Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Volto e metropoli, stati d’animo e paesaggio, scena e realtà; il cinema europeo esprime molte personalità di formazione e provenienza diverse, ma tutte straordinariamente sensibili a queste dimensioni che il cinema sembra in grado di esprimere in modi del tutto originali, e come per la prima volta.
La pratica realizzativa di Dziga Vertov , nome d’arte di Denis Kaufman, autore vicino a Majakovskij e al futurismo si esprime in modo del tutto originale rispetto alle ricerche formaliste sul montaggio. Fin dagli anni immediatamente successivi alla rivoluzione, Dziga Vertov si impegna in un radicale e ambizioso progetto di ridefinizione della funzione sociale del cinema. Contrario al "film recitato" in ogni sua forma – da quella convenzionale dei film americani a quella più sperimentale praticata da Ejzenstejn e altri registi sovietici – Vertov vede nel cinema una macchina dotata di una capacità percettiva enormemente più acuta di quella umana e nel montaggio il mezzo per concatenare i punti di vista di una pluralità di soggetti. Il cinema, che per Vertov non è arte né spettacolo, è quindi l’unico medium che può consentire l’"autocomunicazione" della collettività, dandogli la possibilità di autorappresentarsi e di conoscersi nella sua molteplicità costitutiva. Su questi presupposti si basa tutto il lavoro di Vertov: dai cinegiornali d’attualità Kinonedeljia (Cinesettimana) e Kinopravda (Cinema verità), che documentano con partecipazione tutta la prima fase del processo rivoluzionario, all’emozionante "corsa della macchina da presa" attraverso l’Unione Sovietica offerta in Sestaja čast’ mira (La sesta parte del mondo, 1926), che interpreta la propaganda come scoperta etnografica dei tanti popoli e culture che formano il nuovo Paese, fino all’ultimo grande affresco sviluppato, utilizzando per lo più materiali d’archivio, in Tri pesni o Lenin (Tre canti su Lenin , 1934). Avvalendosi della collaborazione di straordinari operatori (i kinoki, "cineocchi"), Vertov agisce soprattutto in fase di montaggio per organizzare i vari materiali, affiancato in questo lavoro da una delle più grandi montatrici di tutti i tempi, sua moglie Elisaveta Svilova. Con lei e gli altri kinoki promuove un’associazione che si propone di diffondere tra i lavoratori non solo le immagini, ma la stessa pratica del cinema, nella convinzione che l’alfabetizzazione al linguaggio cinematografico sia l’unica cura per la miopia in cui da sempre gli sfruttatori hanno tenuto le masse, privandole innanzitutto della possibilità di avere un’immagine adeguata di se stesse. Al posto di cinefavole Vertov vuole un cinema che riveli "la vita colta in flagrante". Questa visione viene esposta nel modo più lirico ed emozionante in Celovek s Kinoapparatom (L’uomo con la macchina da presa), uscito nel 1929, quando il regista è già nel mirino delle accuse di "formalismo" che gli costeranno ben presto l’isolamento e l’emarginazione professionale. Girato dal fratello di Vertov, l’atletico operatore Michail Kaufman, e programmaticamente basato sull’effetto di straniamento, ben descritto dai formalisti russi e da Sklovskji in particolare, il film inventa una città che non esiste assemblando immagini di Mosca e di altre località, per farne il set di un evento tutto cinematografico del quale l’uomo con la macchina da presa (lo stesso Michail Kaufman, ripreso durante il suo lavoro e sovrimpresso a numerose immagini del film) è l’eroe, colui che sfida mille pericoli per permettere agli spettatori di una sala di riconoscere se stessi sullo schermo.
Il film di Vertov si inserisce in un piccolo filone di opere che conosce una certa fortuna nei tardi anni Venti, nel quale il montaggio creativo di riprese documentaristiche viene impiegato per descrivere poeticamente la vita di una città in una giornata qualsiasi. Inaugurata da Alberto Cavalcanti nel 1926 con Rien que les heures (Nient’altro che le ore), dedicato a Parigi, questa particolare interpretazione del film di montaggio attira registi diversamente attivi nel campo documentario come il tedesco Walter Ruttmann e il suo Berlin, Symphonie einer Grosstadt (Berlino, sinfonia di una grande città, 1927), l’olandese Joris Ivens (Regen, 1929, su Amsterdam) e in Francia, il giovanissimo Jean Vigo, che nel 1929 si dedica a uno scanzonato ritratto di Nizza (A propos de Nice) in compagnia di un altro fratello di Vertov, Boris Kaufman.
Fin da questo primo film, il talento di Vigo (e di Kaufman, che lo assisterà in qualità di operatore lungo tutta la sua breve carriera) appare in tutta la sua originalità. La capacità descrittiva, la sensibilità per il dettaglio imprevisto, la libertà di osservazione di fronte a una realtà non preordinata mostrano già un’inflessione da inchiesta sociale, da analisi critica del mondo contemporaneo, in modi che sembrano quasi anticipare quelli del cinema diretto. Vigo esplicita chiaramente i suoi intenti in occasione della seconda proiezione del film, in una conferenza intitolata Vers un cinéma social, in cui espone la sua visione del film come documento sociale e insieme come luogo d’espressione di un preciso punto di vista d’autore. Rimasto orfano a 12 anni in seguito alla morte in carcere del padre (un giornalista anarchico accusato nel 1917 di alto tradimento), cresciuto in collegio e affetto da tubercolosi, Vigo si impegna nella pratica cinematografica con una dedizione e una passione assolute, lottando contro il tempo per portare a termine i suoi progetti. Dopo l’ulteriore studio documentario compiuto in Taris ou la natation (Taris, o del nuoto, 1931), sensibile ritratto del nuotatore Taris, sperimenta per la prima volta la messa in scena e la narrazione in Zéro de conduite (1931), che racconta, con grazia e freschezza incomparabili, l’esplosione di una rivolta in un collegio. In questo film, che viene rapidamente censurato come opera "antifrancese", la messa in scena di Vigo esibisce una capacità singolare di fare emergere particolari significativi anche nei totali, come pure di valorizzare il carattere individuale dei singoli personaggi attraverso la loro reciproca interazione, integrando con naturalezza la dimensione sonora in uno stralunato realismo che ha i colori del sogno, o dell’utopia. Ciò vale anche per il suo capolavoro, L’Atalante (1934), altro film "maledetto" e censurato, nel quale Vigo, già molto malato, concentra tutti i doni del suo immenso talento. Coniugando l’intimismo di una movimentata storia d’amore con la descrizione minuziosa di un milieu popolare ospitato a bordo di un barcone, l’autore osserva i suoi strampalati e tenaci personaggi con tenerezza, riservando loro molti primi piani di fattura tecnica magistrale, come soprattutto quelli di Jean Dasté e Dita Parlo nella celebre sequenza subacquea. Vigo muore a soli 29 anni, pochi mesi dopo l’uscita del film, sfinito dai contrasti con i produttori e amareggiato per il sequestro della pellicola, avvenuto subito dopo le prime proiezioni.
Se la dimensione privilegiata da Vigo è quella dell’affresco o del romanzo collettivo, il cinema di Carl Theodor Dreyer si risolve tutto nella messa in scena di uno spazio mentale o spirituale. Il film più rappresentativo da questo punto di vista è La Passion de Jeanne d’Arc (1928), in cui la tragica vicenda della santa condannata al rogo dall’Inquisizione è resa quasi esclusivamente per mezzo di primi piani e dettagli dei volti dei personaggi, di un’attenzione microscopica ai segni involontari della vita interiore. Dreyer usa il montaggio per frantumare lo spazio e ricomporlo su un altro piano, quello del vissuto interiore, ma tale operazione si sviluppa a partire da una cura meticolosa, addirittura filologica, nella costruzione scenica e nella preparazione degli attori, che vuole improntare a un rigoroso realismo, che trova la sua espressione più sofferta nella scena della rasatura del capo di Giovanna, realmente subita di fronte alla cinepresa dall’interprete Renée Falconetti.
Nella misura in cui si esercita su uno spazio concreto e ben determinato allo scopo di dissolverlo, il montaggio praticato da Dreyer è essenzialmente sottrattivo o decostruttivo, così lontano dalla logica costruttiva del découpage hollywoodiano (o sovietico) da suscitare perfino l’ammirazione di un nemico del montaggio come André Bazin. Questo stile, che ha uno dei suoi tratti distintivi nell’uso dei raccordi aberranti (si pensi ad esempio alla soggettiva impossibile di Vampyr, 1934, in cui la sepoltura del protagonista è ripresa dal suo stesso punto di vista, all’interno della bara), si raffina ulteriormente nelle opere della maturità, Vredens Dag (Dies irae, 1943), Ordet (1954), Gertrud (1964), producendo uno spazialità sempre più rarefatta e una temporalità straniata, paradossale. In esse lo stile visivo limpido e rigoroso di Dreyer è messo al servizio di una ricerca che si rivela straordinariamente coerente anche sul piano tematico, in un percorso sistematico di analisi delle forme religiose e sociali del potere che mette a fuoco innanzitutto la capacità di resistenza di coloro, donne e folli, che le subiscono.