L'Italia preromana. I siti etruschi: Veio
Ubicata nella bassa valle del Tevere, V. era la città d’Etruria più prossima a Roma, alla quale fu legata da un complesso rapporto di scambio e di antagonismo.
La parabola storica di V., come è restituita dalla storiografia romana, si apre con le prime ostilità per il possesso delle saline sulla riva destra del Tevere, che costituivano un settore cruciale per l’approvvigionamento di un bene essenziale. Il primo conflitto risalirebbe all’età romulea e coinciderebbe con il costituirsi della città stessa di Roma; il definitivo controllo romano, sia sulle saline che sul territorio adiacente dei septem pagi, si sarebbe verificato dopo la seconda metà del VII sec. a.C., in seguito alla vittoria riportata da Anco Marcio. Un periodo di relativa tranquillità appare postulabile durante la dinastia dei Tarquini, frutto di un reciproco impegno nel voler garantire la sicurezza del percorso fluviale; il ricorso ripetuto ai coroplasti veienti per la realizzazione di statue di culto (la statua di culto di Eracle e il simulacro di Giove Capitolino, commissionati al caposcuola Vulca) e per la quadriga destinata al fastigio del tempio di Giove Capitolino sono l’implicito riconoscimento della supremazia artistica veiente. È significativo come le fonti colleghino gli interventi degli artefici etruschi alla realizzazione più impegnativa e più rappresentativa della Roma dei Tarquini, con un rapporto che si dispiega per circa un secolo, fra la data presunta del 580, in cui il tempio fu votato, e il 509 a.C., in cui Tarquinio il Superbo concluse i lavori.
Lo stato di tensione fra le due città riprese dopo la caduta della monarchia, quando i Veienti concorsero al tentativo di restaurazione dei Tarquini, e si riacutizzò in seguito alla defezione di Fidene (438 a.C.), che venne a costituire una testa di ponte veiente sulla riva latina. Il progressivo consolidarsi del controllo di Roma sui territori limitrofi portò allo scontro definitivo per il possesso della bassa Val Tiberina, risoltosi, dopo un assedio decennale, con la presa della città a opera di M. Furio Camillo nel 396 a.C. e con la conseguente annessione del territorio veiente, cui seguì la creazione di quattro nuove tribù: Stellatina, Tromentina, Sabatina e Arniensis. L’annessione del territorio segna l’inizio di un silenzio quasi totale delle fonti (la proposta di abbandonare Roma per V. all’indomani del saccheggio gallico rivela come, intorno al 386 a.C., la memoria della potenza veiente fosse ancora viva). Circa quattro secoli più tardi il celebre brano di Properzio, che ne rimpiange il glorioso passato, può essere letto come un topos letterario che valorizza ulteriormente, per contrasto, la politica augustea verso gli antichi centri italici.
La creazione del Municipium Augustum Veiens, risalente molto probabilmente al I sec. a.C., rivolge particolare attenzione alle strutture destinate alla vita pubblica; a questo periodo viene fatto risalire l’impianto del foro al centro del pianoro in località Vignacce. La città si sviluppò su un vasto pianoro tufaceo, approssimativamente triangolare, delimitato dal fosso Piordo e dai due fossi lungo il versante occidentale e dal corso del torrente Valchetta (antico Cremera) lungo i versanti nord ed est; il vertice del triangolo era costituito dalla collina di Piazza d’Armi, alla confluenza dei due corsi d’acqua, separata da un profondo avvallamento dal colle maggiore. Sul pianoro, arretrato rispetto al corso del Tevere oltre 10 km in linea d’aria, ma direttamente collegato a questo mediante la valle del Cremera, convergeva la rete degli itinerari che ne facevano un nodo essenziale per i rapporti dell’Etruria con il Latium vetus e la Campania e con l’Italia centro-orientale.
Il pianoro era attraversato da due direttrici principali: quella longitudinale che, dalla Porta Nord-Ovest, si dirigeva verso Piazza d’Armi e Roma, e quella trasversale che, dalla foce del Tevere, attraverso Portonaccio, portava verso ovest ai territori falisco e capenate. Mentre il confine prospiciente la riva latina costituiva un punto di frizione, il confine nord-orientale apparve sempre molto permeabile ai contatti con V. e svolse una funzione di tramite con la Sabina tiberina e le popolazioni italiche orientali. L’eccezionale estensione complessiva dell’abitato, che raggiungeva i 185 ha, rientra negli standard attestati per le altre grandi città dell’Etruria meridionale e mette in evidenza la funzione di centro primario nell’organizzazione territoriale. Tale ruolo appare già definito nella prima età del Ferro, come attestano il modello insediativo, esteso sull’intero pianoro, e l’organizzazione delle circostanti necropoli. Ricognizioni e recenti scavi, condotti nel settore centrale (Vignacce) e occidentale (Campetti) e all’estremità meridionale (Piano di Comunità e collina di Piazza d’Armi), hanno portato in luce resti di strutture abitative e di manufatti la cui datazione si fa risalire alla prima età del Ferro.
Le necropoli più antiche, risalenti al IX-VIII sec. a.C., sono le più prossime alla città: le più ampie erano dislocate a nord-ovest sui poggi affrontati di Grotta Gramiccia e Casale del Fosso (dove si è rinvenuta la tomba 838, la sola databile ancora al Bronzo Finale) e a nordest, su quello di Quattro Fontanili; a sud-ovest, nel fondovalle, si trovava la più piccola necropoli di Valle la Fata. La necropoli Quattro Fontanili, oggetto di scavi sistematici negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, integralmente pubblicati, ha fornito la base per la definizione delle fasi culturali dell’età del Ferro veiente. Questa base è stata adottata in seguito nell’esame delle altre necropoli. Lo sviluppo è suddiviso in due grandi fasi, la prima compresa fra l’inizio del IX secolo e il 770 a.C. circa e la seconda, corrispondente al Villanoviano evoluto, da tale data al 720 a.C.; ciascuna fase è articolata in tre sottofasi, i cui caratteri e limiti cronologici variano a seconda dei sistemi proposti. Nel periodo iniziale (fasi I a-b) un rituale molto rigoroso rispecchia un’organizzazione sociale a struttura ugualitaria: i defunti sono cremati e le ossa raccolte esclusivamente nei biconici con copertura fittile, all’interno dei quali può trovarsi un singolo oggetto di ornamento personale.
Verso la fine del IX sec. a.C. comincia a essere attestato, per influenza della contigua cultura laziale, il precoce uso dell’inumazione che andrà affermandosi progressivamente nel secolo successivo. Al tempo stesso i corredi vanno gradualmente articolandosi, evidenziando, tramite la scelta degli oggetti di ornamento personale e degli utensili, la definizione del sesso dei defunti e del loro ruolo sociale: i maschi sono contraddistinti come guerrieri (elmo crestato e apicato usato come copertura dei cinerari, panoplia composta da lancia e spada per gli inumati), le donne come filatrici e tessitrici (rocchetti, fusaiole e fusi). Nei corredi femminili il costume ha un ruolo di primo piano nel definire il livello sociale delle defunte: gli ornamenti si moltiplicano, impreziositi dal ricorso a materiale pregiato come l’ambra, e comprendono anche prodotti d’importazione dall’area vicino-orientale (scarabei di faïence: Quattro Fontanili, tomba HH 11-12). I contatti con i Greci in età precoloniale gravitano sull’approdo situato alla foce del fiume Tevere e trasmettono l’ideologia aristocratica del simposio e del consumo del vino.
Il passaggio al Villanoviano evoluto è segnato dalla presenza, di solito in sepolture femminili, degli skyphoi medio- e tardogeometrici in argilla figulina di fabbricazione greca: nella tomba 779 di Grotta Gramiccia è presente uno skyphos mediogeometrico a chevrons, di produzione corinzia, datato fra primo e secondo quarto dell’VIII sec. a.C. I rimanenti skyphoi a chevrons, che costituiscono il gruppo più numeroso, sono assegnati in prevalenza a fabbriche euboiche e, analogamente a quanto si verifica in altri siti occidentali, sono oggetto di precoci imitazioni, come nella tomba FF 16-17 di Quattro Fontanili, dove sono presenti uno skyphos assegnato a fabbrica euboica, databile al secondo quarto dell’VIII sec. a.C., e uno assegnato a produzione locale o campana sulla base di analisi archeometriche. Nel secondo-terzo venticinquennio dell’VIII sec. a.C., l’organizzazione sociale si differenzia in modo sempre più evidente, con l’incremento dei segni distintivi del potere aristocratico. L’incinerazione è ora riservata a gruppi legati da identità socioculturali (Casale del Fosso) oppure a deposizioni di carattere eccezionale, nelle quali l’uso di un rituale connesso all’ideologia eroica enfatizza la figura dei capi guerrieri. Tali sepolture eccezionali emergono dalla metà del secolo, con due incinerati nelle tombe AA 1 e Z 15 A della necropoli dei Quattro Fontanili, sepolti con una panoplia completa di armi da offesa e da difesa, e raggiungono il culmine nella ricchissima tomba 1036, a inumazione, di Casal del Fosso, dove il guerriero era coperto da tre scudi di lamina bronzea connessi fra di loro nei quali è stata riconosciuta una formulazione degli ancilia romani.
Dalla fine dell’VIII sec. a.C. l’area destinata a necropoli si estende verso il sistema di colli più esterno, conservando la dislocazione lungo gli assi viari. Le necropoli situate a nord-est si sviluppano nel corso dell’Orientalizzante antico (Vaccareccia) e medio (Riserva del Bagno, Picazzano, Monte Michele, Vaccareccia), quelle situate a sud-ovest dalla metà del VII sec. a.C. (Macchia della Comunità, Monte Campanile, Casalaccio, Pozzuolo). La definizione dell’Orientalizzante veiente appare penalizzata dalle numerose campagne di scavo condotte nel XIX secolo e dalla quasi totale assenza di edizioni degli scavi sistematici del secolo successivo. In tale quadro emergono consistenti indizi di una struttura aperta a recepire ed elaborare innovazioni esterne e di un diverso sistema di occupazione e sfruttamento del territorio. La Tomba delle Anatre, situata nella necropoli nord-orientale di Riserva del Bagno, datata sulla base dei resti di corredo a fine primo - inizio del secondo venticinquennio del VII sec. a.C., è il più antico esempio di tomba a camera dipinta.
Sotto il profilo del rituale, appare estremamente significativa la tomba 5 di Monte Michele, a camera con celle laterali, databile al 670- 650 a.C. La coppia deposta nella camera principale era costituita da una donna e da un uomo incinerato i cui resti ossei, avvolti in un panno, erano stati raccolti entro un’urna di lamina bronzea a tetto displuviato deposta su un carro funebre a quattro ruote. Nell’urna, oltre alle armi, era stato deposto uno scettro di legno e metallo, che ne qualificava il rango regale; il corredo comprendeva il complesso degli indicatori di prestigio ricorrenti nelle tombe principesche orientalizzanti (servizio per il consumo del vino e del cibo carneo). L’inserimento di V. nei circuiti di diffusione delle anfore di importazione è attestato, per l’Orientalizzante recente, da una coppia di anfore SOS rinvenuta in una tomba di Monte Oliviero (scavo 1979) e un’altra coppia di SOS, associate a un’anfora probabilmente greco-orientale, proveniente da una tomba di Quaranta Rubbie. I grandi tumuli sono in numero ridotto (10), dislocati in parte nelle necropoli (come la Tomba Campana, rinvenuta a Monte Michele nel 1842-43, la cui complessa decorazione pittorica è stata avvicinata a esperienze dell’Orientalizzante greco) e in parte a raggiera, in posizione elevata lungo le vie di comunicazione, segnalando la presenza e il possesso della terra da parte delle élites aristocratiche.
Le recenti indagini di scavo permettono di far risalire all’Orientalizzante recente anche il precoce impianto urbano di Piazza d’Armi, ritenuta l’acropoli della città. La progettazione di una rete stradale ortogonale comporta anche una ricerca di monumentalizzazione degli edifici, evidente in due “case” di tipo aristocratico decorate da terrecotte e nell’edificio a oikos, sorretto da pilastri e affacciato su una piazza, considerato un tempio, per il quale non si sono rinvenuti fino a ora consistenti depositi di materiali chiaramente interpretabili come votivi. Il più complesso e ricco deposito votivo dell’Etruria meridionale, risalente alla metà del VII sec. a.C., è stato localizzato nel santuario di Portonaccio. Situato immediatamente all’esterno della cinta muraria, occupava uno sperone tufaceo triangolare a picco sul fosso della Mola, all’ingresso della via che giunge dalla foce del Tevere, e ha restituito una messe di rinvenimenti ricca e diversificata, recuperata attraverso decenni di scavi. L’area sacra, divisa in due settori, orientale e occidentale, ha avuto una vita complessa, protrattasi dall’Orientalizzante fino all’inizio del II sec. a.C., ben oltre la romanizzazione.
Il settore orientale era probabilmente destinato a raccogliere le offerte votive, rinvenute in quantità imponente, differenziate secondo le diverse fasi cronologiche. Due piccoli vani, un sacello a oikos e un edificio porticato, fiancheggiavano un grande altare ad ante, edificato intorno alla metà del V sec. a.C., quando imponenti lavori di ristrutturazione modificarono l’assetto del settore orientale. L’altare fu inquadrato da un lastricato di tufo, mentre il sacello a oikos fu demolito; i materiali votivi furono sparsi, prevalentemente all’interno del sacello e sotto al lastricato, mentre, all’interno dell’altare, furono inglobati esclusivamente oggetti d’ornamento femminile, di materiale prezioso e non, in prevalenza risalenti all’Orientalizzante. Oltre a una consistente presenza di vasi portaprofumo, collegabili anch’essi a divinità femminili, nel sacello a oikos era concentrata la quasi totalità delle iscrizioni, in prevalenza graffite su bucchero, menzionanti la divinità titolare, Menerva. La dea era rappresentata in due donari, associati ad altrettante statue di Eracle, nel ruolo di guida dell’eroe verso l’Olimpo; datati il primo al VI sec. a.C. e il secondo agli inizi del secolo successivo, denotano a V. il medesimo clima politico legato alla ideologia tirannica, presente a Roma in S. Omobono.
Dopo la romanizzazione, il fulcro delle offerte votive (statuine a stampo) continua a essere raccolto in gran numero al di sopra dell’altare, caduto in disuso. Una frana della prima età imperiale, prodotta da una cava, ha modificato l’assetto del settore centrale, nel quale rimane una grande cisterna circolare, impiantata forse nella seconda metà del VI sec. a.C. Il settore occidentale ospitava, alla fine del VII sec. a.C., un edificio interpretato come casa-torre con probabile funzione di hestiatorion, documentata da resti di animali macellati rinvenuti all’interno. Il grande intervento di ristrutturazione, che negli ultimi decenni del VI sec. a.C. portò alla realizzazione del tempio, obliterò le precedenti situazioni; il terreno fu sistemato per innalzare l’edificio sacro su un poderoso podio quadrato, con pianta tuscanica, a tre celle e pronao in antis con coppia di colonne; solidale al muro nord del tempio fu scavata una vasta piscina rettangolare, rivestita in blocchi di tufo. Una serie di innovazioni strutturali e stilistiche rende il ciclo decorativo del tempio l’opera certamente più rappresentativa della scuola coroplastica veiente. Il programma decorativo si svolgeva non nello spazio frontonale, ma sul fastigio e sugli spioventi delle facciate, dove trovava posto un complesso sistema di statue acroteriali innalzate su plinti di terracotta sagomati in modo da essere incastrati a cavallo dei kalypteres e dei coppi.
Si sono riconosciuti un modulo maggiore (circa un doppio del vero), uno mediano (pari al vero), al quale appartengono le note figure di Apollo, Eracle, Ermes e Latona, e un modulo minore, con resti di due figure. Gli episodi individuati nel ciclo acroteriale si riferiscono in primo luogo a Eracle e ad Apollo (Apollo fanciullo in braccio a Latona contro il serpente Pitone; la contesa per la cerva cerinite, cui assiste Ermes; Eracle e l’idra di Lerna); in posizione eminente, alle due estremità del fastigio, dominava forse la figura di Zeus, cui sono stati attribuiti una mano monumentale impugnante forse una folgore e una base acroteriale letta come trono fastigiato. Gli altri santuari veienti sono localizzati verso i margini del pianoro e collegati con le principali vie d’accesso alla città (in contrada Campetti a porta Caere e verso la via di Formello, a Macchia Grande, sul percorso della via Capenate), ma non raggiungono il fasto decorativo e l’ampia frequentazione di Portonaccio. Carattere comune è la presenza di depositi di terrecotte votive, il cui uso perdura dalla fine del VI-V al II sec. a.C. Un incremento esponenziale di tali offerte si avverte successivamente alla conquista romana, attraverso una vasta formulazione di tipi e classi, che inducono ad assegnare alla città di V. un ruolo primario nella diffusione di tali offerte votive; il più importante complesso di terrecotte votive rinvenuto a V. fu individuato e scavato da R. Lanciani (1889) sulle pendici di Piazza d’Armi.
Nel settore meridionale, inoltre, la posizione dominante della propaggine di Piano di Comunità ha fatto ipotizzare che qui sorgesse il santuario poliadico di Giunone Regina; tuttavia scavi recenti hanno portato in luce resti di terrecotte architettoniche arcaiche, forse riferibili a un impianto sacro, ma non strutture riferibili a un grande santuario, forse obliterate da una grande domus tardorepubblicana. La fase di fine VI - prima metà del V sec. a.C. mostra l’interesse della città verso l’incremento delle strutture pubbliche, siano esse luoghi di culto oppure opere di pubblica utilità, come la fitta rete di cunicoli di canalizzazione di Ponte Sodo sul torrente Valchetta, concepita per regolamentare le risorse idriche. Nelle necropoli, invece, il contrarsi della documentazione archeologica ha fatto postulare anche per V. una restrizione dei corredi funerari, secondo norme analoghe alle leggi suntuarie vigenti nella Roma di Servio Tullio. Un significativo ritorno all’incinerazione, con l’uso di contenitori semplici (di preferenza olle di bucchero o di impasto) evidenzia il rigore del rituale insieme con la quasi totale assenza di corredo. Si stacca da questo panorama una incinerazione femminile di Pantancaccio, priva di ceramica ma accompagnata da ornamenti personali preziosi.
Dalla fine del IV sec. a.C., le indagini di scavo sull’abitato hanno evidenziato la presenza di strutture legate allo sfruttamento agricolo del territorio, impiantate su resti risalenti al periodo arcaico (Campetti, Vignacce, Piano di Comunità, Piazza d’Armi). A partire dal II sec. a.C., si osserva un profondo mutamento delle modalità insediative: ai precedenti edifici vengono sostituendosi gli impianti di grandi domus, dalla struttura articolata in più aree specializzate, come nel caso di Campetti, che testimoniano il passaggio verso una diversa organizzazione dello sfruttamento agricolo del territorio. La vastità dell’ambito territoriale e l’ampio arco cronologico coperto dall’insediamento veiente, unito al ricordo del centro tramandato dalle fonti storiche, ne hanno fatto un luogo privilegiato dalle ricerche archeologiche che nella fase iniziale, dal XVII secolo, interessarono i resti dell’insediamento romano. L’intensa attività di scavo ha raggiunto caratteri di sistematicità nel corso del XX secolo privilegiando in primo luogo le necropoli dell’età del Ferro.
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