Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nei primi tre decenni del XV secolo la parte peninsulare dell’Italia meridionale, il Regno di Napoli, è ancora soggetta alla dominazione angioina. Ma dopo una sanguinosa guerra viene conquistata nel 1442 da Alfonso V d’Aragona. Con lui il Regno di Napoli acquisisce una dinastia autonoma e indipendente. Insieme con la Sardegna e la Sicilia già aragonesi, dunque, tutto il Mezzogiorno entra a far parte dell’impero mediterraneo catalano-aragonese, vivendo un’intensa stagione di sviluppo economico e di rinnovamento politico-amministrativo. A seguito della guerra franco-spagnola di fine secolo, il Regno di Napoli perde la sua indipendenza: dopo un breve periodo francese viene conquistato da Ferdinando il Cattolico e assoggettato alla dominazione spagnola (1503-1707).
Dopo un periodo di indipendenza, la Sicilia nel 1409 ritorna agli Aragonesi, passando dapprima a Martino il Vecchio, poi al suo successore Ferdinando di Trastámara, quindi ad Alfonso V il Magnanimo. Dal primo Quattrocento la Sicilia comincia a essere governata da viceré.
Latifondo e coltura estensiva ne rappresentano i connotati economici più caratteristici: seminativo nudo e pascolo, grandi masserie e insediamenti accentrati configurano l’aspetto prevalente dei territori siciliani. Il vero potere forte dell’isola è la feudalità che, all’ombra di una debole monarchia, è riuscita nel XIV secolo a conquistare il controllo quasi totale dei feudi e un’amplissima giurisdizione, cioè potere economico, sociale, giudiziario; in particolare il merum et mixtum imperium, cioè la facoltà, riconosciuta dal sovrano nelle formule di investitura, di amministrare non solo la giustizia civile ma anche quella penale all’interno dei feudi, a volte fino alla condanna alla pena capitale.
L’avvento di Ferdinando al trono d’Aragona rende il legame della Sicilia con questa corona più stabile rispetto al passato. Ma i sudditi isolani rivendicheranno nei confronti dei sovrani il rapporto pattizio con la monarchia, un rapporto non fondato cioè sul titolo della pura conquista militare, ma sull’associazione volontaria alla sovranità prima aragonese poi spagnola e sul riconoscimento di consistenti autonomie.
Ancor più tormentato è il rapporto tra la Sardegna e la corona d’Aragona. I sovrani si adoperano per consolidare il loro potere, reprimendo le rivolte, svolgendo un’intensa azione politica e amministrativa, abolendo antichi statuti e privilegi locali, concedendo feudi a nobili catalani e aragonesi, fondando nuove città, come Alghero, con una popolazione prevalentemente catalana. Alfonso si reca nell’isola nel 1420 per reprimere le ultime resistenze. Ma solo alla fine degli anni Settanta del Quattrocento gli Aragonesi ne acquisiscono definitivamente il controllo.
Nei primi decenni del Quattrocento la dinastia angioina vive una stagione di crisi nel Regno di Napoli. Il re Ladislao non riesce né a ottenere, come è nei suoi progetti, la supremazia nella penisola italiana, né a ridurre la potenza delle maggiori famiglie feudali del regno. La crisi di direzione politica si accentua negli anni di Giovanna II, che gli succede: vedendo il suo trono minacciato da Luigi III d’Angiò, la regina adotta in un primo tempo come figlio e successore il re d’Aragona Alfonso V, quindi revoca l’adozione preferendogli Luigi III. Di qui la guerra tra i due candidati alla successione. Dopo una prima fase favorevole a Luigi, la sua scomparsa, contemporanea a quella di Giovanna, riaccende la guerra. Alfonso si contrappone ora a Renato d’Angiò, fratello del defunto re. Il re aragonese viene fatto prigioniero a Ponza dai Genovesi e consegnato al duca di Milano Filippo Maria Visconti, alleato degli Angioini. Ma Alfonso riesce a convincere il Visconti ad allearsi e a condurre insieme l’impresa della conquista di Napoli (1442). L’anno successivo Alfonso V d’Aragona, I di Napoli, fa il suo ingresso trionfale nella capitale del regno, assume il titolo di re di Sicilia citra et ultra pharum, ma i due Regni di Napoli e di Sicilia continueranno a essere distinti sul piano politico e amministrativo.
Il regno guadagna così un “re proprio”. Il ritorno all’indipendenza entrerà nella trasfigurazione mitica di molti intellettuali durante il successivo periodo spagnolo, tanto che il poeta dialettale Velardiniello potrà esaltare l’età aragonese in un celebre verso: “Saie quanno fuste Napule Corona? Quanno regnava Casa d’Aragona”. Alfonso stabilisce a Napoli la sua dimora e restituisce al Mezzogiorno un prestigio perduto dopo la grande politica internazionale voluta e attuata dai primi re angioini. Il prestigio è dovuto a due elementi decisivi della strategia politica alfonsina: la proiezione catalano-aragonese nel Mediterraneo e l’integrazione del Regno di Napoli nella politica italiana che, a metà Quattrocento, conserva una sua saldezza e dinamicità. Soprattutto questa seconda dimensione sarà coltivata anche dal successore di Alfonso, che riuscirà a rendersi garante, insieme con gli altri quattro potentati italiani (il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, il Principato fiorentino di Lorenzo il Magnifico e lo Stato della Chiesa) dell’equilibrio politico italiano stabilito nella pace di Lodi a metà del Quattrocento.
Oltre alla politica estera, è la politica interna a rafforzare il regno dopo i decenni di crisi angioina. Un’azione di consolidamento istituzionale è avviata da Alfonso e dal successore Ferrante, sia attraverso la creazione di nuove magistrature come la Regia Camera della Sommaria, preposta al governo degli affari finanziari, e il Sacro Regio Consiglio, il maggior organismo giudiziario del regno, sia attraverso la ristrutturazione di uffici più antichi. Alfonso e Ferrante promuovono così i primi embrioni su cui si svilupperà lo Stato moderno nel Regno di Napoli.
Dopo la crisi del Trecento Alfonso riporta slancio all’economia del Regno di Napoli e degli altri domini italiani grazie al loro inserimento in un sistema relativamente integrato che qualche storico ha addirittura definito una sorta di mercato comune.
Un embrionale progetto di integrazione economica viene ideato da Alfonso. In esso la Catalogna e Barcellona sono i poli dell’industria tessile, a cui è riservato il monopolio dei mercati aragonesi di qua dal Tirreno, sottratti alla penetrazione dei panni stranieri; nelle stesse aree sono collocati i poli dell’armamento navale; i possedimenti italiani devono svolgere la funzione di hinterland agricolo per le città industriali e commerciali della Spagna e, naturalmente, deve essere scoraggiata l’industria tessile locale.
Forse l’espressione mercato comune è un po’ forte: bisogna, peraltro, tener presente che si tratta più di un progetto che di un’effettiva realizzazione. Qualche storico nega che un sovrano del basso Medioevo sia in grado di concepire e attuare un disegno così ambizioso di specializzazione e integrazione sovraregionale. Altri guardano con sospetto a una terminologia tesa a identificare mercato comune e confederazione: i regni dominati dagli Aragonesi conservano tutti una propria individualità soprattutto istituzionale, messa in evidenza dall’istituto del viceré, che proprio sotto gli Aragonesi si afferma e si definisce quale autorità di governo del territorio, ma anche come collegamento con la volontà e il potere del comune sovrano. La maggioranza degli storici, tuttavia, ritiene acquisito il fatto che l’età aragonese segni, soprattutto per i territori italiani, un positivo inserimento nel mercato internazionale e l’inizio di una tendenza favorevole dello sviluppo economico che avrà un’inversione negativa solo nella lunga crisi del Seicento. In particolare, nel Regno di Napoli, Alfonso promuove una politica di sviluppo industriale, incoraggiando soprattutto il settore tessile; riorganizza, con la costituzione della dogana delle pecore in Puglia, il sistema dell’allevamento; promuove un processo di bonifiche e di mercantilizzazione dell’agricoltura; ristruttura l’intera rete del commercio attraverso le fiere cittadine.
Più complesso è il rapporto tra il governo aragonese e la società del Mezzogiorno. La storiografia più recente legge la politica sociale della monarchia aragonese nei regni meridionali d’Italia come il risultato di una lucida consapevolezza dei rapporti di forza ivi esistenti. Di qui l’intesa fra corona e baronaggio feudale, una specie di compromesso storico fondato sul rispetto reciproco di prerogative e interessi. Questo non impedisce la resistenza della feudalità che, sotto Ferrante, promuove ben due rivolte, la prima tra il 1459 e il 1464, la seconda, ben più grave, passata alla storia col nome di Congiura dei baroni, scoppiata nel 1485 e conclusa l’anno successivo con la vittoria di re Ferrante.
La strategia di gestione della Congiura dei baroni, una gravissima crisi politica che oppone a Ferrante nomi illustri dell’aristocrazia quali il principe di Salerno Antonello Sanseverino, il conte di Sarno e ricchissimo uomo d’affari Francesco Coppola, lo stesso segretario del re Antonello Petrucci, ha nell’umanista Giovanni Gioviano Pontano uno dei suoi protagonisti. In una prima fase Ferrante, consapevole della forza del baronaggio, persegue l’obiettivo di disunire i baroni, quindi punisce in maniera spettacolare i personaggi più in vista che hanno partecipato alla congiura. Ma la vittoria di re Ferrante sui baroni ribelli non sarebbe possibile senza il coerente perseguimento di quella politica di alleanze “italiane”, fondata da Alfonso e spinta dal figlio verso obiettivi più avanzati su consiglio anche di Pontano: è l’alleanza tra Milano, Firenze e Napoli, in particolare l’attività diplomatica di Lorenzo il Magnifico, volta a neutralizzare il possibile intervento del pontefice e dei Veneziani a favore dei baroni ribelli. Così la guerra dei baroni è risolta a favore del sovrano aragonese grazie al principio dell’equilibrio e della “bilancia d’Italia”.
In sintesi le linee della politica sociale aragonese nel Mezzogiorno sono le seguenti: 1) favorire i Comuni contro i baroni; 2) favorire una politica di commercializzazione del feudo e ampliare le successioni feudali allo scopo di indebolire la posizione feudale e renderla più accessibile; 3) avviare un processo di trasformazione del baronaggio, attraverso l’integrazione tra l’aristocrazia della capitale e l’aristocrazia feudale delle province. Queste linee saranno seguite, nel secolo successivo, anche dai governanti spagnoli.
Nel dicembre 1494 Carlo VIII, il re francese che ha iniziato pochi mesi prima la sua discesa alla conquista dell’Italia, entra a Roma e prosegue la sua marcia trionfale verso il Regno di Napoli. Qui, dopo la morte di Ferrante, regna il figlio Alfonso, che nel 1495 abdica a favore del figlio Ferdinando II, detto Ferrandino. In questo stesso anno Carlo VIII si impadronisce del regno, ma, grazie a un’alleanza antifrancese, Ferrandino il 7 luglio 1495 riottiene il Regno di Napoli, ma muore poco dopo. Erede al trono è lo zio Federico che, dopo la sottoscrizione di una tregua tra Francia, Spagna e Stati italiani, viene incoronato nel 1497 a Capua. Nel 1498 Carlo VIII muore. Il suo successore, Luigi XII d’Orléans conquista il milanese nel 1499. Due anni dopo il Regno di Napoli è spartito tra Francia e Spagna: ormai le sorti del regno si decidono nell’orizzonte della grande politica internazionale. L’equilibrio della spartizione è precario. Per il re di Spagna Ferdinando il Cattolico Napoli è troppo importante: è la tappa fondamentale di una strategia che, fin dal suo matrimonio con Isabella di Castiglia, ha scelto il Mediterraneo. Così la guerra franco-spagnola è inevitabile. Essa si conclude a favore della Spagna nel 1503, grazie alla superiorità dei fanti castigliani organizzati nel tercio, una grande innovazione militare. È qualcosa di simile, nella storia generale del mondo, alla nascita della falange macedone o della legione romana.
Inizia una lunga dominazione straniera nel Regno di Napoli che dura oltre due secoli, fino al 1707.