Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
È a partire dal IV secolo che compaiono i primi esempi di preghiere in poesia espresse in canto, la cui forma più avanzata sarà quella degli inni liturgici. Saranno accolti dalla Chiesa di Roma solo nel XII secolo, ma si impongono in altri contesti celebrativi, come i riti processionali. A questa modalità espressiva l’alto Medioevo affianca anche quelle dei versus monodici e la sequenza, introdotta per rispondere alle esigenze nate dall’uso del rito romano nella liturgia franca in epoca carolingia.
Nella seconda metà del IV secolo, nell’Occidente latino appaiono le prime testimonianze di una particolare forma poetica, quella “poesia salmodica” (Wolfram von den Steinen) che sfocerà nella produzione degli inni liturgici.
In Ilario di Poitiers la preoccupazione di difendere la teologia affermata dal concilio di Nicea (325) prevale sull’afflato lirico. Nell’ampio inno abecedario (ogni strofa inizia con una lettera dell’alfabeto secondo la successione abc...), Ante saecula qui manens, la complessità delle proposizioni dogmatiche e il difficile linguaggio non favoriscono la diffusione della composizione e il suo uso nella liturgia.
Ben diversa è la produzione del vescovo di Milano, Aurelio Ambrogio.
Nella dozzina di poemi che gli sono riconosciuti, egli sceglie una scorrevole struttura metrica costituita da otto strofe con ciascuna quattro versi in dimetri giambici (otto sillabe in cui si alternano valori brevi e lunghi). Per esprimere profondi contenuti teologici e per dare voce ad un’appassionata fede in Cristo, Ambrogio con maestria inserisce immagini scelte con notevole forza incisiva. Nella preghiera delle lodi all’alba di ogni giorno, la comunità con Ambrogio canta Cristo-luce rivolgendosi al Signore in modo diretto con la seconda persona:
Splendor paternae gloriae
de luce lucem proferens
lux lucis et fons luminis
diem dies illumina
Splendore della gloria paterna
che irradi luce da luce
luce di luce e fonte di luminosità
giorno che illumini il giorno
Le composizioni nascono con una musica che contribuisce al loro successo. Gli inni santambrosiani accattivano l’assemblea, si diffondono presto in tutto il territorio europeo e diventano il modello più familiare e seguito nella successiva produzione innodica.
Due problemi ancora irrisolti riguardano la musica degli inni. Nella produzione santambrosiana, e anche nella massima parte degli inni medievali, non è sempre possibile individuare la melodia che potrebbe risalire all’autore dei testi. Vale a dire che le attribuzioni riguardano principalmente, se non in modo esclusivo, i testi letterari, non la musica che rimarrebbe d’autore anonimo. Per quanto concerne l’esecuzione, non è escluso che gli inni siano stati cantati con valori ritmici differenziati, con note brevi e lunghe corrispondenti alle sillabe del testo. Mancano testimonianze al riguardo: una delle più antiche fonti, che in maniera inequivocabile illustra il fattore ritmico dell’innodia, risale soltanto alla fine del XIV secolo. Nel codice d’Oristano (Aula Capitolare, P. XIII, 25r) si può osservare l’alternanza tra note brevi (rombi) e lunghe (quadrati).
Maggiormente legato alla latinità classica di quanto sia Ambrogio, è un altro poeta cristiano, Aurelio Clemente Prudenzio. D’origine ispanica, ha prodotto due ampie raccolte di inni: Cathemerinon con 12 inni per le ore della giornata e Peristephanon con 14 inni in onore di martiri. Differenti redazioni di frammenti poetici costituiscono tra l’VIII e il X secolo il corpus innodico di Prudenzio che ha avuto accoglienza nella liturgia. L’eco dell’opera santambrosiana affiora in alcuni testi, come nell’inno che sarà cantato alle lodi del martedì:
Ales diei nuntius
lucem propinquam praecinit
nos excitator mentium
iam Christus ad vitam vocat
L’araldo alato del giorno
canta la luce vicina;
risveglia le menti
Cristo che ci richiama alla vita
Contemporaneo di Prudenzio è il poeta Celio Sedulio, di cui rimane un poema abecedario che racconta la vita di Gesù Cristo in 23 strofe “ambrosiane”. Il testo delle prime strofe è stato estratto dal poema originale per formare due inni molto diffusi per celebrare il Natale (A solis ortus cardine) e l’Epifania (Hostis Herodes impie). Si presenta qui forse per la prima volta il procedimento di dividere un testo originale in due o più sezioni che divengono autonome, fenomeno che nel tempo riguarda sia i salmi sia gli inni.
La produzione innodica è accolta nella liturgia delle Ore di alcune Chiese cattedrali e nell’ordine monastico fondato da san Benedetto di Norcia. Non accoglie l’innodia – o forse l’abbandona subito dopo qualche sporadica sperimentazione – la Chiesa di Roma. Nell’Urbe gli inni iniziano a essere cantati soltanto alla fine del secolo XII. Ciò non impedisce al genere letterario-musicale di affermarsi regolarmente anche in altri contesti celebrativi. Ad esempio, l’inno entra a far parte di numerosi riti processionali e subisce pertanto qualche modifica strutturale esigita dalle azioni peregrinanti. Di solito l’inno processionale si distingue da quelli usati nella liturgia delle Ore a causa di un ritornello: una strofa che s’intercala alle strofe successive. Il ritornello poteva facilmente essere imparato a memoria dall’assemblea che lo cantava alternandolo alle strofe eseguite da un solista.
Tra gli inni processionali di maggior diffusione e in parte ancora oggi presenti nella liturgia si annoverano varie composizioni estrapolate dai poemi di Venanzio Fortunato, nativo di Valdobbiadene e vescovo di Poitiers. In particolare sono da segnalare gli inni che celebrano la santa croce (Crux benedicta nitet, Vexilla regis prodeunt), mentre incerta è l’attribuzione del carme processionale pasquale Salve festa dies. Nell’inno scelto per l’adorazione della croce il venerdì santo, Pange lingua gloriosi proelium certaminis, il metro trocaico tetrametro catalettico riecheggia il ritmo incalzante del versus quadratus delle legioni romane in marcia.
Pange lingua gloriosi proelium certaminis
et super crucis tropeum dic triumphum nobilem
qualiter redemptor orbis immolatus vicerit
Celebra, o lingua, la vittoria del combattimento glorioso
e racconta del nobile trionfo davanti al trofeo della croce
in che modo il Redentore del mondo, pur vittima, abbia vinto
Dopo alcuni secoli, san Pier Damiani s’ispira all’opera di Venanzio. L’inno alla croce Crux benedicta nitet serve da modello per il ritmo XCIII della raccolta damianea Unica spes hominum. È questo un carme paratterico: le medesime parole iniziano e concludono ogni strofa. Tra i ritmi di Pier Damiani Unica spes hominum è tramandato senza musica. Essa si può recuperare, con un certo grado di probabilità, dalla tradizione manoscritta dell’inno Crux benedicta nitet:
Unica spes hominum crux o venerabile signum
omnibus esto salus unica spes hominum
Unica speranza degli uomini, o segno venerabile,
sii la salvezza per tutti, unica speranza degli uomini.
Nel solco della migliore tradizione poetica si colloca Paolino II, patriarca d’Aquileia. Teologo e ammirato poeta alla corte carolingia, Paolino ha spaziato in vari generi poetici, dal planctus – genere coltivato in seguito anche da Abelardo – ai ritmi, dagli inni ai versus per circostanze diverse, come il poema abecedario De paenitentia. Nel tempo molti spezzoni di poemi del patriarca d’Aquileia sono stati assunti nella liturgia. Il brano più conosciuto sono i versus composti per un sinodo ecclesiastico a Cividale verso il 796, con il ritornello Ubi caritas est vera (et amor) ibi Deus est.
Teodulfo, vescovo d’Orléans, ha scritto poemi per il periodo pasquale e due elegie In adventu regis. La sua memoria è legata a una serie di versus processionali che dal Medioevo a oggi risuonano durante la Domenica delle Palme: Gloria laus et honor. Il testo acclamatorio e dossologico è tramandato con varie melodie. Una è particolarmente diffusa in Italia:
Gloria laus et honor tibi sit rex Christe redemptor
cui puerile decus prompsit osanna pium
Gloria lode e onore a te, o re, Cristo redentore
a te l’entusiasmo giovanile ha rivolto il pio osanna
Una forma innovativa nella liturgia carolingia e presto diffusa ovunque è la sequenza. Evidenti sono le relazioni con l’innodia. Entrambi i canti sono strofici. Mentre l’inno ha tutte le strofe con identica struttura metrica (a a a...), dopo un periodo di sperimentazioni, la sequenza raggiunge la propria fisionomia definitiva. Essa prevede coppie di strofe (aa bb cc...), alle quali spesso si aggiungono una strofa isolata all’inizio e una alla fine (a bb cc dd... z). Di conseguenza, mentre tutte le strofe di un inno si cantano su un’unica melodia, le sequenze hanno una melodia propria per ciascuna coppia di strofe.
Con la sequenza, nella seconda metà dell’VIII secolo si cerca di rispondere a due esigenze sentite in modo forte del mondo franco. 1) In una liturgia eucaristica dominata quasi totalmente da canti con testi tratti dalla Bibbia, le nuove composizioni offrono la possibilità di esprimere la teologia e la sensibilità culturale-estetica secondo un linguaggio più immediato. La sequenza dà voce ai contenuti più profondi dello spirito umano che fino allora erano espressi con melodie senza parole. 2) La sequenza, inoltre, offre l’opportunità di facilitare la tradizione a memoria e in regime d’oralità di lunghissimi melismi (sequentiae) inseriti dopo gli Alleluia e altri brani melismatici. Il procedimento adottato prevede di inserire sotto le singole note del vocalizzo la sillaba di un nuovo testo.
Nella sua prosa poetica la sequenza rivela alcune particolarità che ne segnano il cammino. Nei brani più antichi le strofe finiscono tutte sulla vocale “a”, quasi per prolungare l’eco dell’alleluia. Notker Balbulus, e altri autori di testi sequenzali, sono talora attenti a far coincidere il numero delle sillabe delle singole parole con il numero delle note musicali espresse dalle figure neumatiche che tramandano i vocalizzi.
Alla fine di un lungo percorso, nel XII secolo le sequenze riceveranno una profonda impronta dalla cultura parigina e dalla scuola di San Vittore. Le strofe sono costruite con ottonari e settenari, presentano inoltre una serie di rime e si muovono con frequenti salti melodici, fino allora praticati se non di rado.