L’immagine di Costantino nelle fonti arabe
Il primo imperatore cristiano nello specchio dell’islam
Gli storici arabi medievali condividono con i loro colleghi bizantini il punto di vista secondo cui, nella secolare vicenda dell’Impero romano, il regno di Costantino segna il passaggio dalla storia antica a una storia nuova: dall’epoca dei mulūk al-Rūm ‒ «gli imperatori romani» ‒ si passa a quella dei mulūk al-Rūm al-mutanaṣṣarah ‒ «gli imperatori romani convertiti al cristianesimo», con i quali gli arabi avranno a che fare fino alle soglie dell’epoca moderna. È dunque comprensibile che la figura di Costantino, primo sovrano cristiano e fondatore di quella Costantinopoli che fu per secoli l’obiettivo principale delle campagne militari musulmane contro l’impero bizantino, assuma nelle fonti arabe un notevole rilievo, divenendo in qualche modo il simbolo del grande Impero nemico dell’islam e il perno della riflessione musulmana sulla storia, sulla politica, sulla religione e sulla cultura dei Rūm (così sono chiamati romani e bizantini nelle fonti islamiche)1. Nelle opere storiche musulmane il confronto con cristianesimo e giudaismo è un tema ricorrente della narrazione sugli imperatori romani; si può anzi affermare che per molti autori arabi la storia dell’antica Roma acquisti senso solo quando essa entra in contatto con le due grandi religioni monoteiste. Appare, infatti, evidente come la grande maggioranza di costoro si soffermi quasi esclusivamente sugli imperatori la cui attività abbia influito sulle questioni religiose, mentre degli altri si limita a fornire nome e anno di regno: così sono ad esempio ricordate la nascita di Cristo sotto Augusto, la presa di Gerusalemme da parte dei Flavi, la rivolta giudaica sotto Adriano, e poco altro. Ovviamente, in tale scelta gli storici arabi sono in parte condizionati dalle loro fonti – soprattutto cronache siriache –, che riportano principalmente proprio questo tipo di notizie, ma è chiaro che essi aderiscono profondamente all’organizzazione selettiva del sapere storico operata dai testi ai quali attingono: in effetti, per gli storici islamici la dialettica fra potere romano, giudaismo e cristianesimo non è altro che una tappa verso quel cammino di salvezza che troverà il suo culmine nell’affermazione dell’islam. Di conseguenza, la vicenda dell’Impero cristiano tende a identificarsi con quella della Chiesa e dei suoi concili ecumenici, e la storia di Roma e di Bisanzio viene ad assumere le fattezze di un’impalcatura su cui si dispongono gli eventi-chiave della storia della salvezza (ascensione di Cristo, persecuzione dei cristiani, martirio degli apostoli, etc.). In quest’ottica riveste appunto particolare importanza la figura di Costantino, l’imperatore che abbandonò ufficialmente la ‘religione dei sabei’2, cioè i culti pagani, per aderire al cristianesimo; si vedrà però che non tutti gli storici musulmani accetteranno senza discutere la vulgata sulla sua conversione.
Il primo storico arabo a tracciare un profilo biografico di Costantino è Ya‘qūbī (morto prima del 905 d.C.), autore della più antica storia universale islamica pervenutaci, nella quale è dato ampio spazio agli aspetti culturali che caratterizzano le civiltà preislamiche3. Ya‘qūbī ricorda come Costantino si allontanasse dalle dottrine greche per quelle cristiane, muovendo per questo guerra ai suoi consanguinei, e dà ampli ragguagli ‒ i primi di tutta la letteratura araba ‒ sul sogno dell’imperatore alla vigilia della battaglia di ponte Milvio e sulla convocazione del concilio di Nicea:
Il primo che regnò tra i re dei Rūm e si allontanò dalle dottrine greche per quelle cristiane fu Costantino; e fu per questo che egli mosse guerra contro dei consanguinei e vide in sogno come se dei giavellotti scendessero dal cielo con su di essi delle croci, e quando si svegliò portò sulla sua lancia le croci, e guerreggiò e vinse, e questa fu la causa della sua conversione; e sostenne la religione della cristianità e edificò le chiese e riunì i vescovi da tutti i paesi per organizzare la religione della cristianità. E ci fu la loro prima adunanza, e si riunirono a Nicea trecentodiciotto vescovi e quattro patriarchi: il patriarca di Alessandria, il patriarca di Roma, il patriarca di Antiochia e il patriarca di Costantinopoli; e il motivo per cui Costantino li convocò fu che, quando egli si convertì e il cristianesimo prese stanza nel suo cuore, volle fare ricerche e conoscere e comprendere le dottrine dei suoi adepti; e reperì tredici articoli, e fra questi una sentenza che diceva che il Messia e sua madre erano due dei; e un’altra che diceva che egli deriva dal Padre come la fiamma di un fuoco si separa dalla fiamma di un fuoco e che la prima non subisce diminuzione per il distacco dalla seconda; e un’altra sentenza diceva che egli era diventato Dio; e un’altra diceva che egli era il suo servo; e un’altra diceva che il suo corpo umano era una visione, come Matteo e i suoi compagni; un’altra diceva che egli era la Parola; un’altra che egli era il Figlio, e un’altra che era Spirito eterno; un’altra diceva che era il figlio di Giuseppe, e un’altra che era profeta tra i profeti, e un’altra diceva che era di natura divina e di natura umana. Costantino riunì trecentodiciotto vescovi e quattro patriarchi, e non ce n’erano altri in quell’epoca. E il patriarca di Alessandria diceva che il Messia era divino e creato; e quando si riunirono rifletterono su ciò e fu stabilita tutta la dottrina della nazione: affermarono che il Messia è figlio del Padre prima della Creazione, ed egli è della natura del Padre e non menzionarono lo Spirito Santo e non attestarono che esso fosse creatore e non creato; e tuttavia richiamarono l’attenzione sul fatto che il Padre è Dio e che il figlio è Dio da lui, e andarono via da Nicea. Costantino regnò cinquantacinque anni4.
L’interesse di Ya‘qūbī per la figura di Costantino è tutto connesso alla sua attività religiosa e ai problemi legati al concilio (d’altra parte, quelle sulle vicende conciliari saranno le uniche informazioni fornite dall’autore a proposito degli imperatori cristiani fino a Eraclio), al punto che egli ‘dimentica’ persino di accennare alla fondazione di Costantinopoli. Al contrario, Ṭabarī, l’‘imām’ della storiografia universale musulmana5, assai diffidente verso le culture non islamiche, dedica a Costantino solo poche righe della sua cronaca, ma la creazione della nuova capitale imperiale è la prima notizia a essere considerata degna di menzione6, seguita da quelle della sua conversione al cristianesimo, della cacciata degli israeliti dalla Palestina e dell’inventio crucis:
Costantinopoli […] fu fondata dall’imperatore Costantino, il primo ad abbracciare la Cristianità. Egli bandì gli israeliti che restavano dalla Palestina e dalla Giordania, perché – come diceva – costoro avevano ucciso Gesù. Costantino trovò la croce lignea sulla quale essi credevano che Cristo fosse stato crocifisso, e di conseguenza i Romani la venerarono e la collocarono fra i loro tesori, dove rimane fino a oggi7.
Uno dei racconti più estesi sulle imprese di Costantino conservato dalla tradizione arabo-islamica è quello di Mas‘ūdī, l’‘Erodoto degli Arabi’, il principale rappresentante della nuova storiografia dell’età abbaside, secolarizzata e aperta alle altre culture, autore dei Murūǧ al-ḏahab wa ma‘ādin al-ǧawhar (I prati d’oro e le miniere di gemme), vera e propria ‘enciclopedia’ storico-geografica dedicata alla storia dei popoli conosciuti. Scrive dunque Mas‘ūdī:
Dopo la morte di Diocleziano, Roma ebbe per sovrano Costantino, che adorava gli idoli. Costantino fu il primo dei re romani a trasportare la sua residenza da Roma a Bisanzio, cioè a Costantinopoli. Egli costruì questa città e le diede il suo proprio nome, fino a oggi. Mentre fondava Costantinopoli, temendo l’attacco di un re persiano della razza di Sāsān, entrò in relazioni con alcuni capi dei Burǧān, relazioni delle quali sarebbe interessante parlare. Era sul trono da un anno, quando abbandonò la città di Roma e abbracciò il cristianesimo. Nel settimo anno del suo regno, Elena, sua madre, visitò la Siria, vi fondò molte chiese, poi si recò a Gerusalemme, e cercò la trave sulla quale, secondo la credenza dei cristiani, sarebbe stato crocifisso il Messia. Quando la ebbe in suo possesso, ella la coprì di ornamenti d’oro e d’argento e consacrò questa scoperta con una festa chiamata festa della Croce, che cade il quattordici di settembre. È in questo giorno che in Egitto ha luogo l’apertura delle chiuse e dei canali, cosa di cui parleremo più oltre, nel capitolo dedicato alla descrizione dell’Egitto.
La stessa regina costruì a Emesa la chiesa su quattro pilastri che è una delle più meravigliose costruzioni del mondo; essa esumò le ricchezze e i tesori nascosti in Egitto e in Siria per fondare chiese e consolidare la religione cristiana. Così, tutte le chiese di Siria, d’Egitto e del paese di Rūm devono la loro origine a questa regina Elena, madre di Costantino, e si trova il suo nome tracciato sulla croce in ogni chiesa da lei costruita. La lettera hā non esiste nell’alfabeto greco, e il nome di Hilānī [Elena] è composto da cinque lettere: la prima è inflessa, e il suo valore numerico è cinque; la seconda lettera è un lām, e vale trenta; la terza, essendo un’altra ā inflessa, vale cinque; la quarta, che è un nūn, vale cinquanta, e la quinta, che è un yā, vale dieci, e la somma di tutto ciò fa cento. Ecco la forma della parola che, nell’alfabeto greco, rappresenta il numero cento.
Il diciannovesimo anno del regno di Costantino, figlio di Elena, fu illustrato da un’assemblea di trecentodiciotto vescovi che si riunirono a Nicea nel paese dei Rūm, per deliberarvi sulle dottrine cristiane. Si trattò della prima delle sei grandi assemblee delle quali i Rūm fanno menzione nelle loro preghiere, e che chiamano canoni; la parola che, in greco, designa queste assemblee è ‘sinodo’. La prima, quella di Nicea, formata dal numero di vescovi che abbiamo indicato, fu diretta contro Ario; le sue decisioni sono unanimemente accettate dai cristiani, sia melkiti sia orientali […], che […] il popolo chiama nestoriani; i giacobiti ammettono ugualmente questo primo sinodo. Il secondo, in cui fu condannato Macedonio, ebbe luogo a Costantinopoli, e cinquecento vescovi vi assistettero. Il terzo, composto da duecento persone, fu tenuto a Efeso; il quarto, composto da seicentosessanta persone, a Calcedonia. Il quinto sinodo, con centosessanta partecipanti, ebbe luogo a Costantinopoli, e il sesto, con duecentottantanove partecipanti, nella medesima città. Più oltre, fornendo la successione dei re di Rūm, torneremo su questi sinodi e segnaleremo le cause che assicurarono il trionfo del cristianesimo sul culto degli idoli e delle immagini.
Ecco in quali circostanze Costantino decise di adottare la fede cristiana. Egli faceva la guerra ai Burǧān o ad altri popoli, e la fortuna delle armi, indecisa per un anno, aveva finito per dichiararsi contro di lui. Una gran parte della sua armata era perita, ed egli temeva una disfatta completa, quando vide in sogno discendere dal cielo delle lance ornate di pezzi di stoffa e di drappi e sormontate da croci, le une in oro, le altre in argento, in ferro, in rame e ornate di ogni sorta di pietre preziose. Nello stesso tempo, una voce gli gridava: «Prendi queste lance e attacca i tuoi nemici: sarai vincitore». Nel suo sogno egli dirigeva queste armi contro il nemico e, grazie all’aiuto che gli era dato, lo metteva in rotta e lo costringeva a fuggire. Al suo risveglio, Costantino ordinò di porre in cima a molte lance il segno che aveva visto in sogno, e le fece portare in testa alla sua armata; poi egli attaccò l’armata nemica, la mise in rotta e la massacrò. Ritornò allora a Nicea e si informò presso persone assai istruite se simili croci esistessero in una qualsiasi religione o setta. Fu reso edotto del fatto che la setta che aveva adottato questo segno si riuniva a Gerusalemme in Siria, e lo si mise al corrente delle persecuzioni di cui i cristiani erano stati vittime sotto i re suoi predecessori. Immediatamente egli inviò ambasciatori in Siria e a Gerusalemme; convocò trecentodiciotto vescovi che lo raggiunsero a Nicea, dove si trovava: raccontò loro ciò che gli era accaduto e fu iniziato da quelli alla conoscenza della religione cristiana. Questo fu lo scopo del primo sinodo, o, come abbiamo appena spiegato, della prima assemblea. Altri credono che Elena, sua madre, avesse già abbracciato il cristianesimo, ma che lei nascondesse la sua fede al figlio fino all’epoca in cui egli ebbe questo sogno.
Costantino morì dopo un regno di trentun anni, o, secondo un’altra versione, di venticinque anni soltanto8.
Da questa lunga e dettagliata narrazione di Mas‘ūdī, non esente da errori e imprecisioni (ad esempio, secondo l’autore, il sogno di Costantino sarebbe avvenuto nel corso della sua campagna contro i «Burǧān», cioè – probabilmente – i franchi o i goti9, mentre, come si è visto, già Ya‘qūbī sa che esso si verificò al tempo in cui Costantino muoveva guerra a «consanguinei», cioè a Massenzio, anch’egli appartenente alla stirpe dei Rūm), emerge un’immagine di Costantino piuttosto positiva. Neppure l’impulso dato dall’imperatore e da sua madre al culto della croce (vero e proprio obbrobrio per un musulmano ortodosso) suscita il minimo accenno polemico10; e tuttavia è proprio alla fine del profilo costantiniano che l’autore colloca una durissima requisitoria contro la religione cristiana, responsabile della distruzione dell’antica scienza dei greci:
Dal tempo degli antichi greci e durante i primi anni dell’impero bizantino la scienza non cessò di svilupparsi e di ingrandirsi. I saggi e i filosofi, colmati di testimonianze di rispetto e di considerazione, applicarono le loro ricerche alle scienze fisiche, allo studio dei corpi, della ragione, dell’anima, come anche al quadrivium, comprendente l’aritmetica, che è la scienza dei numeri; la geometria, che è la scienza delle superfici, cioè la handasa; l’astronomia, o scienza dei corpi celesti, e la musica, che è l’arte di strutturare i suoni. Le scienze erano in onore e godevano di un credito universale; assise su delle basi solide e grandiose, esse si elevavano ogni giorno di più, quando la religione cristiana fece la sua apparizione presso i Rūm; ci fu allora un colpo fatale per l’edificio scientifico: le sue vestigia disparvero e le sue vie si cancellarono. Tutto ciò che gli antichi greci avevano messo in luce svanì e le scoperte dovute al genio antico si alterarono11.
Lo stesso concetto, sia pure con sfumature leggermente diverse, è presente in un brano del poligrafo Ǧāḥīẓ, dove si afferma la falsità dell’identificazione dei bizantini con gli antichi greci, escogitata dai bizantini per servire ai loro scopi:
Se soltanto la gente comune avesse saputo che i cristiani e i bizantini non possiedono né sapere né chiarezza, né profondità di pensiero, ma sono semplicemente abili con le mani nel tornire il legno, nei lavori di carpenteria, nelle arti plastiche, nella tessitura del broccato di seta, allora li avrebbe radiati dalle file dei letterati ed estromessi dalla lista dei filosofi e dei saggi, perché opere come l’Organon, il De generatione et corruptione, la Meteorologia sono state scritte da Aristotele, ed egli non era né bizantino né cristiano; l’Almagesto è stato scritto da Tolomeo, ed egli non era né bizantino né cristiano; gli Elementi sono stati scritti da Euclide, ed egli non era né bizantino né cristiano; i testi medici sono stati scritti da Galeno, che non era né bizantino né cristiano; lo stesso vale per le opere di Democrito, di Ippocrate, di Platone e così via. Tutti questi sono uomini di un’unica nazione; essi sono morti, ma le tracce delle loro menti vivono ancora: essi sono i greci. La loro religione era differente da quella dei bizantini e la loro cultura era differente da quella dei bizantini. Essi erano scienziati, mentre questi sono artigiani che si sono appropriati delle opere dei greci a causa della vicinanza geografica. Essi si attribuiscono alcuni di questi libri, mentre altri li hanno adattati alla loro religione, a eccezione di quei libri greci che erano troppo famosi e dei testi filosofici che erano troppo ben conosciuti. Incapaci, poi, di cambiare i nomi di questi testi, essi affermarono che i greci non erano che una delle tribù bizantine. Essi utilizzarono le loro credenze religiose per vantare superiorità nei confronti degli ebrei, per mostrare arroganza verso gli arabi e spocchia verso gli indiani, al punto che essi in realtà dichiararono che i nostri saggi erano seguaci dei loro, e che i nostri filosofi hanno seguito il loro esempio. E questo è quanto12.
Come ha scritto Dimitri Gutas, «la retorica antibizantina e filellenica si propagò rapidamente tra gli intellettuali [...], si intensificò, divenne più specifica e raggiunse una maggiore sottigliezza»13. Ciò sembra indicare che i promotori del ‘movimento di traduzione’, coordinato dai califfi abbasidi al fine di rendere disponibile in arabo quasi tutta la letteratura scientifica e filosofica greca, la trovarono estremamente vantaggiosa per la loro causa; a un livello più generale, si può senz’altro affermare che il topos della decadenza della scienza greca provocato dall’avvento del cristianesimo fu largamente accettato come un fatto storico nella cultura abbaside, venendo a integrare la celebre tradizione araba sul trasferimento del pensiero scientifico e filosofico da Alessandria a Baghdad (riportata per esempio da al-Fārābī), che mirava a presentare la sopravvivenza della cultura greca sotto il patrocinio dell’islam come l’effetto dell’abbandono di Alessandria, decaduta e dominata dal cristianesimo, presentato come barbaro e oscurantista14.
La polemica di Mas‘ūdī, non certo casuale, non è però diretta esplicitamente contro la persona di Costantino: sembra quasi che l’autore ‒ come anche gli altri storici universali prima e dopo di lui ‒ mostri un certo ritegno nel criticare apertamente l’imperatore che guidò i Rūm fuori dalle secche del paganesimo, facendoli approdare al culto dell’unico Dio. E tuttavia alcuni indizi mostrano chiaramente che il mondo islamico medievale ha conosciuto anche una tradizione esplicitamente anticostantiniana: lo stesso Mas‘ūdī, nel Kitāb al-tanbīh wa ’l-išrāf (Libro dell’avviso e della revisione), oltre a contestare la communis opinio di una conversione di Costantino sin dal momento della sua conquista del potere, e ad affermare che essa avvenne invece molto più tardi15, riporta in proposito due versioni alternative rispetto al classico racconto del sogno, tutte incentrate sul tema della lebbra. Secondo l’autore, infatti, «molti pagani» avrebbero spiegato l’abbandono dei culti pagani e l’adesione al cristianesimo da parte dell’imperatore con il fatto che quest’ultimo sarebbe stato colpito da una grave forma di lebbra: poiché i suoi correligionari volevano deporlo, con il pretesto che i princìpi della loro religione e della loro legge negavano a un lebbroso la possibilità di regnare, Costantino si sarebbe allora rivolto ai cristiani, chiedendone l’aiuto e il sostegno, e ne avrebbe abbracciato la fede, dalla quale i lebbrosi non venivano discriminati; per «altri pagani», invece, l’imperatore avrebbe tenuta nascosta la sua malattia, rivelandola solo a un suo ministro criptocristiano: costui, dopo averlo aiutato contro i nemici che volevano deporlo e avergli dimostrato l’inutilità dei culti e delle divinità pagane, lo avrebbe infine convinto a convertirsi alla fede cristiana16.
Le due versioni riferite da Mas‘ûdî sono evidentemente una variante del celebre racconto della vicenda di Costantino lebbroso guarito da papa Silvestro attraverso il battesimo che si ritrova nei cosiddetti Actus Sylvestri, un’opera di probabile origine siro-palestinese nota in più versioni (siriaca, greca, armena, latina), che hanno conosciuto nell’età tardoantica e in quella medievale un’ampia diffusione – testimoniata da oltre quattrocento codici – e una straordinaria fortuna come testo di riferimento per i compilatori medievali e umanistici17. Il periodo in cui gli Actus Sylvestri prendono forma (intorno alla metà del V secolo d.C.) vede crescere l’opposizione alla politica religiosa inaugurata da Costantino: l’esempio più eclatante di tale ostilità (che probabilmente emergeva già nella perduta opera storica di Eunapio) è rappresentato dalla Storia nuova di Zosimo18, nella quale si sostiene apertamente un nesso consequenziale tra l’abbandono dei culti tradizionali a favore della religione cristiana e il sacco alariciano di Roma, e si accusa Costantino di aver assassinato il figlio Crispo e la moglie Fausta, cercando poi la purificazione dalle sue colpe nei riti cristiani19. Contro le rinnovate argomentazioni pagane polemizzano gli Actus Sylvestri, che ne annullano l’elemento più negativo – l’uccisione del figlio e della moglie dell’imperatore come causa determinante della conversione – e, facendo ricorso a un tema narrativo forse già noto, presentano Costantino afflitto dalla lebbra, dalla quale egli tenta di guarire attraverso il lavacro battesimale. Le due versioni di Mas‘ūdī tuttavia non collimano con quella degli Actus Sylvestri (che pure, come prova un’omelia di Giacomo di Sarūǧ, era diffusa in ambito siriaco sin dagli ultimi anni del V secolo d.C. e che ritroviamo nel Chronicon Pseudo-Dionysianum e nell’opera di Agapio), e anzi, insistendo sul carattere utilitaristico della conversione dell’imperatore, ne sembrano davvero – come d’altra parte sostiene lo stesso autore – delle varianti ‘pagane’: non è da escludere che Mas‘ūdī, che aveva una notevole dimestichezza con i ‘sabei’ di Ḥarrān, possa in qualche modo aver recuperato elementi di tradizioni anticostantiniane circolanti in tali ambienti20.
Ma la prova definitiva dell’esistenza di una corrente storiografica islamica ostile a Costantino, probabilmente connessa al periodico riacutizzarsi di tensioni politiche, religiose e militari con Bisanzio, è costituita da un passo notevolissimo del filosofo e storiografo Miskawayh, che sembra quasi anticipare il ‘revisionismo’ umanistico di Johann Löwenklau:
Costantino era ormai vecchio ed era divenuto malvagio; i Rūm volevano destituirlo e gli chiesero di abbandonare il potere. Egli allora convocò i consiglieri, ed essi gli dissero di usare l’astuzia. In quel tempo era comparso il cristianesimo, che tuttavia era ancora clandestino. I consiglieri lo esortarono a farsi cristiano, in modo da ottenere il consenso dei cristiani. La gente, quando combatte per una religione, vince sempre. Costantino fece ciò, ed ebbe la meglio sui Rūm: costruì chiese e spinse il popolo ad abbracciare il cristianesimo; spostò la capitale da Roma a Costantinopoli e il suo regno fu protetto dal cristianesimo. Così, conquistò anche la Siria, finché non apparve l’islam21.
In questo brano riecheggiano vistosamente motivi zosimiani, quali l’insistenza sull’impopolarità di Costantino, la sua rappresentazione quale tiranno, l’idea della conversione dell’imperatore come astuto stratagemma politico e la considerazione della religione cristiana come mero instrumentum regni, ma tali motivi sono probabilmente recuperati per altre vie rispetto al testo di Zosimo, cioè appunto per un tramite ‘sabeo’ e – se si tiene presente la spiccata connotazione filopersiana di Miskawayh – forse anche attraverso la tradizione sasanide, che del primo imperatore cristiano non doveva certo conservare un’immagine migliore di quella ‒ estremamente negativa ‒ di Alessandro Magno22.
Infine, il tema della conversione ‘utilitaristica’ di Costantino è ben presente nei testi degli esegeti coranici (mufassirūn), che lo utilizzano per sostenere la classica teoria islamica dell’alterazione dell’autentico messaggio di Gesù da parte dei cristiani: ad esempio, autori come ‘Abd al-Ǧabbār o Ibn Kaṯīr individuano proprio Costantino e i padri del concilio di Nicea come i responsabili dello «spregevole tradimento in base al quale la religione di Cristo fu cambiata»23, con l’aggiunta di tutti quegli elementi (culto della croce, abolizione dei tabù alimentari, istituzione di nuovi giorni festivi, corruzione delle Sacre Scritture) che costituivano motivo di scandalo per i musulmani.
Una delle più importanti opere storiche arabe dedicate alla storia greco-romana è senza dubbio il cosiddetto Kitāb Hurūšiyūš (Libro di Orosio), traduzione araba delle Historiae adversus paganos di Paolo Orosio eseguita a Cordoba nel X secolo d.C. La sua esistenza era già nota agli studiosi occidentali fin dal XIX secolo soprattutto grazie alle informazioni in merito offerte dalle fonti arabe24, ma la scoperta del testo avvenne solo all’inizio degli anni Trenta del secolo successivo. A far conoscere il Kitāb Hurūšiyūš agli studiosi di tutto il mondo fu Giorgio Levi Della Vida, che pubblicò un lungo saggio (ancora oggi fondamentale sia dal punto di vista dei contenuti sia da quello metodologico) consacrato appunto alla versione araba delle storie di Orosio25.
In generale, il Kitāb Hurūšiyūš segue la narrazione orosiana, integrandola con aggiunte tratte da altre fonti, che tuttavia non alterano in maniera significativa la struttura del racconto dello storico latino. Una delle principali eccezioni a tale ‘regola’ è costituita dal capitolo dedicato a Costantino:
Costantino, figlio di Costanzo, era pagano ed era duro verso i cristiani. Egli esiliò il patriarca di Roma, che fece un’invocazione contro di lui, ed egli fu colto dalla lebbra. Per la sua guarigione, gli prescrissero di immergersi nel sangue di fanciulli. Egli ne riunì un gran numero, ma, colto da pietà, li rilasciò. Fece poi un sogno, nel quale era invitato a seguire l’esempio del patriarca; così, lo fece tornare a Roma, e guarì dalla lebbra. Da allora, si avvicinò alla fede cristiana. Temendo l’opposizione dei suoi, partì per Costantinopoli, vi si stabilì, vi costruì vari edifici e professò pubblicamente la religione del Messia. Dovette allora affrontare l’opposizione degli abitanti di Roma. Rientrò in questa città, sottomise i suoi abitanti e professò pubblicamente la fede cristiana. In seguito, combatté contro i persiani e sottrasse loro molte province. Nel ventesimo anno del suo regno, una banda di goti invase il suo paese, devastandolo e prendendo molti prigionieri. Egli marciò contro di loro e li cacciò fuori dal paese. Poi vide in sogno dei carri e degli stendardi su dei crocifissi. Una voce diceva: «Questo è il segno della tua vittoria». Sua madre Elena andò a Gerusalemme, alla ricerca delle vestigia del Messia. Poi se ne ritornò, dopo aver costruito delle chiese in diversi paesi. Costantino morì trentun anni dopo l’inizio del suo regno26.
Come Mas‘ūdī, anche i compilatori del Kitāb Hurūšiyūš utilizzano la tradizione degli Actus Sylvestri; tuttavia, mentre Mas‘ūdī decontestualizza gli elementi tratti dagli Actus per creare un’immagine negativa del primo imperatore cristiano, al contrario nel Kitāb Hurūšiyūš la leggenda di Silvestro torna a essere funzionale a fare di Costantino un personaggio sostanzialmente positivo. Emerge qui il diverso atteggiamento nei confronti del mondo bizantino degli intellettuali andalusi del X secolo d.C. rispetto ai loro colleghi della pars orientale dell’impero islamico: i primi, che considerano l’Impero di Bisanzio come un possibile alleato e un importante interlocutore culturale, sembrano voler evitare polemiche non strettamente necessarie con la tradizione cristiana; i secondi, per i quali Costantinopoli è anche e soprattutto la capitale di uno Stato nemico, enfatizzano i contrasti e non rifuggono da un approccio fortemente critico nei confronti della religione, della storia e della cultura dei loro avversari. D’altra parte, la vicenda della traduzione delle Historiae adversus paganos, alla quale, come ci dicono le fonti, lavorarono fianco a fianco il giudice dei cristiani di Cordoba e due musulmani che traducevano per i califfi dell’islam, non sarebbe stata concepibile in un luogo diverso dall’Andalusia umayyade: solo un simile contesto poteva infatti permettere una ricostruzione del passato condivisa dalle due principali comunità religiose della Spagna, una storia vista in una prospettiva islamocristiana. La perdita dell’ultima parte del Kitāb Hurūšiyūš, che narrava gli eventi della conquista islamica, è tanto più dolorosa in quanto ci priva della possibilità di verificare come quest’ultima venisse a inquadrarsi nell’ambito di tale prospettiva.
Le controversie religiose costituiscono, sin dall’VIII secolo d.C., un genere letterario assai diffuso sia in ambito cristiano sia in campo islamico. L’impianto dialogico di tali testi, dal chiaro intento propagandistico e apologetico, lungi dal costituire una prova di tolleranza e apertura si rivela immancabilmente funzionale all’affermazione della verità della propria religione e della falsità della fede altrui. Non sfugge a questo stereotipo la Lettera cipriota (Al-risāla al-qubruṣiyya) di Taqī al-Dīn Aḥmad Ibn Taymiyya, uno dei più grandi pensatori dell’islam sunnita, composta intorno al 1304 d.C. L’epistola, indirizzata a un sovrano dell’isola (forse il gran maestro dell’Ordine degli Ospitalieri Guillaume Villaret), chiedeva con estrema fermezza un trattamento umano per i detenuti, e possibilmente la loro liberazione – giungendo a minacciare la vendetta contro i colpevoli di abusi nei confronti dei musulmani –, ma soprattutto impartiva una dotta lezione di religioni comparate tesa a dimostrare la superiorità dell’islam sul cristianesimo27. In tale lezione, un posto importante era occupato dall’attacco ai luoghi santi e alla figura di Costantino:
I monaci hanno inventato per la massa varie astuzie e sotterfugi, cosa che è evidente a ogni individuo dotato di intelligenza: è per questo che autori importanti hanno composto dei libri sui sotterfugi dei monaci. Ad esempio, il fuoco che era fabbricato ad arte alla Qumāma28: essi spalmavano un filo sottile di resina e gli davano velocemente fuoco; il filo scendeva e gli ignoranti credevano che scendesse dal cielo, e lo portavano verso il mare; si trattava in realtà del trucco di un monaco: la gente lo vedeva con i propri occhi, e lui stesso e altri hanno ammesso che producevano il fuoco con un trucco. Coloro che – fra le varie nazioni – seguono la verità, sono d’accordo nel dire che non è permesso ingannare i servi di Dio, l’Altissimo, per mezzo di qualcosa di irreale, mentre gli ipocriti credono che i miracoli che sono attribuiti al Messia e ad altri profeti sono del genere di questo fuoco fabbricato ad arte. Lo stesso dicasi per i loro inganni relativi alla sospensione della croce, al pianto di statue che essi modellano con le sembianze del Messia, di sua madre e di altri, etc. Ogni persona intelligente lo sa: tutto ciò è un’impostura fabbricata ad arte, e tutti i profeti di Dio e dei Suoi servitori virtuosi condannano tutto ciò che è falso, vano e frutto di impostura, come hanno condannato la magia dei maghi del Faraone. Inoltre costoro sono a favore della Legge, secondo la quale adorano Dio e si oppongono agli antichi – gli ebrei – dal momento che è stato loro ordinato di attenersi alla Torah tranne per ciò che il Messia ha abrogato. Questi sono venuti meno al loro dovere riguardo ai profeti al punto che li hanno uccisi, mentre quelli hanno esagerato su di essi al punto che li hanno venerati e ne hanno adorato le statue. «Non si addice a Dio cambiare ciò che ha stabilito e abrogarlo», dicono gli ebrei, «né in un altro momento né tramite la lingua di un altro profeta», mentre i cristiani dicono: «I dottori e i sacerdoti, al contrario, cambieranno, vieteranno e permetteranno ciò che vogliono; a chi commette un errore saranno imposti degli atti di adorazione e gli si perdonerà». V’è tra loro anche chi sostiene che nella donna si introdusse come un soffio lo Spirito Santo e la depravazione divenne un’offerta. «Molte cose ci sono state proibite», dicono gli ebrei, mentre i cristiani dicono: «tutto ciò che è fra la cimice e l’elefante è lecito; mangia ciò che vuoi e lascia ciò che vuoi». Gli ebrei dicono: «le vostre macchie fanno sì che vi si tratti con fermezza, cosicché non ci si segga con una donna che ha le mestruazioni e non si mangi con lei», mentre i cristiani dicono: «Nulla può macchiarvi», e non prescrivono né circoncisione né lavaggio dell’impurità maggiore né eliminazione della macchia, mentre il Messia e gli apostoli seguivano la Legge della Torah. Per giunta, né il Messia né gli apostoli hanno ordinato di pregare verso Oriente: si tratta soltanto di un’innovazione di Costantino o di qualcun altro. Anche la croce è solo un’innovazione introdotta di sua iniziativa da Costantino, in virtù di un sogno che affermava di aver fatto. Il Messia e gli apostoli non hanno ordinato nulla di tutto ciò.
In questo passo, l’obiettivo polemico dell’autore è duplice: da un lato, i luoghi della Terrasanta che proprio Costantino aveva ‘archeologicamente’ ricollegato alla vita e alla morte di Cristo, rendendoli meta di pellegrinaggio e di tutti i riti a esso connessi; dall’altro la stessa figura del primo imperatore cristiano, che ancora una volta viene a incarnare l’essenza negativa del cristianesimo.
Ibn Taymiyya critica duramente, infatti, l’impostura del ‘fuoco santo’ (già denunciata da un pellegrino cristiano dell’XI secolo), parte integrante del rito del Sabato santo, in cui i pellegrini accendevano una candela al fuoco che ardeva presso il Santo sepolcro e la portavano nelle loro case; esprime il suo sdegno nei confronti degli altri ‘miracoli’, dietro i quali si celano pure e semplici frodi, ma soprattutto rivolge una gravissima accusa a Costantino, quella di aver innovato rispetto all’insegnamento del Messia e degli apostoli, introducendo tra l’altro il culto della croce. In tal modo, l’imperatore è implicitamente paragonato all’‘innovatore’ per eccellenza: san Paolo, che la tradizione islamica condanna come falsificatore delle Scritture e corruttore dell’autentico messaggio di Cristo.
Nella celeberrima Muqaddimah di Walī ’d-Dīn ‛Abd al-Raḥmān b. Ḫaldūn trova spazio un breve profilo storico relativo alle origini del cristianesimo:
Più tardi, Alessandro e i greci vinsero i persiani. Gli ebrei passarono allora sotto l’autorità dei greci. Poi il potere dei greci si indebolì. Animati dal naturale spirito di corpo, gli ebrei si liberarono del loro dominio. Il potere fu esercitato dai sacerdoti della famiglia degli Asmonei, che combatterono i greci finché il potere di costoro fu distrutto ed essi furono vinti dai romani […]. Poi venne il Messia: portò agli ebrei la religione di cui era il messaggero e abolì alcune leggi della Torah. Fece degli straordinari miracoli, come la guarigione dei folli e la resurrezione dei morti. Molti lo seguirono e credettero in lui. I principali furono gli apostoli, i suoi compagni, che erano dodici. Egli inviò una parte di loro in tutte le direzioni, come messaggeri che diffondessero la sua dottrina. Questo era accaduto sotto il regno di Augusto, il primo imperatore romano […]. Gli ebrei furono gelosi di Gesù e lo trattarono da impostore. Erode, il loro re, scrisse ad Augusto, imperatore romano, e lo mise contro Gesù. Augusto diede agli ebrei il permesso di metterlo a morte. E questa è la storia di Gesù, così come essa è raccontata nel Corano.
Gli apostoli si divisero in vari gruppi. La maggior parte di loro si recò nel paese dei romani e li invitò a convertirsi alla fede cristiana. Pietro, che fu il più grande di tutti gli apostoli, si stabilì a Roma, capitale degli imperatori romani. Allora essi scrissero il Vangelo rivelato a Gesù in quattro versioni, corrispondenti alle loro diverse tradizioni. Matteo scrisse il suo Vangelo a Gerusalemme in ebraico. Esso fu tradotto in latino da Giovanni, figlio di Zebedeo, uno degli apostoli. L’apostolo Luca scrisse il suo Vangelo in latino per un grande dignitario romano. L’apostolo Giovanni, figlio di Zebedeo, scrisse il suo Vangelo a Roma. Pietro scrisse il suo Vangelo in latino e l’attribuì al suo discepolo Marco […].
In quel tempo, gli apostoli si riunirono a Roma e definirono le regole della comunità cristiana. Essi le posero sotto l’autorità di Clemente, discepolo di Pietro, e notificarono la lista dei libri che si dovevano accettare e che dovevano guidare l’azione dei cristiani.
L’attitudine degli imperatori romani nei confronti del cristianesimo fu variabile: quanto lo adottarono e lo onorarono i suoi adepti, tanto essi lo respinsero e perseguitarono i cristiani. Le cose andarono così fino alla conversione di Costantino: da allora in poi furono cristiani […].
Colui che è incaricato di custodire la religione cristiana e di vegliare sull’applicazione delle sue regole è chiamato ‘patriarca’. Egli è il capo della comunità cristiana e il rappresentante del Messia nel suo seno. Egli invia i suoi delegati e i suoi rappresentanti alle nazioni cristiane che si trovano nelle regioni più lontane: si tratta dei vescovi, cioè dei delegati del patriarca. Colui che dirige la preghiera ed è consultato in materia di fede è chiamato ‘sacerdote’. Colui che si ritira per consacrarsi, in solitudine, all’adorazione di Dio è chiamato ‘monaco’. Il luogo in cui si ritira è generalmente un convento.
L’apostolo Pietro, capo degli apostoli e decano dei discepoli, si stabilì a Roma, dove diresse la comunità cristiana fino al momento in cui fu ucciso da Nerone, quinto imperatore romano. Il suo successore sul seggio di Roma fu Ario.
Marco l’evangelista pregò sette anni in Alessandria, in Egitto e nel Maġrib. Dopo di lui venne Aniano, che assunse il nome di patriarca […]. Più tardi, ci furono dei dissensi tra i cristiani riguardanti i principi di base della loro religione e gli articoli della loro fede. Si riunirono a Nicea, sotto il regno di Costantino, per fissare per iscritto ciò che nel cristianesimo dovesse essere considerato vero. Così, trecentodiciotto vescovi si misero d’accordo su una stessa dottrina del cristianesimo, che consegnarono per iscritto e chiamarono ‘Credo’, facendone un punto di riferimento fondamentale per tutti. Concordarono tra l’altro sul fatto che la designazione del patriarca, capo della Cristianità, non dovesse essere demandata all’apprezzamento personale dei sacerdoti, contrariamente alla decisione di Aniano, il discepolo di Marco. Questo punto di vista fu dunque abbandonato. Si decise che il patriarca dovesse derivare da un’assemblea, essendo eletto dalle autorità e dai capi dei fedeli. E, da allora, le cose andarono così29.
Questo breve racconto è basato sull’opera di Ǧirǧis al-Makīn b. al-‘Amīd, autore copto spesso citato da Ibn Ḫaldūn a proposito di eventi e temi cristiani30. Il fatto che la prima parte della cronaca di al-Makīn sia ancora inedita rende per il momento impossibile stabilire se si debbano a lui o allo stesso Ibn Ḫaldūn il malinteso che fa di Ario un successore di Pietro31 e il fraintendimento che porta ad attribuire tout court al Principe degli apostoli la stesura del Vangelo di Marco – il quale, nella tradizione canonica, sarebbe stato l’‘interprete’ di Pietro e avrebbe composto il proprio Vangelo basandosi sulla testimonianza petrina. In ogni caso, il ruolo di Costantino risulta qui indiscutibile: la sua conversione segna il passaggio dall’Impero pagano all’Impero cristiano.
Nel capitolo della Muqaddimah dedicato a Gerusalemme32, Ibn Ḫaldūn si sofferma poi sulla missione ‘archeologica’ di sant’Elena finalizzata all’invenzione della croce:
In seguito, i romani abbracciarono la religione del Messia, che si misero a venerare. Poi, i loro imperatori oscillarono tra l’adozione e il rifiuto del cristianesimo, fino al regno di Costantino. La madre di quest’ultimo, Elena, dopo essersi convertita, si recò a Gerusalemme per cercarvi la tavola di legno sulla quale, secondo i cristiani, il Messia sarebbe stato crocifisso. I sacerdoti la informarono che questa tavola era stata gettata per terra e che era sepolta sotto la spazzatura e gli escrementi. Elena la riesumò e costruì la chiesa di al-qumāmah (‘degli escrementi’), sul luogo in cui erano gli escrementi. I cristiani credevano che questa chiesa fosse costruita sulla tomba del Messia. Elena distrusse ciò che rimaneva del Tempio e ordinò che si spandessero il letame e gli escrementi sulla Roccia, in modo che ne fosse interamente ricoperta e non se ne distinguesse più la posizione. Questa fu la sua risposta a ciò che gli ebrei avevano fatto alla tomba del Messia. Di fronte alla chiesa di al-qumāmah si costruì più tardi Betlemme, la casa natale di Gesù.
Com’è evidente, il tema dell’inventio crucis è qui venato da un forte afflato antigiudaico, che si esplicita nella vera e propria rappresaglia messa in atto da Elena nei confronti del Tempio ebraico. Ma ciò che più stupisce è la grossolana sovrapposizione di Betlemme a Gerusalemme, a prima vista inspiegabile in un autore che altrove mostra di conoscere benissimo la prima delle due località, anche per averla direttamente visitata. Scrive infatti Ibn Ḫaldūn nella sua ‘autobiografia’, riferendo di una sosta a Betlemme:
Mi fermai a Betlemme, vasta costruzione sul luogo di nascita del Messia. Gli imperatori vi hanno elevato un edificio sostenuto da due file di colonne tagliate nella roccia, ben allineate, sormontate da rappresentazioni dei loro re e da iscrizioni storiche relative ai loro stati, facilmente accessibili a colui che volesse farle tradurre con esattezza da un intenditore. Si tratta di un monumento che testimonia della grandezza dei Cesari e dell’estensione del loro impero33.
La descrizione ḫaldūniana della basilica della Natività, al di là dei suoi aspetti in parte fantasiosi, insiste acutamente sulla connessione fra ‘luogo santo’ e autorappresentazione del potere imperiale, che utilizza la sacralità del luogo di nascita di Gesù per promuovere se stesso e le proprie conquiste. E tuttavia, nella Muqaddimah, Ibn Ḫaldūn ripropone, senza neppure discuterla, la visione tradizionale islamica, che collocava gli eventi relativi alla nascita di Cristo (nella versione che ne dà la Sura coranica Āl ‘Imrān, 35-38) a Gerusalemme: qui molti commentatori e geografi arabi identificavano fra l’altro il sito della ‘culla di Gesù’ (mahd ‘Īsā) nell’angolo sud-est del Ḥaram aš-Šarīf34.
Se è plausibile ritenere che anche in questo caso la fonte degli ‘errori’ di Ibn Ḫaldūn sia stata l’opera di al-Makīn, resta tuttavia il problema delle motivazioni che hanno indotto lo storico a non correggere le evidenti inesattezze della sua fonte. In primo luogo, va qui evidenziata la grande forza della tradizione musulmana, che tende a concentrare sul Ḥaram di Gerusalemme il maggior numero possibile di elementi connessi alle vicende profetiche precedenti l’avvento di Muḥammad: come scrive Oleg Grabar, «Jerusalem itself was transformed into a fantasy, and its reality disappeared from view»35. Tale tradizione esercita su Ibn Ḫaldūn un’influenza straordinaria, ed egli vi resta a tal punto vincolato da ignorare volutamente la propria esperienza personale. E qui l’atteggiamento dello storico tunisino non diverge sostanzialmente da quello dei pellegrini cristiani che, nei loro racconti di viaggio in Terrasanta, si attenevano scrupolosamente a quanto riferito dalle guide locali o dai resoconti di chi li aveva preceduti – al di là e al di fuori di quanto essi avevano potuto verificare per diretta autopsia36.
Non è possibile concludere questo breve profilo dedicato a Costantino nelle fonti arabe senza accennare all’immagine islamica di Costantinopoli, la città che di Costantino porta il nome. D’altra parte, il primo imperatore cristiano, nel proiettare verso Oriente le istituzioni di Roma, si colloca perfettamente nel solco dell’eterna dialettica fra Oriente e Occidente. In effetti, come ha notato finemente Gilbert Dagron nel suo splendido studio sulla fondazione di Costantinopoli37, la città non è stata edificata per sostituire Roma, ma per esserne il prolungamento, e questo dato di fatto non è privo di riflessi nella tradizione islamica, nella quale si registra una certa confusione fra le due metropoli. Ciò ha provocato l’innesto all’interno delle descrizioni di Roma di elementi originariamente pertinenti alla topografia della capitale dell’impero bizantino.
Per cercare di comprendere le motivazioni di un simile equivoco, è necessario esaminare in primo luogo le principali descrizioni di Roma prodotte dagli autori arabi medievali, e in particolare il più antico di tali testi, cioè quello contenuto nel Kitāb al-masālik wa ’l-mamālik di Abū ’l-Qāsim ‘Ubayd Allāh b. ‘Abd Allāh b. Ḫurradādbih (820-885 o 826-912 d.C.):
Descrizione di Rūmiya e delle sue meraviglie.
Essa possiede tre lati sul mare: l’orientale, il meridionale e l’occidentale; il lato settentrionale è collegato alla terraferma. La sua lunghezza dalla Porta orientale a quella occidentale è di ventotto miglia. Due cerchie di mura in pietra, separate da uno spazio di sessanta braccia, la circondano; il muro interno è largo dodici braccia e alto settantadue, quello esterno è largo otto braccia e alto quarantadue. Vi scorre in mezzo un canale, coperto da lastre di rame, lunghe ciascuna quarantasei braccia. Questo canale è chiamato ‘di Costantino’. Tra la porta d’oro e la porta del re sono dodici miglia. Il mercato degli uccelli che vi si trova è lungo una parasanga. Un grande mercato si estende dalla Porta orientale alla Porta occidentale, con tre file di colonne e due arcate; la fila centrale presenta colonne di oricalco rūmī: il fusto, la base e il capitello di ciascuna colonna sono fusi in questo metallo. Vi si trovano le botteghe dei commercianti; le colonne sono alte trenta braccia. Davanti a queste colonne e alle botteghe c’è un canale di oricalco in cui, da Oriente a Occidente, scorre un braccio di mare dove navigano le imbarcazioni con i loro carichi, in modo che il battello trasporti le merci fino a fermarsi in corrispondenza del negozio dell’acquirente […]. All’interno della città c’è una chiesa dedicata agli apostoli Pietro e Paolo, che si trovano in un’urna. Questa chiesa è lunga trecento braccia, larga duecento e alta ottanta; è costruita con arcate di oricalco e pilastri di ottone fuso, il tetto e i muri sono di oricalco rūmī. A Rūmiya si trovano milleduecento chiese e tutti i mercati sono pavimentati con marmo bianco. Vi sono inoltre quarantamila bagni. Si trova nella città una chiesa paragonata al Sion di Gerusalemme, la cui lunghezza è di un miglio. Al suo interno è un altare di smeraldo verde, su cui si celebra l’Eucaristia, lungo venti braccia e largo sei; lo sostengono dodici statue d’oro puro, alte, ciascuna, due braccia e mezzo. Ogni statua possiede due occhi di rubino di cui la chiesa riluce. Questa chiesa ha ventotto grandi porte d’oro puro e mille di ottone fuso, senza contare le porte di ebano, di bosso e di altri tipi di ottimo legno scolpito, di inestimabile valore. Attorno alle mura di Rūmiya sono milleduecentoventi colonne in cui stanno i monaci38.
Questo passo è stato unanimemente considerato dagli studiosi come la prima descrizione di Roma della letteratura araba, e tuttavia, come è subito evidente al lettore, a Roma sembra qui rinviare soltanto il nome di Rūmiya: i tre lati sul mare e il quarto collegato alla terraferma, la doppia cinta di mura, la menzione della porta d’oro e della porta del re, il ‘canale’ che bagna la città, la chiesa degli Apostoli (la menzione delle reliquie di Pietro e Paolo è qui evidentemente soltanto un’interpolazione successiva, figlia dell’equivoco fra le due città), quella «paragonata al Sion di Gerusalemme» – che altro non è se non Santa Sofia39 – e persino le colonne degli stiliti (sia pure nell’esagerazione sempre connessa a questo tipo di letteratura, che ha molto in comune con il genere dei Mirabilia) sono invece elementi inconfondibili del paesaggio costantinopolitano. Ma v’è di più: la stessa collocazione della descrizione di Rūmiya nell’opera di Ibn Ḫurradādbih dimostra inequivocabilmente che il testo in questione è in realtà una descrizione di Costantinopoli. Essa infatti si trova al culmine di un itinerario che dall’Anatolia raggiunge l’Asia Minore: immediatamente prima di Rūmiya sono infatti menzionate Nicea, Nicomedia, Hieria e alcuni centri della Cilicia. Una descrizione di Roma a questo punto dell’opera, anche tenendo presenti tutte le incongruenze dovute alle sue avventurose vicende testuali, non avrebbe alcun senso.
Ciò che ha senz’altro contribuito a confondere le acque è il fatto che, nell’ambito di tale itinerario, troviamo un altro breve profilo di Costantinopoli40, che questa volta è chiamata con il suo nome (Qusṭanṭyniyya), ma tali reduplicazioni sono all’ordine del giorno nella letteratura geografica araba, e tanto meno devono stupire nel Kitāb al-masālik wa ’l-mamālik di Ibn Ḫurradādbih, tutto pervaso da aggiunte successive, citazioni e sovrapposizioni di fonti spesso contraddittorie41. Resta la questione del nome Rūmiya. Secondo il celebre geografo al-Yaqūt, che si basava sulla dottrina dei filologi appartenenti alla grande scuola di Bassora (IX secolo d.C.), la giusta grafia della parola era رو(Rūmiya), sul modello di nomi come Antiochia (Antākiya), Nicea (Nīqiya) e Apamea (Afāmiya), che «si trovano spesso nei paesi e nella lingua dei Rūm»42; tale precisazione, che rivela un caso interessante di paradigma rifatto su un esempio non pertinente (una finale -ia greca vs. -a), ci mostra però come sul nome Rūmiya esistesse un dibattito, e come alcuni autori preferissero utilizzare la forma (Rūmiyya), una forma aggettivale coniata sul corrispondente sostantivo ر (Rūm) che negli storici e nei geografi islamici medievali indicava gli antichi romani, ma soprattutto i bizantini, loro successori ed eredi. Quest’ultima dizione, considerata errata da al-Yaqūt, è invece, assai probabilmente, quella originaria: Rūmiyya è infatti la città dei Rūm, la capitale del nuovo Impero romano che procede sulle orme dell’antico: cioè, appunto, Costantinopoli43. Tale ambiguità terminologica, che ha le sue radici nella strenua volontà dei bizantini di autorappresentarsi – sia pure fra tormenti e ambiguità – come «romani»44, è la causa principale della sovrapposizione fra Roma e Costantinopoli, vero e proprio Leitmotiv delle fonti arabe medievali, la cui ben nota tendenza a ritrasmettersi l’un l’altra materiali precedenti senza sostanziali variazioni ha contribuito al perpetuarsi dell’equivoco. E tuttavia va ribadito che il fenomeno in questione si origina in una fase successiva: la prima descrizione di Rūmiyya, erroneamente considerata come una descrizione di Roma con elementi costantinopolitani, è – inequivocabilmente – un puro e semplice profilo di Costantinopoli. Nello stesso tempo, il testo di Ibn Ḫurradādbih, che verrà costantemente riutilizzato e trasmesso nel corso dei secoli, costituisce comunque uno snodo decisivo nella formazione di quella confusa immagine di una ‘Roma costantinopolitana’ o di una ‘Costantinopoli romana’ che troveremo operante nelle fonti successive, già a partire dall’opera geografica di Ibn Rustah, composta fra il 903 e il 913 d.C.45: qui infatti le notizie su Costantinopoli, riprese da Ibn Ḫurradādbih, si fondono effettivamente per la prima volta con elementi autenticamente romani (il papa, la lontananza dal mare, il fiume, le scorrerie dei saraceni), forse dovuti all’apporto di un cristiano (o forse un ebreo) di Siria, Hārūn Ibn Yaḥyā, che si sarebbe recato a Roma fra la fine del IX e l’inizio del X secolo d.C.46 La medesima situazione si ritrova nella voce dedicata a ‘Rūmiya’ nel grande dizionario geografico di Al-Yāqūt47: in questo caso, alcune brevi notizie riguardano Roma a tutti gli effetti, mentre la maggior parte delle descrizioni riportate (tra cui quella fornita dall’anonimo ‘monaco’ che costituisce probabilmente la fonte del profilo costantinopolitano di Ibn Ḫurradādbih) è con tutta evidenza da riferirsi esclusivamente a Costantinopoli; lo stesso può dirsi per i brani relativi a Rūmiya della Cronaca di Se‘ert (IX secolo d.C.) e di Isḥāq Ibn al-Ḥusayn (se si eccettua, in quest’ultimo caso, la menzione della tomba dell’apostolo Simone), autore maghrebino vissuto a cavaliere fra il X e l’XI secolo d.C.48 Saranno i grandi geografi arabi d’Occidente, da al-Bakrī ad al-Ḥimyarī ad al-Idrīsī (quest’ultimo però solo nelle note riportate dal grande emiro e storico siriano Abū ’l-Fidā’), a offrire descrizioni di Roma finalmente accettabili e perspicue ‒ sia pur nei limiti di una letteratura che sconfina spesso nella sfera del fantastico e del meraviglioso49. E tuttavia, inaspettatamente, la confusione con Costantinopoli tenderà a riemergere anche in autori ‘insospettabili’50. In questa ambigua persistenza dell’equivoco vi è certamente – come ha ben notato Giuseppe Mandalà – un elemento ideologico, ma la sua radice è da ricercarsi soprattutto nella difficoltà (che ha creato problemi anche agli studiosi contemporanei) costituita dall’esistenza di due grandi capitali per le quali si usava lo stesso nome: la Rūmiya/Rūmiyya (Costantinopoli) e la Rūmiya che negli autori arabi occidentali diventerà, più semplicemente e correttamente, Rūma (Roma). Talvolta l’ideologia può nascere da un semplice errore ‘filologico’.
1 Per quanto riguarda le fonti si vedano Abū ’l-Fidā’, Al-muḫtaṣar fī aḫbār al-bašar, hrsg. von H.O. Fleischer, Lipsiae 1831; Agapius, Historia universalis, éd. par L. Cheikho, Louvain 1962 (CSCO 65, Scriptores Arabici 10); Al-Bīrūnī, Kitāb al-āṯār al-bāqiyah ‘an al-qurūn al-ḫāliya, hrsg. von E.C. Sachau, Leipzig 19232; Eutychius, Annales, éd. par L. Cheikho, I, Beryti-Parisiis-Lipsiae 1906 (CSCO 50-51, Scriptores Arabici 6-7); Eutychius, Das Annalenwerk des Eutychios von Alexandrien: Ausgewählte Geschichten und Legenden kompiliert von Sa‘īd ibn Baṭrīq um 935 A.D., hrsg. von M. Breydy, 2 voll., Louvain 1985 (CSCO 471-472, Scriptores Arabici 44-45); Al-Ǧāḥīẓ, Al-Radd ‘alā ’l-naṣārā, in Rasā’il al-Ǧāḥīẓ, ed. ‘A.M. Hārūn, III, al-Qāhirah 1979; Ibn Ḫaldūn, Kitāb al-‘Ibar, ed. N. al-Hūrīnī, 7 voll., Būlāq 1283-1284/1867-1868; Les Prolégomènes d’Ibn Khaldoun, trad. fr. par. W. Mac Guckin De Slane, 3 voll., Paris 1934-1938; The Muqaddimah, trad. ingl. by F. Rosenthal, 3 voll., Princeton 19672; Peuples et nations du monde. Extraits des ‘Ibar, éd. par A. Cheddadi, 2 voll., Paris 19952; Le livre des Exemples, I, Autobiographie. Muqaddima, trad. fr. par A. Cheddadi, Paris 2002; Ḥamzah al-Iṣfahānī, Ta’rīḫ sinī mulūk al-arḍ wa-’l-anbiyā’, hrsg. von I.M.E. Gottwald, I, Petropoli 1844; Kitāb Hurūšiyūš. (Traducción árabe de las Historiae adversus paganos de Orosio), ed. por M. Penelas, Madrid 2001; Al-Mas‘ūdī, Murūǧ al-ḏahab wa maʿādin al-ğawhar, éd. par Ch. Barbier de Meynard, A. Pavet de Courteille (éd. rev. par Ch. Pellat), II, Beyrouth 1966; Al-Mas‘ūdī, Kitāb al-tanbīh wa ’l-išrāf, ed. M.J. de Goeje, Lugduni Batavorum 1894; Al-Maqrīzī, Kitāb al-mawā‘iẓ wa ’l-i‘tibār fī dikr al ḫiṭâṭ wa ’l-atâr, 2 voll., Būlāq 1270/1854; Al-Ṭabarī, Ta’rīḫ al-rusul wa ’l-mulūk, ed. M.J. de Goeje, I, Lugduni Batavorum 1879; Al-Ta‘ālibī, Histoire des rois des Perses, éd. par H. Zotenberg, Paris 1900; Al-Ya‘qūbī, Historiae, M.Th. Houtsma, 2 voll., Leiden 19692. Per quanto concerne la bibliografia secondaria si veda: M. Guidi, Roma e il mondo islamico, in Atti del IV Convegno Internazionale di Studi Romani (Roma 19-25 ottobre 1935), a cura di C. Galassi Palazzi, II, Roma 1938, pp. 372-376; M. Guidi, Roma e gli Arabi, in Roma, 20 (1942), pp. 10-21; G. Levi Della Vida, Costantinopoli nella tradizione islamica, in Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, 5 (1953), Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Rendiconti, pp. 363-373; Id., La traduzione araba delle storie di Orosio, in Al-Andalus, 19 (1954), pp. 257-293; Id., Un texte mozarabe d’histoire universelle, in Études d’orientalisme dédiées à la mémoire de Lévi-Provençal, I, Paris 1962, pp. 175-183; B. Spuler, Islamische und abendländische Geschichtsschreibung, in Saeculum, 6 (1955), pp. 125-137; W.J. Fischel, Ibn Khaldūn and al-Mas‘ūdī, in Al-Mas‘ūdī Millenary Commemoration Volume, ed. by S. Maqbul Ahmad, A. Rahman, Aligarh 1960, pp. 51-59; Id., Ibn Khaldūn’s Use of Historical Sources, in Studia Islamica, 15 (1961), pp. 109-119; Id., Ibn Khaldūn in Egypt. His Public Functions and His Historical Research (1382-1406). A Study in Islamic Historiography, Berkeley-Los Angeles 1967; M. Mahdi, Ibn Khaldūn’s Philosophy of History, Chicago-London 1964; T. Khalidi, Islamic Historiography: The Histories of Mas‘udi, Albany (NY) 1975; Id., Arabic Historical Thought in the Classical Period, Cambridge 1994; A. Fischer, A.J. Wensinck, A. Schaade, R. Paret, I. Shahīd, s.v. Ḳayṣar, in Encyclopaedia of Islam, IV, 19782, pp. 871-873; E.M. Jeffreys, The Attitudes of Byzantine Chroniclers towards Ancient History, in Byzantion, 49 (1979), pp. 199-238; A.M.H. Shboul, Al-Mas‘ūdī and His World: A Muslim Humanist and His Interest in Non-muslims, London 1979; A. Azmeh, Ibn Khaldūn in Modern Scholarship. A Study in Orientalism, London 1981; Id., Ibn Khaldūn. An Essay in Reinterpretation, London 1982; Id., L’annalistique entre l’histoire et le pouvoir: une conception de l’histoire sous-jacente aux chroniques, biographies et gestes dans l’aire culturelle arabo-islamique, in Histoire et diversité de cultures. Études préparées pour l’Unesco, Paris 1984, pp. 95-116; Id., Barbarians in Arab Eyes, in Past & Present, 134 (1992), pp. 3-18; Id., Muslim Kingship: Power and the Sacred in Muslim, Christian and Pagan Politics, London-New York 2001; C. Mango, Discontinuity with the Classical Past in Byzantium, in Byzantium and Its Image. History and Culture of the Byzantine Empire and Its Heritage, London 1984, pp. 48-57; S. Kh. Samir, Quelques notes sur les termes Rūm et Rūmī dans la tradition arabe, in La nozione di “Romano” tra cittadinanza e universalità, Atti del II seminario internazionale di studi storici Da Roma alla Terza Roma (Roma 21-23 aprile 1982), a cura di P. Catalano, P. Siniscalco, Napoli 1984, pp. 461-478; B. Radtke, Das Wirklichkeitsverständnis islamischer Universalhistoriker, in Der Islam, 62 (1985), pp. 59-70; Id., Weltgeschichte und Weltbeschreibung im mittelalterlichen Islam, Beirut-Stuttgart 1992; A. Kazhdan, ‘Constantin imaginaire’, Byzantine Legends of the Ninth Century about Constantine the Great, in Byzantion, 57 (1987), pp. 196-250; A. Cheddadi, À l’aube de l’historiographie arabo-musulmane: la mémoire islamique, in Studia Islamica, 74 (1991), pp. 29-41; Id., La pensée de l’universel dans l’historiographie islamique et son arrière-plan judéo-chrétien, in Studia Islamica, 87 (1998), pp. 141-150; Id., Les Arabes et l’appropriation de l’histoire, Paris 2004; Id., Ibn Khaldūn. L’homme et le théoricien de la civilisation, Paris 2006; G. Fowden, Empire to Commonwealth: Consequences of Monotheism in Late Antiquity, Princeton 1993; C.E. Bosworth, s.v. Rūm, in Encyclopaedia of Islam, VIII, 19952, pp. 620-625; N.M. El Cheikh, Arab Christian Contribution to Muslim Historiography on Byzantium, in Bulletin of the Royal Institute for Inter-Faith Studies, 1 (1999), pp. 45-60; Id., Byzantium viewed by the Arabs, Harvard 2004; Id., Byzantine Leaders in Arabic Muslim Texts, in The Byzantine and Early Islamic Near East, VI, Elites Old and New in the Byzantine and Early Islamic Near East, Papers of the Sixth Workshop on Late Antiquity and Early Islam, ed. by J. Haldon, L.I. Conrad, Princeton 2004, pp. 109-131; G. Scarcia, Roma vista dagli Arabi: appunti su Abū ‘Ubayd al-Bakrī (sec. XI), in Roma fra Oriente e Occidente, Settimane di studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (19-24 aprile 2001), I, Spoleto 2002, pp. 129-171; A. De Simone, G. Mandalà, L’immagine araba di Roma. I geografi del Medioevo (secolo IX-XV), Bologna 2002; A.M. Piemontese, Roma nella cosmografia persiana medievale, in Studi sulle società e le culture del Medioevo per Girolamo Arnaldi, a cura di L. Gatto, P. Supino Marotti, Firenze 2002, pp. 499-518; J.-Ch. Ducène, Une deuxième version de la relation d’Hārūn Ibn Yaḥyā sur Constantinople, in Der Islam, 82 (2005), pp. 241-255; I. Nilsson, To Narrate the Events of the Past: on Byzantine Historians, and Historians on Byzantium, in Byzantine Narrative. Papers in Honour of Roger Scott, ed. by J. Burke, Melbourne 2006, pp. 47-58; M. Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani, Pisa 2009.
2 I culti politeistici greco-romani sono identificati con quelli dei sabei da molti autori islamici, che utilizzano il termine ṣābi’ūn nell’accezione più generale di ‘pagani’. In realtà questa parola ha una lunga storia, che chiama in causa il Corano e i celebri quanto discussi sabei di Ḥarrān.
3 Su Ya‘qūbī si veda soprattutto F. Rosenthal, A History of Muslim Historiography, Leiden 19682, pp. 133 segg., e di recente Ch.F. Robinson, Islamic Historiography, Cambridge 2003, pp. 136-139. Per l’edizione di riferimento si veda Ibn-Wadhih qui dicitur Al-Ja’qubi, Historiae, ed. M.Th. Houtsma, 2 voll., Leiden 19692.
4 Ibn-Wadhih qui dicitur Al-Ja’qubi, Historiae, cit., pp. 177 segg.
5 Sulla visione della storia propria di Ṭabarī, si vedano soprattutto F. Rosenthal, General Introduction, in The History of Al-Ṭabarī. An Annotated Translation, I, General Introduction and From the Creation to the Flood, Albany (NY) 1989, pp. 5-154; T. Khalidi, Arabic Historical Thought, cit., pp. 73-82; B. Radtke, Weltgeschichte und Weltbeschreibung, cit., pp. 16-27; Ch.F Robinson, Islamic Historiography, cit., pp. 32-36; e B. Shoshan, Poetics of Islamic Historiography. Deconstructing Ṭabarī’s History, Leiden-Boston 2004, in partic. pp. 85-107.
6 Al-Mas‘ūdī, Murūǧ al-ḏahab, cit., § 734, e Al-Mas‘ūdī, Kitāb al-tanbīh wa ’l-išrāf, cit., p. 138. Cfr. anche Ḥamzah al-Iṣfahānī, Ta’rīḫ sinī mulūk al-arḍ wa-’l-anbiyā’, cit., p. 76, e Abū ’l-Fidā’, Al-muḫtaṣar fī aḫbār al-bašar, cit., p. 110. Notizie più dettagliate su Bisanzio/Costantinopoli sono contenute nell’Historia universalis di Agapio e nel Kitāb al-‘aǧā’ib al-kabīr attribuito a Ibrahīm b. Wāṣifāh (X-XI secolo d.C.), e dovevano probabilmente trovarsi anche nell’opera storica perduta di Mas‘ūdī: cfr. S. Yerasimos, La fondation de Constantinople et de Sainte-Sophie dans les traditions turques, Paris 1990, pp. 62 segg.
7 Al-Ṭabarî, Ta’rīḫ al-rusul wa ’l-mulūk, cit., pp. 705 segg. Sulla politica antigiudaica di Costantino e sui suoi provvedimenti restrittivi che limitavano rigorosamente l’accesso degli ebrei a Gerusalemme si veda il recente Ch.M. Odahl, Constantine and the Christian Empire, London-New York 2004, pp. 250 segg. e 363 nota 11, con bibliografia.
8 Al-Mas‘ūdī, Murūǧ al-ḏahab, cit., §§. 734-738. Cfr. anche Al-Mas‘ūdī, Kitāb al-tanbīh wa ’l-išrāf, cit., pp. 137-145. Su Mas‘ūdī, oltre alla bibliografia sopracitata, si veda anche A. Miquel, La géographie humaine du monde musulman jusqu’au milieu du 11e siècle, I, Paris 1967, pp. 202-212.
9 Al-Mas‘ūdī, Murūǧ al-ḏahab, cit., § 737.
10 Lo stesso atteggiamento si ritrova in Ḥamzah al-Iṣfahānī, Ta’rīḫ sinī mulūk al-arḍ wa-’l-anbiyā’, cit., p. 76, e Abū ’l-Fidā’, Al-muḫtaṣar fī aḫbār al-bašar, cit., p. 110. Da notare il curioso fraintendimento genealogico di Ḥamzah (dovuto probabilmente a un equivoco nella tradizione manoscritta), che, unendo il più terribile persecutore dei cristiani al grande promotore del cristianesimo nel mondo romano, fa di Costantino il figlio di Nerone: «I Rūm fondarono una città munitissima e vi trasferirono da Roma la sede imperiale e tutte le loro truppe, perché fossero più vicine all’impero persiano. Scelta una parte della terra costantinopolitana, vi costruirono case e vi trasferirono il regno: nel tempo in cui edificarono la città regnava Costantino, figlio di Nerone, e dal suo nome derivò il nome della città. Costui, primo fra gli imperatori romani, aderì alla religione cristiana e chiamò i sudditi ad abbracciarla. In seguito, promosse l’espulsione degli israeliti da Gerusalemme, città santissima, cosicché essa, fino ad oggi, non è più il loro certo domicilio».
11 Al-Mas‘ūdī, Murūǧ al-ḏahab, cit., § 741.
12 Ǧāḥīẓ, Al-Radd ‘alā ’l-naṣārā, in Rasā’il al-Ǧāḥīẓ, ed. ‘A.M. Hārūn, III, al-Qāhirah 1979, pp. 314 segg. Sul brano in questione non è convincente Ch. Pellat, Al-Ǧāḥīẓ, les nations civilisées et les croyances religieuses, in Journal Asiatique, 255 (1967), pp. 65-90, in partic. 71 segg., che ritiene che sul piano intellettuale Ǧāḥīẓ «confond Grecs anciens et Byzantins». Per altri passi di questo genere si veda A. Miquel, La géographie humaine du monde musulman, cit., II/2, Paris 1975, pp. 369 e 466 segg., e il recente L. Capezzone, La politica ecumenica califfale: pluriconfessionalismo, dispute interreligiose e trasmissione del patrimonio greco nei secoli VIII-IX, in Oriente Moderno, n.s., 17 (1998), pp. 1-62, in partic. 38-45.
13 D. Gutas, Greek Thought, Arabic Culture. The Graeco-Arabic Translation Movement in Baghdad and Early ’Abbasaid Society (2nd-4th/5th-10th C.), New York 1998, p. 104.
14 Sul tema della trasmissione del sapere da Alessandria a Baghdad si vedano soprattutto M. Meyerhof, Von Alexandrien nach Bagdad. Ein Beitrag zur Geschichte des philosophischen und medizinischen Unterrichts bei den Arabern, in Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften, philologische-historische Klasse, 23 (1930), pp. 389-429; G. Strohmaier, “Von Alexandrien nach Bagdad” – eine fiktive Schultradition, in Aristoteles Werk und Wirkung Paul Moraux gewidmet, II, Kommentierung, Überlieferung, Nachleben, hrsg. von V.J. Wiesner, Berlin-New York 1987, pp. 380-389; D. Gutas, The “Alexandria to Baghdad” Complex of Narratives. A Contribution to the Study of Philosophical and Medical Historiography among the Arabs, in Documenti e Studi sulla Tradizione Filosofica Medievale, 10 (1999), pp. 155-193, con ampia biliografia.
15 Al-Mas‘ūdī, Kitāb al-tanbīh wa ’l-išrāf, cit., p. 144.
16 Ivi, p. 137.
17 Si vedano ad esempio A. Kazhdan, ‘Constantin imaginaire’, cit., pp. 239 segg.; V. Aiello, Costantino, la lebbra e il battesimo di Silvestro, in Costantino il Grande. Dall’antichità all’Umanesimo, Atti del convegno internazionale (Macerata 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, I, Macerata 1992, pp. 17-58; S. Lieu, From History to Legend and Legend to History. The Medieval and Byzantine Transformation of Constantine’s Vita, in Constantine. History, Historiography and Legend, ed. by S.N.C. Lieu, D. Montserrat, London-New York 1998, pp. 136-176, in partic. 139; G. Bonamente, Sull’ortodossia di Costantino. Gli Actus Sylvestri dall’invenzione all’autenticazione, in Bizantinistica. Rivista di Studi Bizantini e Slavi, 6 (2004), pp. 1-46, in partic. 30; e T. Canella, Gli Actus Sylvestri. Genesi di una leggenda su Costantino imperatore, Spoleto 2006.
18 Zos., II 28-30.
19 Sulla tradizione ostile a Costantino in epoca tardoantica si veda T. Canella, Gli Actus Sylvestri, cit., pp. 23 segg.
20 Si veda in proposito A.H.M. Shboul, Al-Mas‘ūdī and His World, cit., pp. 246 segg.
21 Taǧārib al-umam, ed. L. Caetani, I, Lugduni Batavorum 1909, pp. 135 segg. Sulle tensioni tra Bisanzio e i Buyidi si veda soprattutto J.L. Kraemer, Humanism in the Renaissance of Islam. The Cultural Revival during the Buyid Age, Leiden-New York-Köln 19922, pp. 86 segg.
22 Per l’atteggiamento nei confronti dei bizantini da parte dei letterati sasanidi si veda ad esempio C.G. Cereti, La letteratura pahlavi. Introduzione ai testi con riferimenti alla storia degli studi e alla tradizione manoscritta, Milano 2001, pp. 131 segg. Sulla rappresentazione degli imperatori bizantini quali tiranni nella letteratura arabo-islamica medievale si veda il recente N.M. El Cheikh, Byzantine Leaders, cit., pp. 114 segg.
23 Ibn Kaṯīr, Tafsīr al-Qur’ān al-aẓīm, VI, Bayrūt 1386/1966, p. 417. Cfr. ‘Abd al-Ǧabbār, Tatbīt dalā’il al-nubuwwa, ed. ‘Abd al-Karim ‘Utmān, I, Bayrūt 1386/1966, p. 162. Si veda anche N.M. El Cheikh, Byzantium viewed by the Arabs, cit., pp. 116 segg.
24 Per una storia dettagliata degli studi concernenti il Kitāb Hurūšiyūš si veda ora l’edizione di Mayte Penelas: Kitâb Hurûšiyûš, cit., pp. 17 segg. e 83-96.
25 G. Levi Della Vida, La traduzione araba delle storie di Orosio, cit.
26 Ivi, pp. 368-372.
27 Sulla figura di Ibn Taymiyya e sul destinatario e il contenuto della Risāla al-qubruṣiyya si veda da ultimo Ibn Taymiyya, Lettera a un sovrano crociato, a cura di M. Di Branco, Milano 2011, con ampia bibliografia.
28 Il polemico calembour per cui la chiesa ‘della Resurrezione’ (al-qiyāmah) è invece detta ‘degli escrementi’ (al-qumāmah) deriva a Ibn Taymiyya da Mas‘ūdī, Murūǧ al-dahab wa maʿādin al-ğawhar, cit., § 1452 segg., ma è un vero e proprio topos nella tradizione islamica su Gerusalemme.
29 Ibn Ḫaldūn, Kitāb al-‘Ibar, cit., pp. 193 segg. (= Ibn Ḫaldūn, Muqaddimah, cit., pp. 475-479).
30 Su Ǧirgis al-Makīn, autore di una cronaca universale (al-Maǧmū‘ al-mubārak, ‘La collezione benedetta’) che conobbe anche una certa fortuna in Etiopia, ed è ancora inedita nella prima sua parte, relativa fra l’altro alle vicende dei greci e dei romani fino all’età di Eraclio, si veda soprattutto G. Graf, Geschichte der christlichen arabischen Literatur, II, Città del Vaticano 1947, pp. 348-351. Anche se nel passo in questione al-Makīn non è menzionato, egli ne è certamente una delle fonti principali (se non l’unica): è infatti citato subito dopo a proposito del ruolo del papa; e nel libro II del Kitāb al-‘ibar Ibn Ḫaldūn ripete alcune delle notizie di questo excursus, attribuendole esplicitamente ad al-Makīn.
31 Sembra comunque probabile che alla base di tale notizia aberrante vi sia un semplice errore di trascrizione del nome di Lino, ‹lynws›, il secondo vescovo di Roma, che viene trasformato in quello di Ario, ‹’ryws›. Il nome di Lino è invece correttamente trascritto negli annali di Eutichio d’Alessandria e nella cronaca universale di Agapio di Manbiǧ.
32 Ibn Ḫaldūn, Kitāb al-‘ibar, cit., pp. 296 segg. (= Ibn Ḫaldūn, Muqaddimah, cit., pp. 261 segg.).
33 Ibn Khaldun, Al-ta‘rīf bi Ibn Ḫaldūn wa riḥlatuhu ġarban wa šarqan, ed. M. b. Tawit al-Ḥanǧī, al-Qāhirah 1370/1951, p. 350.
34 Si veda soprattutto A. Elad, Medieval Jerusalem and Islamic Worship. Holy Places, Ceremonies, Pilgrimage, Leiden-New York-Köln 1995, pp. 93-97.
35 O. Grabar, The Dome of the Rock, Cambridge (MA)-London 2006, p. 203.
36 Si vedano le acute osservazioni di U. Monneret de Villard, Introduzione, in Liber Peregrinationis di Jacopo da Verona, a cura di U. Monneret de Villard, Roma 1950, pp. XI-XXXI, in partic. XXII segg.
37 G. Dagron, Naissance d’une capitale. Costantinople et ses istitutions de 330 à 451, Paris 1974.
38 Ibn Ḫurradādbih, Kitāb al-masālik wa ’l-mamālik, ed. M.J. de Goeje, Leiden 19672, pp. 113 segg. La traduzione italiana, con qualche variante, è quella di A. De Simone, G. Mandalà, L’immagine araba di Roma, cit., pp. 65 segg.
39 A Gerusalemme Sion era denominazione costante della parte sud-ovest della città, onde la chiesa degli Apostoli che si trovava in quella zona ebbe il nome di ecclesia Sion. A Costantinopoli «Nuova Sion» era invece una delle denominazioni di Santa Sofia: cfr. G. Dagron, Constantinople imaginaire. Études sur le recueil des Patria, Paris 1984, pp. 300-305.
40 Ibn Ḫurradādbih, Kitāb al-masālik wa ’l-mamālik, cit., p. 109.
41 Sulle caratteristiche dell’opera di Ibn Ḫurradādbih è ancora fondamentale M.J. de Goeje, Préface, in Ibn Ḫurradādbih, Kitāb al-masālik wa ’l-mamālik, cit., pp. VII-XXIII.
42 Al-Yāqūt, Mu‘ğām al-buldān, hrsg. von F. Wüstenfeld, II, Leipzig 1866, s.v. Rūmiya, pp. 866-872.
43 Sul significato del termine «Rūm» si veda da ultimo la sintesi di S. Khalil Samir, Quelques notes sur les termes Rūm, cit., pp. 461-478.
44 Si veda per tutti G. Dagron, Représentations de l’ancienne et de la nouvelle Rome dans les sources byzantines des VIIe-XIIe siècle, in La nozione di “Romano”, cit., pp. 295-306.
45 Ibn Rustah, Kitāb al-a‘lāq an-nafīsa, ed. M.J. de Goeje, Lugduni Batavorum 1892, pp. 128-132.
46 Cfr. A. De Simone, G. Mandalà, L’immagine araba di Roma, cit., pp. 67-71. Si veda, inoltre, J.Ch. Ducène, Une deuxième version de la relation d’Hārūn Ibn Yaḥyā sur Constantinople, in Der Islam, 82 (2005), pp. 241-255.
47 Al-Yāqūt, Mu‘ǧām al-buldān, cit., s.v. Rūmiya, pp. 866-872.
48 Historia Nestoriana, ed. A. Scher, PO 4,3, pp. 284 segg.; Isḥāq Ibn al-Ḥusayn, Kitāb ākām al-marǧān fī dikr al-madā’in al-mašūrah fī kull makān, ed. M. Sa’ad, Bayrūt 1988, pp. 112-115.
49 Al-Bakrī, Kitâb al-masâlik wa ’l-mamâlik, éd. par A.P. van Leeuwen, A. Ferré, II, Tunis 1993, pp. 477-481; al-Ḥimyarī, Al-rawḍ al-mi‘ṭār fī ḫabar al-aqṭār, ed. A. ‘Abbās, Bayrūt 1975, pp. 274 segg. Sul rapporto fra storia, geografia e mirabilia si veda soprattutto G. Dagron, Constantinople imaginaire, cit.
50 Come notano giustamente A. De Simone, G. Mandalà, L’immagine araba di Roma, cit., pp. 90-93, anche negli autori di ambito occidentale, dai quali ci si aspetterebbe, almeno per la loro relativa prossimità geografica all’Italia, una maggiore conoscenza di Roma, l’equivoco Roma/Costantinopoli persiste largamente. Va comunque sottolineato che le fonti in questione sono per lo più semplici raccolte di descrizioni precedenti, dove l’elemento ‘autoptico’ è del tutto assente, per lasciare ampio spazio al gusto, tutto letterario, del racconto accattivante (benché non verificabile).