Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I primi testi in volgare prendono forma – sul finire del XII secolo – come “contrasti” e “vanti” giullareschi; in volgare si esprimono anche i laudari delle confraternite con il loro grandioso repertorio che spazia dal Pianto di Iacopone alla “leggenda” abruzzese di san Tommaso. La cultura umanistica recupera invece il genere tragico, su schemi senecani e con allusioni alla contemporaneità.
Alberto Mussato
Dialogo tra Ezzelino e Alberico
Ecerinide, III, 1
EZZELINO: Testimone la madre, mossa da fedele sincerità, noi veniamo dal seme del sanguinoso Dite, degni di questo padre; tale origine ci è di vanto. Così forse esigono i fati, che Dio, non curando di proibirli, lascia essere come vogliono. Ciascuno è infatti libero e arbitro verso i propri atti. Le colpe dei popoli chiedono mani vendicatrici: perché più dunque, dati al mondo ministri di morte, traiamo inutilmente vuoti indugi? Conquistiamo città per ogni dove e largamente fortezze. Già Verona Vicenza Padova soggiacciono al mio cenno: rapidamente mi spingerò più innanzi: la Lombardia mi è promessa e m’invoca signore: conto già d’averla: né là fermerò i miei passi: l’Italia mi è dovuta. Non che, invero, neppure quella basti: a levante si portino le mie insegne, di dove già cadde Lucifero mio padre, dove forse nella mia potenza rivendicherò il cielo. Mai così grande guerra portarono a Giove Tifeo o Encelado un tempo, o nessun altro gigante. Volgerò le insegne al sud, là dove il mezzogiorno per il caldo avvampa.
ALBERICO: Il padre infernale lo voglia.
EZZELINO: E lo voglia presto. Ora tu che tenti, fratello?
ALBERICO: Lo espongo subito. Treviso è soggetta al mio dominio: soggiogata Feltre, volgerò al Friuli, sottoporrò tutte le genti del settentrione. Anche questo non è poco: non desisterò: mi resta da conquistare la triplice Gallia e la parte occidentale, che nell’ora tarda ha luce, fin dove l’oceano inghiotte il giorno.
EZZELINO: O fratello mio, o figlio del gran Plutone, a così alti ardimenti dia le forze il padre […].
Alberto Mussato, Ecerinis
Solo sul finire del XII secolo compaiono in Italia testi in volgare che, essendo legati alle composizioni giullaresche, gli stessi chierici non disdegnano, nonostante l’interdizione ufficiale di scrivere dicerie per i giullari. Essi hanno le caratteristiche drammatiche di monologhi/dialoghi, dal momento che suggeriscono un preciso ritmo o un movimento mimico-gestuale e contengono didascalie orientate a una possibile destinazione scenica. Fra tutti questi testi spicca, intorno al 1231, il Contrasto di Cielo d’Alcamo, facendo in area messinese una sorta di controcanto parodico alla poesia provenzale in auge presso la corte palermitana di Federico II. La “madonna” – destinataria dell’aulico Rosa fresca aulentissima indirizzatole dal focoso amante – professa sì la sua determinazione a morire o a monacarsi piuttosto di concedersi, ma tanti iperbolici rifiuti, l’inespugnabilità del suo “forte castello”, cedono alla prima promessa di matrimonio che l’uomo le sciorina su un Vangelo sottratto a un prete. Intorno al 1260, in area toscana si ritrova, per merito del senese Ruggeri Apuliese un altro genere giullaresco, quello del “vanto”, che parodizza l’enfasi affabulatoria dei ciarlatani. Vantando le proprie conoscenze e competenze sulle più disparate arti, tecniche, scienze, Ruggeri infila ben 237 versi in una filastrocca di quartine monorime che non escludono alcuna attività: “so più che fabbro di martello [...] e ruffiano di bordello”. L’estro giullaresco del senese – forse goliardico figlio d’un notaio – gli vale un processo per eresia e l’accusato non mancherà di sceneggiarlo nelle quartine d’una Passione ove l’innocente fronteggia in prima persona un tribunale ecclesiastico, causticamente raffigurato come il Sinedrio: “Perché mangiastù l’altrieri / koi pattarini crudeli e feri, / ke sonno peggio ke Giudei?”.
L’influsso della giulleria sulla teatralità della cultura duecentesca viene riscattato alla fine da san Francesco che non esita a definire provocatoriamente i suoi frati giullari di Dio, ioculatores Domini.
La rivoluzionaria spiritualità francescana, già celebrando nel 1233 la pace fra i Lombardi e Federico II con l’Alleluia! dei laudesi, dopo essersi esaltata nella mortificazione della carne e nella penitenza come carità, approda poi a quelle Confraternite dei Disciplinati che in Perugia riprendono la pratica di cantare lodi al Signore mentre si autoflagellano.
L’afflato popolare della lauda è testimoniato dalla stessa evoluzione formale del suo schema metrico: nata come lassa monorima, monologo o dialogo a giaculatoria, con i Disciplinati adotta lo schema della ballata giullaresca in cui la voce del solista (l’attore protagonista) si alterna a quella del coro (rappresentante la comunità dei fedeli), stimolando soluzioni di spiccato carattere drammatico.
Nel XIV secolo si conteranno più di 200 laudari, in prevalenza umbri, poi orvietani, aquilani, romani. I testi sceneggiano i tipici episodi evangelici o le vicende agiografiche diffuse dai drammi sacri. L’esito più memorabile si riscontra nella lauda Donna del Paradiso o Pianto della Madonna di Iacopone da Todi. La lauda coinvolgendo Maria, i Giudei, Giovanni e il Cristo trasforma l’antico lamento per la morte del Dio nella tragedia, insieme intimamente accorata e universale, della madre e del figlio; l’anafora risuona martellante: “Figlio bianco e vermiglio! [...] Figlio, pur m’hai lassato!”.
Il laudario perugino conserva anche un inventario della Confraternita di San Domenico che per l’anno 1339 elenca tutte le “masarie”, abiti, barbe, oggetti di scena, conservati per queste forme di drammaturgia in volgare che tendono a controbilanciare i temi profani con quelli d’ispirazione devozionale. Si rileva quindi un progressivo arricchimento tematico/strutturale del repertorio, insieme ad un attenuarsi dell’originaria tensione religiosa. Fra i testi aquilani la Legenna de’ Sancto Tomascio dà colore, vivacità e movimento alla vita di san Tommaso ripartendola in tre giornate (infanzia/monacazione/insegnamento) e passando dalla sua stanza da letto ai saloni feudali, dalla corte papale a quella imperiale; tra la folla dei personaggi non mancano neppure un’ostetrica, una nutrice e una “donnaccia”. All’ampliamento della struttura corrisponde una composizione prosastica del testo. E questa monumentalità di impalcature, congegni e costumi si sarebbe trasfusa nelle sacre rappresentazioni del secolo successivo.
Al progressivo affermarsi del teatro in volgare, profano e religioso, fa riscontro il recupero umanistico della tragedia antica, propiziato dal ritrovamento da parte di Lovato Lovati – insigne giurista dello studio padovano – d’un codice contenente tutte le tragedie di Seneca. Il suo allievo Albertino Mussato, un notaio impegnato contro ogni forma di tirannide, compone sul modello senecano e in latino, la Ecerinis (1314), archetipo d’un nuovo teatro tragico europeo.
Tramata intorno alla figura tirannica di Ezzelino da Romano – un ghibellino scomunicato – la Ezzelineide ne riprende la fama di ferocia, ingigantita anche dalle leggende popolari; la tragedia si articola su una struttura epico-narrativa che, alternando al dialogo lunghi monologhi, i récit del nunzio al commento del coro, copre un arco di sessant’anni. Senza vincoli di tempo e di luogo la vicenda s’avvia con la terrificante rivelazione della madre Adeleita che al figlio Ezzelino e al fratello Alberico confessa la loro diabolica origine, ossia gli stupri che dovette subire da un irsuto Lucifero, calato su di lei entro una nube fumosa e fetida. Invece di sgomentarsi Ezzelino s’apparta a proclamare il suo forsennato orgoglio e invoca le potenze infere a “tendere trame predaci” promettendo: “la mia mano sicura non tremerà di fronte ad alcun scempio”. Il tiranno diabolico, assecondato dall’odio nobiliare e dal “maledetto furore di popolo”, infuria insaziabile accecando la prole dei nemici, troncando “ai bimbi i genitali”; né gli ammonimenti d’un frate – compagno di sant’Antonio da Padova – riescono a frenare l’assassino che si dichiara concesso da Dio al mondo come ministro di morte e penitenza e al contempo, da laico miscredente, obietta alle invocazioni di misericordia del frate: “Chi è questo Dio, cui io sono più caro di molti?”. Vestendo i panni di un machiavellico ante litteram, suggerisce al fratello di fingersi suo nemico per attirare in trappola esuli e fuorusciti: “E fede e pietà siano parole ignote alla nostra vita”.
La sua smisurata sete di dominio – che anticipa il Tamburlaine di Marlowe (1564-1593) – lo condurrà, dopo illusori trionfi, alla morte digrignante del “lupo”. La successiva strage che elimina il fratello, il “malfido” Alberico, è ancora più orripilante: ripaga la ferocia con la ferocia e l’orrore con l’orrore d’una tribale vendetta cannibalesca, ma consente al coro di rassicurare che, nonostante la sorte innalzi talora i malvagi, “la legge di giustizia dura eterna”. Più intonata sul grandioso registro della sentenziosità senecana è la voce dei coristi quando, di fronte al furore ambizioso dei malvagi, mormora la sua dolente saggezza: “Così è la vita, e l’animo vola senza fermarsi mai. Anche quando possiede grandi cose non se ne accontenta, il cuore: ne vuole di maggiori”. La pubblica lettura della tragedia procura al Mussato una solenne incoronazione con mirto ed edera da parte del vescovo e del rettore dell’università patavina; ma quando Padova cade in potere di Marsilio da Carrara il notaio tragediografo finisce confinato a Chioggia.
Un’altra composizione drammatica, ancora in forma narrativa/dialogica, viene sceneggiata senza divisione d’atti e in prosa latina dal fabrianese Ludovico Romani, sotto il titolo di Tragedia dell’eccidio di Cesena; lo spunto lo fornisce il feroce sacco che nel 1377 la città ha subito a tradimento da parte del legato pontificio Roberto di Ginevra. Solo un coro resta della Cacciata di Antonio della Scala, altro evento d’attualità – i Visconti riprendono Verona nel 1387 – che ispira Giovanni Manzini della Motta. L’ultimo autore tragico del Trecento è il vicentino Antonio Loschi, canonico a Padova come successore del Petrarca, poi passato alla segreteria dei Visconti; a soli 25 anni compone la tragedia Achilles (1390), dialogando la mitologica vicenda in una struttura classicamente delineata. L’azione è promossa dal progetto di Paride di vendicare la morte di Ettore approfittando dell’amore di Achille per Polissena: una promessa di nozze lo attirerà nel tempio ove l’eroe cadrà concedendo al coro di meditare sull’instabilità della Fortuna. Il coro dà voce, in effetti, anche allo sgomento che aleggia sui drammatici mutamenti di fortuna che sovvertono il destino di tante signorie padane.