Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’industria culturale è il frutto di un incontro fra molteplici fattori. Alla base del suo sviluppo rapidissimo durante il XX secolo si trovano lo straordinario impulso dell’innovazione tecnologica (la tipografia, la radio, il cinematografo, la televisione, il computer), l’affermarsi di un mercato capitalista ormai solido e maturo e il nuovo stile di vita delle popolazioni metropolitane. La crescita della cultura di massa, però, oltre ad aver introdotto forme nuove come il fumetto, la canzone di consumo, la programmazione televisiva, tutte meritevoli di un’interpretazione seria e fondata su metodologie specifiche, ha anche suscitato, negli anni Sessanta e Settanta, un intenso dibattito etico fra fautori e detrattori della cultura industriale. Durante gli ultimi decenni, invece, l’industria culturale ha subito nuove trasformazioni passando a quella fase che si usa definire società dell’informazione.
Walter Benjamin
L’irripetibilità dell’opera d’arte
Anche nel caso di una riproduzione altamente perfezionata, manca un elemento: l’hic et nunc dell’opera d’arte - la sua esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova. Ma proprio su questa esistenza, e in null’altro, si è attuata la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo durare. In quest’ambito rientrano sia le modificazioni che essa ha subito nella sua struttura fisica nel corso del tempo, sia i mutevoli rapporti di proprietà in cui può essersi venuta a trovare. La traccia delle prime può essere reperita soltanto attraverso analisi chimiche o fisiche che non possono venir eseguite sulla riproduzione; quella dei secondi è oggetto di una tradizione la cui ricostruzione deve procedere dalla sede dell’originale.
L’hic et nunc dell’originale costituisce il concetto della sua autenticità. Analisi di un genere chimico della patina di un bronzo possono essere necessarie per la constatazione della sua autenticità; corrispondentemente, la dimostrazione del fatto che un certo codice medievale proviene da un archivio del secolo XV può essere necessaria per stabilirne l’autenticità. L’intero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica - e naturalmente non di quella tecnica soltanto.
Ma mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, che di regola viene da esso bollata come falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica. Essa può, per esempio mediante la fotografia, rilevare aspetti dell’originale che sono accessibili soltanto all’obiettivo, che è spostabile e in grado di scegliere a piacimento il suo punto di vista, ma non all’occhio umano, oppure, con l’aiuto di certi procedimenti, come l’ingrandimento o la ripresa al rallentatore, può cogliere immagini che si sottraggono interamente all’ottica naturale. È questo il primo punto. Essa può inoltre introdurre la riproduzione dell’originale in situazioni che all’originale stesso non sono accessibili. In particolare, gli permette di andare incontro al fruitore, nella forma della fotografia oppure del disco. La cattedrale abbandona la sua ubicazione per essere accolta nello studio di un amatore d’arte; il coro che è stato eseguito in un auditorio oppure all’aria aperta può venire ascoltato in una camera.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1999
Si potrebbe pensare che l’arte e la meccanizzazione si escludano a vicenda. Un atto artistico è un atto creativo, unico e irripetibile, mentre l’essenza stessa di un evento meccanico sta nel fatto che esso possa venir ripetuto senza bisogno di ricorrere ad alcun talento individuale. La cultura moderna ha smentito questa opposizione apparentemente irriducibile, dimostrando che il connubio fra tecnica e cultura non solo è possibile ma può addirittura risultare inarrestabile, al punto da modificare radicalmente sia il modo di fare arte, musica e letteratura, sia il modo di intenderle e di giudicarle. Il nuovo ambiente in cui tecnica e cultura convivono con successo è detto industria culturale o cultura di massa. I problemi posti dalla crescita febbrile, a partire dalla fine dell’Ottocento, dell’industria culturale sono naturalmente molto più complessi e socialmente stratificati di quelli legati alla sola storia tecnologica dei mezzi di produzione. Questo fenomeno molteplice ha alle sue spalle, per esempio, le ragioni economiche del profitto capitalista e dunque anche le metamorfosi del lavoro, l’affermarsi di una nuova idea di merce, la nascita di un nuovo pubblico fatto di consumatori benestanti e fortemente interessati a riempire il loro tempo libero, ma intanto è importante comprendere che ci sono volute alcune invenzioni tecniche perché si potesse parlare di cultura industriale.
A rigor di logica storiografica si dovrebbe far coincidere l’inizio di questo processo di integrazione e mutamento con la “nascita dell’uomo tipografico”, per riprendere l’espressione con cui lo studioso canadese Marshall McLuhan ribattezza, in un’opera assai influente dal titolo di Galassia Gutenberg (1962), l’inizio dell’era tecnologica della parola stampata, simboleggiata appunto dall’invenzione del torchio a caratteri mobili compiuta da Johannes Gutenberg intorno al 1450. Secondo McLuhan, la tipografia in quanto prima meccanizzazione di un’arte manuale, la scrittura, genera una vera e propria trasformazione antropologica; oltre a proporre la produzione di una merce “ripetibile”, il nuovo medium rende più omogeneo l’uso del linguaggio, modifica i rapporti fra i sensi dell’individuo (il visuale e l’auditivo), e permette la diffusione di nuove forme di potere sulla collettività e l’opinione pubblica. Stando sempre al pensiero di McLuhan la fase della cultura tipografica tramonta intorno al 1900, quando l’editoria viene definitivamente “invasa” dall’immagine cinematografica e dai mezzi di comunicazione elettronica. Così, a un primo periodo dominato dalla tipografia, avrebbe fatto seguito un secondo influenzato soprattutto dai cosiddetti “media caldi”, quelli cioè che richiedono a un solo senso di arrivare a un’alta definizione percettiva, come fa la radio con l’udito o il cinema con la vista, e infine un terzo momento condizionato dai “media freddi”, o a bassa definizione sensoriale, come la televisione o il telefono, che possono trasmettere molte informazioni ma in modo percettivamente approssimativo. È anche vero, però, che i nuovi media elettronici, con le loro trasmissioni in diretta capaci di stringere in uno stesso momento temporale grandi masse di pubblico lontane nello spazio, finiscono poi per introdurre innovazioni anche più penetranti, come per esempio il diffondersi di un’immagine del mondo simile a un villaggio globale.
Le conseguenze dell’innovazione tecnologica quindi costituiscono uno degli elementi di base per la storia dell’industria culturale, dove non a caso un valore molto forte viene attribuito alla ricerca del sempre nuovo, dell’effimero, della moda. Occorre sottolineare, però, che fin dalle sue origini rinascimentali il rapporto fra tecnica e cultura si è sempre svolto sotto l’influenza diretta del capitalismo. Un veterano in materia, il sociologo Lewis Mumford, studioso attento dell’assimilazione fra macchina e uomo durante i primi decenni del Novecento, spiega lucidamente che il ruolo svolto dai capitali economici è stato almeno duplice. Anzitutto lo sviluppo capitalista ha introdotto modificazioni profonde nella vita delle città, sia modificando le abitudini dei lavoratori, i quali presto avrebbero dovuto alternare i momenti di produzione dei beni con quelli del loro consumo, sia favorendo l’affermarsi di vere e proprie ideologie collegate alla logica degli “affari”, come per esempio l’idea che qualsiasi aspetto dell’esperienza quotidiana rientri in una logica di mercato e che quindi tutto sia vendibile o acquistabile. In secondo luogo è proprio il capitalismo a spingere verso un’accelerazione sempre più marcata dei processi produttivi, favorendo così il diffondersi di un’idea di valore legata esclusivamente alla quantità e al calcolo astratto.
Nell’epoca della macchina, insomma, le pratiche artistiche e culturali da una parte si impadroniscono delle forme di produzione industriale, rendendole duttili alle loro nuove esigenze, dall’altra ne vengono assorbite diventando così delle merci che devono convivere alla pari con gli altri prodotti di consumo. Come ha chiarito un grande filosofo e scrittore tedesco, Walter Benjamin, questo duplice rapporto finisce per creare delle conseguenze politiche. In un saggio nato come pamphlet antifascista, ma ben presto affermatosi come un vero e proprio classico sulla cultura nella società meccanizzata – l’eloquente titolo del testo era L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) –, Benjamin coglie un parallelismo profondo fra quella che chiama “l’estetizzazione della politica”, ovvero i modi in cui i gerarchi totalitari riescono a sfruttare il potenziale dei nuovi mezzi di comunicazione per imporre il loro carisma oscuro sulle masse popolari, e le possibilità offerte agli artisti dai nuovi mezzi di riproduzione e diffusione delle loro opere. Una cosa di cui ogni autore moderno appare ben consapevole, infatti, è che a un certo punto la sua opera dovrà essere esposta sotto gli occhi del pubblico, ne dovrà subire il gusto e il giudizio. Per questo la produzione artistica e letteraria deve escogitare forme e stili espressivi capaci di attirare l’attenzione e suscitare l’interesse delle masse, esercitandosi in particolare sui loro momenti di distrazione e divertimento. Questa ricerca di un contatto con il pubblico determina la possibilità per le opere artistiche e letterarie di svolgere una concreta azione politica. La riproducibilità tecnica estingue l’autonomia dell’arte, la emancipa dalle pratiche rituali e individualiste, favorendo così il suo inserimento attivo e diffuso negli spazi della società democratica.
“Una fabbrica del disimpegno”, così l’intellettuale berlinese Siegfried Kracauer definisce l’industria culturale europea degli anni Trenta e Quaranta. La forza dell’immagine di Kracauer, lettore appassionato di romanzi polizieschi, ma anche sociologo acutissimo degli spazi urbani e della vita impiegatizia, sta nell’effetto di stupore e straniamento generato dall’unione di due idee come la “fabbrica”, il luogo dell’alienazione e dell’antiumanesimo, e il “disimpegno”, qualcosa di libero e spensierato. L’accostamento sintetizza brillantemente i dubbi etici ed estetici suscitati dalla crescita della cultura di massa. Si può davvero produrre disimpegno? e quali sono le conseguenze e gli obiettivi di una simile fabbrica?
In quegli anni difficili, sottomessi a una propaganda battente e abilmente maliziosa nell’approfittare delle voglie popolari di svago e ricreazione, la modernizzazione ha comunque imboccato una strada maestra e anche il mondo dell’arte e della cultura ne sono ormai settori attivi. L’industria cinematografica vive il suo periodo di massimo splendore. Secondo le statistiche, a Hollywood come in Europa non si sarebbero mai più prodotti tanti film nel periodo fra le due guerre e il pubblico non avrebbe fatto altro che diminuire fino a oggi. Le metropoli, da Palermo a Berlino, sono invase dalle Kursaal, delle specie di grandi magazzini del divertimento, e appaiono rinnovate dalle rivoluzioni ornamentali dell’architettura, che sta trasformando gli alberghi e i locali in strutture pronte per il futuro turismo di massa. Gli editori cominciano a parlare in senso tecnico di “libri di successo” (bestsellers, steadysellers, longsellers) sforzandosi di identificare sempre meglio il loro pubblico. E ben presto, infatti, i grandi numeri dei casi editoriali avrebbero lasciato spazio alla pianificazione dei prodotti seriali, come i romanzi rosa, o a prodotti di nicchia come i fumetti, così come, di lì a poco, la televisione sarebbe sbarcata anche in Europa, affermandosi insieme come strumento di divulgazione e come veicolo di un intrattenimento che sconfina nel gioco di società – in Italia i primi programmi si dividono fra il teatro, gli sceneggiati d’autore e l’informazione ma le fortune della neonata televisione italiana, appena dopo la sua fondazione nel 1954, sono fatte da produzioni come il Lascia o raddoppia di Mike Bongiorno. Se a questo si aggiungono l’esplodere del fenomeno pubblicitario e l’affinamento delle armi retoriche degli slogan è facile capire perché l’industria culturale diventi ben presto un oggetto di cui si sente il bisogno di discutere.
Come osserva un testimone attento della cultura letteraria ed editoriale europea, il romanziere italiano Italo Calvino, all’indomani della seconda guerra mondiale, con il boom economico dell’Europa industriale, può apparire di essere entrati in una “ belle époque inaspettata”, in un’età di progresso euforico, lampante e duraturo che sul piano concreto dei modi espressivi ha però comportato anche la scelta di nuovi modelli di rappresentazione del mondo. Fra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Sessanta sono molti i letterati italiani che si pongono il problema del rapporto con l’industria. Franco Fortini, Giovanni Giudici, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi sono alcuni degli scrittori coinvolti dall’imprenditore Adriano Olivetti nel “Movimento Comunità”, secondo il quale la fabbrica deve essere concepita e realizzata come un centro virtuoso del corpo sociale e non solo come un meccanismo alienante. Ma il dialogo e le polemiche coinvolgono anche riviste come “Officina” di Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi, correnti poetiche come la Neoavanguardia, e figure indipendenti come il poeta Vittorio Sereni o il narratore Luciano Bianciardi. Fra opere creative e interventi critici, la rivista che più favorisce il dialogo su questi temi è “Il menabò” (con questo termine si indica nell’editoria il modello provvisorio di impaginazione) fondata da Calvino e da Elio Vittorini nel 1959. Il numero 4 del “Menabò”, uscito nel settembre del 1961, è un fascicolo monografico intitolato per intero al tema “Letteratura e industria”.
Il dibattito, in realtà, è stato aperto due anni prima da una serie di interventi di Elémire Zolla, un saggista di raffinata cultura filosofica che prima alla radio e poi in un volume fortunato, Eclissi dell’intellettuale (1959), ha sottoposto a una dura critica morale il rapporto fra industria e letteratura, o meglio la letteratura industriale, come egli si esprime mutuando il termine dal critico dell’Ottocento francese Auguste de Sainte-Beuve. Secondo Zolla, il processo di produzione industriale non lascia scampo. Il suo esito più nefasto è la soppressione dell’individualità, ben esemplificata dai criteri di leggibilità e trasparenza richiesti alla scrittura giornalistica oppure dall’intervento dell’industria editoriale sui romanzi destinati alla pubblicazione, che non solo vengono fabbricati secondo formule stereotipe, come in fondo è sempre avvenuto nelle forme narrative popolari, ma devono passare attraverso numerose riletture, correzioni e vere e proprie riscritture operate da anonimi redattori al fine di prepararli per un adeguato avviamento commerciale presso il pubblico. L’arte autentica si vede così relegata ai margini dall’eccesso di sovraproduzione industriale.
Di parere ben diverso è Umberto Eco, in quegli anni molto vicino alle posizioni della neoavanguardia, che in un libro pubblicato nel 1964, ma in buona parte pensato anche come una risposta alle posizioni di Zolla, sottopone la cultura delle comunicazioni di massa a un’analisi molto approfondita e pluriprospettica che ha il merito di fare il punto della situazione sulle diverse posizioni espresse in campo internazionale. Il libro di Eco, però, fa scalpore soprattutto perché per la prima volta in Italia sottopone a uno studio serio, sistematico e improntato a metodologie specifiche molti prodotti cosiddetti low brow, ovvero classificati ai gradi più bassi della scala di valori culturali: fumetti come Superman, strisce come i Peanuts di Charles Monroe Schulz, generi paraletterari come la fantascienza, prodotti di puro entertainment come la musica di consumo e la televisione. Fra gli altri risultati positivi ottenuti dallo studio di Eco vi è la diffusione di un vero e proprio lessico specializzato per una teoria della cultura di massa. La differenziazione dei livelli di cultura, il kitsch, l’audiovisivo sono tutti concetti che Eco contribuisce in modo decisivo a far uscire dalla cerchia ristretta dei massmediologi, ma è anzitutto il titolo del libro, Apocalittici e integrati, a entrare nell’immaginario collettivo, introducendo una distinzione destinata a diventare un’espressione di uso corrente, un’opposizione quasi proverbiale. L’apocalittico vede nella cultura un fatto aristocratico, la gelosa coltivazione di un’interiorità che si affina e si differenzia dalla folla. Per lui (come per Zolla o sul piano internazionale il filosofo Adorno) il solo pensiero di “una cultura condivisa da tutti, prodotta in modo che si adatti a tutti” è qualcosa di mostruoso, una realtà catastrofica di cui si può fornire solo un resoconto estremo, sull’orlo dell’abisso. L’integrato, invece, dà alla cultura di massa una risposta ottimistica: se la televisione, il giornale, la radio, il cinema, il fumetto, il Reader’s Digest mettono i beni culturali a disposizione di tutti allora stiamo vivendo in un’epoca di “allargamento dell’area culturale” o semplicemente di sviluppo democratico.
Come si dovrebbero comportare dunque un intellettuale, un poeta, un romanziere nei confronti dell’industria culturale? Secondo il poeta e saggista tedesco Hans Magnus Enzensberger, in prossimità degli anni Sessanta è necessario intanto passare dalle descrizioni dell’industria culturale considerata come un insieme di settori specializzati a una riflessione sul suo funzionamento complessivo. Il primo passo è cambiarle nome, non più industria culturale ma “industria della coscienza”, perché questo chiarisce meglio che essa non solo non produce nulla di materiale ma non è neppure interessata a produrre profitto. L’industria della coscienza ha come unico vero obiettivo il controllo dei rapporti di potere che legano le persone in modo da far accettare a tutti lo stato di cose in cui vivono, condizionando insomma il giudizio e l’opinione dei cittadini. Il paradosso, conclude Enzensberger nelle sue Questioni di dettaglio (1962), è che dopo un secolo di questa industria immateriale, gli intellettuali non possono più chiamarsene fuori, non possono confrontarsi con essa dall’esterno. L’unica cosa che resta da fare è accettare la sfida e i rischi di quest’industria con il massimo possibile di responsabilità, in quanto chiunque presti la propria opera nello spazio pubblico della televisione, dei giornali o dell’editoria, comunque si comporti, mette sempre in gioco qualcosa di più di se stesso.
Nello stesso periodo anche un sarcastico e geniale moralista italiano, Franco Fortini, afferma che il rapporto fra letteratura e industria è un problema da affrontare dall’interno. Fortini suggerisce agli scrittori di non farsi da parte ma di essere invece Astuti come colombe (1962), secondo il titolo di un suo importante intervento dove si chiarisce che “l’industria non produce soltanto oggetti ma rapporti umani e idee” e quindi contiene in se stessa, ovvero nella stessa possibilità di produrre idee e rapporti onesti la possibilità per un suo superamento. Per farlo, la cosa più importante per un intellettuale è agire in modo attivo e non passivo all’interno delle strutture industriali, quindi tutto il contrario di chi pretende di chiamarsi fuori. In modo forse anche più lungimirante di Fortini anche Pier Paolo Pasolini all’inizio degli anni Settanta descrive limpidamente il modo in cui la mutazione antropologica allora in corso tende sempre più ad affermarsi come “omologazione” della cultura e della vita collettiva. Secondo quanto si legge negli Scritti corsari (1975), l’organizzazione moderna della cultura di massa è direttamente legata al consumo e dunque finisce per mettere in forte crisi tutti quei poteri, come il moralismo ecclesiastico e patriottico, fondati su una forte differenziazione verticale di valori e condizioni sociali.
Tanto l’omologazione di Pasolini quanto l’industria della coscienza proposta da Enzensberger vogliono suggerire l’idea di un passaggio di fase, l’inizio di un diverso modello di cultura industriale caratterizzato dalla sua capacità di inglobare velocemente e senza problemi anche i fenomeni della cosiddetta controcultura, quelli per esempio legati alle contestazioni marxiste o al Sessantotto. Ad ascoltare i situazionisti, un movimento d’avanguardia attivo fino agli anni Settanta, è addirittura necessario produrre delle strategie di sopravvivenza, delle pratiche capaci di sovvertire lo stato di passività contemplativa imposto dalla “società dello spettacolo”, secondo la nozione introdotta nel 1967 dal pensatore francese Guy Debord, direttore appunto dell’Internazionale Situazionista. Ci si sta avviando, insomma, verso una società in cui risulta centrale l’idea di rappresentazione, ovvero le operazioni di riproduzione, codificazione e diffusione della comunicazione. Come ha osservato uno dei massimi sociologi del XX secolo, Niklas Luhmann, nella società dell’informatica e dell’informazione il modello di interazione non prevede più il contatto fisico, il faccia a faccia, ma solo l’inserimento delle notizie e dei dati in sistemi di memorie ad accesso più o meno libero: si afferma così la nuova realtà dei mass media. Ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo sempre dai mass media, e questo non vale solo per la nostra conoscenza della società e della storia ma ormai anche per la nostra conoscenza della natura.