L’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti
Alle origini e sviluppo dell’Istituto Veneto ho dedicato un altro capitolo, intitolato Istituzioni di cultura, di questa Storia di Venezia, sicché non mi resta che rinviare a esso il lettore giustamente renitente a calarsi in medias res, vale a dire quelli che vogliano conoscere un po’ meglio gli antecedenti del discorso che ora verrà loro proposto.
Chi invece non nutre troppo o alcun interesse per le questioni ottocentesche, si accontenterà di questo breve riassunto: l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti affonda le sue radici nella padovana Accademia di Scienze, Lettere ed Arti, creata nel 1779 dalla Repubblica di S. Marco accorpando precedenti istituzioni. Compito del nuovo organismo era in sostanza quello di rappresentare una sorta di organo scientifico al servizio del governo: un pool di cervelli in grado di fornir parere su importanti questioni tecnico-scientifiche di interesse nazionale, in tempi e forme un poco più elastiche e magari anche più svelte di quelle tradizionalmente in uso presso l’università. La Repubblica italiana di Napoleone riprese il disegno nel 1802, ispirandosi largamente al francese Institut National des Sciences et des Arts, nato sei anni prima con strutture e finalità non troppo diverse dall’Accademia patavina. Le traversìe politiche di quegli intensi anni rallentarono però il decollo del progetto, che trovò effettiva applicazione solo a partire dal decreto napoleonico del 25 dicembre 1810: nacque così l’Istituto Reale di Scienze, Lettere ed Arti, articolato in una sede centrale (Milano) da cui dipendevano quattro sezioni nelle città di Venezia, Bologna, Padova e Verona. Ma nelle more degli adempimenti preliminari (elaborazione dello statuto, del regolamento, nomine dei soci, allestimento delle sedi) ben poco lavoro poté esser fatto prima della paralisi del sistema napoleonico, che in Italia visse una lunga agonia. Poi arrivarono gli austriaci, che non avevano molte ragioni per amare una creatura francese, sicché la fecero perire d’inedia pur senza mai procedere a una sua formale soppressione. Finalmente nel 1838, nel contesto di un mutato clima politico, l’imperatore Ferdinando — dietro imbeccata di Metternich — pensò bene di rifondare l’organismo, dividendolo in due settori ‘gemelli’: quello lombardo e quello veneto.
Quest’ultimo fu ospitato (fino al 1892) a Palazzo Ducale, dopo di che sarebbe passato a palazzo Loredan che alla fin fine era stato dimora di due dogi, in campo S. Stefano, restando sempre nel cuore di Venezia; era articolato su un complesso di tre classi: i membri onorari (20), gli effettivi (40, metà dei quali pensionati, ossia stipendiati) e i soci corrispondenti, dal numero imprecisato; a sua volta l’Istituto prevedeva un’ulteriore ripartizione sulla base delle competenze umanistiche o scientifiche dei suoi componenti; godeva di una congrua dotazione economica da parte del governo, cui doveva prestare collaborazione in ordine ai quesiti scientifici che gli fossero sottoposti, e procedere alla biennale premiazione dei concorsi industriali (fu questo, probabilmente, il suo compito istituzionale che maggiormente stette a cuore ai diversi governi: francese, austriaco e italiano). Col tempo però, con l’avanzare incalzante del progresso, il primato scientifico dell’Istituto venne drasticamente ridimensionato ed il suo stesso ruolo prese ad assomigliare sempre più a quello delle altre accademie; fu pertanto provvida ventura la sopraintendenza a esso affidata (con conseguente gestione degli specifici concorsi) della Fondazione Querini Stampalia, costituita nel 1869 in base alle ultime volontà del conte Giovanni; e — ma soprattutto — l’eredità, in esso pervenuta nel 1893, di un suo ex presidente, Angelo Minich, che lasciò un patrimonio di oltre 800.000 lire (pari alla sovvenzione governativa di 53 anni), per di più costituito da solide azioni delle Assicurazioni Generali. Ottimamente amministrato dai soci di palazzo Loredan, che con la tempestiva creazione della Fondazione Minich si diedero un efficace strumento operativo sul piano finanziario, l’ingente capitale dell’illuminato mecenate consentì all’Istituto Veneto — diversamente da quello lombardo — di superare le ristrettezze e le angustie d’ogni tipo imposte dalle sempre più magre sportule ministeriali, e di presentarsi alle soglie del nuovo secolo con piena libertà d’iniziativa(1).
Alla fine del 1917 gli austriaci erano a San Donà di Piave e ci sarebbero rimasti per quasi un anno, sorvolando di tanto in tanto Venezia per veder di buttar giù qualche bomba. Si potevano fare discorsi seri e adunanze solenni in quelle condizioni? E poi anche l’Università di Padova (tradizionale serbatoio di reclutamento dei soci dell’Istituto) era paralizzata, sicché il presidente Gregorio Ricci Curbastro — insigne matematico di origini romagnole, docente appunto nell’Ateneo patavino dal 1880 — ci mise un attimo, quel 15 novembre 1917, a decidere la chiusura (temporanea, beninteso) dell’Istituto Veneto e il suo trasferimento a Roma, presso la sede dell’Accademia dei Lincei, in attesa di tempi migliori.
A Venezia i soci si sarebbero ritrovati giusto un anno dopo, il 24 novembre 1918. Il giorno era fausto e solenne, che anzi più fausto e solenne non si poteva, forse a compensare lo scarso numero dei presenti e la malinconica cornice di una città troppo provata, ove tutto spirava desolazione. In effetti, a ben guardare, c’era di che sconfortarsi. Preoccupavano soprattutto le ristrettezze finanziarie, le dotazioni assolutamente impossibilitate a sopportare i costi della ripresa dell’attività accademica; il contributo ministeriale, infatti, non aveva fatto che scemare con una costanza così costante, che mai nessun governo aveva osato smentirla: si era pertanto passati dalle 15.086 lire del 1869 alle 13.600 dell’87, alle 12.240 del ’93 per poi ridursi, in tempo di guerra, a 11.639,71; solo il fascismo avrebbe fatto meglio, portando con ulteriore limatina la somma a 11.462 lire, alla fine degli anni Venti(2). Ebbene, siccome tra il 1915 e il ’21 il costo della vita era triplicato, nell’adunanza del 26 giugno di quest’ultimo anno il segretario Bordiga faceva osservare che con i pubblici emolumenti non si riusciva ormai a coprire nemmeno le spese postali e di cancelleria, mentre la sola stampa delle pubblicazioni (il periodico «Atti», la collana delle «Memorie», talune saltuarie iniziative quali i Monumenti veneti nell’isola di Creta di Giuseppe Gerola o le Ricerche lagunari di Giovanni Magrini) richiedeva almeno 80.000 lire all’anno!
In queste condizioni l’Istituto poté sopravvivere solo grazie ai puntuali rinforzi della munifica e non mai lodata abbastanza Fondazione Minich (nel ’19 quest’ultima passò all’Istituto la bella cifra di 59.307,22 lire che salirono a 300.236,78 lire nel ’37, a fronte di un’inflazione intercorsa valutabile attorno al 33,6%); a palazzo Loredan dunque l’attività non conobbe interruzioni, ma a prezzo di limitazioni e rinunce — anche piccole, anche umilianti — che colpirono l’intero complesso della vita accademica, a cominciare dallo status dei soci, privati sin dal 1920 dell’agevolazione ferroviaria e, dal ’35, della stessa pensione, ch’era stata uno dei fiori all’occhiello dei primi decenni dell’Istituto.
Ciononostante il prestigio che circondava l’organismo di palazzo Loredan (cui tradizionalmente erano chiamate a far parte le migliori emergenze intellettuali del Veneto) e la presenza tra i suoi membri di personalità di notevole levatura (nel ’20 possiamo ricordare i nomi di Giuseppe Biadego, Enrico Catellani, Vincenzo Crescini, Almerico Da Schio, Antonio Favaro, Davide Giordano, Luigi Luzzatti, Pompeo Molmenti, Nicolò Papadopoli, Nino Tamassia); queste insomma, unitamente ad alcune altre concause, permisero ai soci di palazzo Loredan di continuare un’attività ormai quasi secolare, per di più senza rinunciare a qualche scatto d’orgoglio. Uno ebbe a registrarsi proprio nell’adunanza del 24 novembre 1918, allorché con grande tempismo l’Istituto deliberava di estendere i diritti e le prerogative, delle quali godevano i suoi appartenenti, non solo ai «fratelli» delle nuove province che di lì a poco avrebbero visto appagata la loro suprema aspirazione, ch’era di ricongiungersi finalmente alla patria adorata, ma pure ai figli di «quelle terre che furono di San Marco». Altro che Trieste e Fiume: a Cipro arriviamo.
Dietro così specchiata esibizione di generosità v’era naturalmente un poco di calcolo: si voleva insomma giocare d’anticipo, onde prevenire che nelle nuove province si fondasse un altro istituto, cui il governo, la corona e la stessa opinione pubblica non avrebbero potuto non guardare con solidale simpatia. Eccesso di prudenza? Mica tanto, visto che già si sapeva che la Deputazione veneta di Storia Patria — la quale sin dal 5 novembre 1916 aveva (forse un po’ troppo ingenuamente) previsto un naturale incremento dei suoi soci tramite l’ingresso dei «principali cultori di studi storici residenti nelle terre che sarebbero state redente» —, si sapeva, dicevo, che proprio allora la Deputazione era stata scippata della provincia friulana a opera della Società di Storia Patria di Udine, sublimata alla svelta (la data ufficiale è il 15 dicembre 1918) in R. Deputazione di Storia Patria per il Friuli(3).
Da registrare ancora la fermezza dell’ottuagenario Giulio Alessio, radicale da sempre, che il 18 giugno ’34 rifiuta di giurar fedeltà al regime e lascia l’Istituto; il quale Istituto può ascrivere a suo merito (e fu la presidenza Messedaglia — con esempio unico in Italia — ad assumersene la responsabilità) la mancata espulsione del socio corrispondente Benedetto Croce, che nel ’38 si rifiutò di rispondere al questionario sul censimento degli accademici di razza semita, non senza aver alquanto ironizzato con quale fondatezza si poteva chiedere a uno che si chiamava Croce se per caso non fosse ebreo.
Ma, a parte queste prove individuali di coraggio e di fierezza, i rapporti dell’Istituto col regime fascista furono ufficialmente improntati alla più piena adesione (poco significativo appare l’aver chiamato fra i soci Roberto Cessi nel ’26 e Manara Valgimigli nel ’30, così come aver promosso nella classe degli effettivi Giovanni Bertacchi nel ’27 ed Ernesto Laura nel ’32: tutti firmatari nel 1925 del manifesto degli intellettuali antifascisti, epperò tutti allineati nel successivo giuramento al regime. Più importante mi sembra invece che un altro degli aderenti al manifesto crociano, Concetto Marchesi, di cui era ben nota la militanza comunista, benché cooptato socio corrispondente sin dal ’26, sarebbe divenuto effettivo solo nel 1947).
Tuttavia non fu conformismo quello dell’Istituto, o meglio, lo fu come era doveroso esserlo per un’accademia controllata dal Ministero e ospitata in una sede concessa dallo Stato. Certi rapporti formali andavano dunque mantenuti, un poco di prudenza era necessaria, pena la disgrazia. Negli anni Venti un’esplicita adesione al regime poté essere dribblata con qualche robusta attestazione di patriottismo (ad esempio, quando fu celebrata l’unione di Fiume alla madrepatria) o di attaccamento alla dinastia (seguendo una prassi allora largamente invalsa in quasi tutte le accademie, nel luglio del ’25 re Vittorio Emanuele venne proclamato presidente onorario dell’Istituto, col pretesto che in fatto di numismatica la cedeva a pochi, non che ce ne fossero molti in circolazione(4)), ma in seguito il Ministero dell’Educazione nazionale prese a essere tempestato di telegrammi fiancheggianti o plaudenti alle iniziative del regime: ecco allora, nel ’35, l’accettazione del nuovo Statuto elaborato a Roma (che, tra l’altro, aboliva le pensioni); ecco il plauso al duce per la ferma condotta della campagna d’Africa e conseguente ripulsa delle comminate inique sanzioni, suggellata dal versamento alla patria delle insegne auree del presidente e vicepresidente: il tutto culminato addì 10 settembre 1936 nell’apposizione di una lapide celebrante l’Impero nella facciata esterna di palazzo Loredan, donde poi sarebbe stata sveltamente rimossa il 12 novembre 1945.
V’era tuttavia un serpeggiante malessere che sottese la vita dell’Istituto nel corso di questi decenni, causato dal doppio disagio economico e psicologico. La testimonianza più certa — benché silenziosa e quindi meno immediatamente percepibile — è data da una sorta di stagnazione culturale di cui diremo più avanti, dalla mancanza di iniziative paragonabili a quelle che ne avevano illustrato l’attività agli inizi del secolo (e che, in qualche modo, avevano compensato il progressivo scadere dei membri dall’antico ruolo di privilegiati cultori delle scienze, causato principalmente dall’inarrestabile progresso mondiale in ogni campo del sapere); un’altra prova delle difficoltà che condizionarono il sodalizio, minandone la vitalità, può essere rintracciata nella sempre più evidente disaffezione dei soci alla partecipazione delle attività istituzionali: triste fenomeno che sfocia nello scarso ricambio delle cariche e che trova la sua più clamorosa manifestazione nella prolungata lunghissima presidenza del veronese Luigi Messedaglia, alla guida dell’Istituto per quasi un decennio, dal 5 aprile 1934 all’agosto ’43 (formalmente sino al 21 giugno ’45). Non era una novità questo rifiuto ad accettare la nomina ai vertici dell’organico accademico: se n’era avuta un’avvisaglia già nel 1905, con la successiva duplice rinuncia alla vicepresidenza, naturale premessa all’elezione alla più alta carica, del linguista Emilio Teza (11 giugno) e del naturalista Paolo Lioy (17 dicembre); né furono rondini isolate: trascorsa la guerra, con crescendo gagliardo ecco dimettersi — sempre dalla vicepresidenza testé conseguita — il giurista Vittorio Polacco (15 aprile ’19), seguito dal collega Nino Tamassia, che rinuncia alla segreteria il 19 marzo ’21, e poi dal fisico Giuseppe Vicentini dimissionario dalla vicepresidenza il 17 novembre ’25, stavolta proprio nell’imminenza alla nomina superiore.
Come si è accennato, oltre alle difficoltà finanziarie l’Istituto scontava anche un malessere più profondo, che in qualche modo ne minava la credibilità culturale: emarginato ormai dal governo nel primitivo ruolo di suo consulente privilegiato, esso non riuscì facilmente ad armonizzare la propria tradizione (non priva di un tocco di compiaciuta austerità autoperpetuantesi nella cooptazione accademica dei nuovi rincalzi, annualmente celebrata nell’adunanza solenne che si continuava a tenere — come tuttora si svolge — nella primitiva sede di Palazzo Ducale, per lo più nella sala dello Scrutinio, talvolta in quella del Piovego); la forma mentis, dicevo, la stessa impronta universitaria della grande maggioranza dei soci, per lo più ovviamente di età non freschissima, non potevano insomma facilmente accordarsi con la nuova cultura «moderna», ch’ebbe nel Futurismo — e nelle molteplici sue varianti o «avanguardie» — l’espressione più clamorosa.
L’insofferenza veniva da lontano: sin dal 1905 l’Istituto si era rifiutato di secondare gli umori cittadini, che premevano per un beau geste (l’acquisto di un quadro, utilizzando certa cifra avanzata alla Fondazione Querini Stampalia, sottoposta al controllo dell’Istituto); si voleva insomma un cenno d’apertura da parte del massimo organo scientifico-culturale veneto nei confronti della neonata Biennale di Venezia: l’atto avrebbe significato una sorta di avallo ufficiale del prestigio e del ruolo del nuovo ente; sennonché, appunto, furon picche; palazzo Loredan, sede dell’Istituto e già dimora dogale, poteva vantare — nella struttura architettonica e negli arredi — i nomi di Scarpagnino, Scamozzi, Grapiglia, Vittoria, Aliense, Tintoretto, Palma il Giovane, Angeli, Stazio, Canova: perché rischiare di inquinare questa eccellente galleria di artisti dalla consolidata fama con l’apporto di qualche prodotto alla moda, che forse non avrebbe superato il giudizio del tempo?
L’Istituto, insomma, non era l’Ateneo né mai si sarebbe risolto nel ristretto circuito della dimensione urbana, foss’anche quella di una città per tanti versi straordinaria come Venezia.
Ce lo conferma l’elenco delle qualifiche professionali dei suoi membri effettivi, grado che da taluni si otteneva — come tuttora si consegue — dopo una preliminare permanenza fra i soci corrispondenti. Vediamolo per i 27 anni accademici (dal 1897 l’anno cominciava il 1° ottobre) del periodo in esame (1918/1919-1944/1945); accanto ai nomi dei 104 titolari (per quasi due terzi docenti all’Università di Padova), nella colonna centrale le date di permanenza fra gli effettivi (la seconda data indica la morte, le dimissioni, la radiazione, ovvero la collocazione fra gli emeriti o tra i soprannumerari o i non residenti); nella colonna di destra la disciplina in forza della quale fu motivata la nomina (a questo proposito va osservato che non sempre la materia d’inserimento continuò a essere coltivata dall’interessato, quantomeno nell’ambito dell’Istituto: famoso il caso di Antonio Favaro, docente di Matematica a Padova e perciò cooptato fra gli accademici della classe scientifica, dove però si segnalò quale storico insigne di Galileo, di cui pubblicò una monumentale edizione delle opere). Ricordo nuovamente, infine, che nel mio libro sull’Istituto sono riportate, in Appendice, brevi schede bio-bibliografiche per ognuno dei 237 membri effettivi che fecero parte del sodalizio dal 1840 al 1948.
Tab. 1. I membri effettivi presenti nell’Istituto fra il 1918 e il 1945 Nominativo Permanenza in carica Classificazione Alberti Annibale 21/6/1938 - 27/9/1948 Storia Albertotti Giuseppe 27/5/1926 - estate 1927 Oculistica Alessio Giulio 5/12/1920 - 8/7/1934 Economia Anti Carlo 22/12/1932 - 12/6/1946 Archeologia Antoniazzi Antonio Maria 4/1/1925 - 30/11/1925 Astronomia Arrigoni degli Oddi Ettore 25/3/1917 - 31/10/1937 Zoologia Bassini Edoardo 23/2/1896 - 20/7/1924 Medicina Battistella Antonio 6/4/1924 - 11/5/1936 Storia Bellati Manfredo 3/12/1885 - 22/10/1932 Fisica Benussi Bernardo 12/12/1926 - 18/3/1928 Storia Bernardi Enrico 7/7/1878 - 21/2/1919 Ingegneria Bertacchi Giovanni 7/7/1927 - 16/3/1939 Letteratura Bertelli Dante 14/1/1915 - 16/3/1939 Medicina Biadego Giuseppe 11/2/1912 - 12/4/1921 Storia Bianchi Angelo 21/6/1938 - 24/9/1970 Mineralogia Bodrero Emilio 27/6/1935 - 29/11/1949 Filosofia Bonome Augusto 5/8/1905 - 5/12/1922 Medicina Bordiga Giovanni 7/1/1909 - 17/6/1933 Geometria Breda Achille 25/5/1913 - 18/1/1934 Medicina Brugi Biagio 16/8/1900 - 21/5/1934 Giurisprudenza Brusin Giovanni 9/10/1944 - 30/12/1976 Archeologia Cagnetto Giovanni 6/9/1934 - 14/2/1943 Medicina Carnelutti Francesco 6/4/1932 - 8/3/1965 Giurisprudenza Catellani Enrico 5/8/1905 - 6/10/1938 Giurisprudenza Cessi Roberto 6/4/1932 - 19/1/1969 Storia Checchini Aldo 21/6/1938 - 25/1/1973 Giurisprudenza Comessatti Annibale 5/2/1934 - 13/9/1945 Geometria Crescini Vincenzo 19/7/1906 - 2/6/1932 Filologia Dal Piaz Giorgio 29/3/1923 - 22/4/1962 Geologia D’Arcais Francesco 11/5/1911 - 29/12/1927 Matematica Da Schio Almerico 3/2/1895 - 28/11/1930 Meteorologia Dell’Agnola Carlo Alberto 7/7/1927 - 19/8/1956 Matematica De Marchi Luigi 11/5/1919 - 15/2/1936 Geografia De Toni Giovan Battista 4/7/1897 - 31/7/1924 Botanica Ducceschi Virgilio 17/5/1934 - 19/6/1952 Medicina Favaro Antonio 29/5/1881 - 30/9/1922 Matematica Ferrabino Aldo 10/6/1939 - 30/10/1972 Storia Ferrari Luigi 10/6/1939 - 2/1/1949 Biblioteconomia Ferrari Dalle Spade Gianni 15/1/1931 - 8/11/1943 Giurisprudenza Ferraris Carlo Francesco 4/7/1897 - 10/10/1924 Economia Fiocco Giuseppe 10/6/1939 - 5/10/1971 Arte Fogolari Gino 21/6/1938 - 3/1/1941 Arte Forti Achille Italo 6/5/1920 - 11/2/1937 Botanica Fradeletto Antonio 6/4/1916 - 5/3/1930 Letteratura Gerola Giuseppe 11/5/1922 - 21/9/1938 Archeologia Gini Corrado 4/1/1925 - 21/2/1926 Statistica Giordano Davide 13/7/1919 - 31/1/1954 Medicina Gnesotto Tullio 3/1/1927 - 9/6/1950 Fisica Gola Giuseppe 4/2/1932 - 25/7/1956 Botanica Landucci Lando 4/1/1912 - 7/1/1937 Giurisprudenza Laura Ernesto 16/2/1932 - 29/12/1949 Ingegneria Lazzarini Vittorio 2/8/1912 - 12/7/1957 Paleografia
Segue: Tab. 1. I membri effettivi presenti nell’Istituto fra il 1918 e il 1945 Nominativo Permanenza in carica Classificazione Lizier Augusto 9/10/1944 - 22/5/1950 Storia Lorenzetti Giulio 21/6/1942 - 8/6/1951 Arte Lorenzi Arrigo 14/6/1928 - 2/4/1948 Geografia Lori Ferdinando 1/5/1919 - 3/11/1940 Ingegneria Lucatello Luigi 24/1/1926 - 20/9/1926 Medicina Luzzatti Luigi 6/4/1872 - 29/3/1927 Economia Magrini Giovanni 1/10/1931 - 21/5/1935 Idraulica Manfroni Camillo 11/3/1915 - 21/2/1926 Storia Marangoni Luigi 6/3/1930 - 25/8/1950 Architettura Marchesini Giovanni 27/5/1926 - 8/11/1931 Filosofia Massalongo Roberto 23/6/1910 - 12/1/1919 Medicina Medin Antonio 28/12/1913 - 8/1/1930 Letteratura Meschinelli Luigi 11/3/1923 - 7/11/1933 Scienze naturali Messedaglia Luigi 15/7/1925 - 7/2/1956 Medicina Michieli Adriano Augusto 9/10/1944 - 5/9/1959 Storia Minio Michelangelo 5/2/1934 - 30/8/1960 Scienze naturali Miolati Arturo 14/6/1928 - 16/3/1939 Chimica Molmenti Pompeo 2/2/1896 - 24/1/1928 Storia Moschetti Andrea 15/1/1931 - 18/8/1943 Arte Munerati Ottavio 15/1/1931 - 16/3/1939 Agronomia Nasini Raffaello 26/2/1899 - 29/3/1931 Chimica Occioni-Bonaffons Giuseppe 9/12/1897 - 12/1/1924 Storia Orsi Pietro 27/5/1926 - 30/3/1943 Storia Papadopoli Nicolò 6/8/1893 - 19/3/1922 Economia Pennato Papinio 9/3/1919 - 4/10/1933 Medicina Pieri Gino 3/6/1940 - 21/6/1952 Medicina Polacco Vittorio 15/2/1900 - 7/7/1926 Giurisprudenza Ragnisco Pietro 19/5/1898 - 7/7/1920 Filosofia Ricci Curbastro Gregorio 13/1/1899 - 7/8/1925 Matematica Roncato Achille 29/5/1941 - 19/3/1961 Chimica Rossi Luigi Vittorio 9/3/1919 - 12/6/1931 Ingegneria Saccardo Pierandrea 29/5/1881 - 11/2/1920 Botanica Salvioli Ignazio 4/1/1925 - 5/1/1931 Medicina Sandonnini Carlo 21/6/1938 - 19/3/1961 Chimica Segarizzi Arnaldo 4/12/1921 - 9/9/1924 Biblioteconomia Serena Augusto 4/1/1925 - 25/6/1946 Letteratura Silva Giovanni 10/6/1939 - 20/10/1957 Astronomia Soler Emanuele 3/1/1927 - 23/1/1940 Geodesia Spica Pietro 5/1/1890 - 16/6/1929 Farmacia Stefani Aristide 8/4/1897 - 24/4/1925 Medicina Tamassia Nino 19/7/1906 - 11/12/1931 Giurisprudenza Tolomei Ettore 27/6/1935 - 25/5/1952 Glottologia Tomaselli Angelo 3/6/1940 - 15/1/1942 Letteratura Tonolo Angelo 29/5/1941 - 22/6/1962 Matematica Troilo Erminio 15/1/1931 - 19/3/1961 Filosofia Trois Enrico Filippo 11/4/1878 - 23/11/1918 Scienze naturali Valgimigli Manara 21/6/1938 - 28/8/1965 Letteratura Vercelli Francesco 4/4/1944 - 24/10/1952 Geofisica Verson Enrico 8/4/1900 - 15/2/1927 Veterinaria Viana Odorico 29/5/1941 - 9/5/1942 Medicina Vicentini Giuseppe 8/4/1900 - 15/10/1944 Fisica Vitali Fabio 31/3/1931 - 12/9/1950 Medicina
Qualche considerazione: il gruppo più consistente è dato dai medici, ben 16 (=15%), seguito dagli storici (12=12%), poi dai giuristi (8=8%); accorpando le diverse ripartizioni nelle due classificazioni fondamentali, troviamo 56 appartenenti alla categoria scientifica (=54%), e 48 (=46%) a quella umanistica.
In particolare, nel corso dell’anno accademico 1918-1919 l’Istituto poté contare su un organico di 35 membri effettivi (il totale previsto era di 40), così suddivisi: 21 (=60%) appartenenti alla classe scientifica, e 14 (=40%) a quella umanistica; nel 1931-1932 le cifre si ripropongono esattamente; nel 1944-1945 i membri sono 34, dei quali 18 (=53%) della classe scientifica e 16 (=47%) di quella per così dire letteraria. Per tutto il periodo in esame (a.a. 1918-1919-1944-1945), la media (cifre arrotondate) fu di 36 membri, 21 dei quali (=58%) appartenenti alla classe scientifica e 15 (=42%) a quella umanistica, ma il rapporto andò evolvendosi costantemente in favore della seconda, al punto che negli a.a. 1939-1940 e 1940-1941 assistiamo allo scavalco: su un totale di 37 membri effettivi, 18 (=49%) appartengono alla classe scientifica, e 19 (=51%) a quella letteraria. Per la prima (e unica) volta nella storia dell’Istituto la sua peculiare natura risultava alterata: si era ben lontani dal primitivo rapporto di 3:1 previsto dal regolamento del 1838, come pure da quello, assai più disponibile verso le Muse, di 4:3 adottato nel 1897, ma in linea con lo statuto imposto dal Ministero il 27 luglio 1937, che prevedeva «almeno» 19 membri per classe: ossia, in sostanza, la quasi assoluta parità. La tendenza — tipica dell’imperante cultura idealistica — a privilegiare le materie letterario-umanistiche trova ulteriore conferma nella prassi (non scritta, ovviamente, ma non per questo meno scrupolosamente applicata) di nominare alternativamente un esponente dei due settori alla guida dell’Istituto, come risulta dalle tabelle che seguono:
Tab. 2. I presidenti dell’Istituto dal 1916 al 1945 Nominativo Permanenza in carica Classificazione Gregorio Ricci Curbastro 7/12/1916 - 20/12/1919 (S)Matematica Enrico Catellani 21/12/1919 - 10/12/1921 (L)Giurisprudenza Pietro Spica 11/12/1921 - 22/12/1923 (S)Farmacia Vincenzo Crescini 23/12/1923 - 6/2/1926 (L)Filologia Achille Breda 7/2/1926 - 18/2/1928 (S)Medicina Nino Tamassia 19/2/1928 - 6/2/1930 (L)Giurisprudenza Davide Giordano 7/2/1930 - 3/2/1932 (S)Medicina Lando Landucci 4/2/1932 - 4/4/1934 (L)Giurisprudenza Luigi Messedaglia 5/4/1934 - 21/6/1945 (S)Medicina
Tab. 3. I segretari dell’Istituto dal 1913 al 1948 Nominativo Permanenza in carica Classificazione Nino Tamassia 25/9/1913 - 30/8/1921 (L)Giurisprudenza Giovanni Bordiga 31/8/1921 - 7/6/1933 (S)Geometria Pietro Orsi 8/3/1934 - 30/3/1943 (L)Storia Tullio Gnesotto 18/4/1943 - 27/11/1948 (S)Fisica
La perfetta parità tra le due massime partizioni è evidente; più in particolare, assistiamo al predominio della diarchia medicina-giurisprudenza. Questo sul piano della statistica: altro discorso è quello del valore delle persone. Diversissime quanto a spessore umano e scientifico, le figure dei presidenti e dei segretari tendono all’uniformità istituzionale: adempiono all’incarico, fanno il loro mestiere. Che altro, realisticamente, si poteva chieder loro? Stretti nella duplice morsa delle carenze finanziarie e dei condizionamenti politici, dovettero forzatamente limitare a routine il loro ruolo, che, in fondo, si rispecchia nella scarsa vivacità del complesso delle iniziative varate in questo torno d’anni dall’Istituto.
Figure defilate a palazzo Loredan, nel lavoro intellettuale così come nei rapporti umani e sociali furono spesso molto diversi tra loro: a personalità di notevole valore quali il cattolico Ricci Curbastro(5), l’israelita Catellani, e poi Tamassia, Giordano, Messedaglia e, fra i segretari, Bordiga, si affiancarono personaggi di minor levatura o addirittura inclini all’affermazione personale, a ricercare cioè nel prestigio derivante dall’alta carica ricoperta presso l’Istituto gratificazioni onorifiche, in primis quella nomina a senatore vagheggiata dal giurista Landucci e così tenacemente quanto vanamente perseguita dal filologo Crescini: l’uno e l’altro di sicura fede fascista(6).
In ogni caso, come dicevo, è l’Università patavina il tradizionale serbatoio da cui l’Istituto continua ad attingere i suoi soci: nell’elenco sopra riportato dei 104 membri effettivi presenti — con permanenze più o meno lunghe — nell’Istituto fra il 1918 ed il ’45, ben 67 (=64%) sono professori nell’Ateneo euganeo, contro 5 in tutto di altre Università. Accanto a questa struttura portante del corpo accademico, v’è tuttavia una significativa presenza di 32 personalità (=31%) estranee al mondo universitario, o inseritevi solo marginalmente con incarichi temporanei: costoro hanno soprattutto la funzione di rappresentare nell’organico dell’Istituto le altre province del Veneto, a cominciare da Venezia, che vi conta 13 nomi.
Fornisco l’elenco (tratto dai 104 sopra ricordati) di questi membri non incardinati all’università, con accanto la sede maggiormente qualificata della loro attività professionale: Arrigoni degli Oddi (Padova); Benussi (Trieste); Biadego (Verona); Brusin (Padova); Da Schio (Vicenza); Fogolari (Venezia); Gerola (Trento); Giordano (Venezia); Lizier (Venezia); Luzzatti (Roma); Magrini (Roma); Marangoni (Venezia); Medin (Padova); Meschinelli (Vicenza); Messedaglia (Verona); Michieli (Treviso); Minio (Venezia); Molmenti (Venezia); Munerati (Rovigo); Occioni-Bonaffons (Venezia); Orsi (Venezia); Papadopoli (Venezia); Pennato (Udine); Pieri (Udine); Segarizzi (Venezia); Serena (Treviso); Tolomei (Roma); Tomaselli (Venezia); Trois (Venezia); Verson (Padova); Viana (Verona); Vitali (Venezia).
In altri termini, 2 membri su 3 sono professori dell’Università di Padova (che, si badi, vede crescere la sua popolazione studentesca — soprattutto sotto il rettorato Anti, che ottiene dal governo sovvenzioni straordinarie per fare di Padova il modello della «città universitaria fascista» — dai 3.332 iscritti dell’a.a. 1920-1921 agli 11.347 del 1945-1946(7)); sicché non sarà fortuito accidente se il 14 marzo 1923 palazzo Loredan ospiterà al gran completo il senato accademico del Bo, recatosi tra le acque salse per conferire a Giuseppe Volpi la laurea honoris causa. L’Istituto, insomma, come una sorta di dépendance dell’Ateneo euganeo, laddove Ca’ Foscari, le accademie culturali della regione, la stessa Venezia, con la Biennale, le strutture museali, le biblioteche, furono da esso costantemente avvertite come una componente minoritaria, e i loro dirigenti ne risultarono penalizzati: sicché la loro cooptazione nel corpo dell’Istituto può essere ritenuta evento eccezionale (in questo periodo Ca’ Foscari e l’Istituto Universitario di Architettura fornirono in tutto 3 docenti: Dell’Agnola, Fradeletto, Lorenzetti).
Con la città dunque, con Venezia, i rapporti non furon sempre teneri, come accennavo sopra, all’inizio del presente paragrafo. E viceversa: Venezia ripagò l’Istituto con abituale freddezza (tuttora esso è poco conosciuto in città, e pochissimo frequentata la sua biblioteca, che pur contiene opere — riviste soprattutto — difficilmente reperibili); freddezza sublimata in ostilità nella prima metà degli anni Venti, ad opera di Gino Damerini (giornalista e critico militante della destra, assai vicino al rinnovamento culturale ed economico propugnato da Cini e Volpi). Ebbene, Damerini stese alcuni articoli nell’ambito di una sorta di rassegna nazionale intitolata La libreria e il pubblico, promossa da «Il Marzocco», periodico che annoverava tra i suoi collaboratori i nomi di Pompeo Molmenti, Mario Brunetti, Giuseppe Ortolani e, appunto, Gino Damerini. Così scriveva quest’ultimo con ringhiosa penna, in data 14 dicembre 1924: «L’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, che potrebbe essere un faro luminoso di alta cultura, non conta invece affatto nella vita culturale, artistica, letteraria di Venezia e della regione veneta. Il suo palazzo è quasi costantemente chiuso; entrare nella biblioteca, sostarvi, studiarvi quasi impossibile a chi non sia già dentro alle segrete cose».
Nessuna apertura alla città, dunque. Cui prodest? A chi giovava questa condotta? Su questo punto non aveva dubbi Damerini: «Essere ammessi tra i quaranta membri effettivi [proseguiva] è onore che schiude la via al Senato; essere ammesso tra i soci è pure un grandissimo onore concesso a pochi [...]. Dell’Istituto fanno parte preponderante i professori dell’Università di Padova i quali vi mettono piede soltanto nei giorni di seduta [...]. Pochissimi i veneziani, rari i veneti. La scelta dei membri è fatta con criteri veramente singolari. Cade bensì e con preferenza sui professori di Università in quanto tali [...], tenuto conto delle scienze e delle lettere; ma esclude per le arti e per le lettere, gli artisti ed i commediografi. Giambattista Tiepolo redivivo non potrebbe essere membro dell’Istituto; Goldoni o Giacinto Gallina non lo potrebbero neppure. Perché? Mistero... Le arti accreditate presso l’Istituto Veneto sono le arti industriali; e in fatto di muse le restrizioni sono categoriche. L’Istituto bandisce annualmente dei concorsi con premi vistosi. Ma i temi di siffatti concorsi si straniano talmente dalla vita, che l’esito lascia sempre molto a desiderare. Così [...] il valore accademico dell’Istituto, se esiste, è soltanto interno; non si spande, cioè, all’infuori, non determina e non caratterizza correnti e movimenti». Durissima, alla stregua di una minaccia, la conclusione: «[...] penso che il ministro Casati farebbe cosa opportunissima a ordinare lo studio di una riforma dell’Istituto Veneto»(8).
Venezia, allora, stava avviandosi ad accogliere la straordinaria stagione di Cini e Volpi, managers abilissimi a coniugare assieme imprenditorialità cultura mondanità, così da assegnare a Marghera che s’affaccia sulla gronda lagunare il ruolo dimesso e defilato dell’attività produttiva e operaia, mentre il centro storico con l’appendice insulare del Lido assume la dimensione, in quegli straordinari anni Trenta, di capitale internazionale del bel mondo. Venezia assorbe con sorprendente facilità l’operazione: i nuovi mecenati-industriali convivono accanto ai nomi del patriziato (il sindaco Grimani, il fascista Foscari, il critico e giornalista Zorzi), e intanto alla Biennale si affiancano Ca’ Pesaro, la Fondazione Bevilacqua La Masa, Ca’ Rezzonico con le grandi mostre sulla pittura veneta, affidate dapprima a Nino Barbantini, cui succede Rodolfo Pallucchini. Avviene così che la città del passato, il cui mito rivive nel persistente messaggio dannunziano e riceve impulso da Giuriati, si trovi a convivere e integrarsi perfettamente con un programma avveniristico che poggia sulla Mostra del cinema, sul Festival del teatro, sulla rete di turismo elitario rappresentato dalla C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi), sul Casinò, sul campo da golf degli Alberoni, il più grande d’Europa. Fra tanto fervore economico, mondano, culturale, quale spazio poteva esserci per l’Istituto Veneto?
Sotto l’incalzare dei nuovi tempi, l’Istituto si vedeva dunque forzatamente sospinto verso la difesa della sua tradizione scientifica: paradossalmente, un secolo prima questa coincideva col progresso, ma ora rischiava di apparire una funzione anacronistica o — quantomeno — ristretta. Oggi plaudiamo a questa scelta, alla coerenza con cui esso seppe salvaguardare la propria fierezza intellettuale senza compromettersi con le ‘mode’, ma per chi visse quella temperie e subì gli attacchi irridenti che da tante parti muovevano, non furono anni facili.
La riprova di un diffuso e non più occultabile disagio è data da una ricognizione collegiale su nuove ipotesi di lavoro, varata dall’Istituto nel febbraio ’33. Non era mai successo che la presidenza si interrogasse ufficialmente su che fare.
A quella data, l’Istituto aveva messo a segno un positivo risultato sul piano della potenzialità operativa, a prescindere dalle angustie finanziarie: nell’estate del 1923 aveva infatti liberato nuovi spazi mediante il trasferimento al Fondaco dei Turchi delle collezioni di scienze naturali, ormai più consone alla conservazione museale che atte a fornire strumenti di studio o di lavoro; ancora, nell’agosto dello stesso anno la Deputazione veneta di Storia Patria si trasferiva in alcuni locali del Palazzo Reale in piazza S. Marco, restituendo in tal modo all’Istituto tre stanze del primo mezzanino(9). Tuttavia — nonostante i pungoli di Damerini — la nuova agibilità non si tradusse in un rilancio della biblioteca, oltretutto arricchita nella primavera del ’30 dal fondo Luzzatti (libri e corrispondenza), generosamente donato dagli eredi dello scomparso statista: ma quello della biblioteca e dell’archivio dell’Istituto — entrambi potenzialmente ricchissimi, specie per la presenza di riviste rarissime e di fonti documentarie di primario interesse per la storia dell’Ottocento veneto — fu un problema destinato a riproporsi periodicamente nella storia di quest’ultimo; in teoria ben presente tra le primarie funzioni dell’Istituto, presieduta sin dalle origini da una apposita commissione, la biblioteca venne sempre sfruttata pochissimo(10) e l’archivio addirittura trascurato: per quanto concerne quest’ultimo, solo di recente si è provveduto alla numerazione e schedatura di 415 buste, ma — per dire — tutto il materiale relativo all’amministrazione della Fondazione Minich giace ancora indecorosamente ammucchiato dentro scatoloni sparsi nei magazzini.
Neppure i concorsi industriali ebbero lunga vita: rilanciati nel ’23, dopo la forzata interruzione bellica, grazie a un contributo dell’Istituto federale di credito per il risorgimento delle Venezie, sparirono definitivamente dopo appena due manifestazioni: nel corso della prima, l’8 luglio 1923 veniva premiata la S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità), mentre nella successiva edizione del 6 dicembre ’25 il diploma d’onore fu conferito a tre partecipanti: la occhialeria Ulisse Cargnel di Pieve di Cadore, la vetreria Cristalleria Murano, il veneziano Mulino Stucky. Anche il loro tempo, il tempo di queste iniziative, era scaduto: i concorrenti — come denunciava il segretario Bordiga proprio in occasione dell’ultima premiazione — vi inviavano i loro prodotti ormai solo per fini promozionali, non già per il gusto di segnalare innovazioni tecniche o nuovi ritrovati scientifici.
Rimanevano i concorsi. Soppressi sin dal 1895 quelli promossi direttamente dall’Istituto, quest’ultimo si limitò a gestire quanti (ma non erano pochi) gli venivano appoggiati dall’incessante proliferare di fondazioni che facevano capo, appunto, a palazzo Loredan. Oltre alla ‘primogenita’ Querini Stampalia (1869) e alle ottocentesche Balbi Valier per medicina (1877), Ferdinando Cavalli per economia (1889), Angelo Minich ancora per medicina (1894), il nuovo secolo aveva visto sorgere il premio Arrigo Forti per botanica/zoologia (1907, triennale), quello Vanna Arrigoni degli Oddi per pittura (1924, quadriennale), l’Elia Lattes per filologia (1926, una tantum), l’Umberto e Maria di Savoia per varie discipline (1929, quadriennale), il Giulietta Forti per botanica/zoologia (1930, triennale), il Pompeo Molmenti per storia (1931, quadriennale), l’Emanuele Filiberto duca d’Aosta per storia (1933, una tantum), il Giovanni Fiorini per letteratura (1934, biennale) e l’Achille Forti per geologia (1939, triennale).
Insomma, fra il 1919 ed il 1940 (allorché lo scoppio della guerra interruppe forzatamente tali iniziative) l’Istituto bandì 67 concorsi, ossia 3 all’anno; non è poco ed è una bella testimonianza della stima e della fiducia che circondavano il sodalizio. Da ricordare il premio Balbi Valier di 6.000 lire vinto da Egidio Meneghetti il 31 dicembre ’40 per le sue ricerche farmacologiche; quello Arrigo Forti (una famiglia particolarmente benemerita di israeliti veronesi) di 3.000 lire vinto nel ’35 dal professore padovano Sergio Tonzig per la botanica; un Querini Stampalia di 5.000 lire attribuito nel ’39 al professor Carlo Battisti per uno studio comparativo sulla lingua ladina delle Dolomiti. Da registrare purtroppo la mancata assegnazione del premio al quesito proposto nel giugno ’26, ancora dalla Querini Stampalia, concernente la continuazione della bibliografia veneziana in aggiunta a quelle di Cicogna e di Soranzo: per due volte (nel ’29 e nel ’31) il concorso fu bandito, con un premio elevato a 8.000 lire, ma non ci fu vincitore.
Continuava inoltre la routine delle attività istituzionali, non che fossero poca cosa: benché esaurita l’antica funzione di consulente scientifico del governo, restavano in vita le commissioni permanenti. Ma non tutte: decadute quelle per le Raccolte scientifiche, la Storia, archeologia e statistica, la Lingua e letteratura italiana, i soci si limitarono a rinnovare quelle per le elezioni, la biblioteca, il Panteon (che peraltro si attivò solo nel ’32, quando venne realizzato un busto a Carlo Gozzi: era stato Molmenti a proporlo, prima di morire, per evidente analogia di sentire con quello strenuo e sfortunato difensore della venezianità). V’erano poi le letture che impreziosivano le adunanze dei soci e finivano in gran parte pubblicate negli «Atti», ma sempre più affidate ai corrispondenti (20% del totale, nel periodo 1920/1921-1949/1950) o addirittura ad esterni (57% per lo stesso arco di tempo). Cosa si leggeva? Fra il 1919 e il 1949 il primato toccò alla storia, con 306 dissertazioni (=18,3%), seguita dalle scienze naturali con 215 (=12,8%), dalla matematica con 203 (=12,1%), poi dalla medicina con 166 (=9,9%) e dalla letteratura con 132 (=7,9%); la storia dunque è la grande beneficiata dal pensiero idealistico e dal clima nazionalistico che vivono nel paese; a titolo di confronto, ecco i dati relativi al primo decennio di vita dell’Istituto, e che ne rispecchiano le originarie finalità: fra il 1840 e il 1849 capolista fu la fisica, con 81 letture (=21%), seguita dalle scienze naturali con 76 (=20%), poi dalla geografia e medicina, a pari merito, ognuna con 38 (=10%) e infine dalla chimica con 29 (=8%). Non c’era spazio per le materie umanistiche, con la parziale eccezione della geografia, che però allora si risolveva in gran parte nell’astronomia e ignorava l’antropologia(11).
Questa attività, per quanto benemerita e di altissimo livello, necessitava tuttavia di qualche colpo d’ala, di qualche brezza vivificatrice che ravvivasse un poco il nome dell’Istituto, facendolo uscire dal chiuso recinto del mondo accademico, com’era avvenuto all’inizio del secolo, per esempio, con le belle imprese di Gerola e Magrini. Perciò, come accennavo sopra, nel febbraio 1933 la presidenza procedette a una ricognizione su nuove ipotesi di lavoro, sollecitando i membri ad avanzare proposte.
Si ebbe così, su indicazione di Giovanni Magrini, poi ripresa da Emanuele Soler e Carlo Anti che collegarono l’iniziativa alle celebrazioni per il bimillenario augusteo, l’indagine sulla rete viaria romana delle Venezie, ben presto circoscritta all’arteria aperta da Druso e ampliata poi dall’imperatore Claudio, che partiva dal porto adriatico di Altino e giungeva, attraverso il Brennero, sino al Danubio; la ricerca si concretizzò nel ’38 nella pubblicazione del volume La via Claudia Augusta Altinate, edito dall’Istituto, con saggi di Raffaello Battaglia, Alessio De Bon, Tommaso Berlese e Bruna Forlati Tamaro. Non ebbe successo, invece, il pur encomiabile progetto suggerito da Andrea Moschetti e Augusto Serena per il completamento della bibliografia veneziana, in continuazione di quelle di Cicogna e di Soranzo: un’esigenza ben presente allora (s’è visto come la Fondazione Querini Stampalia promuovesse un concorso proprio su questo tema), e tuttora irrisolta; sennonché oggi, stante la rigogliosa fioritura di studi che nell’ultimo cinquantennio hanno avuto per oggetto la civiltà e la storia veneziana, l’impresa appare difficilmente praticabile, tale comunque da sgomentare i più agguerriti filologi-compilatori. Non ebbe fortuna, dicevo, il progetto Serena-Moschetti, nonostante il generoso impegno personale di quest’ultimo, sicché l’opera si ridusse a due monografie che avevano il compito di alleggerire la bibliografia generale: quella di Francesca Antonibon su Le relazioni a stampa di ambasciatori veneti (1939) e un’altra pure di una donna, Rosanna Saccardo, su La stampa periodica veneziana fino alla caduta della Repubblica (1942).
Da ricordare infine il contributo di 100.000 lire deliberato dall’Istituto nel ’34 per l’acquisto delle tele di Pietro Longhi poste in vendita dai proprietari, conti Donà dalle Rose, e quindi provvidamente riunite ad altri quadri dello stesso autore che oggi formano tanta parte della pinacoteca Querini Stampalia; ancora, merito del sodalizio è aver promosso la bella edizione del cinquecentesco Codice erbario marciano del patrizio Pietro Antonio Michiel, curata nel 1940 da Ettore De Toni.
Non è scontata lamentazione affermare che il ventennio fascista costituì forse il periodo più buio e misero nella storia dell’Istituto: pure andò proprio così. Alle ragioni rammentate sopra si aggiunga infatti lo stato di guerra (in Etiopia, in Spagna) che lo sottese (e la guerra — inutile dirlo — è nemica degli studi); inoltre la creazione, ad opera del regime, di nuove e solide istituzioni centrali (dall’Unione accademica nazionale agli Istituti storici, all’Enciclopedia), che tolsero spazio e credibilità alle realtà periferiche.
L’Istituto di palazzo Loredan scontò tutto questo, e altro ancora, con un significativo ridimensionamento della sua attività, come si è detto. Poi vennero la guerra, la caduta del fascismo, Salò. Il 14 maggio 1943 al presidente Messedaglia era stata ritirata la tessera del P.N.F. (Partito Nazionale Fascista), probabilmente dietro gli intrighi di alcuni veronesi suoi concittadini. Una settimana più tardi egli si dimetteva dalla presidenza dell’Istituto, che teneva ormai da 9 anni in deroga alla norma — per l’addietro ferrea — della contumacia. Accettate le dimissioni dal ministro Biggini, il 13 giugno ’43 le votazioni designarono alla presidenza Vittorio Lazzarini (vicepresidente dal ’34), con larga maggioranza. Ma il 25 luglio era alle porte, e così il governo Badoglio — desideroso di mostrarsi il più possibile garante della continuità — riconfermò ancora una volta Messedaglia alla guida dell’Istituto.
Poi arrivò la Liberazione e il C.L.N. (Comitato di Liberazione Nazionale) commissariò l’Istituto, al pari delle altre accademie. Rimosse la vecchia presidenza, affidandone la responsabilità al m.e. Ernesto Laura, professore di Meccanica a Padova, docente apprezzato, integro, mai iscritto al P.N.F.
Già: ma perché il ligure Laura e non il padovano (e regolarmente e liberamente eletto) Lazzarini? Fu il professore Ugo Morin, presidente del C.L.N.R.V. (Comitato di Liberazione Nazionale Regionale Veneto), a volere così: e poi, insomma, nemo propheta in patria, mettiamola in questi termini(12).
Ma non bastava. L’Istituto aveva bisogno di voltar pagina per davvero, di fornire di sé una nuova immagine. E così il 25 gennaio ’46 un decreto ministeriale istituiva una specifica commissione per le epurazioni. Ora, di fascisti veri e propri palazzo Loredan non ne aveva avuti moltissimi: a parte gli immancabili opportunisti e conformisti (dai quali il nostro felice paese non sempre, a dire il vero, è rimasto immune in passato), solo Anti, Bodrero, Crescini, Ferrari Dalle Spade, Landucci, Lucatello e Orsi avevano davvero potuto dirsi tali. A quella data non sopravvivevano più che Anti e Bodrero (che però risiedeva stabilmente a Roma), per cui la commissione (con Laura, Gnesotto, Gola, Lizier) ricercò valutò giudicò e finalmente deliberò: sia radiato Anti. Così l’Istituto espiò pubblicamente e solennemente le sue colpe, dopo di che, lasciata passare un po’ d’acqua sotto i ponti, rielesse Anti fra i suoi membri il 17 luglio 1951.
L’Istituto usciva dalla guerra non soltanto con dei problemi morali e psicologici, ma anche con una sede gravemente danneggiata e manomessa.
Non si trattava solo del prolungato abbandono dei locali (il 20 agosto ’43 le riunioni dei soci erano state sospese a causa della difficoltà e pericolosità delle comunicazioni): tra il gennaio e il febbraio ’44 il governo di Salò requisisce parte di palazzo Loredan per ospitarvi uffici e un nucleo di militi della protezione antiaerea; i quali ultimi tuttavia non bastano a impedire i gravi danni che vengono arrecati al soffitto ed alle vetrate da un assurdo bombardamento — aereo, appunto — voluto dagli alleati liberatori il 21 marzo ’45. Un mese dopo o giù di lì ci pensavano i partigiani — anch’essi liberatori, naturalmente — a cacciar via da campo S. Stefano la controparte repubblichina.
Poi venne la pace. Ma — va detto — nel corso di sì pesanti e reiterate requisizioni/espugnazioni, effettuate per lo più manu militari, dalla sede dell’Istituto misteriosamente scomparvero le preziose cinquecentine che formavano l’orgoglio della biblioteca. Del responsabile neppure l’ombra.
Dunque l’Istituto si ritrovava con una sede ridotta in condizioni pietose, stravolta da muretti tirati su alla buona dove capitava, da frammezzi, separés, soppalchi ricoperti di polvere e calcinacci, dove tutto spirava desolazione. Una volta fatta pulizia, si capì che bisognava procedere ad un restauro conservativo di più largo respiro: cosa facile da attuarsi da parte di privati in una Venezia che — tanto per fare un esempio — nel ’49 assisteva impassibile all’ampliamento del Bauer sino al campo di S. Moisè, con previo interramento di rio; oppure al disinvolto ingresso della C.I.G.A. nell’area marciana, con la costruzione del Danieli. Facile insomma in quegli anni per il privato, meglio se dovizioso, costruire o disfare, assai meno per l’Istituto, il cui immobile era demaniale e perciò soggetto alla tutela edilizia del magistrato alle Acque (il quale, per dire, nel ’50 si limitava a constatare — di fatto, al di là di scontate inefficaci lamentazioni d’uso — l’avvenuto crollo del forte di S. Andrea).
Poi ci si mise in mezzo l’alluvione del ’66, quindi la legge speciale del ’73, e insomma i tempi s’allungarono sì da comprendere il corso di un’intera generazione, in omaggio all’italico costume del non fare, che sembra oltretutto enfatizzarsi quando sente odore d’acqua salsa.
Una possibile concausa di tale venezianissima prassi del non fare (che non mancò di ripercuotersi negativamente anche sul potenziale dinamismo dell’Istituto), può essere individuata nella collocazione politica della città lagunare rispetto al territorio circostante: in breve, Venezia ha sempre teso a sinistra, mentre il Veneto verso il centro e centro-destra: dal 1946 al ’51, per dire, l’amministrazione veneziana fu guidata dal comunista Giovan Battista Gianquinto. Donde un ulteriore motivo di separatezza della città dal suo retroterra, che certo non favorì la presidenza dell’Istituto nell’instaurare taluni indispensabili rapporti di collaborazione con le autorità locali, anche per quanto riguarda la concreta esigenza di procedere al restauro dell’immobile.
Il quale restauro, di fatto, cominciò ad essere preso in considerazione solo nella seconda metà degli anni ’60, quando ai guasti patiti nella congiuntura bellica si sommarono i danni derivanti al patrimonio edilizio urbano dal degrado causato dalle maree e dall’inquinamento atmosferico; era trascorso un ventennio dalla fine della guerra, e altrettanto tempo sarebbe occorso per elaborare i progetti, avviarne il percorso burocratico, ottenere l’approvazione, reperire i finanziamenti e infine dar corso ai lavori, che furono completati quand’era presidente Vittore Branca, all’inizio degli anni Ottanta. Questo l’iter cronologico: le prime pratiche furono avviate sotto la presidenza di Francesco Marzolo (cui spetta la realizzazione del modello idraulico della laguna in scala 1:60, a Voltabarozzo), sin dal 9 dicembre 1964, con una segnalazione inoltrata al Genio civile e alla Soprintendenza ai monumenti; tuttavia solo dopo il tragico evento del 4 novembre 1966 l’urgenza del recupero conservativo di palazzo Loredan divenne inderogabile (non si trattava solo di un rinnovo degli ambienti e di una loro migliore strutturazione, ma anche e soprattutto del consolidamento statico dell’edificio e del restauro dell’apparato decorativo); tuttavia la lunga presidenza dell’ingegner Marzolo (1963-1969) trascorse senza risultati concreti, e così quella del letterato Diego Valeri (1969-1973). Arriviamo in tal modo al 16 aprile ’73, quando finalmente il Parlamento riesce a varare la cosiddetta legge speciale per Venezia, che fa prevalere la salvaguardia di un centro storico a destinazione turistico-museale sugli interessi della zona industriale di Marghera, peraltro ormai di per sé sulla via del tramonto. Il nuovo presidente dell’Istituto, Antonio Rostagni (coadiuvato da un altro «azionista», Piero Treves), si attiva per tempo e sin dal 1° marzo ’73 affida all’architetto veneziano Benedetto De Scarpis il progetto di un restauro globale: statico, igienico, conservativo e di ripristino; ne esce un piano esecutivo a un tempo originale e di largo respiro (prevede, tra l’altro, la realizzazione di una sala capace di 200 persone, nell’ala sud del piano nobile), che però solo in parte trova attuazione, vista l’insufficienza dei mezzi stanziati dal magistrato alle Acque. Il nuovo progetto, in versione ridimensionata, fu approvato il 5 ottobre 1976 dalla Commissione per la salvaguardia di Venezia e realizzato in due tempi: una prima tranche fra il novembre ’78 e il giugno ’80, e l’altra — dopo che il nuovo presidente, Vittore Branca, ebbe ottenuto ulteriori finanziamenti — dal settembre ’81 al novembre ’82(13). Palazzo Loredan — unito da un ponticello di ferro alla retrostante casa Minich posta sul piccolo rio di S. Vidal (quest’ultima restaurata contestualmente a tutte spese dell’Istituto, con un aggravio di quasi 800 milioni) — ne usciva con la veste attuale: quella di un’antica dimora patrizia dalla singolare struttura, perfettamente in grado di ospitare riunioni e convegni (la sala delle adunanze venne impreziosita con un quadro di Tintoretto, La Vergine e quattro senatori, concesso in deposito dalle Gallerie dell’Accademia), dotata di una piccola foresteria articolata su quattro stanze, ricca di una biblioteca (circa 4.000 metri lineari di scaffalature, nel solo pianterreno del palazzo e di casa Minich) e di un archivio dalle grandi potenzialità — benché sinora inespresse — per chi voglia studiare la storia del Veneto otto-novecentesco.
Questo restauro costituì uno spartiacque nella vita dell’Istituto; fu anzitutto un punto di arrivo frutto del lento lavoro preparatorio (quasi una sorta di processo di sedimentazione) delle presidenze Rostagni e Branca; un punto d’arrivo tradottosi in un momento di svolta, di decollo anzi, paragonabile alla sferzata di energia trasmessagli a fine Ottocento dall’eredità Minich. Succede. Le emergenze intellettuali da sole non bastano a produrre cultura: ci vogliono anche le strutture e le risorse economiche.
Una volta dotatosi di una sede adeguata, ottenuto il 2 aprile 1980 un regolare contributo dal Ministero per i Beni culturali e ambientali, seguito da analoga dotazione regionale il 5 settembre ’84, provvisto di un nuovo regolamento ministeriale emanato il 29 luglio ’82, l’Istituto di palazzo Loredan parve finalmente uscire dalla minorità in cui era vissuto per oltre un trentennio. Come percorso da rinnovata linfa vitale, prese ben presto a programmare iniziative di studio, a organizzare convegni, a pubblicare con una vivacità, con un’intensità per l’addietro sconosciute. Scrollatisi di dosso i condizionamenti patiti nel corso degli anni Trenta, nell’ultimo decennio del XX secolo l’Istituto si è proposto come una nuova felice realtà, accanto alle mostre di palazzo Grassi (nate nel 1984) e alla ormai ‘classica’ Fondazione Giorgio Cini, che è del ’51. Le premesse di questo rilancio, dicevo, sono da rintracciare nell’ultimato restauro e nel nuovo programma che accompagnò l’evento; un piano di lavoro le cui direttrici furono approfondite da un convegno significativamente intitolato «Cultura per Venezia», che il 26 maggio 1984 si propose di esaminare le interrelazioni possibili tra il mondo intellettuale e la città dell’acqua. Questo programma poi si precisò meglio nell’impegno vòlto a fare dell’Istituto il centro catalizzatore della cultura delle Tre Venezie, costituendo una scuola di alta specializzazione interdisciplinare sull’esempio dell’Institute for Advanced Studies o di quella École des Hautes Études che mancavano in Italia — come tuttora mancano — onde fornire una specializzazione postuniversitaria alle emergenze giovanili. Tale ambizioso disegno avrebbe fatto dell’Istituto qualcosa di diverso e di superiore rispetto alle altre accademie, andando oltre la pur meritoria logica dei convegni e delle iniziative editoriali; esso fu simbolicamente sancito da quel volume miscellaneo che già ho avuto modo di ricordare (Palazzo Loredan e l’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, cf. n. 1), che all’orgogliosa celebrazione del restauro testé compiuto affianca la descrizione storica dell’Istituto e delle sue varie attività, quasi a fare il punto su quanto acquisito e su quel che si sarebbe potuto fare.
Dunque la presidenza Branca (1979-1985) finì per rappresentare — al di là dei meriti del singolo — una svolta nella storia dell’Istituto, che parve in qualche modo seguire le sorti (felici?) di una Venezia ormai saldamente ai vertici del turismo mondiale, elitario e di massa. I soci avallarono la nuova funzione che venne prospettata loro, portando rapidamente a termine un’eccezionale opera di svecchiamento e rinnovamento.
Prima, infatti, le iniziative non erano state granché: dopo aver invano tentato di riproporre il vecchio tema degli scavi altinati, nel ’51, in occasione del VII centenario di Marco Polo, s’era ripiegato nella pubblicazione di un catalogo delle carte geografiche cinquecentesche presenti all’Archivio di Stato, alla Marciana e al Correr; quanto a un volume su Polo, non sarebbe uscito prima del ’55. Nel ’54, facendo seguito ad un’iniziativa del gemello Istituto Lombardo che intendeva celebrare il 150° anniversario della fondazione, si affidava al socio Mario Brunetti l’aggiornamento della storia dell’Istituto, tradottosi nella stampa di un opuscolo; due anni dopo, riprendendo la nobile tradizione che lo voleva patrocinatore dei problemi lagunari (nel 1907 il magistrato alle Acque era stato fondato proprio dietro sua iniziativa), nel 1956, dunque, l’Istituto pubblicava gli Atti del Convegno per il retroterra veneziano (tenutosi a Marghera nel novembre ’55), volto a sensibilizzare l’opinione pubblica sugli effetti — anche politici — della forte crescita di un’area industriale posta sulla gronda lagunare. A questo volume — che chiaramente, anche nella veste tipografica, intendeva ricollegarsi ai 12 titoli delle Ricerche lagunari edite da Magrini tra il 1906 e il 1909 — altri seguirono con confortante continuità, specie dopo che, nel ’61, l’Istituto creò una specifica commissione (dopo Francesco Marzolo, furono chiamati a presiederla Dino Tonini e poi Augusto Ghetti), la quale si occupò non solo di idraulica lagunare, ma di meteorologia, di cartografia, di consolidamento architettonico urbano; il lettore che si recasse nella biblioteca dell’Istituto li vedrà esposti tutti allineati in apposito ripiano, così disposti cronologicamente dopo il primo cui si è accennato sopra: Atti del Convegno per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia (1960); Commissione di studio dei provvedimenti per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, I, Rapporti preliminari (1961); Contributi dell’Istituto allo studio dei problemi veneziani (1962): trattasi di una bibliografia ragionata; Atti del Simposio internazionale sul tema ‘Influenze meteorologiche e oceanografiche sulle variazioni del livello marino’. Venezia, 5-6 ottobre 1962 (1963); Commissione di studio dei provvedimenti per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, II, Livellazione geometrica di precisione della città di Venezia (1963); Commissione di studio dei provvedimenti per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, III, Rapporti e studi (1966); Convegno del 20 ottobre 1968 (1968); Commissione di studio dei provvedimenti per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, V, Rapporti e studi (1972); Commissione di studio dei provvedimenti per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, VI, Giovanni Zuccolo, Il restauro statico nell’architettura di Venezia (1975); Commissione di studio dei provvedimenti per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, VII, Rapporti e studi (1977); Commissione di studio dei provvedimenti per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, VIII, Rapporti e studi (1981); Commissione di studio dei provvedimenti per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, IX, Rapporti e studi (1984). Naturalmente la serie continua, ma qui non intendo infrangere le colonne d’Ercole della metà degli anni Ottanta.
A partire dagli anni Settanta v’è da registrare l’intensa collaborazione instauratasi tra l’Istituto e la Fondazione Giorgio Cini (certamente la presenza di Vittore Branca ai vertici dei due enti non fu estranea al fecondo rapporto), per cui quasi tutti i congressi e le manifestazioni svoltisi a Venezia scaturirono da questo binomio: ricordiamo il convegno manzoniano del ’73, quello su «Petrarca, Venezia e il Veneto» del ’74, seguito l’anno dopo da analogo su Boccaccio (ma nel luglio 1975 si tenne anche un incontro internazionale sulle «Frontiere dell’astronomia»); il ’76 fu l’anno di Tiziano, il ’78 di Foscolo; infine, il 7 ottobre 1979 si incontreranno nell’isola di S. Giorgio — ma dietro iniziativa dell’Istituto — i rappresentanti di 25 (su un totale di 27) accademie o istituti culturali delle Tre Venezie per tentare di realizzare una comune linea di collaborazione culturale(14). Da segnalare ancora la ripresa della pubblicazione delle «Memorie» a partire dal ’54 e il riordino dell’archivio Luzzatti, affidato alle cure di Luigi Lanfranchi e completato nel ’77.
Forse non è molto, certo non lo è se paragoniamo l’attività degli anni 1950-1980 a quella, incomparabilmente più intensa, del periodo successivo, che inaugura un’onda lunga tuttora in corso.
L’Istituto, infatti, per molto e molto tempo soffrì due pesanti condizionamenti: la mancanza, come si è visto, di una sede adeguata e poi quella, non meno importante, di significative sovvenzioni pubbliche. Data questa realtà, fu già gran cosa che riuscisse a riaprire i concorsi (delibera dell’assemblea in data 15 maggio 1949), poggianti soprattutto sulle risorse messe a disposizione dai privati. Soppressi naturalmente i vecchi premi ‘monarchici’ intitolati al duca d’Aosta e ad Umberto e Maria José, si ribandivano i concorsi Arrigoni degli Oddi, Balbi Valier, Cavalli, Fiorini, Forti, Lattes, Minich, Molmenti, Querini Stampalia, Voltolina, ai quali altri si aggiunsero, a cominciare da quello (finanziato con 100.000 lire) voluto nel febbraio 1950 dall’Associazione degli industriali della provincia di Venezia e dedicato a un tema classico: «Il vetro muranese nella storia, nell’arte e nella tecnica». Da ricordare inoltre il premio Lorenzetti, bandito nel ’58 e vinto due anni dopo da Elena Bassi con un lavoro intitolato Il gusto neo-classico nell’architettura veneziana; quello intitolato a Michelangelo Minio sull’ecologia vegetale (1961); quello a Gino Luzzatto per uno studio su una magistratura della Serenissima, con premio di 1 milione, pubblicato due volte e vinto finalmente nel ’70 ex aequo da Giorgio Zordan e Reinhold C. Mueller; vennero poi istituiti i premi Marin, Vassalini, Bocchetti Protti e, con progressione gagliarda, tanti tanti altri che qui sarebbe fuori luogo numerare; accontentiamoci allora di queste cifre, fornite da Branca nella relazione del 17 giugno 1984: «i premi e le borse di studio [disse] che nel 1980 ammontavano a 4 milioni, nel 1981 sono aumentati a 21 milioni e mezzo, nell’82 a 40 milioni, nell’83 a 61 milioni, nell’84 a 88 milioni», e l’anno dopo avrebbero superato i 200 milioni(15).
Da registrare inoltre, nell’ambito della linea culturale perseguita dall’Istituto, alcune sue significative prese di posizione, come la denuncia (1977) della proposta di legge che intendeva delegare alle Regioni la competenza sulle biblioteche, gli archivi, le accademie; o l’altra (1984) contro l’«assurda» riforma della scuola media. Quanto alle istituzioni «sorelle», l’assemblea di palazzo Loredan deliberò un contributo annuo all’Ateneo Veneto (10.000 lire nel 1950, passate a 30.000 nel ’56 e via via successivamente adeguato), ma nel maggio ’74 negava ospitalità alla déracinée Deputazione veneta di Storia Patria, contro voglia errante per mancanza di sede: avevano già dato, dissero i soci, ed era vero, ché l’avevano ospitata a lungo, fino al ’23 (v. sopra, e n. 9): altra cosa sarebbero stati gli spazi concessi nell’ottobre ’79 al nuovo Centro interuniversitario di studi veneti, fondato da Giorgio Padoan e tuttora operante nelle sale del mezzanino di palazzo Loredan: ma Padoan era stato allievo e assistente dell’allora presidente Branca, e pertanto…
Altro non si poteva fare con le risorse a disposizione; a questo proposito va detto che l’amministrazione comunale veneziana continuò a palesare totale disinteresse nei confronti dell’Istituto, se non addirittura insofferenza: nel ’76 meditò addirittura di collocarlo tra gli enti definiti inutili, benché il sindaco allora in carica, Rigo, intervenisse regolarmente alle adunanze solenni che si tenevano a Palazzo Ducale in occasione della chiusura dell’anno accademico, prendendo con pari puntualità la parola per il discorsetto d’uso, di quelli che non serve ascoltare(16).
Il 1° giugno 1947 l’Istituto stabiliva la ripresa della pubblicazione degli «Atti», dal momento che il Ministero per la Pubblica istruzione gli aveva giusto allora accordato una sovvenzione ad hoc di 300.000 lire. La dotazione annua regolare era fissata in 3 milioni, ai quali però di tanto in tanto s’aggiungeva qualche rinforzino sotto forma di straordinario (2 milioni il 16 ottobre ’51, altri 3 due anni dopo); integrazioni necessarie, laddove si consideri che le sole spese di stampa richiedevano 1 milione (non che ve ne fossero molte altre: nel ’49 il personale era ridotto al minimo, potendo contare solo sul I scrittore Mario Canziani, cui si aggiungevano il II scrittore Carlo Mugnaini e l’usciere Luciano Gentili, tutti accomunati dal livello decisamente contenuto degli emolumenti) ma bisognava rifare, ad esempio, l’impianto di riscaldamento che s’era ormai arreso all’incalzare del tempo. Ovviamente col passare degli anni le sovvenzioni statali salirono: nel ’75 avevano già da tempo raggiunto i 30 milioni (contro 22 di spese di stampa), ma sarebbero ulteriormente aumentate solo dopo l’approvazione della legge del 2 aprile 1980, intitolata «Norme per l’erogazione di contributi statali ad enti culturali», per cui il contributo sarebbe giunto a 55 milioni, quasi tutti assorbiti dagli accresciuti costi delle sempre più numerose pubblicazioni curate dall’Istituto.
Dal 1972 aveva iniziato a operare la Regione Veneto, e ad essa come pure ad altri enti si rivolgeva Branca un decennio più tardi, nella relazione del 20 giugno ’82, così rampognando: «L’Istituto [...] si impegna [...] a spendere in favore della ricerca somme maggiori di quelle che ha a disposizione annualmente. [...] Ma poco può fare con le sole sue forze, quando il contributo che lo Stato per legge gli deve, dopo infinite insistenze e proteste, è non dico aumentato ma diminuito quest’anno in termini reali (è stato accresciuto solo del 4% contro una svalutazione almeno del 16%); quando la Regione, sollecitata ripetutamente da anni e anni, non ha ancora approvato la legge [...] per il contributo all’Istituto, nonostante le continue assicurazioni del Presidente, del Vicepresidente, dell’Assessore alla cultura; quando il Comune non ha mai stanziato la minima somma per l’Istituto; quando le stesse potenti agenzie di credito delle Tre Venezie sono quasi del tutto assenti, se si eccettui il milione, dico un milione, elargito dalla Cassa di Risparmio di Venezia»(17).
Leggendaria e antichissima nel tempo, inossidabile dote tramandatasi per lungo ordine d’anni, preciso punto fermo in un paese per troppi versi sommamente instabile è l’insensibilità culturale dei nostri governanti, ma qualcosa Branca finì per ottenere: il Ministero elevò il contributo a 100 milioni, la Regione (legge nr. 51 del 5 settembre 1984) lo fissò a 75 adeguabili, la Cassa di Risparmio ne mise a disposizione 3.
Presento qui alcuni bilanci consuntivi dell’Istituto che ritengo particolarmente significativi, onde mostrare l’incremento generale delle entrate e delle spese (questi bilanci, come quelli della Fondazione Minich, che verranno riportati più sotto, sono tratti dai Verbali delle adunanze private o del consiglio di presidenza dell’Istituto, serie tuttora prive di numerazione archivistica. Per cui l’eventuale studioso che voglia saperne di più, dovrà chiedere questi registri al personale dell’Istituto, che gli risponderà: «No go idea. Però pol darse che i sia dessora. El vegna che lo fasso parlar co [...]». Dopo di che il funzionario amministrativo glieli porgerà con tutta gentilezza, trovandosi i Verbali proprio nell’armadio di fronte al suo tavolo di lavoro):
Tab. 4. Bilanci consuntivi dell’Istituto (1945-1980) (Lire) Anni Entrate Uscite Differenza 1945/46 754.326,50 754.174,65 + 151,85 1948/49 5.290.012 5.300.060 - 10.048 1955/56 7.986.203 8.036.591 - 50.388 1965/66 12.107.711 12.721.740 - 614.029 1966/67 27.483.773 16.867.209 + 10.616.564 1967/68 34.858.885 19.573.977 + 15.284.908 1968/69 38.832.431 17.462.804 + 21.369.627 1969/70 47.456.152 24.505.889 + 22.950.263 1970/71 55.984.895 30.690.724 + 25.294.171 1971/72 34.986.549 30.995.646 + 3.990.903 1973/74 34.383.127 35.602.443 - 1.219.316 1974/75 39.379.329 39.271.460 + 107.869 1975/76 38.365.996 33.191.361 + 5.174.635 1976/77 54.060.270 61.292.188 - 7.231.918 1979/80 84.873.143 83.355.002 + 1.518.141
Due parole di commento. Cosa emerge da queste cifre? Che sin circa alla metà degli anni Sessanta, con le presidenze Gola (1946-1952), Checchini (1952-1963) e la prima Marzolo (1963-1965), l’Istituto ebbe difficoltà a far quadrare i conti, pur vivendo in un regime di strette economie; donde carenza d’iniziative e — quale immancabile corollario — la disaffezione dei soci, che frequentano poco. A nulla serve l’aumento del gettone di presenza, portato nel ’52 a 1.000 lire per i veneziani e a 1.500 per i non residenti, ché il 20 ottobre ’56 manca il numero legale e non si può eleggere la presidenza; allora il beneficio del rimborso, previsto per i soli membri effettivi dalla volontà dell’ottimo mecenate Angelo Minich, il 29 novembre ’69 viene esteso pure ai soci corrispondenti, ma neppure questo escamotage vale a riempire le sale di palazzo Loredan: anzi, il 20 novembre 1971 il conte Alessandro Marcello presenta le dimissioni dall’incarico di amministratore, senza peraltro che si riesca a eleggere chi lo sostituisca, sempre per quella benedetta mancanza del numero legale. E allora il 20 maggio ’72 il gettone di presenza passa dalle 3.000 lire cui era giunto a 5.000, ma senza incidere granché sul costume dei soci, che solo dopo il restauro della sede riprenderanno a frequentare in congruo numero le adunanze collegiali.
Ma torniamo ai bilanci di cui sopra. La seconda metà degli anni Sessanta e gli inizi del successivo decennio vedono un incremento delle entrate a fronte delle uscite, sicché si assiste ad un accumulo del fondo di cassa. Questo viene accantonato in previsione dei restauri: infatti, quando essi hanno inizio, i residui attivi si attenuano o addirittura spariscono.
Sopra ho riportato il bilancio consuntivo per l’a.a. 1979-1980; per tale epoca possediamo pure il bilancio preventivo, approvato in data 17 dicembre 1978. Lo riporto in forma succinta:
Tab. 5. Bilancio preventivo dell’Istituto per l’anno 1979 (Lire) Entrate Uscite Sussidio governativo 40.000.000 Stampa «Atti» 32.000.000 Integrazioni ministeriali 20.000.000 Stampa «Memorie» 6.500.000 Vendita pubblicazioni 5.000.000 Acquisto mobili 7.000.000 Contributi per la stampa 7.200.000 Biblioteca e cancelleria 4.400.000 Ritenute erariali personale 5.000.000 Stipendi personale 25.300.000 Riscaldamento, luce 3.950.000 Varie 5.800.000 Totale 77.200.000 Totale 84.950.000
I costi del personale (benché allora — ripeto — ridottissimo) e delle pubblicazioni costringevano al rosso i bilanci dell’Istituto, che però poteva contare sulla sua Fondazione Minich. Come ho già avuto modo di dire, i registri che ne riportano l’attività sono indecorosamente ammucchiati in alcuni scatoloni al pianterreno di palazzo Loredan, per cui — ai fini del presente lavoro — mi sono servito dei consuntivi riportati negli stessi Verbali sopra ricordati.
La serie non dice granché, comunque eccola, limitatamente agli anni che ho ritenuto maggiormente significativi:
Tab. 6. Bilanci consuntivi della Fondazione Minich (1953-1979) (Lire) Anni Entrate Uscite Differenza 1953 3.035.792 2.951.250 + 84.542 1957 5.703.829 3.225.394 + 2.478.435 1958 6.643.397 2.525.516 + 4.117.881 1962 10.619.406 9.870.166 + 749.240 1963 9.161.896 11.349.984 - 2.188.088 1964 8.544.463 11.891.351 - 3.346.888 1966 18.931.040 16.482.775 + 2.448.265 1970 13.356.708 13.128.965 + 227.743 1972 14.172.388 10.305.191 + 3.867.197 1973 14.541.347 10.395.548 + 4.145.799 1976 29.877.928 31.337.421 - 1.459.493 1979 87.292.963 86.770.202 + 522.761
Come si può notare, i bilanci presentano quasi sempre un attivo, tranne per gli anni 1963, 1964 e 1976. Una stringata chiosa in calce al testo accenna a «nuovi e gravi oneri fiscali che gravano sui bilanci della Fondazione Minich»; il che sarà senz’altro vero, ma in parallelo ritengo ipotizzabile qualche operazione connessa al capitale azionario, com’era avvenuto nel ’62, dove l’incremento delle entrate è giustificato con l’acconto dei dividendi delle azioni S.A.D.E. e col rialzo del tasso d’interesse corrisposto sui depositi in conto corrente dalla Cassa di Risparmio di Venezia. Anche nell’adunanza privata dei soci del 20 ottobre ’46 troviamo accennato — ma si tratta, appunto, solo di un accenno — un progetto di operazione finanziaria proposto dal consiglio della Fondazione Minich: l’amministratore Vitali suggeriva infatti la vendita di 500 azioni delle Generali del valore di 10.400 lire l’una per investire poi 6.500.000 lire in titoli di Stato, onde incrementare di 300.000 lire annue il reddito annuo, ma la proposta fu avversata da Ferrabino, non si sa con quale esito.
Di un’altra operazione concernente il pacchetto azionario, costituito in gran parte dalle Generali, troviamo notizia in data 5 gennaio ’49: l’Istituto esercita un’opzione parziale sulle 6.367 azioni in suo possesso, che saliranno a 7.659 (del valore nominale di 2.000 lire l’una), alle quali saranno da aggiungere altre 1.025 ottenute con analoga manovra sul lascito Molmenti. Altro i Verbali non ci dicono, sicché non mi resta che richiamare l’attenzione del lettore sul forte incremento quantitativo in essere, sia nei bilanci dell’Istituto che in quelli della Fondazione Minich, alla fine degli anni Settanta: un fenomeno destinato a proseguire, se è vero come è vero che nel 1984 il bilancio dell’Istituto giungeva a superare i 400 milioni. Il parallelismo, poi, riscontrabile tra le due serie sa di ovvietà, dal momento che la Fondazione Minich non ha mai avuto altro scopo se non quello di finanziare l’Istituto: ad esempio, il 14 novembre 1960 essa gli versava 1.600.000 lire così distribuite: 800.000 a disposizione della Commissione per gli studi lagunari, 300.000 per la stampa degli «Atti», 400.000 per iniziative culturali, 30.000 per il Consorzio universitario di Padova, altre 30.000 per l’Ateneo Veneto, più qualche altra cosuccia.
Il 20 ottobre 1946 terminava la gestione commissariale di Laura e subentrava alla presidenza dell’Istituto il botanico Giuseppe Gola, che provvedeva a un aggiornamento dello statuto (24 dicembre 1948), il quale realisticamente imponeva la parità numerica tra i membri delle due classi; una decina d’anni dopo (2 marzo 1960) se ne elaborava un’ulteriore versione, che portava da 40 a 50 i membri effettivi e a 100 i soci corrispondenti(18). Seguì, ovviamente, un nuovo regolamento organico del personale (approvato con decreto interministeriale 28 ottobre ’63), quindi qualche ritocchino allo statuto, che venne ripubblicato nel ’77 sulla base di una maggiore elasticità (leggi: discrezionalità) dei vincoli sino allora previsti: in particolare la nuova redazione dello statuto alzava a 60 il numero degli effettivi e prevedeva che presidente e vicepresidente appartenessero a classi diverse, così da costituire un equilibrio della linea culturale del sodalizio, con tutti i vantaggi e gli svantaggi insiti in tale scelta, tanto consona alla nostrana prassi del divide et impera. Infine un’ulteriore edizione dello statuto venne emanata dal Ministero il 29 luglio 1982, unitamente ad analogo aggiornamento del regolamento interno.
Questo rapido succedersi di adeguamenti istituzionali ha il preciso significato di una testimonianza; vuol dire che l’Istituto stava rapidamente trasformandosi in qualcosa di diverso. Del resto, in una Venezia che attraverso la Fondazione Giorgio Cini s’era ormai imposta in campo internazionale come centro culturale di grande prestigio, che nel ’70 assisteva a un ampliarsi dei tradizionali limiti di Ca’ Foscari con la nascita della facoltà di Lettere e Filosofia, che nel ’75 dava vita alla nuova giunta di sinistra Rigo-Pellicani, la quale — rientrata la ventata contestatrice — riusciva a rivitalizzare alquanto la Biennale (700.000 visitatori, nel ’76), la Mostra del cinema (con le direzioni di Rondi e poi Lizzani), la Vogalonga e persino il vecchio Carnevale; nella Venezia che nell’84 avrebbe visto aprirsi le mostre di palazzo Grassi, accolte da incredibile successo di pubblico, in questa città insomma, percorsa da dinamici impulsi, non era davvero possibile rifiutare di tenersi al passo coi tempi, ignorare il confronto.
Un’altra questione che assorbì a lungo, specie negli anni Cinquanta e Sessanta, l’attenzione della presidenza fu costituita dal dissesto finanziario della Fondazione Querini Stampalia, statutariamente sottoposta sin dagli esordi alla tutela dell’Istituto. La guerra, infatti, aveva decurtato le rendite dei titoli del debito pubblico da essa posseduti; inoltre il suo patrimonio era in gran parte rappresentato da immobili e terreni agricoli posti nelle vicinanze di Mestre e San Donà di Piave, in zone cioè investite dallo sviluppo industriale facente capo a Marghera. Donde innumerevoli espropri da parte delle Ferrovie dello Stato, delle società autostradali, dell’aeroporto, dell’Enel, degli stessi consorzi di bonifica; bene che andasse, le superstiti proprietà agrarie si ritrovavano smembrate, divise al loro interno da strade, binari, tralicci elettrici: la modernizzazione del paese finiva insomma per decurtare pesantemente i proventi dell’agricoltura, già di per sé non lautissimi. Pertanto sin dal novembre 1950 dietro iniziativa di Gatto e Ponti s’era tenuta una riunione di parlamentari veneziani per vedere di risolvere il problema, ma senza troppo costrutto, tant’è vero che il 31 maggio 1953 l’Istituto doveva approvare la vendita di uno dei gioielli della Fondazione, ossia la villa Querini di Mestre. Il fatto è che la Fondazione voluta dal conte Giovanni andava inesorabilmente trasformandosi in una biblioteca comunale, perdendo parte della propria autonomia gestionale. Si avrebbe avuto, in compenso, lo splendido restauro architettonico di Scarpa(19) e la valorizzazione della Pinacoteca (nel rinnovato palazzo a S. Maria Formosa i soci dell’Istituto Veneto avrebbero tenuto un’adunanza celebrativa dell’evento, il 21 marzo ’65), ma perplessità e riserve non sarebbero mai venute meno, come provano le proteste del rappresentante (e allora amministratore) dell’Istituto in seno al consiglio direttivo della Querini, Luigi Polacco, espresse il 23 ottobre ’71 e tradotte il 20 febbraio ’72 in un ordine del giorno dell’assemblea dei soci di palazzo Loredan, con cui si raccomandava al direttivo della Fondazione che «le somme ricavate dagli espropri e vendite […] non debbano in nessun modo essere impiegate per spese di personale o di beni di consumo» e si invitava la stessa dirigenza «a fornire al più presto indicazioni precise circa l’impiego di tali somme», appunto. Ma della Querini altri, in questo stesso volume, si occupa con maggior attenzione e competenza rispetto a questa mia breve incursione, cui pongo fine.
Nel quadro accademico delle Tre Venezie, l’Istituto è oggi, con ogni probabilità, l’elemento più dinamico e ricco di iniziative, e non solo di quelle. Esso infatti ha saputo amministrare al meglio le risorse fornitegli non solo dalle amministrazioni pubbliche, ma soprattutto da tanti privati benemeriti della cultura, Minich e Molmenti in testa. Non si tratta, ovviamente, di semplice buona sorte, ma dei frutti di un prestigio poggiante sul connubio di un’ormai lunga attività scientifica con una peculiare tradizione di stile fatto di signorilità e discrezione (benché a volte, va pur detto, un po’ narcisisticamente perseguito); inoltre l’Istituto è — come sempre fu — l’unico organismo interdisciplinare in cui confluiscono le emergenze scientificamente più qualificate della macroregione veneta; è l’unica istituzione che da quasi due secoli ospita dibattiti e pubblica volumi aperti alle due culture, quella scientifica e quella umanistica, onde può chiamare a presiederlo un Diego Valeri o un Augusto Ghetti, senza che tale scelta risulti a detrimento, neppure parziale, dell’altro settore di interessi.
Per quanto riguarda un sommario bilancio del Novecento, si può dir questo: che il secolo inizia e si conclude con due momenti di grande vitalità per il nostro sodalizio; due periodi di fioritura culturale inframezzati tuttavia da lunghi decenni di ripiegamento e silenzio.
All’aprirsi del XX secolo, e sin quasi alla prima guerra mondiale, le sale di palazzo Loredan sono frequentate da una pattuglia di grandi personalità: nel 1908, ad esempio, tra i membri dell’Istituto troviamo infatti un Almerico Da Schio, un Giovan Battista De Toni, un Antonio Favaro, e ancora Antonio Fogazzaro, Andrea Gloria, Paolo Lioy, Luigi Luzzatti, Pompeo Molmenti, Nicolò Papadopoli, Nino Tamassia, Emilio Teza, Giuseppe Veronese. È a costoro, egregiamente coadiuvati da colleghi d’alta levatura (avrei dovuto nominare l’intero organico), che si devono le imprese di Gerola e Magrini, splendide pagine nella storia dell’Istituto.
L’intervallo fra le due guerre registra invece una duplice caduta, di tono e di attività, all’interno dell’Istituto. A porre la sordina alle belle iniziative d’un tempo furono anzitutto le gravi difficoltà finanziarie causate dalla concomitante morsa delle ridotte contribuzioni governative e dell’inflazione che spingeva al rialzo ogni voce di spesa; v’è poi da aggiungere la sofferta concorrenza — talora tradottasi in espliciti attacchi sulla stampa — delle nuove mode culturali che s’imponevano nella Venezia di Cini e Volpi, capitale internazionale di una mondanità incentrata sulla Mostra del cinema, la Biennale, il Casinò. Va da sé, inoltre, che la stessa vita interna dell’Istituto non mancò di risentire i condizionamenti, occulti e palesi, imposti dal regime fascista: sicché, a mo’ di sintesi, si potrebbe dire che lo scatto di fierezza intellettuale esibito nell’aver conservato Benedetto Croce nel novero dei soci (e fu l’unica accademia a farlo, in Italia) venne poi compensato dall’apposizione di una lapide celebrativa della fondazione dell’Impero, collocata sulla facciata di palazzo Loredan, proprio accanto al portale d’ingresso.
Nel corso della seconda guerra mondiale, la sede dell’Istituto venne requisita prima dai repubblichini e poi dai partigiani, con danni e guasti incalcolabili agli arredi, al materiale librario, alla struttura stessa degli spazi interni; da ultimo, il bombardamento aereo del 21 marzo ’45 distrusse quel che restava, ossia soffitti e vetrate.
In queste condizioni, la ripresa del dopoguerra ricalcò quella di venticinque anni prima, lenta e faticosa. Soprattutto, la sede necessitava di un restauro integrale, anche statico; l’alta marea del 4 novembre ’66 aggravò poi la situazione dell’intera città, e quindi anche di palazzo Loredan.
Dunque il ripristino architettonico, l’atteso grande intervento realizzato tra la fine degli anni ’70 e gli inizi del successivo decennio; l’acquisizione di questa preliminare necessità, assieme al superamento psicologico di certi estremismi sessantottini — che in tutto il mondo durarono un anno, ma qui da noi un decennio e passa, investendo anche le strutture accademiche più esclusive(20) — costituirono le premesse per la rinascita dell’Istituto.
Dopo di che, dal 1983 insomma, tutto fu diverso; come per un colpo di bacchetta magica, l’Istituto si scoprì facoltoso e dinamico, imprimendo nuovo impulso ai vari settori di sua competenza con una disponibilità di idee e soluzioni, con una larghezza di vedute per l’addietro impensabili: basti pensare all’attività editoriale, che ha assunto un ritmo elevatissimo, sconosciuto nel passato, rinnovando anche esteticamente la veste grafica e promuovendo un’ampia diffusione della sua produzione.
Ma questo discorso non tocca a me farlo.
1. Oltre al saggio Istituzioni di cultura, inserito nella trattazione ottocentesca di questa Storia di Venezia, ricordo il lavoro che ho dedicato ai primi 150 anni della storia dell’Istituto e al quale mi rifaccio qui ampiamente: L’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti dalla rifondazione alla seconda guerra mondiale (1838-1946), Venezia 1996, che per essere diviso in capitoli e paragrafi, con un’Appendice che riporta Regolamenti e Statuti, organico e statistiche dei membri, statistica delle letture effettuate, biografie dei membri effettivi, elenchi dei premi d’industria e dei concorsi scientifici, numerazione e intitolazione delle buste costituenti l’archivio dell’Istituto, cronologia, indice dei nomi; per il fatto insomma di presentarsi essenzialmente come una sorta di manuale di rapida consultazione, confido possa esimermi da ulteriori rinvii a esso nelle pagine che verranno. Lettura preliminare — ma fondamentale, specie per quanto riguarda la sede di palazzo Loredan nei suoi aspetti storico-artistici e i restauri che in essa vennero recentemente effettuati — il volume miscellaneo Palazzo Loredan e l’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia 1985.
2. G. Gullino, L’Istituto Veneto, pp. 163, 172-175.
3. Era andata così: la Società Storica Friulana aveva manifestato la sua aspirazione al governo nel ’16, quando le nostre truppe erano entrate a Gorizia e Aquileia. A Roma calma piatta sino a generoso soprassalto fulmineamente tradottosi in assenso: il tutto dopo Caporetto. Temprata da siffatta esperienza, la Deputazione veneta prese le contromosse e negli anni a seguire riuscì a estendere la sua giurisdizione sulla Venezia Giulia, l’Istria, Zara e il Trentino. Una dettagliata ricostruzione della vicenda è stata recentemente fornita da Mario De Biasi, La Deputazione veneta di storia patria e le terre redente dopo il primo conflitto mondiale, «Archivio Veneto», ser. V, 186, 1998, pp. 121-136 (la citazione da me riportata si trova a p. 121).
4. Mario Isnenghi, I luoghi della cultura, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, p. 333 (pp. 233-406). Ai fini del presente discorso, e più in particolare per un inquadramento critico del ruolo svolto dalle accademie nella nostra regione dopo l’Unità, v. le pp. 317-340.
5. Ricci Curbastro insegnò per quasi mezzo secolo (1880-1925) Fisica matematica a Padova; qui egli — come ha scritto Ventura — «elaborando il ‘calcolo differenziale assoluto’, consentiva a Albert Einstein di formulare in linguaggio matematico la teoria della relatività, come lo stesso Einstein riconobbe in un discorso tenuto nel 1921 all’Ateneo patavino» (Angelo Ventura, Padova, Roma-Bari 1989, p. 277).
6. Id., Vincenzo Crescini dal liberalismo al nazional-fascismo, in Omaggio a Gianfranco Folena, Padova 1993, pp. 1889-1916.
7. Id., Padova, p. 252.
8. Per quanto concerne la biblioteca, la risposta dell’Istituto venne affidata al segretario Bordiga, che così si espresse nell’annuale relazione di chiusura dell’a.a. 1925-1926: «Ottantatremila volumi, ottocento e più riviste e pubblicazioni periodiche, tutto un tesoro della produzione scientifica moderna, deve essere meglio ordinato e più comodamente reso utile agli studiosi. Deve; ma se il pubblico sapesse che non siamo capaci di trovare gli impiegati perché il Governo li ha posti nell’ultimo grado della gerarchia statale, senza speranza di salire più su, forse quel pubblico, che ama e vuole le pronte risoluzioni, perdonerebbe al nostro involontario ritardo» («Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 85, 1925-1926, p. 141). Su Gino Damerini (1881-1967), «appassionato interprete della venezianità», «mediatore critico fra memoria e modernità», ascoltiamo Isnenghi: «Il vecchio Molmenti aspira ancora negli anni Venti a farne il suo erede in quanto ‘difensore di Venezia’ e custode del passato, e non vuole accorgersi che la generazione di Damerini ha scelto altri e ben più audaci equilibri fra memoria ed oblio, tanto da esprimere dalle proprie file industrialisti e pontisti; Damerini stesso agisce sin da prima della guerra nell’orbita nazionalista di Foscari e industrialista di Volpi; è stato interventista e combattente, non — come lui, Molmenti, e del resto anche Grimani — tentato dal neutralismo» (Mario Isnenghi, Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 419-420 [pp. 405-436]).
9. Sulle travagliate vicissitudini della sede della Deputazione, cf. Mario De Biasi, La Deputazione di storia patria per le Venezie dalle origini ad oggi (1873-1995), Venezia 1995, pp. 31-41.
10. Ad esempio, solo nell’inverno 1954-1955 la sala di lettura fu dotata di un impianto di riscaldamento. Un’esaustiva storia e descrizione del materiale in essa conservato, in Giorgio E. Ferrari, La Biblioteca dell’Istituto: eredità e prospettive, in Palazzo Loredan e l’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia 1985, pp. 83-99.
11. Per questi dati, G. Gullino, L’Istituto Veneto, rispettivamente pp. 201 e 49.
12. Se ne doleva amaramente Lazzarini con l’amministratore Fabio Vitali, al quale così scriveva in data 23 giugno 1945: «Così, con metodo direi fascista, fu sciolta la nostra presidenza. La prego, caro collega, di firmare d’ora innanzi per il presidente; io non firmerò più [...]. Lei giudichi come furono premiati il nostro lavoro disinteressato, i nostri risultati; onorato di appartenere alla presidenza dal dicembre del 1921, so come devo giudicare quelle persone che prepararono la cosa» (ibid., pp. 169-170). In postumo omaggio a Lazzarini, insigne medioevista e filologo che ebbe nel figlio Lino un continuatore appassionato e competente, il Centro per la storia dell’Università di Padova ha ora dedicato il volume Maestri scolari amici. Commemorazioni e profili di storici e letterati a Padova e nel Veneto alla fine dell’Ottocento e nel Novecento, a cura di Giorgio Ronconi-Paolo Sambin, Trieste 1999 (bio-bibliografia alle pp. 3-37).
13. Naturalmente le cose non filarono così lisce: nella relazione conclusiva dell’a.a. 1976-1977, il presidente Rostagni non esitava a definire «argomento doloroso e sconcertante» i continui rinvii dell’inizio dei lavori, che si protraevano ormai da cinque anni, vanificando i contratti di appalto resi inattuali, nelle more dell’applicazione, dall’inflazione allora fortissima, sì da far ritenere «una pietosa commedia» la tanto «decantata» legge speciale del ’73 («Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Parte generale e Atti ufficiali», 136, 1977-1978, p. 92). A partire dall’a.a. 1974-1975 la «Parte generale», con gli atti ufficiali dell’Istituto, fu pubblicata con fascicolo separato; d’ora in avanti citerò questa nuova serie nella forma abbreviata «Atti», seguita dal numero d’ordine e dall’indicazione dell’anno accademico. Sull’intervento di restauro statico-conservativo degli anni 1978-1982, Alberto Albertini, Le forme architettoniche di palazzo Loredan a Santo Stefano, in Palazzo Loredan e l’Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti, Venezia 1985, pp. 42-49 (pp. 35-51); cf. anche: Venezia, Archivio dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, b. n.n. «Restauri sede Istituto [...] dal 1964». Fra il novembre ’82 e il marzo ’83 le adunanze dei soci furono tenute presso il Centro di cultura di palazzo Grassi, per impraticabilità della sede ov’era in corso la sistemazione degli uffici.
14. Dietro questo tentativo di coordinamento culturale si può scorgere il malessere della tradizionale cultura accademica, da anni sottoposta agli attacchi della contestazione, che qui in Italia visse un lunghissimo crepuscolo. Il ’78 non era stato solo l’anno del rapimento di Aldo Moro: l’Istituto venne attaccato direttamente, nella persona di Ezio Riondato, colpito alle gambe nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova.
15. «Atti», 143, 1983-1984, p. 91.
16. Il 16 aprile 1967 il presidente annunciava ai soci che il Comune di Venezia aveva «finalmente» versato 3 dei 6 milioni promessi sin dal ’65, onde contribuire alla stampa dei tre volumi dedicati a Il problema veneto e l’Europa. 1859-1866, curati da Roberto Cessi per il centenario dell’annessione.
17. «Atti», 140, 1981-1982, pp. 118-119.
18. Non era stata fulminea l’idea di un nuovo statuto; per trovarne la genesi bisogna infatti risalire a quanto deliberato dai soci addì 6 febbraio 1955. Considerano infatti costoro, dopo matura riflessione, che l’Istituto «massima Accademia della regione veneta, deve far convergere nel suo seno gli studiosi più eminenti della regione, e tener presente che essa comprende [...] anzitutto l’Università di Padova, che negli ultimi decenni ha avuto un notevole sviluppo nelle sue specializzazioni ed aumento dei suoi docenti. Né va dimenticato che in Venezia, dopo la fondazione del nostro Istituto, si sono affermati ed hanno avuto notevole incremento l’Istituto Universitario di Economia e Commercio con le due facoltà di Scienze economiche e di Lingue, l’Istituto Universitario di Architettura, il Comitato talassografico, l’Istituto di Studi Adriatici, la Fondazione Giorgio Cini, e che recentemente venne restituita alla patria la città di Trieste con la sua università. Mantenere l’attuale numero dei membri e dei soci vorrebbe dire escludere a priori molte discipline da una degna rappresentanza nel Collegio accademico» (Venezia, Archivio dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, XIII Registro dei Verbali delle adunanze private, ad diem).
19. V. il bel volume miscellaneo Carlo Scarpa alla Querini Stampalia. Disegni inediti, a cura di Marta Mazza, Venezia 1996.
20. Denunciava esplicitamente il bel primato italico Antonio Rostagni, nella relazione annuale del 13 giugno 1976: «Tutti auspichiamo che la cultura si diffonda, che si innalzi il livello generale dell’istruzione, cioè della capacità di comprendere e di pensare autonomamente. Ma intendiamo che ciò debba avvenire per elevazione progressiva di chi si trova culturalmente più in basso [...]; non certo abbassando i livelli superiori, troncando quelle punte più elevate che rappresentano speranza e garanzia per i progressi futuri. Se l’Università [...] in Italia più che in altri Paesi del mondo occidentale sta attraversando quella crisi che già ho ricordato [...], rimangano almeno le Accademie e le altre istituzioni di alta cultura ad assicurare quella continuità che, una volta interrotta con una caduta verso il basso, sarebbe tanto più difficile ristabilire» («Atti», 134, 1975-1976, p. 83). Due anni dopo un membro dell’Istituto, Riondato, veniva «gambizzato», come allora si diceva (cf. n. 14).