum, in Klio, 83 (2001), pp. 167-181 (che riconduce la composizione dell’opera all’epoca giulianea o post-giulianea e agli ambienti dell’opposizione all’imperatore); T.D. Barnes, Constantine’s Speech to the Assembly of the Saints: Place and Date of Delivery, in Journal of Theological Studies, 52 (2001), pp. 26-36 (dopo aver pensato, in contributi precedenti, al 317 e alla città di Serdica come all’epoca e alla sede di declamazione del discorso, e poi al 321 e a Tessalonica, nello studio citato l’insigne studioso ritiene invece che il discorso sia stato pronunciato alla vigilia di Pasqua del 325 a Nicomedia); M.J. Edwards, Constantine and Christendom, Liverpool 2003 (con traduzione inglese dell’opera e la proposta di individuare in Massimino Daia sconfitto da Licinio il bersaglio polemico dell’orazione, che lo studioso ritiene pronunciata a Roma nel 315); R. Cristofoli, Costantino e l’Oratio ad Sanctorum Coetum, Napoli 2005, dove si sviluppa l’idea di Drake; Id., Religione e strumentalizzazione politica: Costantino e la propaganda contro Licinio, in Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV-VI secolo d.C.), a cura di G. Bonamente, R. Lizzi Testa, Bari 2010, pp. 155-170. Si segnala infine la recente ed elegante traduzione francese con commento dell’opera a cura di P. Maraval, all’interno del volume Constantin le Grand. Lettres et discours, Paris 2010 (pp. 107-155, 202-247).
2 I.A. Heikel, Eusebius Pamphili, cit., pp. 179-181.
3 Ivi, p. 154.
4 Ivi, p. 163, rr. 3-5.
5 Ivi, p. 168, r. 8
6 Ivi, p. 166, r. 1.
7 Ivi, p. 190, r. 2.
8 Ivi, pp. 187-188, r. 1.
9 Ivi, p. 192, r. 2.
10 Ivi, p. 188, r. 1.
11 Ivi, p. 188, r. 2.
12 Ivi, p. 188, rr. 4-5.
13 Ivi, p. 191, r. 4.
14 Ivi, p. 163.
15 Ivi, p. 168.
16 Ivi, pp. 179-181.
17 A differenza della resa che ne abbiamo fatto nella nostra monografia, che si discostava in non pochi punti dall’originale greco in nome dell’intento di ricrearne la musicalità e la mistica, in questa sede, optando oggi per parametri diversi, traduciamo l’acrostico salvaguardando la sua caratteristica di genere, ma adattandola alle parole italiane, senza, per quanto possibile, allontanarci dalla lettera del testo originale; ciò ha comportato peraltro la scissione in due, nella resa italiana, dell’ultimo acrostico (Σ = CE: ΙΗΣΟΥΣ ΧΡΕΙΣΤΟΣ ΘΕΟΥ ΥΙΟΣ ΣΩΤΗΡ ΣΤΑΥΡΟΣ, formato da trentaquattro acrostici, è reso con GESÙ CRISTO FIGLIO DI DIO SALVATORE CROCE in trentacinque acrostici). Come base per la traduzione si è presa l’edizione dello Heikel con qualche variazione: «Gronderà di sudore la terra, quando ci sarà il segno del giudizio. E colui che sarà re nei secoli scenderà giù dal cielo, Sì, a giudicare in presenza ogni vita mortale e il mondo intero. Ugualmente i mortali animati da fede o privi di essa vedranno Dio, Che è l’Altissimo, insieme ai santi alla fine dei tempi. Restando sul trono giudicherà le anime degli uomini rivestiti di carne, Il giorno in cui ogni angolo di mondo diverrà terra arida e spine. Scaglieranno via, i mortali, gli idoli e ogni ricchezza. Terra, cielo e mare brucerà il fuoco Ormai avvampandoli, e abbatterà le porte della prigione di Ade. Farà in quel momento afflusso alla luce della libertà tutta la carne dei morti Immuni da macchie, mentre le fiamme proveranno gli empi in eterno. Gli atti che ognuno ha compiuto nell’ombra, tutti allora li svelerà, Le oscurità dei cuori squarcerà infatti Dio con raggi di luce. Invero tutti leveranno gemiti e faranno stridere i denti. Ogni splendore del sole, e le danze delle stelle verranno meno. Dio avvilupperà il cielo, e la luce della luna sparirà; Innalzerà le voragini, precipiterà le vette dei monti, Dagli uomini si allontanerà ogni ardire fonte di pianto. I monti e le pianure si incontreranno ad una stessa altezza, e nessun tratto di mare Ora sarà più navigabile. La terrà sarà incenerita dal fulmine, Sorgenti e fiumi si estingueranno gorgogliando. Allora dal cielo una tromba emetterà un suono lugubre, Le membra straziate e le pene del mondo compiangendo. Visibile renderà la terra, con il suo aprirsi, l’abisso senza fondo del Tartaro. Arriveranno innanzi al trono di Dio tutti i re. Tracimerà giù dal cielo un fiume di fuoco e di zolfo. Ogni mortale avrà allora un segno, che assurgerà a sigillo inconfondibile Riflettendosi agli occhi dei fedeli: il legno, le assi agognate della croce, Ecco che saranno vita per gli uomini pii e scandalo per il mondo, Con gli eletti irradiati dalla luce nelle acque di dodici fonti; Regnerà in guisa di verga di ferro che conduce il gregge. Orbene proprio questo, il cui nome compongono gli acrostici, è il nostro Dio, Colui che è il Salvatore, il re immortale, E che ha sofferto per noi».
18 I.A. Heikel, Eusebius Pamphili, cit., pp. 183-184.
19 Ivi, pp. 190-191.
20 Ivi, p. 188.
21 Ivi, p. 191.
22 Ivi, p. 192.
23 Ivi, pp. 187-188.